martedì 27 dicembre 2011

LA DEMENZA GENERALIZZATA DEL POPOLO ITALIANO

Un enigma storico da decifrare



di Costanzo Preve






1. Nell’editoriale della rivista Italicum, dicembre 2011, Luigi Tedeschi fa un primo completo bilancio dei provvedimenti della giunta Monti, e ne rintraccia anche correttamente la genesi economica, storica e politica. Alla fine di queste analisi Tedeschi osserva che tutti i partiti, di destra e di sinistra, “volevano che Monti attuasse quelle manovre impopolari che essi non erano in grado di condurre in porto per motivi elettorali”. Mi sembra evidente. E ancora: “Potrebbero un domani tentare di svincolarsi dalle loro responsabilità addossando a Monti la colpa per misure impopolari approvate, contando sulla demenza generalizzata del popolo italiano, che darebbe loro nuovo consenso, non essendoci alternative”.


A livello di filosofia politica, ci si potrebbe chiedere se il popolo in quanto tale è demente (spiegazione nicciana e delle teorie delle élites) oppure se lo è soltanto quando è ridotto a corpo elettorale (spiegazione che risale a Rousseau e ai teorici della democrazia diretta, fra cui anche Lenin).






2. Quindici anni fa scrissi un manifesto filosofico insieme a Massimo Bontempelli, mancato in questo stesso anno 2011 (cfr. Bontempelli-Preve, Nichilismo Verità Storia, CRT, Pistoia 1997). In un capitolo sulla menzogna del linguaggio economico (pp. 23-24), Bontempelli faceva risalire alla generalizzazione della forma di merce la scomparsa della verità delle relazioni sociali. Diagnosi a mio avviso esattissima. E poi elencava una serie incredibile di menzogne del linguaggio economico. Fra di esse si notava che “alcuni decenni orsono, quando la tecnologia e la produzione di merci erano meno sviluppate di oggi, non c’erano difficoltà a finanziare le pensioni e l’assistenza sanitaria dei lavoratori, mentre oggi, dopo tanto sviluppo, gli economisti ci dicono che il sistema economico non può sopportare questo finanziamento”.


Sembrano righe scritte nel dicembre 2011, e invece risalgono ai primi mesi del 1997. Partiamo quindi da questo rilievo.






3. Come tutti gli studiosi di storia e di filosofia, sono attirato dai due estremi complementari della coscienza sociale, la genialità e l’idiozia. E tuttavia l’idiozia è sempre più interessante, anche perché è più divertente. I mezzi di comunicazione di massa ci offrono ogni giorno quantità industriali di idiozia, e con l’arrivo della televisione e dei giornali non c’è neppure bisogno di mescolarsi agli idioti, perché l’idiozia ci viene portata a domicilio in modo semigratuito.


Mi ha colpito una manifestazione di “donne” (una delle maggiori idiozie del nostro tempo è la separazione femminista di donne e di uomini, dopo che c’è voluta tanta fatica per promuoverne la giusta e sacrosanta eguaglianza), in cui una nota regista concionava sostenendo che il nuovo governo Monti almeno “rispettava le donne”, mentre il precedente puttaniere evidentemente non lo faceva. Ora, il precedente puttaniere non era riuscito ad aumentare in un colpo solo l’età pensionabile, mentre Monti, l’uomo che rispetta le donne, lo ha fatto.


Siamo quindi di fronte ad un esempio quasi da manuale di demenza generalizzata. La sua genesi deve essere ancora indagata. A un livello superficiale, per sua natura insoddisfacente, ci si può riferire alla necessità del PD di babbionizzare il suo elettorato, oppure alle conseguenze di vent’anni di antiberlusconismo di “Repubblica”, rinforzato da dosi massicce di Floris e Gad Lerner. E’ senz’altro così. Nello stesso tempo, fermarsi a questo livello è assolutamente insoddisfacente.






4. Partiamo da un dato apparentemente secondario. Scrive il giornalista Stefano Lepri (cfr. “La Stampa”, 14 dicembre 2011): “Colpisce nel Paese, almeno a giudicare dai sondaggi, il contrasto fra gli elevati consensi di cui gode uil governo Monti e il diffuso rigetto della sua manovra di austerità. Non sembra esistere nessuna forza capace di convincere i cittadini che quello che gli viene richiesto è uno sforzo solidale”.


Partiamo da questa apparente schizofrenia. Elogi a Monti e al suo burattinaio politico Napolitano, ex comunista riciclato in uomo della NATO e degli USA in Italia, e considerato dalla massa babbiona PD il grande garante e difensore della Costituzione. E nello stesso tempo brontolio contro la manovra sul fatto che “pagano sempre i soliti noti”, “la casta non è abbastanza colpita”, eccetera. Spiegare questa schizofrenia è relativamente facile, ma richiede ugualmente uno sforzo culturale. Facciamolo, tenendo conto che mi limiterò all’Italia, e solo all’Italia, perché altrove i dati culturali egemonici possono essere e sono diversi.






5. Quando al tempo di Pio XII la chiesa cattolica “scomunicò i comunisti” siamo stati in presenza di un episodio, forse l’ultimo, di una strategia controriformistica. La chiesa non aveva mai avuto paura di quella forma di paganesimo estetizzante che era stato un certo Rinascimento, ma aveva avuto veramente paura di una possibile riforma protestante in Italia. La riforma protestante, infatti, non parlava soltanto ai dotti e agli intellettuali del tempo, ma al popolo. Nello stesso modo la chiesa cattolica, pur avendo messo debitamente all’indice le opere filosofiche di Croce e di Gentile, nonostante il loro continuo proclamarsi di “non potersi non dirsi cristiani”, non aveva mai avuto molta paura né della variante liberale del laicismo, né di quella azionista. Sia il liberalismo che l’azionismo erano infatti palesemente fenomeni ristretti di certi intellettuali. Ma con l’arrivo del “comunismo” in Italia (arrivo non precedente la guerra civile 1943-45, almeno nella sua dimensione di massa) le cose cambiavano. Il comunismo italiano, nella versione togliattiano-gramsciana, sfidava invece la chiesa cattolica sul suo stesso terreno, che era l’egemonia culturale sulle classi popolari.


Il segretario di sezione comunista iniziava sempre la sua relazione dalla cosiddetta “situazione internazionale”. Si trattava spesso di una raffigurazione assolutamente mitico-fantasmatica della realtà sociale, basata sulla metafisica storicistica del progresso, su di una immagine antropomorfica del capitalismo come società dei privilegi di mangioni e “forchettoni”, sull’elaborazione dell’invidia sociale dei subalterni, sul presupposto della supposta incapacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, e su altre sciocchezze positivistiche di questo tipo fatte indebitamente risalire a Marx, eccetera. Sarebbe estremamente facile correggere con una matita rossa e blu le ingenuità populistiche di questo messaggio. Sta di fatto che questo messaggio dava pur sempre della realtà un’immagine razionale e coerente, in grado di spiegare con un certo grado di semplificata approssimazione la storia contemporanea, anzi “il presente come storia” per usare una bella espressione di Paul Sweezy.






6. Tutto questo venne progressivamente meno in Italia nel ventennio 1968-1988. Non intendo scendere in una periodizzazione più precisa e analitica perché mi interessa connotare un processo nella sua interezza temporale evolutiva. In questo ventennio le classi popolari italiane restarono semplicemente senza gruppi intellettuali nel senso egemonico gramsciano del termine, e restarono così politicamente mute. Le facili accuse di populismo, leghismo, razzismo, eccetera, con cui vengono ingiuriate da circa un ventennio, nascondono un maestoso processo di spossessamento e di deprivazione culturale complessiva.


In termini sintetici, il comunismo italiano fra il 1968 e il 1988 si è trasformato culturalmente in una sorta di “azionismo di massa”, ma trasformandosi in azionismo di massa non poteva che cambiare radicalmente codice comunicativo ed egemonico. L’azionismo di massa, combinato con il sessantottismo dei costumi di cui il femminismo è certamente stato una componente particolarmente degenerativa in senso sociale, ha infine preparato il clima dell’ultimo ventennio, un occidentalismo di massa esplicito (antiberlusconismo moralistico ed estetico, diritti umani a bombardamento imperialistico legittimato, eccetera). Una tragedia, e soprattutto una tragedia rimasta in larga parte incomprensibile alle sue stesse vittime, oggetto di una babbionizzazione pianificata dall’alto cui era praticamente impossibile resistere.






7. Possiamo sommariamente connotare la cultura popolare promossa dal PCI, e subordinatamente anche dal PSI, fra il 1948 e il 1968 come una forma di populismo di massa. Del resto, questo era chiaro a tutti gli studiosi del tempo, basti pensare all’Asor Rosa di Scrittori e Popolo. Soltanto negli ultimi vent’anni il “populismo” è diventato un insulto applicato non solo a Berlusconi, ma anche a Chavez. Ma non si tratta che di un mascheramento linguistico del ceto intellettuale integrato e politicamente corretto, e anzi integrato perché politicamente corretto, o se si vuole politicamente corretto perché integrato.


Al ventennio del populismo di massa 1948-1968, seguì il ventennio dell’0azionismo di massa 1968-1988. Non a caso, Norberto Bobbio diventò il principale autore di riferimento dell’ex PCI spodestando completamente Gramsci, diventato autore di cult per i cultural studies delle università anglosassoni. Per comprendere il passaggio dal populismo di massa all’azionismo di massa è utile “rinfrescare” la nostra conoscenza delle fasi di sviluppo del capitalismo.






8. Il principale errore della metafisica di “sinistra” consiste nell’identificazione del capitalismo con la borghesia. In termini spinoziani, questo dà luogo a una antropomorfizzazione del capitalismo, cui sono attribuite di volta in volta caratteristiche antropomorfiche, come la conservazione o il progressismo. In termini hegeliani, questo dà luogo a una esaltazione di tipo weberiano del razionalismo astratto, per cui la razionalizzazione progressiva delle sfere sociali e il loro adattamento al consumo delle merci viene chiamato “modernizzazione”. In termini marxiani, questo significa scambiare la falsa coscienza necessaria dei gruppi intellettuali “modernizzatori” per il fronte scientifico avanzato della coscienza sociale, cui sottomettere con l’educazione i plebei invidiosi rimasti invischiati nel razzismo, nel populismo e nel leghismo.


Secondo la corretta analisi dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, la “sinistra” che conosciamo si è costituita in un ben preciso periodo e in una ormai sorpassata fase dello sviluppo capitalistico. Si è costituita fra il 1870 e il 1968 circa, sulla base di un’alleanza fra la critica sociale alle ingiustizie distributive del capitalismo di cui erano titolari le classi popolari, operaie, salariate e proletarie, e una critica artistico-culturale all’ipocrisia conservatrice della borghesia di cui erano titolari i cosiddetti “intellettuali d’avanguardia”. Questo schema corrisponde abbastanza bene, per quanto concerne l’Italia, al ventennio 1948-1968 e trova ad esempio in Pier Paolo Pasolini un rappresentante significativo.


Con il Sessantotto, una delle date più controrivoluzionarie della storia mondiale comparata, questa alleanza viene meno perché è il capitalismo stesso a liberalizzare i costumi sociali e sessuali in direzione non solo post-borghese , ma addirittura anti-borghese (e ancora una volta il femminismo dei ceti ricchi è solo la punta dell’iceberg).


L’azionismo di massa del ventennio 1968-1988 progressivamente dominante in Italia non è altro che la versione italiana di un fenomeno europeo e mondiale, ma soprattutto europeo, perché Cina, India, Brasile, eccetera, continuano a essere Stati sovrani e non occupati da basi militari USA dotate di armamenti atomici.


Un popolo privato di ogni profilo culturale autonomo è quindi preda di un processo che si può definire sommariamente come “sindrome di demenza generalizzata”. Mi spiace che possa sembrare sprezzante ed offensivo, ma non riesco a trovare altro termine per connotare la perdita totale di un “centro di gravità permanente”, per rifarci all’espressione di un noto compositore.






9. La sindrome di demenza generalizzata insorge quando vengono meno tutti gli schemi dialettici di interpretazione sociale e riguarda tutti, ma assolutamente tutti gli ambiti sociali, in alto e in basso, a destra e a sinistra, anche se ovviamente in forme diverse.


A “destra” la sindrome di demenza generalizzata assume le consuete forme paranoiche. Las paranoia è infatti una malattia soprattutto di “destra”, mentre la schizofrenia è invece una malattia soprattutto di “sinistra”. Prestiamo attenzione a fenomeni degenerativi come il pogrom di gruppi di plebei torinesi delle Vallette (non uso infatti mai la nobile parola di “popolo” per plebi decerebrate e imbarbarite) contro un insediamento di nomadi, o addirittura l’uccisione a freddo di due senegalesi a Firenze da parte di un allucinato paranoico. E’ assolutamente evidente che fatti come questi non devono essere giustificati in alcun modo con contorti argomenti sociologici da bar. E tuttavia essi sono soltanto la punte dell’iceberg di una perdita totale di comprensione del mondo, cui si supplisce con la scorciatoia della paranoia. Naturalmente il concerto politicamente corretto non è in grado di spiegare questi fenomeni di alienazione paranoica, perché si culla con i rassicuranti stereotipi del fascismo, nazismo, populismo, leghismo, revisionismo, negazionismo, eccetera. Ma la cura di queste sindromi di demenza generalizzata non può consistere in geremiadi moralistiche.


Ho già notato come la sindrome di demenza assuma a “sinistra” aspetti più simpatici e politicamente corretti perché solo schizofrenici e non paranoici (Monti è buono, ma la manovra è cattiva; Monti è buono perché rispetta le donne a differenza del laido puttaniere, eccetera). Certo, le scemenze non violente sono pur sempre meglio delle scemenze violente, ma scemenze restano e resta il problema della opacità sociale, cioè di un sistema di cui si è completamente perduta la chiave d’interpretazione. Ma non c’è nessuna chiave, dicono gli intellettuali pagliacci di regime alla Umberto Eco, e bisogna abituarsi a vivere gaiamente senza più nessuna chiave. Ma le grandi masse popolari, appunto, non possono vivere a lungo senza alcuna chiave interpretativa della riproduzione sociale, pena la caduta in sindromi di demenza generalizzata. E di questa bisogna quindi parlare.






