Intervista di Luigi Tedeschi a Costanzo Preve
(Tedeschi)
L’avanzare e il perdurare della crisi economica europea, sta
progressivamente destrutturando la società. La recessione e i decrementi
del Pil hanno determinato la fuoriuscita dalla produzione di rilevanti
quote di manodopera dal sistema produttivo. Si allargano a macchia
d’olio la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato, il lavoro
nero. Soprattutto, l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani è
diventato assai difficoltoso. La nostra società diviene sempre più
decadente, per il venir meno del ricambio generazionale e la mobilità
sociale. La liberalizzazione dell’economia, dei costumi, della cultura
di massa, quali fenomeni scaturiti dall’avvento della globalizzazione,
si rivelano miti virtuali, destinati ad essere smentiti dal disfacimento
degli equilibri sociali provocato dalla crisi incombente. Se volessimo
elaborare un bilancio del primo decennio del XXI° secolo, dovremmo
rilevare che l’avvento della società globalizzata ha avuto solo la
funzione di distruggere l’eredità sociale e culturale del ‘900, dato che
i nuovi orizzonti, le nuove opportunità, le grandi sfide del nuovo
secolo, si sono rivelate elementi di una strategia di ascesa al potere
di una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito
della masse sempre più escluse dai processi produttivi. L’emarginazione
sociale coinvolge interi popoli; esclusione ed emarginazione sono
fenomeni conseguenti al tramonto di un sistema economico basato sulla
produzione e di una società fondata su equilibri ispirati al solidarismo
interclassista. La fuoriuscita dal mondo del lavoro determina negli
individui un senso di inutilità esistenziale, di estraneazione sociale,
che conduce alla perdita della autostima di se stessi, ad un non senso
della propria individualità, ormai non più compatibile con le
prospettive di sviluppo di una società elitaria, basata sulla
generalizzata esclusione delle masse non più integrabili nei processi
evolutivi della società globalizzata. La coscienza della inutilità è
coeva quindi alla defunzionalizzazione produttiva. Tale condizione umana
riflette quindi la struttura fondamentale dei rapporti sociali nella
società capitalista. L’individuo ha coscienza di sé in quanto svolge un
ruolo produttivo nel contesto economico, altrimenti la sua vita è
condannata alla emarginazione, alla stregua di un prodotto obsoleto e
quindi privo di valore economico. La funzione produttiva e il ruolo
consumistico sono le sostanziali fonti di riconoscimento nella società
capitalista. Dobbiamo allora credere che è il mercato, con i suoi rialzi
e ribassi a dare senso alla vita di ognuno. Il lavoro è merce di
scambio in un mercato che si evolve in una prospettiva selettiva di
progressiva esclusione dei lavoratori dalla produzione, mai di
espansione. La disoccupazione diffusa è però un fenomeno che rivela la
sottoutilizzazione di risorse umane disponibili. Il paradosso
dell’economia liberista è proprio questo: l’attuale capitalismo genera
recessione per la propria incapacità di allocazione e razionalizzazione
della risorse produttive disponibili.
(Preve)
Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di
questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il
secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono
alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema
della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli
ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli
stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni.
