Precarietà o morte!
Eugenio Orso
Le
mie analisi pregresse, sviluppate nell’arco di un decennio, mi hanno
portato a indentificare con sufficiente chiarezza il possibile profilo
neocapitalistico riservato ai membri della classe pauper dominata, molto
diverso, se non opposto, al profilo che il capitalismo del secondo
millennio riservava ai subalterni. Il profilo in questione è quello del
precario/ escluso, che si contrappone al novecentesco produttore/
consumatore, modificando integralmente il panorama sociale e il valore
attribuito al lavoro. Il precario deve accettare l’umiliazione dei
contratti a termine, d’incerto rinnovo, in un continuo gioco a ribasso
delle retribuzioni, per non scivolare nella drammatica situazione
dell’escluso, che incide negativamente su tutte le relazioni, sociali,
umane e private del soggetto, e persino su quelle più intime di natura
affettiva. L’ampio respiro della precarietà non limita i suoi effetti
alle cosiddette relazioni industriali, alle quali deve soggiacere il
lavoratore flessibilizzato, ma abbraccia l’intera dimensione
esistenziale. Per molti anni Luciano Gallino, sociologo ed economista,
ha scritto contro la precarizzazione dei lavoratori, introdotta in dosi
sempre più robuste nel sistema produttivo italiano e nelle pubbliche
amministrazioni, ma trattandosi di una voce assolutamente isolata,
benché accademica e prestigiosa, le sue critiche ai modelli
neocapitalistici nutriti di lavoro flessibile e precario sono cadute nel
vuoto.
Da un punto di vista politico, la precarietà è stata accettata
come destino inevitabile, per i lavoratori, sia dallo spettro destro sia
da quello sinistro dell’Unico Partito della Riproduzione
Neocapitalistica, che in pari misura hanno contribuito a diffonderla.
Tiziano Treu, del centro-sinistra, con la legge 196 del 1997 detta
“Pacchetto Treu” e Maurizio Sacconi, del centro-destra, esponente del
governo che ha varato la legge 30 del 2003 (detta anche Maroni o Biagi),
convergevano entrambi su un comune obiettivo: flessibilizzare il più
possibile il lavoro in Italia. I sindacati, sempre più subalterni nei
confronti del sistema e sempre più lontani dagli interessi dei
lavoratori, non hanno combattuto la precarietà con la dovuta forza, e
dunque l’hanno accettata come inevitabile, necessaria e ineliminabile.
Tutt’al più, si è detto che la democrazia oggi si ferma davanti ai
cancelli delle fabbriche, lasciando intendere che all’interno l’uomo non
è più cittadino nella pienezza dei diritti, ma esclusivamente
fattore-lavoro da impiegare nei processi produttivi. Questo è un
discorso ingannevole, fatto da sindacalisti gialli mascherati e da falsi
antagonisti, poiché implica il pieno riconoscimento degli inconsistenti
diritti liberaldemocratici, la richiesta del loro ingresso nelle
fabbriche e nelle entità produttive di ogni ordine e grado, e quindi
l’accettazione acritica di quel sistema davanti al quale ci si prostra.
Tutto è stato inventato a livello contrattuale per intensificare e
diversificare la precarizzazione dei lavoratori, fin dal loro ingresso
nel mondo del lavoro. Accanto ad una precarietà occupazionale, che
riguarda la limitazione del tempo di lavoro per contratto secondo le
esigenze della parte imprenditoriale più forte, c’è una precarietà
prestazionale che investe le mansioni espletate anche nel tempo
indeterminato. I contratti atipici sono stati diversificati al massimo,
dai co.co.pro. alla somministrazione e al lavoro accessorio,
prevedendone per legge una cinquantina, o quasi, molti dei quali
abbondantemente praticati. Ci sono voluti un paio di decenni,
dall’inizio processo d’incubazione della flessibilità a oggi, per
ribaltare una situazione che dagli anni sessanta del novecento è stata
di crescita dei diritti dei lavoratori e di stabilizzazione
generalizzata, con picchi di tutela come la legge 300/70 eretta a
Statuto dei Lavoratori. La struttura del mercato del lavoro è stata
investita in pieno, nello sviluppo di questo processo regressivo, al
punto che le esigenze riproduttive di un capitalismo qualitativamente
diverso dal precedente hanno favorito la differenziazione di tre grandi
mercati paralleli: quello del lavoro stabile, indeterminato e tutelato,
che ha avuto i suoi capisaldi nella grande industria e nell’impiego
pubblico oggi sotto attacco euromontiano, quello del lavoro flessibile e
precario per anni in costante crescita e ormai metabolizzato, e quello
del lavoro nero, che presenta il massimo possibile della flessibilità
occupazionale, prestazionale e una piena libertà di licenziamento.