10. Vi è un interessante passo, credo di John Reed, che può aiutarci a impostare la questione della demenza sociale generalizzata. Reed parla con un “soldato rosso” dopo il 1917 che gli dice: “I bolscevichi sono buoni perché ci hanno dato la terra. Sono invece i cattivi comunisti che ce la vogliono togliere”. Ora, è inutile assumere la spocchia della persona colta che sa che bolscevichi e comunisti sono in realtà le stesse persone. Ciò che invece conta è il modo in cui erano percepite da chi aveva tutto il diritto di non conoscere le teorie di Marx e del conflitto fra tattica bolscevica e strategia comunista.


Monti piace, mentre le sue manovre no, perché si pensa che esse colpiscano sempre i “soliti noti”. Errore. Colpiscono anche le libere professioni “borghesi” consolidate e organizzate da almerno due secoli di civiltà borghese. Naturalmente, Berlusconi si era fatto votare per “fare la rivoluzione liberale”, ma questa rivoluzione liberale, oggi come oggi, colpisce il 95% delle persone e ne salva invece solo il 5%. I vari Giavazzi e Alesina non sono affatto “liberali”, come opinano i lettori ingenui del Corrierone, ma sono solo “maschere di carattere” (le marxiane charaktermasken) di un processo anonimo e impersonale di globalizzazione liberista. Questo processo non può presentarsi apertamente nella sua concreta natura che chiamare “nazista” è dire poco. Si tratta di una società del lavoro flessibile, precario e temporaneo generalizzato, della fine di ogni democrazia e di ogni sovranità nazionale, di un interventismo imperiale continuo fatto in nome di generici “diritti umani” ad arbitrio assoluto, e della stessa fine dell’Europa come centro autonomo di civiltà non ancora del tutto “occidentalizzato”.


In un simile quadro la demenza sociale riflette l’opacità della riproduzione sociale, e assume toni schizofrenici a sinistra e paranoici a destra, anche se di diverso grado di pericolosità criminale. A sinistra, un antifascismo paranoico in totale assenza di fascismo. A destra, l’ennesima stucchevole tendenza a prendersela con i soliti capri espiatori, i nomadi, i negri, gli immigrati, eccetera. Questa demenza non verrà meno fino a che una nuova credibile interpretazione della natura degli avvenimenti in corso, e cioè del “presente come storia”, sostituirà gli spettacoli schizofrenici e paranoici in corso. I pazzi di Oslo e di Firenze non possono essere previsti. Il casuale in quanto tale è necessario, scrisse Hegel. Ma la reintroduzione della razionalità storica nella politica, questa sì, sarebbe possibile.


Torino, 17 dicembre 2011

giovedì 22 dicembre 2011

Fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo? 



di Eugenio Orso

Il passaggio da un vecchio modo storico di produzione dominante al nuovo ha richiesto per compiersi, nel corso della storia umana, tempi plurisecolari nonché trasformazioni culturali, economiche e sociali rilevanti.


La storia ha traghettato attraverso i secoli le popolazioni europee nel lungo passaggio dal feudalesimo al capitalismo, così come questione di secoli è stato l’avvento del feudalesimo che ha fatto seguito al modo di produzione schiavistico.


In questi ultimi decenni, però, le trasformazioni si sono progressivamente velocizzate, grazie all’azione congiunta della tecnoscienza e del cosiddetto sviluppo economico.


Così, dopo circa un trentennio di rapide e profonde trasformazioni culturali, politiche, ed economiche, che hanno inciso in profondità sul dato antropologico e su quello sociale, si sta realizzando il passaggio dal capitalismo del secondo millennio al Nuovo Capitalismo finanziarizzato, destinato a diventare il modo di produzione dominante.


Nel nostro presente storico non stiamo vivendo un semplice cambiamento di fase capitalistica, per quanto travagliato e gravido di eventi negativi, ma possiamo osservare l’inizio di una nuova era.


Eppure, complice la crisi globale che ha investito come un onda d’urto le vecchie strutture sociali sopravviventi, c’è qualcuno che in relazione a questo capitalismo in via d’affermazione già parla di collasso e di conseguente cambiamento epocale.


Le dinamiche finanziarie innescate dai meccanismi riproduttivi neocapitalistici, in effetti, sembrano portare al disastro, sia dal punto di vista economico e sociale sia da quello ambientale, e nessun governo, a partire dall’amministrazione federale americana, ha provveduto sinora ad imbrigliarle, per tentare di metterle sotto controllo.


Il che implicherebbe sicuramente il ritorno alle logiche del capitalismo del secondo millennio, alla “cura” keynesiana, all’interruzione, o quantomeno al rallentamento, dei processi di globalizzazione economica e finanziaria, che sono di esiziale importanza per l’affermazione del nuovo modo storico di produzione e per la sua riproduzione allargata.


Ma un ritorno al capitalismo postbellico novecentesco – oltre a non sembrare possibile, giunti a questo punto, richiederebbe un esteso consenso fra i membri della classe dominante, e la nuova Global class capitalistica, nata e cresciuta nella progressiva affermazione del neoliberismo e della globalizzazione dei mercati, non potrebbe mai accettarlo.


Al contrario, la classe globale ha voluto l’invasione e l’occupazione dell’Italia, con l’imposizione di un governo fantoccio, per preservare i meccanismi riproduttivi del Nuovo Capitalismo ed eliminare le resistenze all’avanzata neoliberista, che ormai è travolgente.


Non potranno più esistere “isole”, nel mondo occidentale, in cui sopravvivono consistenti tracce del vecchio capitalismo, ed in cui sono ancora possibili significative deviazioni dal modello neoliberista dominante.


Gli scopi dei governi liberaldemocratici soggetti al potere globalista sono di distruggere le sopravvivenze keynesiane, i residui di stato sociale e i diritti dei lavoratori, di soffiare sul fuoco dello scontro generazionale fra giovani precari e anziani tutelati, togliendo le tutele agli stabilizzati senza dare nulla ai precari, di distruggere il sistema pensionistico, di costringere i subordinati a lavorare fino alla morte con l’inganno dell’elevarsi della vita media (mentre quella massima, cruciale a tale riguardo, resta immutata), di privatizzare anche laddove non è necessario, di mantenere la precarietà e di creare disoccupazione per sostituire al profilo produttore/ consumatore quello del precario/ escluso, di mettere in liquidazione il patrimonio pubblico e di indebolire lo stato, come accade in queste settimane in Italia con l’osceno governo fantoccio di Monti (e Napolitano).


Paesi come l’Italia, che hanno già perduto la sovranità monetaria, perdono completamente anche quella politica e subiscono nell’inerzia di massa (almeno per ora) la tirannide liberista della classe globale.


Dovrebbe essere ormai chiaro anche ai più distratti che un governo come quello di Papademos, o come quello di Monti, non rappresenta il popolo (greco, italiano) o comunque una parte significativa anche se minoritaria di esso, ed anzi agisce contro il popolo, contro lo stato, contro le vecchie istituzioni.


La cosa più lontana dall’interesse collettivo, se mai questo è esistito, è il programma di un simile governo, che si regge sulla minaccia, sulla paura, sul ricatto e sull’inganno.


Agli italiani, quindi, Monti dovrebbe apparire come il peggiore fra i distruttori, in questo confortato dai suoi sodali Draghi e Napolitano.


Ma la sua, in fondo, è pur sempre “distruzione creatrice”, in quanto portatore del nuovo per conto degli unici veri referenti che ha e ai quali deve rispondere: i membri della classe globale.


Ed il nuovo può pur essere terribile, ma rappresenta la realizzazione concreta, con costi sociali che presto si riveleranno insopportabili, del modello di capitalismo vincente.


La “distruzione creatrice” di Monti e del suo esecutivo sta proprio nella disintegrazione del welfare e nella proliferazione dell’iniquità sociale (nuovo ordine sociale fondato sulla dicotomia Global class/ Pauper class), come nel porre interamente al servizio di Mercati e Investitori l’Italia e l’intero apparato produttivo nazionale, sottomettendo la sua popolazione, privata della possibilità di disporre delle risorse nazionali, alla nuova classe dominante neocapitalistica.


In tal senso, l’euro ha rappresentato il cavallo di troia globalista per depotenziare e poi ridurre a completa impotenza (o quasi) gli stati nazionali, ma il Quisling Monti, spalleggiato dal tristo Napolitano aduso alla menzogna e al tradimento (anzitutto quello dell’ideale comunista), opera ufficialmente per far restare l’Italia nell’Europa fasulla dell’Unione e per la difesa a spada tratta dell’euro maligno.


La “crescita”, tanto santificata anche da questo governo, è un mero pretesto per scardinare l’ordine sociale attraverso le contro-riforme globaliste e per “aprire” l’Italia ancor di più al mercato, riducendo gli spazi di intervento pubblico nell’economia (e le iniziative a difesa dell’industria e dei prodotti nazionali), fino a completa estinzione.


Questi passaggi, che avranno effetti terribili su almeno tre quarti della popolazione italiana, sono indispensabili per l’adozione senza riserve del modello capitalistico neoliberista estremo.


Perciò Mario Monti, in un certo senso, “sta facendo soltanto il suo dovere” – così come lo facevano i comandanti dei campi di Treblinka e Dachau nello scorso secolo, e quanto più massacrerà gli italiani (anziché ebrei, zingari, armeni, disabili, dissidenti ariani, eccetera), riducendoli all’impotenza per gli anni a venire, quanto più sottrarrà risorse al collettivo rendendole disponibili per la creazione del valore finanziario, azionario e borsistico, tanto più la sua azione di governo avrà avuto successo.


Dopo Monti e dopo il completamento della sua opera, fatta la frittata senza una concreta possibilità di tornare alle uova, si concederanno “finalmente” le elezioni, perché questo rito, ad alto contenuto simbolico, è ancora importante per sostenere il sistema politico liberaldemocratico e per ingannare le masse, purché non interferisca – sia ben chiaro, con le decisioni politico-strategiche che veramente contano (moneta, finanza, spesa pubblica, welfare), rallentandole o vanificandole.


Se questo è il contesto in cui siamo costretti a muoverci, e in cui ci muoveremo nel prossimo futuro, le speranze di rapida estinzione dell’euro o addirittura di collasso del capitalismo finanziario mondiale che affiorano negli ambienti alternativi, sembrano non avere troppa consistenza, almeno per quanto riguarda il breve-medio periodo, ed anzi è probabile che vicende come quella italiana possano chiudersi con un successo globalista e neoliberista,


Inoltre, potrebbero non esserci improvvise precipitazioni degli eventi – una guerra non convenzionale contro l’Iran, ad esempio, con il coinvolgimento di Russia e Cina, tali da compromettere la riproduzione sistemica.


L’Italia è ormai un paese occupato, l’esperimento greco si è concluso con successo ed è probabile che seguiranno altre occupazioni senza l’uso dello strumento militare, per “normalizzare” quanto meno l’Europa e l’occidente.


Perciò, possibilità concrete di fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non se ne vedono ancora all’orizzonte, ma le strade future da seguire a tale scopo, nel medio-lungo periodo quando si arriverà ad un ennesimo bivio storico, saranno almeno due, l’una alternativa all’altra:


1) Quella rivoluzionaria anticapitalista e anti(liberal)democratica, oggi impensabile e per la quale è necessario che la situazione sociale precipiti ancora e l'impoverimento vero morda alle chiappe gran parte del cosiddetto ceto medio, che oggi è il vero obbiettivo delle controriforme neocapitalistiche.


2) Quella rappresentata dal ritorno al keynesismo assistenziale, con accentuati lineamenti antiliberisti, caratterizzata da un’economia dal lato della domanda, dall’esaltazione del ruolo della spesa pubblica destinata a sostenere consumi e investimenti, dalla ridistribuzione dei redditi, dall’interventismo statale nell'economia, dalla nazionalizzazione non più ostracizzata delle banche e della grande industria, dalla distruzione dei potentati finanziari privati, dall’"eutanasia del redditiero" che si ingrassa fidando sul valore della scarsità del capitale, come scrisse con intima soddisfazione J.M. Keynes nella General Theory, e da altri elementi ancora. Questa ultima possibilità – ossia il ritorno a Keynes, non sarebbe altro che un tentativo di “ritorno al passato”, e cioè all’età dell’oro (i trenta gloriosi anni) dello storico ebreo di formazione marxista Eric Hobsbawm (all'incirca il trentennio 1945-1975), e non implica come quella rivoluzionaria la fuoriuscita dal capitalismo verso il nuovo e l’ignoto, in quanto si tratta dell'unico riformismo mostratosi efficace, in grado di produrre effetti sociali moderatamente emancipativi e nel contempo di mantenere in piedi il capitalismo. Ma questo “ritorno al passato” sembra quanto mai improbabile, soprattutto nel breve, perché la maggioranza degli economisti, degli intellettuali e degli accademici – valletti ideologici della classe globale ed untori ultraliberisti, è schierata dall'altra parte, mentre i veri keynesiani, come i marxisti novecenteschi, gli sraffiani ed altri, rappresentano una minoranza destinata all'estinzione. Inoltre, una riproposizione della riforma keynesiana non incontrerebbe alcun gradimento, nei centri di potere che veramente contano (oggi controllati dalla classe globale), e gli economisti arditamente riformisti non troverebbero alcun referente di alto profilo disposto ad appoggiarli e ad accogliere le loro tesi.


Dovrebbe apparire a tutti fin troppo chiaro, non soltanto in Italia, ma in buona parte dell’Europa e dell’occidente, che “la Rivoluzione può attendere” ancora a lungo e che la fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non è certo dietro l’angolo.

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giovedì 15 dicembre 2011

MOVIMENTO POPOLARE DI LIBERAZIONE
PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE
LA VIA MAESTRA E' IL SOCIALISMO



(Bozza di Manifesto del M.P.L.)