In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento
dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario
complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento
temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a
punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del
Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il
coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè
dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati
all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è
l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato
capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni
tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa
se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da
tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non
importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di
“sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere
usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed
Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre
alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione
filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith,
curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di
scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione
allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due
secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio
storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio
temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio
dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed
inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli
inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non
vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera,
perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso
sensato appare inutile. Già Hegel aveva a suo tempo rilevato che
1’ateismo non consisteva nella negazione formale, materiale e “cosale”
di Dio, ma nella perdita di interesse verso la verità. Ai suoi tempi,
però, questa diagnosi infausta era prematura, perchè l’interesse verso
la verità comunitario-sociale (l’unica esistente, il resto essendo
certezza, esattezza, veridicità, corrispondenza, eccetera), sia pure
deformata dal suo uso ideologico, avrebbe avuto ancora un secolo e mezzo
davanti a sé, il secolo e mezzo della civiltà borghese e della sua
volonterosa ma inefficace contestazione proletaria. Al tempo di Hegel
era impensabile che, appena aperta la televisione per le ultime notizie,
la prima frase gridata dal mezzobusto lottizzato fosse “i mercati sono
euforici”, oppure “i mercati sono nervosi”. Di fronte a questa
quotidiana realtà, alienata ed antropomorfizzata insieme, Kafka appare
un sobrio epistemologo popperiano. In secondo luogo, tu suggerisci un
tema che dovrebbe interessare i sociologi e gli storici per i prossimi
cento anni, e cioè che si sta formando a livello globale una nuova
elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito delle masse
sempre più escluse dai processi produttivi. In proposito, sfugge agli
analisti universitari (anche i ceti universitari, gonfiati
sproporzionatamente negli ultimi decenni per “assorbire” i miserabili
contestatori sessantottini, sono in preda al processo di inutilità e
decadenza) che questa nuova classe in formazione non è più la vecchia
borghesia, sulla cui definizione multiforme erano “tarati” i concetti
del pensiero politico degli ultimi due secoli. Siamo di fronte ad una
vera e propria novità storica, in linguaggio hegeliano una nuova epoca
di “gestazione e di trapasso”. Il vecchio apparato concettuale non serve
più, ma i ceti universitari delle facoltà di filosofia e scienze
sociali (non parlo qui di facoltà più serie come biologia, medicina ed
ingegneria) sono ormai dei cani da guardia destinati ad impedire lo
sviluppo di una nuova concettualizzazione, essendo appunto “pagati” per
parlare solo di olocausto, diritti umani, dittatori baffuti e barbuti e
legittimazione dei riti elettorali svuotati di ogni residua sovranità.
Essi non possono impedire lo sviluppo di una nuova necessaria
concettualizzazione, ma possono ritardarla, intorbidire le acque,
concionare su concetti vuoti come “qualunquismo” o meglio ancora
“populismo”, eccetera. In terzo luogo, infine, la sensazione di
inutilità, che ha come sua base strutturale ovviamente la “superfluità”
demografica della forza-lavoro valorizzabile dal capitale finanziario,
si ripercuote inevitabilmente nella sensazione di inutilità e di
superfluità dell’argomentazione filosofica e culturale. Il divorzio fra
realtà e “virtualità”, infatti, c’è sempre stato, ma oggi sta
raggiungendo vertici da record. Il cattolico Formigoni si tuffa da
yacths di speculatori milionari, derubricati ad “amici privati”, il
banchiere Monti regna in nome della limitazione dello spread, e la
“cassetta delle menzogne” (idest la televisione) ha trasformato i
sionisti in campioni della democrazia, l’esemplare Siria di Assad in
regno hitleriano di un feroce dittatore, e non è un caso che il fenomeno
di Beppe Grillo, battezzato sfrontatamente come “populismo”, sia in
realtà sintomo evidente di disperazione politica. Piuttosto di questi
politici e di questi economisti, meglio un attore, ma sarebbero ancora
meglio degli scimpanzè e degli oranghi. E’ infatti assolutamente
insensato pensare che una società possa riprodursi sulla base del
mercato, con i suoi rialzi ed i suoi ribassi, eretto ad unico criterio
della sensatezza globale. A chi rivolgersi? Ratzinger predica bene, fa
riferimento alla filosofia aristotelica della natura umana (la migliore
mai prodotta), ma continua a prendersela con lo spettro del comunismo,
nel frattempo defunto da almeno un ventennio, ed a avallare il peggio
del politicamente corretto in circolazione. Il Dalai Lama, erroneamente
spacciato per “guida spirituale”, agisce scopertamente come un agente
USA anti-cinese, e tutti fingono che sia soltanto l’eterna incarnazione
della saggezza orientale. Il giornale “La Repubblica” ed il suo laicismo
azionista al servizio delle oligarchie bancarie ha sciaguratamente
forgiato un’intera generazione di semicolti subalterni, maggioritari in
quella patetica nicchia sociale dei laureati recenti, dei prof di scuola
secondaria e dei ceti universitari autoreferenziali, di fronte a cui le
plebi di Padre Pio appaiano per contrasto un gruppo di pensosi
intellettuali illuministi. Ma, evidentemente, il discorso è appena incominciato.