La
precarizzazione del lavoro, fin dal suo innesco, ha favorito e
accelerato la trasformazione sociale imposta dal nuovo ordine
neocapitalistico, dando un contributo di rilievo alla trasformazione
antropologica e culturale dell’uomo da produttore/ consumatore
stabilizzato, con una certa internità al sistema, a precario/ escluso
dimentico dei diritti del passato. Per tali motivi, e per la rilevanza
dei cambiamenti imposti al lavoro, destinati a sconfinare in tutti gli
altri ambiti della vita umana, questo processo è all’origine della
costruzione sociale dell’uomo precario. Così, quello che è stato
definito lavoro non standard, come se avesse dovuto rappresentare
un’eccezione alla regola, principalmente per favorire l’ingresso dei
giovani nel mondo del lavoro, tende a diventare sempre di più la regola
stessa, assorbendo la maggioranza delle nuove assunzioni in tantissimi
settori. La precarietà rappresenta, nello stesso tempo, un destino
individuale gramo e uno status sociale degradato che sarà condiviso, in
futuro, da intere generazioni. L’alternativa alla precarietà sarà sempre
di più, nei prossimi anni, l’esclusione, che significherà
emarginazione, povertà, inutilità, la perdita irreparabile di relazioni
sociali e affettive e, in un certo senso, la morte. A
questo punto, può essere utile presentare qualche dato, in relazione
all’occupazione, alla precarietà e alla disoccupazione, ragionando
brevemente sui dati stessi. Facciamo un raffronto fra le stime Istat del
2007 e i dati della recente trimestrale, sempre dell’Istat, in merito
al lavoro temporaneo, per capire qual è la tendenza per il lavoro
flessibilizzato in periodi di significativa e crescente disoccupazione.
Se nel 2007 i lavoratori temporanei (compresi occasionali, co.co.co e
lavoro a progetto) erano circa 2.759.000, nel terzo trimestre 2012 sono
diventati (“collaboratori” compresi) 2.877.000 circa, quindi sono
significativamente aumentati a fronte di un dilagare della
disoccupazione e dell’inattività. Già nel 2007, quando l’esplosione
della cosiddetta crisi globale era nell’aria, si prevedeva che quasi la
metà dei precarizzanti non avrebbe potuto contare su un reddito
sufficiente per mantenere se stessi e la propria famiglia. Sul fronte
del lavoro part time, nel terzo trimestre dell’anno in corso, secondo
l’Istat vi sono ben 3.847.000 lavoratori. Si tratta di soggetti che per
oltre la metà non riescono a trovare un impiego decente, a tempo pieno.
Se teniamo conto che i disoccupati ufficiali sono quasi tre milioni
(ultimo dato Istat a ottobre 2012 2.870.000 unità), che vi è oltre un
milione e mezzo di non attivi in età lavorativa che nascondono
altrettanta disoccupazione (volendo essere prudenti), che le ore di
cassa integrazione autorizzate, a settembre di quest’anno, sono
cresciute in totale fino a 86 milioni, sommando Cigo, Cigs e Cassa in
deroga, abbiamo il polso della disastrosa situazione del lavoro in
Italia. Se gli occupati, a ottobre 2012, secondo l’Istat erano circa
22.930.000, nel secondo trimestre dello stesso anno raggiungevano quota
23.046.000, e quindi in pochi mesi c’è stato un decremento di 116.000
unità, con una perdita valutabile a circa un mezzo punto percentuale.
Sommando ai disoccupati gli inattivi che nascondono altrettanta
disoccupazione, tenendo conto degli occupati a tempo determinato, del
part time e dei lavoratori in cassa integrazione, si sfonda
abbondantemente il tetto dei 10 milioni di unità. Precarietà,
sotto-occupazione e disoccupazione la fanno sempre più da padroni, in
Italia. Se il tempo determinato, compresi i “collaboratori”-falsi
autonomi, il part time e la disoccupazione sono in costante aumento, si
riduce progressivamente l’area che corrisponde al mercato del lavoro
“tradizionale”, a tempo indeterminato e pieno, in cui vi è ancor oggi –
ma non sappiamo per quanto tempo ancora – la maggioranza dei lavoratori
occupati. La situazione dei cassaintegrati, infine, è diversa dalle
precedenti. La cassaintegrazione può corrispondere a un periodo
trascorso in purgatorio, sottopagati o addirittura a zero ore, se alla
fine si rientra in fabbrica o in ufficio mantenendo il contratto a tempo
pieno e indeterminato, oppure può rappresentare l’anticamera per la
precarietà e/o la disoccupazione di lungo periodo.
Morale della favola,
questo è l’esito concreto, più tangibile, dell’inesistente “Cresci
Italia” di Monti, che avrebbe dovuto far seguito al rigorismo estremo,
fondato su tagli alla spesa sociale e sulle tasse, degli interventi
governativi “Salva Italia”. Ma come abbiamo appreso di recente, proprio
per bocca del presidente del consiglio intervistato dagli arabi, è
niente di meno che l’austerità ad essere la ripresa, e così le due cose
si compenetrano e si sovrappongono, confondendo le idee. Sempre di più,
con l’avanzare del lavoro a termine, del part time e della
disoccupazione effettiva (quella ufficiale sommata agli inattivi
scoraggiati) ci appare chiaro che l’alternativa futura, per i
lavoratori, sarà fra la precarietà e l’esclusione, o meglio, in ultima
analisi, fra la precarietà e la morte, se l’esclusione rappresenta una
forma di morte sociale.