Rompendo gli indugi

L’Assemblea di Chianciano Terme del 22-23 ottobre “Fuori dal debito! Fuori dall’Euro” adottò per acclamazione una mozione che istituiva un «Comitato di coordinamento nazionale provvisorio con l’incarico di preparare una seconda assemblea entro la fine di gennaio 2012», e di stilare, in vista di quest’ultima, «una bozza di Manifesto».


Alla nostra prima riunione, svoltasi il 5 novembre, oltre a confermare l’impegno a scrivere e proporre alla prossima assemblea il Manifesto, abbiamo anche indicato la necessità di andare verso la costituzione di un nuovo soggetto politico, il Movimento Popolare di Liberazione.


Il 17 novembre, mentre ci apprestavamo a scrivere il Manifesto, la crisi economica e politica subiva l’accelerazione che sfociò nelle dimissioni del governo Berlusconi e nell’insediamento di quello Monti. Ci sembrò doveroso indicare che si trattava «una congiura ordita dal grande capitalismo finanziario internazionale», e che il paese passava «dalla padella alla brace». Per questo diffondemmo un «Appello al popolo lavoratore», segnalando come urgente il compito di formare un ampio Fronte di resistenza. In quell’Appello indicammo i sette punti di un «programma d’emergenza» per fermare Monti, per «dare uno sbocco all’opposizione sociale diffusa ma ancora incerta e frammentata... affinché si candidasse a guidare il paese per portarlo fuori dall’abisso».


Centinaia sono stati i cittadini che, sottoscrivendo quell’Appello, hanno sottolineato la volontà di aderire.


I fatti hanno superato i più foschi timori. La manovra economica del nuovo governo, giustificata con l’obbligo di “onorare il debito”, non solo è senza precedenti, è concepita come una puntata di un massacro sociale senza fine.


Gli eventi recenti se ci dicono che è urgente costruire un ampio Fronte di resistenza per contrastare Monti e fermare l’offensiva antipopolare, ci confermano che è necessario dare vita ad un nuovo movimento politico. Non ci saremmo decisi a compiere questo passo se fossimo vissuti in tempi ordinari, e se fosse esistita una forza solida e coerente capace di interpretare la fase politica attuale e che avesse ideee e proposte all’altezza della gravissima situazione che viviamo.


Che ci sia bisogno di un nuovo movimento politico, ciò è avvertito da larghi settori del popolo lavoratore che ormai da troppo tempo si trova senza un soggetto di riferimento credibile e certo.


Rompiamo così gli indugi e, tenendo fede alla promessa, proponiamo questo Manifesto [che alleghiamo affinché ognuno possa farlo circolare e stamparselo per leggerlo con la dovuta attenzione].


Fronte ampio di resistenza e movimento politico, com'è ovvio, non sono la stessa cosa.


Un’allenza sociale per far fronte all’emergenza è tanto più forte e ha tante più possibilità di vincere, quanto più è ampia, e per questo essa deve fondarsi su pochi e semplici obbiettivi.


Un Movimento politico degno di questo nome deve invece avere un programma di più ampio respiro, una visione d’insieme, un progetto di alternativa di società, che noi indichiamo appunto nel socialismo.


Speriamo di esserci riusciti con questo Manifesto .
Lo sottoponiamo dunque alla attenzione di coloro i quali, dopo l’Assemblea di Chianciano Terme, sono stati solidali con le nostre battaglie ed hanno espresso interesse a partecipare alla prossima Assemblea del 4-5 febbraio 2012.


Assemblea costituente, non costitutiva, ad indicare il suo carattere aperto a chiunque, condivise le linee generali del Manifesto, volesse unirsi a noi per dare vita, nei tempi e nei modi che comunemente verranno decisi, al MPL.*


Per il Comitato di Coordinamento dell’Assemblea di Chianciano Terme
Massimo De Santi, Leonardo Mazzei, Moreno Pasquinelli.
15 dicembre 2011


* Avremmo voluto svolgere l’Assemblea del 4-5 febbraio a Roma. I costi esorbitanti che ognuno avrebbe dovuto affrontare ci costringono a tornare a Chianciano Terme. Il costo approssimativo del soggiorno per sabato e domenica è di 60 € cadauno. Invitiamo fin da ora chi deve e vuole partecipare a segnalarcelo. La sua richiesta sarà considerata valida come prenotazione.



PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE
LA VIA MAESTRA E' IL SOCIALISMO
(Bozza di Manifesto)


Il capitalismo è come una trottola, può tenersi in equilibrio solo se gira vorticosamente attorno al proprio asse. Per ruotare ha bisogno di due fattori: una spinta che gli imprima movimento e una superficie perfettamente piana. Se viene a mancare anche solo uno di questi due fattori essa smette di ruotare, si accascia al suolo e si arresta.
La trottola del capitalismo occidentale sta schiantando perché la sua forza di spinta è venuta a mancare proprio mentre avrebbe dovuto accrescere a causa della superficie diventata accidentata, essendo la spinta il profitto e la superficie il mercato mondiale.




Il gioco vale la candela?


La forza motrice che muove lo sviluppo capitalistico non è il bene comune ma il profitto, il bene privato di chi detiene il capitale. Quando non può accrescere il profitto il capitale arresta la sua corsa, smette di investire, blocca la produzione, smantella impianti e dunque licenzia, crea disoccupazione, getta nella miseria anzitutto chi non ha altre risorse se non quella di vendere al miglior offerente la propria capacità lavorativa.
Queste recessioni cicliche, connaturate al capitalismo, vengono chiamate “crisi”. Ogni fase di espansione è seguita da una inevitabile contrazione. Alcune di queste crisi sono però più profonde, sono sistemiche, investono la gran parte dei settori economici e possono sfociare in depressioni di lungo periodo. Le conseguenze sociali e geopolitiche possono essere devastanti: pauperismo di massa, inasprimento dei conflitti sociali, caduta di governi e regimi, guerra aperta tra gli stati.
Con simili sconquassi vanno al tappeto i due dogmi che sorreggono l’ideologia dominante: quello per cui il capitale, facendo i propri interessi, realizza quelli di tutti, e quello per cui il “libero” mercato è il luogo che meglio assicura e distribuisce il benessere. La società è quindi costretta, quando il capitalismo mette in luce i suoi limiti congeniti, a considerare il rapporto tra i costi e i benefici del sistema, e ove decidesse che il gioco non vale la candela, a cercare una via d’uscita e a sperimentare nuovi modelli sociali e di vita.


Il boomerang


Di portata epocale fu la crisi che il capitalismo occidentale conobbe negli anni ’70 del secolo scorso. La tenace resistenza proletaria all’interno, l’avanzata delle lotte di liberazione dei popoli oppressi e l’esistenza del “blocco socialista” non consentirono al capitalismo di ricorrere alle vecchie terapie. La risposta alla crisi fu la globalizzazione.
All’interno: smantellamento delle protezioni sociali, privatizzazioni delle aziende e dei servizi pubblici, frantumazione delle grandi roccaforti industriali, precarizzazione del lavoro, agevolazione dei flussi migratori, lento abbassamento dei salari e dei redditi, boom del credito per sorreggere il consumismo di massa.
All’esterno, in classico stile coloniale, rapina sistematica delle risorse dei paesi poveri (non solo di materie prime, appunto, ma pure di forza-lavoro, manuale e intellettuale) e, grazie al ruolo guida imperiale degli Stati Uniti, aggressioni, guerre e pressioni di ogni tipo per soggiogare interi paesi e spazzare via i regimi considerati ostili. L’imperialismo, al prezzo di prosciugare le sue casse, ha vinto la “guerra fredda” e rovesciato regimi nazionali considerati “canaglia”, ma ciò ha prodotto nuovi esplosivi squilibri regionali e mondiali.
Il tutto nel quadro di una deregolamentazione sistematica dei mercati, dell’abbattimento di ogni barriera ai movimenti di capitale, della competizione selvaggia tra multinazionali e aziende, paesi e aree economiche. Questa globalizzazione dei mercati, che le potenze occidentali hanno tenacemente perseguito fino a spazzare via ogni ostacolo, si è rivelato un boomerang. L’ampia superficie piana per far girare la trottola si è trasformata in un terreno minato.


Il fallimento


La globalizzazione ha infatti prodotto alcuni effetti macroscopici.
Essa ha fatto emergere nuove potenze economiche, Cina in primis, che sfidano oramai apertamente quella supremazia che l'occidente - nel disperato tentativo di evitare un inesorabile declino - cerca di difendere in ogni modo, anche a rischio di nuove gravissime tensioni geopolitiche.
Al contempo la globalizzazione ha sprofondato nella recessione una serie di paesi poveri privi di materie prime, portando centinaia di milioni di persone alla fame, di qui grandi rivolte sociali, come quelle che hanno portato alla caduta di regimi totalitari nei paesi arabi.
Ma una delle conseguenze è che anche l’Occidente si è impoverito. I capitali occidentali, privi di freni, sono fuggiti via per fare razzie nei nuovi territori di caccia. In virtù dei bassi salari, dei regimi neoschiavistici di sfruttamento e repressione, dei sistemi fiscali di vantaggio dei paesi presi di mira, le imprese occidentali hanno accumulato enormi guadagni.
Questi tornavano sì in Occidente ma per finire nella grande bisca del capitalismo casinò, per essere gettati nel gioco d’azzardo di una speculazione finanziaria fondata sul debito. Somme colossali venivano offerte in prestito ai cittadini per sorreggere domanda interna e consumi in calo a causa della caduta del potere d’acquisto dei salari, e agli stati per puntellare i loro bilanci falcidiati da scellerate politiche privatizzatrici. In questo tritacarne sono quindi finiti gli Stati e le banche centrali. I primi accettando di gettare i debiti sovrani nei mercati finanziari internazionali, le seconde o stampando a tutto spiano carta moneta per sorreggere banche fallite o in procinto di fallire. Questo sollazzo non poteva durare all’infinito: moneta, obbligazioni e titoli per quanto simboli astratti sono pur sempre espressione di valori reali, sempre tenendo conto che il lavoro e la natura sono le due sole fonti da cui sgorga la ricchezza di una società.


Mutamenti epocali


La finanziarizzazione liberista dell’economia ha agito come una droga. Per sopravvivere il capitale aveva bisogno di dosi sempre più massicce di liquidità, acquistando dalle banche centrali denaro a basso costo per poi lucrare rivendendolo a tassi usurai. Ma nella bisca, il gioco è sempre a somma zero: a fronte di chi vince, c’è sempre qualcun altro che perde. Chi ci ha rimesso le penne è stato anzitutto il lavoro salariato, che in tre decenni si è visto scippato di buona parte delle sue conquiste ed ha subito una drastica riduzione della quota di reddito sociale a sua disposizione; scippo compensato dall’elargizione di crediti che hanno trasformato buona parte dei lavoratori in debitori permanentemente sotto ricatto.
La globalizzazione ha quindi indotto profonde trasformazioni nel corpo stesso delle società occidentali, sia in alto che in basso.
In alto: la rendita, ovvero il capitale finanziario speculativo (denaro che si accresce senza passare per il ciclo produttivo di merci) ha preso il sopravvento su quello industriale; e in esso il vero dominus è diventato il settore bancario predatorio (banche d’affari); in seno alla classe capitalista sono diventati prevalenti i ceti parassitari che vivono di rendita; gli stati nazionali sono stati privati della loro sovranità politica; parlamenti e governi, espropriati delle loro prerogative, sono diventati passacarte; i partiti si sono trasformati in meri comitati d’affari, selettori dei funzionari al servizio dell’oligarchia.
In basso i mutamenti non sono stati meno profondi. Il dato fondamentale è che al crollo del lavoro produttivo è corrisposta la crescita di quello improduttivo o direttamente parassitario. Il processo di deindustrializzazione e di smantellamento dei settori statali ha causato un vero e proprio sfaldamento del tessuto sociale. Scomparsi o quasi i grandi poli industriali, gran parte del lavoro è stato appaltato a piccole e medie aziende, dove i salari sono più bassi ed è molto più difficile per i lavoratori tutelare i propri interessi. Allo smembramento della vecchia classe operaia industriale è corrisposta la crescita dei settori impiegatizi, di mestieri del tutto nuovi, di lavori socialmente necessari ma spesso improduttivi. Il posto fisso ormai è stato in gran parte rimpiazzato dal lavoro precario e flessibile. Le conseguenze sono state devastanti: un disgregazione sociale senza precedenti causa prima dell’implosione dei tradizionali vincoli comunitari e dei tessuti aggregativi, e il sopravvento di un’ideologia individualistica pervasiva, refrattaria ad ogni istanza solidale e collettiva.