(Tedeschi)
Il mercato globale si è affermato attraverso il dominio del mercato
finanziario sulla economia produttiva: la crescita economica non è la
sua ragion d’essere né tantomeno il suo fine ultimo. In tale contesto,
lo sviluppo produttivo si manifesta nei tempi e nei luoghi determinati
dalle strategie della speculazione finanziaria. Quindi esso è di per sé
un fenomeno indotto, momentaneo e precario, a cui poi fanno riscontro
crisi e sottosviluppo non risolvibili secondo i canoni delle dottrine
economiche novecentesche. Le stesse crisi, non hanno la loro causa nei
cicli economici ricorrenti, ma semmai nelle bolle finanziarie
ricorrenti, in eventi cioè estranei alle dinamiche della produzione. La
globalizzazione ha prodotto insieme ai mercati globali, anche problemi e
crisi globali, data l’interconnessione tra le economie e i mercati di
tutto il mondo. La attuale crisi sistemica ha generato decrementi di
produzione e di consumo assai rilevanti, decrescita degli investimenti e
rarefazione della liquidità. Certo è che la fine del welfare, il lavoro
precario, le delocalizzazioni produttive, hanno profondamente inciso
sulle capacità di consumo e di risparmio delle masse. Pertanto, nel
prossimo futuro sarà di attualità il problema della esistenza di masse
non più utilizzabili nella produzione e non più dotate di capacità di
consumo. La condizione di inutilità degli individui si va estendendo
alle masse globali di lavoratori - consumatori obsoleti e destinati alla
rottamazione. Tale problematica è esposta nel libro di M. Della Luna
“Oligarchia per popoli superflui, Koiné Nuove Edizioni 2010”. Infatti,
mentre nei secoli passati l’incremento della popolazione era incentivato
dai sovrani di stati che necessitavano di soldati, agricoltori e
cittadini produttori che pagassero imposte, oggi, l’aumento della
popolazione mondiale, unito alla recessione produttiva e al decremento
delle risorse naturali, ha creato una nuova categoria antropologica:
quella dei popoli superflui. Superflui perché non integrabili nel
sistema economico e bisognosi di mezzi di sostentamento, in tempi di
destrutturazione dello stato sociale. Al di là delle ipotesi
catastrofiste (per fortuna poco praticabili), quali quelle di guerre
nucleari o epidemie provocate allo scopo di decrementare la popolazione
mondiale, altre soluzioni mi sembrano credibili. E’ infatti ipotizzabile
l’erogazione pubblica di sussidi minimi di sostentamento per
assicurare, assieme alla sopravvivenza materiale delle masse, anche
quella del mercato, garantendogli un adeguato livello di consumi. In
tale tragico scenario, gran parte dell’umanità vivrebbe in una
condizione di dipendenze economico - esistenziale assimilabile alla
schiavitù. Ma la situazione descritta sarebbe possibile qualora si
prestasse fede al dogma liberista della autoreferenza totalitaria della
economia capitalista. Masse asservite e ridotte alla condizione di
perpetua, emergenziale sopravvivenza, sono incapaci di rivoluzioni,
qualora le cause dei fenomeni rivoluzionari fossero solo di ordine
economico. Al contrario, i motivi del mancato riconoscimento sociale, e
della ribellione verso un ordine costituito perché moralmente ingiusto,
sono di ordine politico - sociale, perché nascono dalla volontà comune
di partecipazione politica e dalla visione (magari utopica), di una
diversa strutturazione della società che sia in grado di sviluppare
risorse, onde creare una più equa e diffusa ripartizione della
ricchezza. La crisi della attuale liberaldemocrazia di ispirazione
anglosassone è quella di un ordine che non può e non vuole sviluppare
risorse, perché il suo scopo ultimo è quello si preservare un sistema
finanziario di per sé condannato al fallimento.
(Preve)Tu
ti poni una domanda inquietante: la gente oggi è diventata incapace di
rivoluzioni? Fai anche l’ipotesi, da prendere certamente in
considerazione, che questa radicale incapacità trasformatrice (non
importa se riformista o rivoluzionaria) possa essere dovuta non certo ad
una salarializzazione spinta della società, ma proprio al suo
contrario, la generalizzazione di sussidi minimi di sopravvivenza per
mantenere da un lato la pace sociale, dall’altro livelli sufficienti di
consumo, sia pure parassitario. Lo storico Eric Hobsbawm, nato nel 1917,
ha ormai 95 anni. Intervistato da un miliardario sionista italiano,
giornalista per snobismo e per diletto, che gli chiede con una punta di
malignità se sia ancora “comunista”, Hobsbawn risponde: “Il comunismo
non esiste più. Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se non
credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista, io sono
marxista perchè penso che non ci sarà stabilità finchè il capitalismo
non si trasformerà in qualcosa di irriconoscibile dal capitalismo che
conosciamo oggi. E sono leale alla memoria in quello che ho creduto e
che fu un grande movimento anche in Italia” (cfr. La Stampa, 1/7/12). A
proposito del fatto che il comunismo non esiste più mi permetto una
serie di brevi considerazioni. Il modello politico-sociale del comunismo
storico novecentesco realmente esistito (il cosiddetto “socialismo
reale”) non esiste veramente più, ed è crollato per ragioni
assolutamente endogene (un pò come il regime signorile feudale in
Europa), demolito da una maestosa e feroce controrivoluzione
occidentalistica dei nuovi ceti medi “socialisti”, che hanno però finito
con il consegnare l’intero potere economico ad una casta di
baroni-ladri. Il comunismo storico novecentesco è stato l’espressione di
una sorta di democrazia plebeo-totalitaria (l’ossimoro è voluto, perchè
indica una contraddizione oggettiva) di operai di fabbrica e di
contadini poveri, due gruppi sociali ad egemonia complessiva a scadenza
breve, come gli yoghurt. I gruppetti politici comunisti residuali negli
attuali paesi capitalistici, senza praticamente alcuna eccezione, non
sono più gruppi rivoluzionari a legittimazione marxista, ma sono residui
sociologici inseriti nella dicotomia Sinistra/Destra, e per ciò stesso
del tutto incapaci di affrontare una fase storica nuova in cui la
dicotomia Sinistra/Destra ha perso ogni significato. Il “comunismo
ideale eterno”, per usare un termine di Giambattista Vico, non è finito
perchè esprime una ricerca comunitaria di verità e di giustizia sociale
di tipo non storico ma metastorico. Non era questo ovviamente che
pensava Marx, che avrebbe respinto con disprezzo ed irrisione questa
formulazione, in quanto Marx pensava che il comunismo fosse un prodotto
processuale immanente allo stesso sviluppo del modo di produzione
capitalistico. In termini popperiani, questa legittima e
ragionevolissima ipotesi scientifica è stata smentita nell’ultimo secolo
e mezzo, e mi sembra disonesto non riconoscerlo apertamente.
L’espressione di Hobsbawn, “essere leali alla speranza di una
rivoluzione” mi sembra affascinante, ed io la adotto interamente. A
differenza di Hobsbawn, io penso invece che avverrà, ma probabilmente
non in tempi storici vicini, in quanto devono maturare delle condizioni
globali ancora largamente immature. Esiste un blog in Italia denominato
“sollevazione”, critico dell’euro e del governo Monti, che incita ad una
sollevazione popolare sulla base della rivendicazione di un profilo
commista di estrema sinistra. Nonostante le ottime intenzioni soggettive
di costoro, molto migliori dei semplici fiancheggiatori del sistema
politico, resta dura a morire l’idea della sollevazione di estrema
sinistra, un’idea ricalcata sulla base dell’analogia con un periodo
storico trascorso. La difficoltà nel “pensare” la rivoluzione
anticapitalistica che pur sarebbe necessaria sta nel fatto che la
globalizzazione per ora consente solo fenomeni storici “locali”, che
possono anche abbattere governi dispotici precedenti, ma che poi restano
inseriti, incastrati ed ingabbiati nel sistema economico
internazionale, che agisce in funzione di ricatto permanente. E’ questa
impensabilità che fa da sottofondo allo scetticismo di Hobsbawrn.
L’utopia si concretizza soltanto attraverso una prospettiva, ed è
appunto l’impensabilità della prospettiva il principale fattore del
senso di inutilità così diffuso. Predicare astrattamente contro
l’inutilità diventerà così inutile come l’inutilità stessa fino a quando
non saranno finalmente visibili socialmente passi in avanti nella
limitazione di questo capitalismo cannibale.
(Tedeschi)
La crisi avanza, incombe sulla nostra vita quotidiana, svuotando di
senso le nostre certezze. La progressiva espropriazione della vita
comunitaria, familiare, intimo - personale, provocata dal dominio del
mercatismo, che invade la società e la coinvolge nella sua crisi
sistemica, è esplicativa di una condizione esistenziale sempre più
instabile e precaria, perché subordinata alla sopravvivenza economica.