La crisi italiana


Nella crisi globale dell’Occidente imperialistico c’è la specifica crisi dell’Unione europea e dentro quest’ultima la crisi italiana. Essa si presenta come un processo che vede coinvolti simultaneamente l’economia, le istituzioni repubblicane, la società civile. All’evidente incapacità della classe dominante di governare il paese (il cui sfascio è emblematico), fa da contraltare la totale inadeguatezza delle classi subalterne a conformare un’alternativa. L’ingresso nell’Unione europea e l’adozione dell’euro, che le classi dominanti avevano pervicacemente perorato come la maniera per porre fine alle strutturali distorsioni italiane, si sono rivelati invece un fiasco totale. La sostanziale cessione di sovranità, monetaria, politica e istituzionale —accettata fideisticamente dalla classe dirigente italiana ma non da quelle tedesche e francesi, né tanto meno dai paesi che come il Regno Unito hanno rifiutato di accettare l’euro— ha finito per aggravare tutti gli squilibri, all’esterno come all'interno.
In questo contesto, l’inevitabile crollo dell’Unione e dell’euro rischiano di essere un evento catastrofico, le cui conseguenze più pesanti verranno fatte pagare al popolo lavoratore, privato oramai di ogni autodifesa.
L’alternativa secca è tra il subire questa catastrofe sociale —che non è un singolo evento fatidico, ma un processo già in atto— o sollevarsi per un vero e proprio cambio di sistema. Se questo rivolgimento non ci sarà presto, il paese sarà ridotto in macerie, col rischio che la miseria generale possa causare un devastante conflitto tra poveri ed infine lasciare spazio ad avventure populiste e reazionarie, animate da una borghesia che tiene sempre in serbo primigenie pulsioni reazionarie, senza nemmeno escludere l’eventualità di uno sgretolamento dello Stato-nazione. Conflitti aspri saranno inevitabili, così come una polarizzazione di forze contrapposte.
Di sicuro la crisi sprigionerà grandi energie sociali, energie che questo sistema politico marcio sarà incapace di ammansire e rappresentare. Queste forze sono la sola leva su cui si possa fare affidamento per cambiare radicalmente questo paese. Vanno quindi alimentate, aiutate ad emergere. Bisogna dare loro una consistenza politica, uno sbocco, una prospettiva. Per farlo non è sufficiente affermare dei no, occorre anche indicare quale possa essere l’alternativa, il nuovo modello sociale.
Questo è esattamente il compito che ci proponiamo come Movimento Popolare di Liberazione (MPL). Esso non consiste anzitutto nell’accendere fuochi di conflitto sociale, poiché essi già esistono come risultato di una resistenza diffusa che scaturisce da condizioni oggettive. Il compito nostro è quello di risvegliare le coscienze sopite, di chiamare a raccolta le migliori intelligenze, di raggruppare e dunque di far scendere in campo centinaia e migliaia di cittadini che di fronte alla miseria sociale e politica generale, sono decisi a prendersi ognuno la propria responsabilità, fino a quella di battersi per rovesciare lo stato di cose esistenti.

Fronte ampio e governo popolare


Parallelamente alla fondazione di una nuova forza politica, il MPL, noi ci battiamo per unire tutte le forze che avvertono la minaccia incombente e che non solo si limitano ad opporre dei no, ma che vogliono sfidare le classi dominanti avanzando soluzioni efficaci e realistiche per portare il paese fuori dal marasma. Si tratta quindi di attivare un Fronte ampio che sappia candidarsi alla guida del paese per dar vita a un governo popolare di emergenza. Tanti sono i problemi, numerose le trasformazioni sociali necessarie, ma esse fanno capo a poche misure sostanziali.


- Abbandonare l’euro per riprenderci la sovranità monetaria.
L’euro ci fu presentato come una panacea per curare i mali strutturali dell’economia italiana (tra cui l’alto debito pubblico e una competitività fondata solo sui bassi salari) e risolvere gli squilibri tra gli Stati comunitari. A dieci anni di distanza non solo il debito pubblico è aumentato, ma l’economia è in stagnazione e la competitività è diminuita. Le politiche antipopolari di austerità perseguite da tutti i governi, presentate come necessarie per restare nell’Unione e difendere l’euro si sono dimostrate del tutto inutili, se non nel fare dell’Italia un paese più povero. L’euro e i principi di Maastricht hanno accresciuto gli squilibri in seno all’Unione europea, determinando uno spostamento di risorse dall’Italia verso i paesi più “virtuosi”, la Germania anzitutto, che non hai mai messo i suoi propri interessi nazionali dietro a quelli comunitari.
La ricchezza di un paese non dipende certo dalla moneta, ma dal lavoro che la crea, e poi da come essa viene distribuita. La moneta è tuttavia una leva per agire sul ciclo economico, un mezzo per decidere come viene distribuita la ricchezza sociale. Un paese che non disponga della sovranità monetaria, tanto più se alle prese con la speculazione finanziaria globalizzata, è come una città assediata priva di mura di cinta. Occorre ritornare alla lira, ponendo la Banca d’Italia sotto stretto controllo pubblico, affinché l’emissione di moneta sia funzionale all’economia e al benessere collettivo e non alle speculazioni dei biscazzieri dell’alta finanza.


-Nazionalizzare il sistema bancario e i gruppi industriali strategici.
Agli inizi degli anni ’80 venne permesso alle banche italiane, in ossequio ai dettami neoliberisti, di diventare banche d’affari, di utilizzare i risparmi dei cittadini per investirli e scommetterli nella bisca del capitalismo-casinò. Prese avvio una politica di privatizzazione delle banche e di concentrazione, che ha coinvolto anche gli enti assicurativi, gettatisi voraci sul malloppo dei fondi pensione. Banche e assicurazioni sono oggi le casseforti che custodiscono gran parte della ricchezza nazionale. Esse debbono essere nazionalizzate, affinché questa ricchezza, invece di partecipare al gioco d’azzardo finanziario, sia utilizzata per il bene del paese. Debbono poi ritornare in mano pubblica le aziende di rilevanza strategica, sottraendole agli artigli dei mercati finanziari e borsistici come dalla logica perversa del profitto d’impresa.
Contestualmente andrà rafforzata la gestione pubblica dei beni comuni come l’ambiente, l’acqua, l’energia, l’istruzione, la salute.


- Per una moratoria sul debito pubblico e la cancellazione di quello estero
Il debito pubblico accumulato dallo Stato è usato da un decennio come la Spada di Damocle per tagliare le spese sociali, giustificare le misure d’austerità ed una tra le più alte imposizioni fiscali del mondo. Esso è diventato fattore distruttivo da quando, agli inizi degli anni ’90, i governi hanno immesso i titoli di debito nella giostra delle borse e dei mercati finanziari internazionali. Da allora i creditori divennero i fondi speculativi, le grandi banche d’affari estere e italiane. Il debito pubblico, gravato di interessi crescenti, non è niente altro che un drenaggio di risorse dall’Italia verso la finanza speculativa, banche italiane comprese.
Per questo riteniamo ingiusto, antipopolare e suicida per il futuro del paese fare del pagamento del debito un dogma. La rinascita dell’Italia richiede la protezione dell’economia nazionale dal saccheggio dei predoni della finanza imperialista. Ciò implica impedire ogni fuga di capitali verso l’estero, incluso il pagamento del debito estero perché esso non è altro che una forma di espatrio legalizzato, di rapina autoinflitta. Non rimborsare gli strozzini della finanza globale non è una opzione, ma una necessità.
Non solo è ingiusto, ma in base al rapporto costi/benefici è economicamente irrazionale tentare di rispettare la clausola del Trattato di Maastricht che impone un rapporto debito/Pil non superiore al 60%. Ciò implica ripetere per ben 25 anni, e non è detto che sia sufficiente a causa della depressione economica, manovre d’austerità da 30 miliardi all’anno.
Sbaglia dunque chi si fa spaventare dagli strozzini che evocano lo spauracchio del “default”. Il male minore per l’Italia è un default programmato e pianificato, una moratoria e dunque una rinegoziazione del debito, che i creditori dovranno accettare, pena il ripudio vero e proprio. Per quanto riguarda il debito con le banche e le assicurazioni italiane, dal momento che saranno nazionalizzate, esso sarà de facto cancellato. Il solo debito pubblico che lo Stato rimborserà, a tassi e scadenze compatibili con le esigenze della rinascita economica e sociale del paese, sarà quello posseduto dalle famiglie italiane.


- Debellare la disoccupazione con un piano nazionale per il lavoro
La natura e il lavoro sono le sole fonti da cui sgorgano il benessere e la ricchezza sociale. Proteggere l’ambiente e assicurare a tutti i cittadini un lavoro sono le due priorità di un governo popolare. Ciò implica che esso, liberatosi dal feticcio della cosiddetta “crescita economica” misurata in Pil, dovrà sottomettere l’economia, pubblica e privata, alla politica, ovvero ad una visione coerente della società, in cui al centro ci siano l’uomo e la sua qualità della vita. Non si vive per lavorare ma si deve lavorare per vivere. Si produrrà il giusto per consumare il necessario. Solo così si potrà uscire dalla trappola produzione-consumo per affermare un nuovo paradigma produzione-benessere.


- Uscire dalla NATO e dall’Unione europea, scegliere la neutralità.
Attraverso la NATO l’Italia è incatenata ad un patto strategico che oltre a farla vassalla dell’Impero americano, la obbliga a seguire una politica estera aggressiva, neocolonialista e guerrafondaia. Uscire dalla NATO e chiudere le basi e i centri strategici militari americani in Italia è necessario per riacquisire la piena sovranità nazionale, scegliere una posizione di neutralità attiva e una politica di pace. L’uscita dall’Unione europea, inevitabile se si ripudiano, come occorre fare, i Trattati di Maastricht e di Lisbona, non vuol dire chiudere l’Italia in un guscio autarchico, al contrario, vuol dire puntare a diversi orizzonti geopolitici, aprendosi alla cooperazione più stretta con l’area Mediterranea, stringendo rapporti di collaborazione con l’America latina, l’Africa e l’Asia.


- Rafforzare la Costituzione repubblicana per un’effettiva sovranità popolare
La cosiddetta “Seconda repubblica” si è fatta avanti calpestando i dettami della carta costituzionale. L’abolizione delle legge elettorale proporzionale, il bipolarismo coatto, i poteri crescenti dell’Esecutivo, la trasformazione del Parlamento in un parlatoio per replicanti spesso corrotti, erano misure necessarie per assecondare i torbidi affari di banchieri e pescecani del grande capitale, nonché per sottomettere il paese e la politica ai diktat e agli interessi della finanza globale. La Costituzione va difesa contro i suoi rottamatori, se necessario dando vita ad una Assemblea costituente incaricata di rafforzarne i dispositivi democratici a tutela della piena ed effettiva sovranità popolare.

Sovranità nazionale e socialismo


Non vediamo oggi, in seno alle classi dominanti italiane componenti disposte a battersi sul serio per uscire dall’Unione europea, sganciare l’Italia dalla morsa della globalizzazione liberista per ricollocarla dentro nuovi scenari geopolitici. Ove domani si manifestassero il popolo lavoratore non dovrebbe esitare a costituire un’alleanza comune.
Compito pressante dell’oggi è costruire un fronte ampio del popolo lavoratore, un'alleanza solida tra il proletariato e parti consistenti delle classi medie. Dentro questa alleanza il proletariato non dovrà stare a rimorchio ma agire da forza motrice. E per questo serve un soggetto politico rivoluzionario, che aiuti la classe degli sfruttati a diventare classe dirigente nazionale. Solo un fronte popolare con al centro i lavoratori può avere la forza e la determinazione per un cambio di sistema capace di portare l’Italia fuori dal marasma. E' da questo contesto che discendono i compiti, le funzioni e il profilo del Movimento Popolare di Liberazione.
Ma essi dipendono anche dalla nostre finalità, dai nostri scopi ultimi.
Vi è ancora chi considera l’uscita dall’Unione europea e l’abbandono dell’euro come idee velleitarie ed estremistiche. E’ vero esattamente il contrario. Il disfacimento dell’Unione europea e la fine dell’euro sono processi oggettivi, oramai irreversibili. Velleitari sono coloro che si illudono di fermare queste tendenze facendo gli esorcismi, mettendo toppe che sono peggiori del buco. Estremisti psicotici sono gli oligarchi di Francoforte e Bruxelles, disposti a dissanguare intere nazioni pur di tenere in vita una moneta moribonda e ingrassare la rendita parassitaria. Il problema non è se abbandonare l’euro o meno, il problema è chi guiderà questo processo. Se al potere resteranno i servi politici del capitalismo finanziario ne faranno pagare le salate conseguenze alle masse lavoratrici. Se sarà un governo popolare a pilotare l’uscita, i sacrifici, certo inevitabili, saranno anzitutto addossati ai parassiti, e i frutti di questi sacrifici saranno utilizzati per il bene comune della maggioranza e la rinascita del paese.
E’ in questo quadro che il MPL considera la riconquista della sovranità nazionale una stella polare. Senza sovranità nazionale non c’è quella popolare, non c’è democrazia. Solo riconquistando questa sovranità politica, economica e monetaria il paese può risorgere su nuove basi, sgangiandosi dalla soffocante morsa dei mercati finanziari internazionali per proiettarsi verso altri orizzonti regionali e mondiali. Se Un’Europa dei popoli vedrà un giorno luce essa nascerà sulle macerie di quella di Maastricht.
Siccome è sotto gli occhi di tutti che non siamo alle prese con una recessione ciclica ma con una crisi storico-sistemica di un modello di produzione e di vita, dovere di chi guarda al futuro è immaginare un’alternativa di società e agire per realizzarla. Sarebbe assurdo fare grandi sacrifici per poi ritrovarci alle prese con una società esposta a crisi cicliche devastanti, incapace di assicurare un reale benessere collettivo, generatrice di diseguaglianze e squilibri, lacerata dai conflitti sociali.


Il MPL scende in campo per contrastare questa crisi e soprattutto per uscire dal sistema neoliberista globalizzato che ha fatto del capitalismo un dogma. Per liberare il paese dalla corruzione, dalle ingiustizie, dalla dittatura delle banche e della finanza internazionale. Per liberarci dalla dittatura del mercato. Scende in campo per non accettare supinamente la distruzione sistematica della natura, della nostra vita e del futuro delle nuove generazioni; per affermare che l'alternativa è una società socialista che metta l'economia al servizio della collettività e della difesa di tutti i beni comuni.
Sappiamo che questo approdo è ancora lontano, che occorrono tempi lunghi affinché lavoratori e cittadini possano riuscire a prendere in mano i loro destini. Solo allora la società sarà matura per fare a meno del mercato, per togliere ai mezzi di produzione e di scambio la loro forma capitalistica e ai beni la loro forma di merce.
Fino ad allora coesisteranno forme diverse di proprietà, quelle capitalistiche e quelle statali, quelle pubbliche e quelle autogestite. Fermo restando che il governo popolare dovrà aiutare il nuovo a crescere e il vecchio a perire.
L’alternativa di oggi è lottare o soccombere. Quella di domani sarà la liberazione o il ritorno a forme più brutali di oppressione

lunedì 12 dicembre 2011

Russia, non deluderci!



di Costanzo Preve



Tutti si sono accorti che da qualche mese è in corso una campagna di stampa, orchestrata al più alto livello del Dipartimento di Stato della strega Clinton contro la ripresentazione di Putin come presidente della Russia post-sovietica. Putin non è certo (purtroppo) un successore di Lenin, ma almeno ha parzialmente arrestato il potere assoluto degli oligarchi permesso dall'ubriacone Eltsin ed avallato mediaticamente dal beota Gorbaciov, il pubblicitario delle borse Vuitton e della pizza Hut.


La fine dell'Urss è stata la maggiore catastrofe geopolitica del Novecento, perché ha dato il monopolio all'impero messianico americano, esportatore nel mondo di una forma di capitalismo assoluto, di cui noi italiani possiamo gustare l'antipasto con la giunta Monti del dicembre 2011. Il modello socialista inaugurato da Stalin, e mai veramente modificato dopo, si è mostrato bloccato, ed è diventato impotente di fronte alla riuscita controrivoluzione neoliberale dei ceti medi sovietici. Questo però riguarda esclusivamente il popolo russo. A casa sua, ognuno ha diritto governarsi come vuole. Se non sono stati capaci di riformare radicalmente il loro sistema, ma lo hanno distrutto gettando via il bambino del socialismo con l'acqua sporca del dispotismo, affari loro.


La Russia ha saputo dare molto alla civiltà mondiale. Cito soltanto tre dati a tutti noti: la grande spiritualità ortodossa, immensamente superiore alle stupidaggini positiviste del materialismo dialettico; la grande letteratura russa dell'Ottocento, punto alto della cultura mondiale; ed infine, la rivoluzione russa del 1917, risposta legittima al bagno di sangue ed al macello imperialistico della prima guerra mondiale.


I russi si governino pure come vogliono. Ma dal momento che, per fortuna, dispongono ancora di autonomia strategica e di armi di dissuasione di massa, essi hanno un compito storico, che è quello di appoggiare quanto possibile chi resiste all'impero americano.


La rabbia diplomatica e mediatica del circo occidentale contro Putin ci informa indirettamente che Putin è buono. Se non fosse buono, infatti, è evidente che non lo attaccherebbero con tanta ferocia, e soprattutto non moltiplicherebbero le basi militari in Romania, Ungheria, eccetera, fino a sperare di poter incorporare nella Nato persino l'Ucraina. È già stata una vergogna, che nessuno zar avrebbe mai permesso, la secessione di Ucraina e Biolerussia della Russia, laddove è invece un atto postumo di giustizia storica che i baltici abbiano potuto secedere, dal momento che li avevano mangiati contro la loro volontà nel 1945. Tuttavia, è stato una follia non riuscire a pretendere da loro una "finlandizzazione", lasciandoli incorporare dagli assassini della Nato.


Nel 2011 la Russia ci ha deluso. Molti di noi hanno sperato che sarebbe riuscita ad impedire l'aggressione alla Libia, e poi il bombardamento di Sirte, nuova Guernica. Ora noi speriamo che non abbandoni la Siria e l’Iran, che sono nel mirino della strega Clinton e della strategia aggressiva degli Usa, della Nato ed dell’Europa asservita.


Le ultime elezioni russe, per fortuna, hanno visto un'affermazione di Putin. Considero positiva l'affermazione dei comunisti e degli stessi nazionalisti. Tutto, meno i fantocci neoliberali, i bloggers, i Kasparov, gli eredi della Politkovskaia. Costoro potrebbero anche essere in buona fede (ma onestamente non riesco a crederlo), ma di fatto sono soltanto i portavoce della strategia Usa di dominio imperiale su tutto il pianeta. Spero che comunisti e nazionalisti lo capiscano, e non facciano mai, in nessun caso, fronte comune con i liberali.


Abbiamo bisogno di una Russia geopoliticamente e militarmente forte ed indipendente. Ne abbiamo bisogno per noi, soprattutto per noi, perché il delirio dell'allargamento del capitalismo illimitato fuori controllo ha bisogno di un freno, di un katechon (termine greco e paolino che significa appunto questo). Putin non può pretendere di ottenere questo risultato con raduni di motociclisti, incontri di boxe e precettazioni di adolescenti osannanti. Putin deve venire incontro alle richieste di maggiore eguaglianza sociale di cui i comunisti sono pur sempre portatori. I comunisti russi sono stati distrutti dalla putrefazione antropologica dei loro stessi dirigenti (ricordo ancora Eltsin e Gorbaciov). L'hanno pagata molto cara, e potremmo dire hegelianamente che se lo sono meritato. Ma ormai i venti anni di purgatorio mi sembrano sufficienti. Abbiamo bisogno della Russia e della sua presenza in Europa, Africa ed Asia. Sono rimasti assenti troppo a lungo. La strega Clinton non può continuare a minacciare ed a intervenire nel mondo intero.

giovedì 1 dicembre 2011

NO AI SACRIFICI DI MONTI
 


Note sulla crisi dell’anti-berlusconismo



di Costanzo Preve



Ho messo recentemente in rete due brevi saggi.
Berlusconeide, http://www.comunismoecomunita.org/?p=2908, e Il tempo della vaselina, http://comunismocomunitario.blogspot.com/2011/11/il-tempo-della-vaselina-fine-della.html. 

L’oggetto era lo stesso, e cioè la riflessione sulla nuova situazione politica italiana caratterizzata dalla fine , o forse soltanto del declino, del berlusconismo. A proposito del secondo saggio, mi è stato fatto notare che davo troppo credito al nuovo gruppo tecnocratico di Monti, ritenuto capace non di lacrime e sangue e di macelleria sociale, ma solo di “vaselina”. E’ un equivoco. Il mio giudizio su questo gruppo tecnocratico è terribile, ma per arrivarci bisogna prima chiarire alcuni punti preliminari.






1. La ragione del No ai sacrifici di Monti deve essere ben chiarita, e non basta dire che i sacrifici li faranno sempre e soltanto i “soliti noti”: è possibile, ma non sicuro. L’ICI, la possibile patrimoniale, il peggioramento del welfare, eccetera, non la pagheranno soltanto i “soliti noti”. La pagheranno strati ben più ampi. Per questo considero insufficiente la solita retorica pauperistica e miserabilistica. Bisogna andare molto più a fondo nella questione.


La gente è sempre disposta a fare sacrifici, se pensa che ne valga la pena e possa servire a qualcosa, soprattutto per i propri figli e nipoti. Quindi, non ha senso alzare la solita retorica sui “sacrifici”. Il punto non sta qui. Il punto sta nel fatto che questi sacrifici servono esclusivamente a garantire la riproduzione allargata così com’è di questo schifoso capitalismo finanziario globalizzato, e sono quindi in prospettiva sacrifici contro di noi e contro i nostri figli. Se questi sacrifici fossero inseriti non dico in una prospettiva socialista, comunista o comunitaria, ma anche solo in una prospettiva di correzione qualitativa di questo capitalismo, allora diciamoci la verità: varrebbe la pena farli!


Ma non è così. Questi sacrifici sono inseriti in una prospettiva di radicalizzazione e di allargamento del nuovo modello liberale-anglosassone di capitalismo assoluto, totale e totalitario. Ed è questa, e solo questa, la ragione per cui il No a Monti e alla sua giunta neoliberale deve essere assoluto.






2. Purtroppo siamo lontani da questa comprensione, che pure sarebbe limpida e facilmente spiegabile. Ne siamo lontani non certamente per le “eredità del berlusconismo”, come dice unanime il concerto operaista-azionista degli intellettuali di sinistra con accesso ai foglietti politicamente corretti (Manifesto, Liberazione, eccetera), ma proprio per la ragione opposta, e cioè l’eredità mefitica dell’anti-berlusconismo.


L’anti-berlusconismo ha funzionato nell’ultimo ventennio come un fattore di oscuramento della comprensione dei rapporti sociali, in direzione di una loro moralizzazione, nel caso migliore, o di una loro estetizzazione, nel caso peggiore. Il sociologo cattolico Giuseppe De Rita ha parlato di “soggettivismo etico”, collegando intelligentemente Berlusconi al nefasto e mefitico “spirito del Sessantotto”. Più recentemente Mario Perniola (cfr. Berlusconi o il Sessantotto realizzato, Mimesis 2011) è andato più in profondità , collegando il libertarismo sessuale del vecchio satiro con la fine della moralità borghese facilitata dall’orrendo Sessantotto. De Rita e Perniola si avvicinano al punto cruciale della questione, ma lo sfiorano senza riuscire a coglierlo, perché partono in modo geocentrico dalla identificazione fra borghesia e capitalismo, tipica della cultura di “sinistra” in tutte le sue varianti. Non capiscono che si tratta di fenomeni distinti, essendo la borghesia un soggetto sociale dialettico e contradditorio, e invece il capitalismo un processo anonimo e impersonale rivolto soltanto al proprio autoaccrescimento illimitato. Su questo rivendico pienamente di aver capito da tempo il cuore della questione, ed è solo questione di tempo perché essa arrivi a quel torpido corpaccione lento di riflessi e in preda alla sindrome del “politicamente corretto” chiamato “intellettuali”.






3. I foglietti sinistroidi anti-berlusconiani (Manifesto, Liberazione, eccetera) non hanno potuto neppure avvicinarsi lontanamente a questa comprensione, perché hanno delegato la comprensione al gruppo intellettuale più retrivo ed incapace della cultura italiana, quello degli operaisti-azionisti torinesi (Revelli, De Luna, D’Orsi, eccetera). Vediamo il più goffo e banale dei tre, lo storico di regime De Luna (cfr. Liberazione del 13 novembre 2011): “Come fu per il fascismo, il berlusconismo non è stato una parentesi, ma una rivelazione che ha messo in luce i guasti profondi della nostra società … la dimensione valoriale degli italiani è stata completamente risucchiata dentro gli angusti spazi degli interessi privati”. Revelli e D’Orsi si sono subito sintonizzati su questa lunghezza d’onda: esultiamo, perché il Puzzone Numero Due (il puzzone numero uno era Mussolini) è caduto!!


Chi ha avuto l ventura di vivere a Torino conosce bene questo modello culturale, di lontana origine gobettiana mediata dalla tradizione di Bobbio, pessimista antropologico (Hobbes) e moralista individuale (Kant), ostile sopra ogni altra cosa al concetto hegelo-marxiano di comunità. Gli italiani sono un popolo di scimmie, risultato di un risorgimento senza eroi. E’ un modellino pronto all’uso tuttofare: coniato per Mussolini, è stato in seguito applicato prima alla DC, poi a Craxi, infine a Berlusconi.


Faccio questi rilievi perché ogni corrente politica ha sempre e solo gli intellettuali “organici” che si merita, chi conosce Sorel e Gramsci potrà capire meglio. Le due baracchette parassitarie di Diliberto e Ferrero, in circa vent’anni dal 1991, non hanno saputo, voluto e potuto dotarsi di gruppi intellettuali capaci di interpretare le nuove contraddizioni sociali apertesi dopo la fine della funzione geopolitica del sistema di stati del socialismo reale (la cui funzione, in Italia, è stata colta solo dalla rivista “Eurasia”, che paradossalmente l’ha colta proprio perché era sempre stata estranea alle prospettive socialiste e comuniste). Il monopolio interpretativo riservato alla patetica baracchetta azionista-operaista (Revelli-De Luna-D’Orsi) ne è stata una conseguenza.






4. Voltare le spalle alla baracchetta operaista-azionista è quindi un atto preliminare di igiene mentale. Questo implica, in linguaggio scientifico, il “tornare ai fondamentali”. E i fondamentali, secondo il vecchio metodo inaugurato da Marx e poi abbandonato dagli straccioni positivisti che ne hanno usurpato il nome per un secolo, è sempre e solo la riproduzione allargata potenzialmente illimitata del rapporto di capitale. Se uno parte da questi “fondamentali” si accorgerà che i sacrifici della giunta Monti sono rivolti a questa riproduzione, laddove i conflitti d’interesse, le squinzie di Arcore, i soggettivismi etici, il popolo delle scimmie, la corte dei miracoli del cavaliere, eccetera, sono sempre e solo stati particolari pittoreschi da commedia dell’arte.


Le mie sono, ovviamente, prediche inutili. La corruzione degli intellettuali italiani di “sinistra” è infatti profonda e incurabile. Speriamo in una generazione nuova, meno rincoglionita dall’abbietta eredità sessantottina.






Torino, 25 novembre 2011

venerdì 25 novembre 2011

IL TEMPO DELLA VASELINA 



Fine della Seconda Repubblica? Certamente

Inizio della Terza Repubblica? Forse

di Costanzo Preve

1. Scrivo queste brevi note il 17 novembre 2011 dopo aver seguito con attenzione le dichiarazioni programmatiche del nuovo governo Monti al Senato. Ho già messo in rete due pezzi recenti. Il primo, intitolato Berlusconeide, scritto per gli amici greci e francesi che mi onorano della loro stima, cerca di fare un bilancio antropologico-culturale di quella vera e propria oscenità storica che è stato l’antiberlusconismo, la cui funzione storica di fondo è stata quella di far dimenticare la dipendenza interna (FMI e BCE) ed estera (USA e NATO) a quel conglomerato sociologico di ingenui che in Italia ha preso il nome di “sinistra”. Il secondo, immensamente più importante del primo, perché strutturale e non soltanto congiunturale, ha cercato di mettere a fuoco l’intrecciarsi di due dialettiche, la dialettica vincente della illimitatezza capitalistica e la dialettica perdente della corruzione del movimento storico comunista (nulla a che vedere con il comunismo “ideale eterno”, come avrebbe detto Vico, di cui continuo ad essere un testardo sostenitore filosofico).


Queste note, certo meno importanti delle precedenti, concernono purtroppo solo la chiacchiera politica. Ma dal momento che c’è chi mi ha detto che era contento che mi fossi rimesso a scrivere note politiche (per la verità, esclusivamente grazie a due amici che mi mettono in rete, visto che nessuna rivista “politicamente corretta” e lottizzata fra Destri e Sinistri saprebbe che farsene delle mie riflessioni, che resterebbero nel cassetto) può darsi che possano interessare a qualcuno.


2. Formalmente, la Seconda Repubblica non c’è mai stata, e quindi non ci può neppure essere la Terza. Ma sappiamo che la realtà storica non sa che farsene delle formalità dei costituzionalisti, che si inventano loro quando e dove la Costituzione viene violata e quando no (per questi signori in toga il puttaneggiare di Berlusconi è anticostituzionale, mentre la guerra contro la Libia non lo è). Utilizziamo allora un linguaggio nostro, perché se aspettiamo gli storici contemporaneisti corrotti della continua emergenza resistenziale antifascista in palese assenza di ogni fascismo, possiamo aspettare le Calende Greche.


La Prima Repubblica finisce con Mani Pulite, che fu un colpo di stato giudiziario extraparlamentare operato congiuntamente da fantocci giudiziari di destra (Di Pietro), di centro (Borrelli) e di sinistra (D’Ambrosio, quello del “malore attivo” di Pinelli), e avallato dal circo mediatico unanime, di centro, sinistra (Santoro) e destra (Montanelli).


Si trattava di operare un salto storico, e non solo politico. Chiudere con la Prima Repubblica, consociativa, corrotta, ma anche statalistica e keynesiana, dotata di un minimo di politica estera indipendente (Craxi, Andreotti). Oligarchie internazionali, Panfilo Britannia e banchieri apolidi (Ciampi) fecero il resto. I “comunisti”, che io personalmente chiamo soltanto “picisti” per non sporcare il nobile nome di comunismo, ci saltarono sopra come su di una “gioiosa macchina da guerra” (Occhetto), ansiosi di riciclarsi da venditori e piazzisti della via italiana al socialismo a partityo degli “onesti” rappresentanti delle oligarchie capitalistiche e della NATO (D’Alema nel Kosovo 1999, Napolitano nella Libia 2011). Ho insegnato storia per 35 anni, ma esempi di opportunismo, trasformismo e abiezione come questo non riesco a ricordare.


Berlusconi aveva i soldi per poter coprire il vuoto creato nel potenziale elettorato di centrodestra (ma anche della sinistra craxiana, da cui vengono Frattini e Tremonti) dalla liquidazione per via giudiziaria del personale politico DC, PSI, PSDI, PRI, PLI, la cui base elettorale, ci piaccia o no, era però la maggioranza del paese. Per poter nascondere questo fatto la cultura mediatica e universitaria di “sinistra”, sicura di egemonizzare la loro base di creduloni, si inventò un mito antropologico di origine gobettiano-azionista, quella di Berlusconi come rappresentante della furbizia degli italiani, popolo che la storia aveva privato della riforma protestante e dell’empirismo anglosassone.


E’ la storia della Seconda Repubblica, quella in cui gli italiani sono stati costretti a dividersi in due soli partiti: il partito dei B e il partito degli anti-B. Vorrei ripetere bene questo punto, perché temo che sembri troppo paradossale. In superficie c’erano molti partiti, compresi Pannella, Scilipoti, Cossutta, Bertinotti, Veltroni, eccetera. In profondità c’erano sempre e solo due partiti, i B e gli anti-B. Chi scrive si è precocemente chiamato fuori da questa mascherata fini da metà degli anni Novanta, pagando un modico prezzo in termini di diffamazione (rosso-bruno e altre sciocchezze). Ho imparato molto, soprattutto che molti che ritenevo nemici non lo erano, e molti che ritenevo amici non lo erano. Ma non personalizziamo troppo.


3. Berlusconi è stato indebolito certamente dalle campagne di stampa e dalla sua vergognosa e ingiustificabile vita privata di vecchio satiro incontinente, ma è stato rovesciato e commissionato non certo dalle “dieci domande” della banda De Benedetti-Scalfari, ma dai cosiddetti “mercati”, spread, eccetera. Egli era tollerato fino a che si pensava che potesse attuare quella normalizzazione anglosassone del capitalismo italiano che tutti gli ingenui di origine azionista invocano da un secolo come l’unico modo di guarire un “popolo delle scimmie” originatosi da un “risorgimento senza eroi”. E Berlusconi lo avrebbe anche fatto volentieri (ecco perché elogia Monti, e secondo me è sincero), ma non poteva farlo, per il fatto che doveva pur sempre essere eletto, e nessun tacchino vota per il cenone di Natale, che comincia mettendolo in pentola.


Tutto qui l’enigma Berlusconi? Ma le cose non sono più complesse (la complessità è l’idolo dei confusionari e dei professori universitari)? Ma neppure per sogno, cari amici! Le cose sono semplicissime, e stanno veramente così.


4. Il governo Monti potrà fare ciò che non avrebbero potuto fare né Berlusconi, né Bersani, e tantomeno i fantocci urlanti tipo Di Pietro e Vendola. Ma non credo che saranno “lacrime e sangue” o “macelleria sociale”. Su questo mi spiace, ma non sono d’accordo con i catastrofisti, gli estremisti ed altri apocalittici. Trattandosi di tecnici (pensiamo a Passera, a Profumo, alla torinesissima Fornero, eccetera), sono certo che sapranno contemperare il loro progetto con una tempistica adeguata. E allora chiediamoci: qual è il loro progetto, per cui sono stati insediati dalle oligarchie post-borghesi che dominano il pianeta, con il loro seguito mercenario di ex-comunisti cinici e nichilisti? Macelleria sociale? No. Lacrime e sangue? No. E che cosa allora? Fino a che non si capirà cosa vogliono è del tutto inutile blaterare. Il mazzo è truccato, le carte sono segnate, e quindi accettare di mettersi a giocare è da incoscienti.


5. Il programma, in nome dell’Europa, è semplicemente la fine della eccezione capitalistica europea e la sua completa omogeneizzazione al modello anglosassone di capitalismo. Il capitalismo europeo, a causa di una doppia spinta dall’alto (Bismarck, Giolitti, De Gaulle, eccetera) e dal basso (movimento operaio e socialista, eccetera) non aveva mai potuto omologarsi in più di un secolo al modello americano del dominio assoluto dell’industria e della finanza, ma era stato costretto ad accettare quelli che le canaglie liberali e liberiste avevano chiamato “lacci e lacciuoli”, e di cui avevano auspicato per un secolo la fine.


Tutta la babbioneria dei tifosi identitari novecenteschi, a partire dal sottoscritto, era stata ipnotizzata dallo scontro tra fascismo e comunismo (quello storico novecentesco, non “ideale eterno” come il mio, che sono un idealista e un umanista esplicito, e mi spiace di far venire un colpo apoplettico a tutti i residui althusseriani e dellavolpiani ancora in servizio permanente effettivo). Ma fascismo e comunismo si sono rivelati due incidenti di percorso nel cammino dialettico del capitalismo mondiale. Altrove ho cercato di spiegare le cause di queste due pittoresche sconfitte, e qui non mi ripeto. Mi limito a ricordare un fatto.


Superati questi due incidenti di percorso, il ceto intellettuale ha certamente intrattenuto per mezzo secolo lo scontro simbolico e virtuale fra anticomunismo in assenza di comunismo e antifascismo in assenza di fascismo trovando chi era disposto a crederci, compreso lo scrivente fra il 1960 e il 1990. Ma oggi cominciamo finalmente a capire, con la torpida lentezza di chi si è fatto abbindolare per ideologismo identitario troppo a lungo, che la posta in gioco era un’altra: la fine della eccezione capitalistica europea e l’omogeneizzazione totale del capitalismo europeo all’unico modello americano.


6. Unico modello? Ma neppure per sogno! C’è anche un altro modello strategico di capitalismo, quello cinese. Ma quello cinese non è esportabile in Europa (nel terzo mondo invece forse sì), perché proviene da una storia particolare, l’innesto del maoismo come prima accumulazione del rapporto di capitale su di un substrato precedente di modo di produzione asiatico. Per questo non è un caso che la Cina diventi sempre di più l’avversario strategico degli USA.


E’ sufficiente studiare la grande strategia geopolitica USA. Su questo i lettori de “La Stampa” sono avvantaggiati, perché dispongono di una “gola profonda” al Dipartimento di Stato USA, Maurizio Molinari, che ci informa quotidianamente della strategia imperiale americana. Gli USA non cessano di provocare la Cina con il Dalai Lama. Karzai, il fantoccio afghano, ha già promesso agli USA basi militari permanenti, che potranno minacciare geopoliticamente sia la Cina che la Russia, essendo insediate nel cuore eurasiatico (lo Heartland dei geopolitici, che i criminali ex-comunisti russi hanno abbandonato consegnandolo agli USA). Gli USA hanno messo una base militare permanente a Darwin in Australia, che nessuno minaccia. Gli USA cercheranno di provocare conflitti sulle isole che fanno da contenzioso geografico fra Cina, Filippine e Vietnam. In Europa, tutte le classi dirigenti europee sono atlantiche, dai baltici ai portoghesi, dagli italiani ai polacchi.


7. Si presti attenzione al “lato esteri” del governo Monti. Alla Difesa va un generale che viene dall’Afghanistan, l’ammiraglio Di Paola, che dal suo teatro afghano di guerra ha accettato con un SMS. Si tratta di un alto stratega NATO, parte di quel gruppo di assassini che ha fatto di Sirte la nuova Guernica del Mediterraneo. Agli Esteri il signor Terzi, ambasciatore a Washington ed ex-ambasciatore a Tel Aviv, uomo fedelissimo agli americani e ai sionisti.


Se ci fosse ancora una “sinistra”, questo verrebbe notato. Ma siccome non c’è più, saranno pochissimi quelli che lo noteranno. La base di fedeli subalterni anti-B se ne frega della politica estera, non la vede neanche, e la sola cosa che gli interessa è quello che gli scribi dell’oligarchia finanziaria chiamano “ricambio antropologico” (cfr. Ceccarelli su “Repubblica” del 17 novembre 2011). Non c’è più il puttaniere, non ci sono più la Gelmini, la Minetti e Scilipoti! Evviva, evviva! Mettete ad alto volume i Carmina Burana! Cantate insieme Bella ciao e l’Inno di Mameli! Viva Napolitano, difensore della Costituzione!


8. Il tempo che verrà non sarà il tempo della macelleria sociale, ma il tempo della vaselina. I “tecnici” sono troppo abili per metterla violentemente in quel posto a Cipputi, come il tizio dell’ombrello disegnato dallo sciocco PD Altan, che ha a suo tempo inventato la Pimpa, ma ha poi messo la sua matita al servizio del Circo Bersani.


Ai lavoratori, ai precari e ai pensionati l’hanno già da tempo messa in quel posto. Mancano ancora i ceti medi, da liberalizzare totalmente, secondo il modello americano. Negli USA gli avvocati ricchi sono ricchi a miliardi, e gli avvocati poveri girano per i bar intorno alle carceri in cerca di clienti. Monti penserà certamente anche a questo, in nome della meritocrazia, dei giovani e delle donne. I rinnegati ex-comunisti lo aiuteranno certamente, fingendo di avere delle “riserve” con i loro elettori fidelizzati. Ora che non c’è più Berlusconi, bisognerà trovare dei nuovi “fascisti” e dei nuovi “populisti”, ma non sarà facile perché Alfano non si presta.


9. E l’opposizione? Certamente vi sarà, ma temo che non abbia senso nutrire troppe illusioni. Il movimento degli indignati? Certo, sono mille volte meglio di quelle vere e proprie prese in giro che sono stati i movimenti pacifista e altermondialista. Almeno costoro se la prendono con le oligarchie finanziarie. Ma in esso sono ancora troppo presenti illusioni alla Beppe Grillo per poterci veramente sperare.


La CGIL? Ma non scherziamo! La Camusso è organicamente legata al gruppo dirigente Bindi-Bersani. Farà un po’ di melina, farà dichiarazioni “severe”, ma ciò che conta è il livello strategico, e questo è assicurato.


La FIOM? Ma non scherziamo! Potrà piacere al “Manifesto”, insieme ai baci gay della Benetton, ma il signor Landini è semplicemente il contraltare del signor Marchionne. Per gente così il mondo comincia e finisce con Marchionne. Ora, il conflitto Landini-Marchionne passa a lato di tutto ciò che conta in Italia.


I signori Diliberto e Ferrero? Ma non scherziamo. Essi hanno un solo problema, salvare la baracca del loro microscopico ceto politico professionale, e possono farlo solamente attaccandosi alle bretelle di Bersani.


Il signor Ferrando e i microgruppi del fondamentalismo comunista? Ma non scherziamo. Costoro vendono sempre la vecchia merce del comunismo storico novecentesco, variante trotzkista (Ferrando) o variante stalinista (Rizzo). Io sono un amante e un cultore dell’archeologia e delle lingue morte, ma solo nei musei e nelle biblioteche.


I sindacati di base? Qui andiamo per fortuna un po’ meglio, perché almeno è gente del tutto al di fuori della grottesca mascherata B e anti-B. Non a caso, sono stati gli unici, insieme agli indignati, che hanno manifestato a Roma il 17 novembre, giorno dell’insediamento dellas giunta dei commissari FMI, BCE, USA e NATO. E’ bene dargliene atto.


10. E tuttavia, il difetto dei sindacati di base sta nel manico. Essi pensano di potersi opporre alla carica di un rinoceronte riproponendo le vecchie ricette economicistiche delle piattaforme sindacali, semplicemente prese sul serio e non usate come forme di manipolazione identitaria. Ma il tempo che ci aspetta è il tempo della vaselina. La giunta della BCE deve privatizzare tutto e liberalizzare tutto, e soprattutto deve applicare il modello della americanizzazione integrale dell’Europa, che copre anche l’appoggio strategico all’impero geopolitico americano. Si ricordi il WOW (uau) della strega Clinton all’annunzio della morte di Gheddafi. Mi ricorda i passi di danza fatti da Hitler dopo la presa di Parigi ricordati da Brecht nel suo diario fotografico.


Il baraccone ideologico che noi stessi abbiamo messo al potere (Gad Lerner, ex Lotta Continua, Adriano Sofri, ex Lotta Continua, Floris e Ballarò, eccetera) è formato da esperti in vaselina e in penetrazione indolore! Altro che il cavalier Banana di Altan e il suo ombrello che la mette in quel posto a Cipputi, il brontolone mormoratore subalterno che ha plasticamente incarnato la sconfitta storica della classe sociale più incapace della storia universale dal tempo degli antichi egizi.


Il tempo della vaselina è cominciato. Quanto tempo durerà non posso saperlo. Non posso escludere fatti nuovi. Per fortuna la storia è imprevedibile, e non assomiglia per nulla a quella caricatura impostaci per mezzo secolo dagli intellettuali storicistici del progresso. Berlusconi sarà probabilmente ricattabile con le sorti in Borsa di Mediaset. Il puttaniere tiene pur sempre famiglia, e deve lasciare ai suoi figli una proprietà ancora in piedi. La marmaglia anti-B che ne ha festeggiato la partenza urlando sconci insulti adesso sarà contenta con l’arrivo del tempo della vaselina. Ma forse la Terza Repubblica ci riserverà alcune sorprese.


Termino con un auspicio gramsciano: pessimismo della ragione, ottimismo della volontà. Bergson + Sorel. Non ci credo molto, tenuto conto della stupidità gregaria e identitaria dei nostri amici. Ma forse, speriamo, i giovani saranno meno cretini.


Torino, 17 novembre 2011

domenica 20 novembre 2011

BERLUSCONEIDE 

Considerazioni storiche e politiche dopo la caduta di Berlusconi.





di Costanzo Preve



1. Una premessa. Scrivo queste considerazioni su esplicito invito di amici, francesi e greci, interessati ad avere una mia analisi strutturale, e non solo pettegola o episodica, sulla caduta di Berlusconi. Caduta certo non ancora formalizzata, ma io credo irreversibile. Ed irreversibile non certamente perchè causata da tre fattori a mio avviso poco rilevanti (ceto po­litico professionale ex-comunista ed ex-cattolico democristiano, circo mediatico asservito alle strategie oligarchiche del grande capitalismo finanziario g1obalizzato, magistratura politicizzata anti-berlusconiana). Poco rilevanti sono stati anche gli scandali, le prostitute, i sorrisini di Merkel e Sarkozy, e tutto il ciarpame sollevato da quell’autentico scandalo culturale e giornalistico chiamato “La Repubblica”, incrocio fra la componente borghese laica ex-azionista e la componente “picista”, che con tutta la mia buona volontà non intendo connotare con il glorioso anche se discusso nome di “comunista”.


Partirò quindi da un fattore tutto sommato secondario come il berlusconismo, ma arriverò presto al vero ed unico problema storico che ci sta dietro, l'adeguamento e poi la sparizione del modello europeo di capitalismo verso un unico modello anglosassone di capitalismo totale. Prego il lettore di prestare attenzione a questa tesi finale, perche tutto quanto c‘è prima è solo gli “antipasti”, le “tapas” per dirla in spagnolo.






2. Il giorno 5 novembre 2011 il Canale La Sette ha trasmesso in prima sera­ta, modificando la programmazione prevista, un film su Berlusconi intitola­to BERLUSCONI FOR EVER. Si tratta di una sintesi del come per circa vent'anni l’intera classe dirigente italiana ed i suoi intellettuali, dall’italianista Asor Rosa al comico Benigni hanno visto Berlusconi. Ecco perchè conviene partire da lì. In sintesi, evidenzierei quattro temi in ordine di importanza:


(1) Berlusconi appare come un megalomane in preda ad un compulsivo deli­rio di onnipotenza patologica, una sorta di piazzista e di venditore di tappeti levantino autoreferenziale, che crede che la propria “verità” sia anche l’unica verità. Il riferimento è al vecchio giornalista vate della borghesia italiana, Indro Montanelli, esempio di passaggio e di “riciclaggio” in tempo reale dal fascismo al regime dopo il 1945. Non a caso il suo successore, il sionista fanatico Travaglio, è diventato per un ventennio l'idolo della sinistra anti-berlusconiana.


(2) Berlusconi appare come il portatore dei difetti atavici degli italia­ni, primo dei quali sarebbe la sostituzione della furbizia all’intelligenza. Il suo “successo” (qui si ripete l’interpretazione di Piero Gobetti sulle ragioni del successo di Mussolini) appare dovuto proprio al fatto che ha incarnato la parte peggiore della tradizione antropologico-sociale italiana.


(3) Viene continuamente suggerito un fatto non provato, ma dato assolutamente per scontato dall'italiano medio di “sinistra”, il fatto che Berlusco­ni abbia fondato il suo impero economico, prima da costruttore e poi da magnate dei media, riciclando alla grande denaro di provenienza mafiosa. Ma il piazzista è ora diventato inaffidabile. Il piazzista non può per venti anni dare “bidoni”.


(4) Berlusconi appare portatore della vecchia ipocrisia cattolica italia­na. Da lato puttaniere impenitente, adultero manifesto, laido organizza­tore di festini con adolescenti ambiziose, e dall'altro cattolico fervente che faceva la comunione tutte le domeniche.


Potremo continuare ma è chiaro che un simile personaggio da commedia dell'arte è troppo ghiotto per non attirare l'attenzione di quella che è stata battezzata “opinione pubblica”, la cui completa sparizione era stata peraltro diagnosticata da Habermas quando era ancora sotto il controllo di Adorno. Tutto questo, ovviamente, è vero, non mi sogno assolutamente di negarlo. Ritengo però che sia solo la superficie, e si è detto che la “scienza” sarebbe inutile se la superficie e la profondità coincidessero. E allora indaghiamo prima la superficie e poi la profondità.


3. Partiamo prima dall’ideologia anti-berlusconiana, durata parossisticamente in Italia quasi un ventennio. Si tratta, per usare un termine del filo­sofo-economista althusseriano francese Charles Bettelheim, di una vera e propria “formazione ideologica”. Essa è a mio avviso il prodotto della fu­sione di due elementi distinti ma intercorressi:


(1) L’origine risale ai primi anni Venti, e fu proposta per la prima volta dal saggista torinese Piero Gobetti. Il popolo italiano soffrirebbe di una grave carenza morale complessiva, dovuta in primo luogo alla mancata riforma protestante (non importa se luterana o calvinista, ma meglio cal­vinista in quanto individualistica, borghese-capitalistica e soprattutto inglese ed anglofila), ed in secondo luogo al carattere ristretto ed elitario del risorgimento (il “risorgimento senza eroi”). II secondo punto a mio avviso è inesatto, e rimando ad un recente ottimo testo pubblicato in 1ingua francese (cfr. Yves Branca , Le risorgimento au coeur de l’Euro­pe), che corregge in buona parte questa visione unilaterale.


L’idea degli italiani come popolo delle scimmie e del risorgimento senza eroi ha nutrito, in particolare dopo il 1945, 1’ala “azionista” della cultura borghese italiana, ansiosa di “scaricare” il fascismo sui difetti atavici degli italiani, per poter così far dimenticare le dirette responsabilità del grande capitale italiano, che abbandonò il fascismo soltanto nell'an­no della sua sconfitta evidente (l943). Si trattava di una ala anglofila, empirista in filosofia e quindi nemica soprattutto dell’idealismo e dunque di Hegel.Questa posizione, assolutamente minoritaria nel popolo ita­liano, era però assolutamente maggioritaria nel mondo degli intellettuali. Ed a proposito degli intellettuali, categoria con la quale chi scrive non vuole avere assolutamente niente a che fare, ricordo la posizione anticipatrice espressa più di un secolo fa da Georges Sorel, che a mio avviso Bourdieu ha saputo sistematizzare bene, quando definisce gli intel­lettuali come gruppo sociale (e non come insieme eterogeneo di individua­lità diverse), come una sezione dominala della classe dominante. Lo ripeto per chi se lo fosse lasciato scappare: una sezione dominata della classe dominante, non certo i “portatori” della visione del mondo dei do­minati.


(2) La seconda componente risulta geneticamente dalla riconversione ideolo­gica del picismo italiano, che mi rifiuto di chiamare “comunismo” per le ragioni esposte in precedenza. Questo enorme rinoceronte sociologico ed antropologico aveva già gestito fra il 1956 ed il 1962 il passaggio dal modello sovietico alla cosiddetta “via italiana al socialismo”, che copriva una integrazione strutturale nei meccanismi riproduttivi del sistema ca­pitalistico italiano, e poi dal l976 al 1982, dopo la presa in giro mediatica del cosiddetto “eurocomunismo”, il passaggio dal partito della critica al capitalismo al partito degli “onesti”, contrappasso ovviamente ai “disonesti” (prima il socialista Bettino Craxi e poi ovviamente Berlusconi, in quanto suo presunto erede). Dopo il triennio 1989-1991 il bestione so­ciologico ed antropologico dovette riconvertirsi alle nuove condizioni storiche aperte dalla dissoluzione del comunismo storico novecentesco (19I7-1991) il solo ed unico comunismo “pratico” mai esistito, essendo restati tutti gli altri mere petizioni morali alternative oppure gruppi di testimonianza settaria, sia pure pieni di “buone intenzioni”. Si tratta di un'azienda che produce scarpe e che dopo un'alluvione è obbligata, per non uscire dal mercato, a produrre pinne e stivali di gomma per alluvio­nati.


Il riciclaggio di questi cialtroni fu fatto talmente bene che essi riusci­rono a portarsi dietro gran parte della loro precedente clientela fideliz­zata identitaria, nella forma del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD. In proposito, l’antiberlusconismo fu provvidenziale perché permise una rapida e performativa sostituzione alla identità precedente. Il serpentone meta­morfico fu sempre in primo piano per appoggiare attivamente tutte le strategie di guerra USA-NATO, dal Kosovo nel l999 (D'Alema) alla Libia 2011 (Napolitano).


L'unione di questi due elementi fecero sì che l’antiberlusconismo fosse veramente provvidenziale.






4. Non vorrei che sorgessero spiacevoli equivoci. Io considero Berlusco­ni, come figura umana, culturale, storica e politica un ripugnante cialtrone, ed in questo non mi distinguo affatto (purtroppo) dall'anti-berlusconiano medio. Ma insisto sul fatto che rifiuto la koinè pittoresca ed estetica del riciclaggio delle classi dominanti italiane, per cui Berlusconi, lungi dall’esserne stato il rappresentante, è stato piuttosto un “incidente di percorso”. Un incidente di percorso? Certamente. Vediamo come.






5. Per usare un lessico militare, Berlusconi fu un “incidente di percorso”, o più esattamente un “danno collaterale” di Mani Pulite, che fu nella sua fun­zione storico-politica oggettiva (e non nella sua rappresentazione ideolo­gica, che fu il teatrino della vittoria degli onesti sul cinghialone, porcone, corrottone Craxi, che la marmaglia plebea fanatizzata avrebbe voluto uc­cidere ed appendere per i piedi, come Mussolini) un colpo di stato giudiziario extra-parlamentare, il cui scopo fu quello di sostituire un modello di stato neo-liberale privatizzato al precedente modello di stato, certamente corrotto, ma anche e soprattutto assistenziale-keynesiano. In onesta sede è del tutto irrilevante se gli agenti storici che propiziarono questo passaggio ne fossero pienamente consapevoli, o pensassero di agire spinti dalla morale kantiana e dal “senso dello stato”. Ciò che conta furono i risultati politici “oggettivi”.


E' del tutto chiaro che la decapitazione dell'intera classe politica di provenienza DC, PSI, PSDI, PRI, PLI non eliminava anche automaticamente il loro bacino elettorale, che restava praticamente intatto, e che non intendeva


accettare la facile presa del governo da parte del PCI riciclato. Ci voleva però qualcuno che avesse la forza economica e l'iniziativa politica per impedire tutto questo, e fu appunto Berlusconi, indipendentemente dalle sue caratteristiche antropologiche o dalla probabile origine mafiosa del suo denaro.


Questa è la genesi del fenomeno Berlusconi. Naturalmente la cultura detta di “sinistra” non poteva accettare questa semplice realtà,ed è allora chia­ro che dovesse attivare il teatrino dei vizi atavici degli italiani, popolo delle scimmie manipolato dalla televisione del Grande Corruttore e della sua corte di puttane, attricette, intellettuali falliti oppure con il “dente avvelenato” verso il PCI (pensiamo al notevole filosofo ex-marxista Lucio Colletti).


Si apriva così il teatrino identitario del Partito B e del Partito Anti-B, che hanno soffocato per un ventennio il nostro povero paese pri­vato di sovranità politica e geopolitica.


Ma ora cominciano, caro lettore, le analisi serie, cui ti chiedo di presta­re un'attenzione particolare.


6. Non dimentichiamoci dunque del punto da cui siamo partiti: Berlusconi ha dovuto andarsene, chiudendo un intero ciclo politico che essendo stato ventennale è anche stato un ciclo storico, non certo perchè cacciato dal buon gusto snobistico degli intellettuali alla Eco-Baricco, dal popolo urlante identitario PD, da Bersani e dai cooperatori emiliani, dai giornali­sti di “Repubblica” e dalle loro “dieci domande”, dai magistrati milanesi, dal­le puttanelle ricattatrici di Ancore, dai suoi vizi di vecchio satiro solo nella vecchiaia incombente, eccetera; Berlusconi è stato cacciato dalla grande finanzia internazionale, e da nient'altro, perchè non ha saputo, potuto o voluto sincronizzare l'intera Italia (anzi, 1’azienda-Italia) al ritmo della nuova forma egemonica del capitalismo imperialistico neoliberale e globalizzato. Non facciamoci scappare questa dato storico, che implica un radicale riorientamento gestaltico rispetto alle fole ed alle panzane con cui ci ha rintronato per un ventennio il coro politico, mediatico ed intellettuale, prevalentemente di “sinistra”, ma non solo. Cerchiamo allora di arrivare a questo riorientamento gestaltico mediante alcuni passaggi, non troppo nume­rosi per non confondere le menti intorpidite dallo spettacolo di manipola­zione dell'ultimo ventennio. Ecco i passeggi principali: (l) La fine del comunismo storico novecentesco veramente esistito (19I7-1991), che non aveva assolutamente nulla a che fare con le ipotesi filosofiche e scientifiche ottocentesche di Marx e con l’originario progetto nove­centesco di Lenin, è stata una catastrofe storica e geopolitica terribile, incondizionatamente negativa, una vera tragedia, accolta con gridolini di entusiasmo dalla emulsione culturale più stupida dell'intera galassia, la cosiddetta “sinistra”. Questa fine ha propiziato, anche se non direttamente causato (1e cause profonde erano già interne alla dinamica illimitata di riproduzione nel modo di produzione capitalistico) il successo evolutivo darwiniano del modello anglosassone-americano di capitalismo sul precedente modello europeo. (2) Fino a qualche tempo fa si poteva dire grosso modo che c'erano tre di­versi tipi di capitalismo; il capitalismo anglosassone americano, interamen­te privatizzato; il capitalismo europeo, frutto di un compromesso detto a volte impropriamente keynesiano-fordista , che veniva sia dall'alto (Bismarck, De Gaulle, eccetera), sia dal basso (laburismo, sindacalismo, movimento operaio organizzato); il capitalismo cinese, derivato da una storia particolare, che potremmo riassumere in due punti, eredità del modo di produzione asiatica (e quindi non occidentale, prima schiavistico antico e poi feudale-signorile) e di una accumulazione primitiva collettiva del capitale di tipo maoista, con precedenti nella storia cinese (Wang Mang, rivolte contadine, riformismo Ming, Taiping, eccetera). (3) Stiamo assistendo all'intera assimilazione del modello europeo, e cioè alla sua fine, nell'unico modello anglosassone-USA, frutto di un tradi­mento storico delle classi dirigenti europee, americanizzate linguisticamente e culturalmente. Questo non avviene attraverso la vecchia ed obsoleta dicotomia Destra/ S inistra, difesa per interesse dal ceto politico pro­fessionale e per stupidità dal ceto intellettuale identitario e tifoso, ma attraverso la vittoria del partito degli economisti (PE) sul partito del po­litici (PP). (4) Di conseguenza, e per finire, Berlusconi non ha potuto, saputo e voluto effettuare questo passaggio, nonostante la sua natura di pescecane capita­lista liberale lo spingesse soggettivamente a propiziarla, per il sempli­ce fatto che era pur sempre legittimato elettoralmente ed una legittima­zione elettorale non può consentirlo, per il fatto che i tacchini non pos­sono votare il loro assenso al cenone di Natale, che prevede la loro messa in pentola. Il CHE FARE? -e ci arriverò brevemente alla fine- non può quindi essere pen­sato nelle forme della vecchia dicotomia Destra/ Sinistra, sempre più protesi manipolatoria di adattamento di masse atomizzate e babbionizzate dal circo politico, dal circo mediatico e dal circo intellettuale tradizionale. Vediamo le cose con ordine.






7. La prima operazione teorica da fare è un riorientamento gestaltico globa­le rispetto al bilancio storico-politico del socialismo reale, che preferisco chiamare “comunismo storico novecentesco” (CSN), per distinguerlo dal comuni­smo utopico-scientifico (l’ossimoro è intenzionale) di Marx, assolutamente inapplicabile perchè basato su previsioni storiche inevitabilmente non cor­rette (in sintesi: incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive; capacità rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria; entrambe le ipotesi totalmente falsificate dalla storia rea­le).


La “sinistra”, questa emulsione culturale intellettuale confusionaria, che Georges Sorel fu il primo a diagnosticare precocemente, ha in proposito sviluppato per quasi un secolo il teatrino della contrapposizione: in URSS c’è il socialismo oppure in URSS non c'è il socialismo? Risparmio al letto­re tutti gli argomenti pro e contro (staliniani, trotzkisti, neolinerali, bordighisti, eccetera), che richiederebbero mille pagine per la loro sempli­ce elencazione, e di cui sono uno specialista. Ma il problema URSS (e paesi fantoccio divorati alla fine della seconda guerra mondiale) è molto più semplice, perchè è storico e geopolitico, e lo formulerò sommariamente così: indipendentemente dal suo essere un esperimento artificiale di eguagliamento sociale livellatore sotto cupola geodesica protetta (protetta da un indispensabile dispotismo partitico operaio, in quanto senza coercizione dispotica la classe operaia e proletaria non potrebbe neppure gestire una bocciofila, altrochè una “transizione al comunismo”!), i1 sistema so­cialista degli stati “comunisti” (l’unico comunismo storicamente esistito, non certo le elucubrazioni snobistiche del salotti romani o l'agitarsi scomposto degli operai fondisti con i loro fischietti ed i loro tamburi) ha influenzato direttamente la storia del capitalismo, limitandone in parte (in greco antico si dice katechon) la sua tendenza illimitata ad assumere una forma pura, che nella mia personale periodizzazione filosofica del capitalismo definisco “speculativa”, con una terminologia tratta liberamente dalla Scienza della Logica di Hegel. Dunque, indipendentemente dal suo dispotismo e dal carattere miserabile del suo personale politico (i comunisti nichilisti, opportunisti, autofagi e straccioni) viva viva viva il comunismo storico novecentesco e tragedia im­mane il fatto che non si sia voluto, saputo o potuto riformare “in corso d’opera”, come avevano auspicato i più grandi intellettuali marxisti indipendenti del Novecento (Lukàcs, Gramsci, Bloch, eccetera, alla cui scuola mi sono formato, mentre ho sempre avuto ripugnanza ed estraneità per il circo intellettuale snobistico italiano detto di “sinistra”). Dunque TRAGEDIA, TRAGEDIA, TRAGEDIA.






8. Il capitalismo già ai tempi Reagan-Thatcher stava cambiando forma, e quindi prima della caduta catastrofica del baraccone socialista. Le ra­gioni del mutamento erano interne alla dinamica del modo di produzione, ed erano dettate dalla cosiddetta globalizzazione e dalla privatizzazione di tutto ciò che era privatizzabile. Sono gli animal spirits di cui hanno parlato gli economisti inglesi, e che Hegel in altro contesto definì “il regno animale dello spirito”, la definizione più geniale di capitalismo che abbia mai letto in vita mia.


Il teatro storico degli ultimi venti anni è quindi stato nell’essenziale quello di un assalto del modello americano di capitalismo contro il modello europeo, che non avrebbe avuto tanto successo senza il mantenimento dell'occupazione militare USA sull'Europa, iniziata nel l943-1945 e mai terminata, neppure dopo il 1991, anzi ampliata e rafforzata. Non c’è democrazia ad Atene con guarnigione spartana sull’Acropoli. Non ci può essere democrazia in Europa con basi militari atomiche USA in Europa. Si tratta di una semplice verità lapalissiana, che la “sinistra” ha contribuito ad occultare, con la retorica strumentale sulla Costituzione, con il proseguimento maniacale dell'antifascismo in completa, palese e totale assenza di fascismo, con l'agitare scomposto del termine “democrazia” in presenza di irrilevanti parate sindacali, femministe, ecologiste, pacifiste, ed in Ita1ia ossessivamente anti-berlusconiane. A proposito della Cina, sono un incondizionato sostenitore della sua forza geopolitica e militare, ma non mi raccontino (Losurdo, Diliberto, Sidoli, KKE greco, eccetera), che si tratta di “socialismo”, sia pure di mercato, ecce­tera. Considero la Cina completamente capitalistica, in quanto considero storicamente fallito ed esaurito l'intero modello del comunismo storico novecentesco (salvo invece il “comunismo” -sia ben chiaro- come filosofia della storia e come tendenza metastorica dell'umanità, ed in questo senso sono sempre più che mai “comunista”). Si tratta però di un capitalismo sorto da una combinazione originale del modo di produzione asiatico, caratterizzato da una forte e benefica dominanza del potere politico sull’economia, e di una esperimento egualitario estremistico maoista, sia pure fallito. Spero che l'apparato confuciano denominato partito comunista cinese continui ad iso­lare e neutralizzare, se possibile con mezzi civili ed umanistici, gli orrendi intellettuali filo-occidentali e le tendenze americanizzanti. Se queste ul­time si affermassero, magari sotto lo scudo dei diritti “umani” (la forma rovesciata della disumanità contemporanea), allora ci sarebbe uno ed un solo orribile modello di capitalismo. Sarebbe questa la vera globalizzazione politica, che per il momento non c’è ancora, al di là dei voleri della strega Clinton (ricordo il suo WOW (uau) televisivo oscenamente ostentato alla notizia del linciaggio di Gheddafi).


9. E quindi Berlusconi non ha potuto, saputo o voluto (a mio avviso lo avrebbe voluto, ma non ha potuto per il fatto che doveva pur sempre essere eletto, ed il popolo, al di là delle sue irrilevanti e confuse opinioni politiche, non può votare per la propria macelleria sociale) effettuare questa america­nizzazione. Essa presuppone il commissariamento integrale da parte non di una parte politica (destra contro sinistra o sinistra contro destra), ma di un partito degli economisti (Papadimos in Grecia, Monti in Italia, ma so­no tutti uguali -inglese perfetto e monoteismo del mercato) contro il partito dei politici.


Se utilizzassi la dicotomia Destra/ Sinistra (ma me ne guardo bene!) direi che il partito degli economisti è un partito di estrema destra, che si posiziona alla destra di Forza Nuova e di Attila, re degli Unni. Ma i mutamenti semantici propiziati dal ceto intellettuale dell’ultimo ventennio (ah, ombra di Sorel, dove sei?) ha associato la sinistra soltanto alle gesticolazioni irrilevanti della FIOM, alla retorica di Vendola, ai matri­moni gay, alla insistita polemica laico-radicale contro la chiesa cattolica e Ratzinger, alle sfilate femministe (ah, le donne, le donne!), al belare ostensivo pacifista (pacee, pacee, diritti umanii, diritti umanii, abbasso i dittatori, processate Gheddafi, Milosevic, Saddam Hussein, tutti meno la Clinton ed Obama, eccetera).


10. Che fare? Non lo so. Non sono mica Lenin! In prima approssimazione, ed in via preliminare, che cosa non fare:


(1) Smettere di fare partitini comunisti (Diliberto, Ferrero), attaccati alle mutande di Vendola e Bersani pur di poter rientrare in Parlamento, oppure di fare partitini a base settaria che ripropongono programmi sumeri, egizi ed assiro-babilonesi (Ferrando).


(2) Andare oltre la dicotomia obsoleta Destra/ Sinistra. Questo capitali­smo distrugge i popoli e le comunità, non solo le classi svantaggiate (anche se ovviamente anche queste). Ritrovare il linguaggio adatto per salvare i popoli e le comunità è impossibile sulla base della divisione settaria del popolo in popolo in destra e popolo di sinistra. Questa divisione c'è storicamente stata, e non mi sogno affatto di negarlo. Ma oggi è obsoleta, e viene reintrodotta dall'alto per via manipolatoria, utilizzando strati identitari sedimentati in basso nell'ultimo secolo. (3) Uscire da questa Europa. Se ci fossero possibilità reali di riformare l’Europa dall'interno in corso d'opera, non direi questo, ma mi unirei alla stragrande maggioranza dei “sinistri” riformatori che vogliono una Europa “diversa”. E tuttavia costoro non sono in grado di andare oltre le loro pie intenzioni soggettive. Le oligarchie reali che dirigono questa Europa (e non il sogno di Erasmo, Mazzini o Spinelli) vogliono fortemente la sua americanizzazione (modello anglosassone di capitalismo illimitato privatizzato), la sua sottomissione geopolitica agli USA (NATO, interventi in Kosovo 1999, in Afganistan 2001, in Irak 2003, in Libia 2011, domani chissà), 1’uniformità culturale occidentalistica, insomma tutta la merda (non c'è altro termine!) che ci offre quotidianamente il sistema mediatico editoriale ed universitario.






11. E qui provvisoriamente finisco. So perfettamente che queste tre precondi­zioni sono assolutamente inattuabili a breve termine, e sospetto anche a medio termine. I “sinistri” vocianti continueranno a proporre inutili ed irrilevanti partitini comunisti o di tipo consociativo antiberlusconiano (Diliberto, Ferrero) o di tipo settario-paleolitico (Ferrando), o semplici ap­pendici della cultura femministico-ecologista post-moderna (Sinistra Critica). Non c’è niente da fare.


Continuerà l’illusione di potere alla fine, magari cambiando le maggioranze elettorati, modificare la natura neoliberale assoluta di questa Euro­pa. Chi nutre questa illusione non capisce o non vuol capire per opportunismo, pigrizia, stupidità o boria intellettuale, che siamo di fronte ad un processo storico, e non solo politico congiunturale. Lo storicismo ed il mito del progresso lineare irreversibile sparso a piene mani nell'ultimo mezzo secolo dalle canaglie dei gruppi intellettuali comunisti degenerati hanno abituato la gente a pensare in termini ferroviari di Indietro/ avanti. Ma come, abbiamo fatto l’Europa, non possiamo mica andare Indietro! Biso­gna andare Avanti!


In realtà, nella storia non c’è un avanti ed un indietro. La storia è un luogo di prassi umana integrale, non di temporalità evoluzionistica in qualche modo prevedibile. La fine del berlusconismo è semplicemente una opportunità, che bisognerebbe saper cogliere per riorientare integralmente una intera cultura politica fallimentare.


Questa opportunità verrà colta? Sarei contento di poter lasciarmi andare ai soliti auspici generici ottimisti, del “pensare positivo”, ma purtroppo sono un allievo di Hegel e Marx, e non di Jovanotti o Celentano. Data la situazione attuale, ed il terribile potere di interdizione diretta o indiretta dei gruppi intellettuali italiani che conosciamo, non vedo nessuna possibilità di invertire la tendenza babbionizzante ed identitaria. I vele­ni dell’antiberlusconismo di “Repubblica” e del PD continueranno purtroppo a lungo, perchè sono strutturali, in quanto coprono ideologicamente una gi­gantesca tragedia storica. Vorrei poter promettere di più, ma per il momento siamo ancora alla fase dei preliminari dei preliminari. Per chi ha già la mia età è triste. In quanto ai giovani, chi vivrà vedrà.