Il fenomeno dell’accentuarsi quotidiano della recessione economica,
della disoccupazione, dello spread, della pressione fiscale, è
sintomatico di una crisi più profonda, che coinvolge totalmente la
nostra vita, in quanto è essa stessa ad essere dipendente da un sistema
economico e politico in progressivo disfacimento. Tuttavia, la
stagnazione della situazione politica, il dirigismo burocratico e cinico
della UE (assieme al governo tecnico di Monti), perché fenomeni di
ribellione e dissenso al sistema sono quasi inesistenti, se si
eccettuano i movimenti minoritari e velleitari quali il grillismo e
altri similari europei. Lo stesso astensionismo massificato assume più
il significato di una estraneazione collettiva dalla politica, assai più
vicina alla resa senza condizioni, più che quello di un dissenso di
massa. Costatiamo quindi che nella società è assente una presa di
coscienza comune di una situazione di emergenza sia economica che
politico - sociale, dovuta ad una società in crisi sistemica, che può
solo produrre altre crisi, quando alla destrutturazione di un sistema
non fa riscontro alcuna alternativa, magari futuribile, ma possibile. Si
manifesta nella odierna società una coscienza collettiva di tipo
adattativo alla situazione di precarietà materiale ed esistenziale, ad
uno stato di crisi sedimentato nelle coscienze come una condizione di
perenne instabilità in cui si possa solo sopravvivere. Questa
estraneazione dalla sfera sociale, comporta il rifugio in un egoismo
collettivo in cui, da una parte le classi più elevate tentano di
integrarsi in un processo di trasformazione da cui vengono
progressivamente escluse, dall’altra, quelle più deboli si affannano a
sopravvivere alla crisi. Tutti tentano di “imbucasi” ad un simposio a
cui non sono stati invitati dalla global class. La società è prigioniera
dell’eterno presente. Si eternizzano in una sfera astorica e asociale
le condizioni individuali del nostro presente. Il lavoro, l’avvenire dei
giovani, gli affetti personali, i rapporti sociali, vengono vissuti
come se questa condizione di crisi fosse una condizione perenne, in
trasformabile, data l’impossibilità di sviluppi e mutamenti rispetto
alla quotidianità ottusa di questo granitico, eterno presente. Tale
fenomeno è spiegabile alla luce dell’etica individualista su cui si è
costruita la psicologia collettiva del mondo contemporaneo. Il culto
dell’individualità odierna, è il risultato di un atteggiamento
narcisistico collettivo, più o meno inconscio, di personalità che hanno
coscienza di sé nella misura in cui ottengono riconoscimento, in primis
in base alla loro funzione svolta nel sistema economico, e dalla
condizione sociale che ne deriva. Solo nell’eterno presente ci si può
illudere di avere riconoscimento, e di preservare le proprie meschine ed
egoistiche certezze, in un mondo diverso chissà? Non si considera che
l’eterno presente è conseguenza della mancanza di senso della storia.
L’economia attraversa fasi di stagnazione e recessione, ciclica. La
storia, al contrario non ammette periodi di stagnazione, né tanto meno è
concepibile una sua recessione al passato. L’eterno presente è una
falsa coscienza della storia imposta da un ordine capitalista ormai
fuori della storia. La storia invece continua a produrre mutamenti, a
generare nuove situazioni di cui occorre prendere coscienza.
Interpretare l’avvenire alla luce dell’eterno presente è un non senso.
La storia non ha altri fini che quelli che l’uomo si propone di
realizzare e pertanto sarà proprio la coscienza insopprimibile dell’uomo
come essere storico a determinare il superamento della attuale crisi,
quale alienazione dell’uomo nell’eterno presente. Da quanto precede, si
comprende anche la necessità storica della presente crisi, quale momento
di superamento di un presente che è “eterno” perché non è storico.
(Preve)Non
sono un esperto di politologia o di sociologia elettorale, ma
personalmente assimilo i due fenomeni dell’astensionismo e del
grillismo. Con questo non intendo unirmi a1 coro gracchiante dei
“responsabili” aderenti ai vecchi partiti. Dovendo scegliere, con la
pistola alla testa, fra Grillo da un lato, e Bersani, Vendola, Di
Pietro, Casini ed Alfano dall’altro, voterei certamente Grillo, che è
certamente un guitto, ma almeno non ha dirette responsabilità per lo
svuotamento della decisione democratica. Tuttavia sono rimasto molto
colpito dal fatto che nelle recenti elezioni del giugno 2012 in Grecia,
dove pure si prendevano decisioni strategiche sul futuro del paese
l’astensione sia arrivata al quaranta per cento. In Italia non si decide
più nulla da un pezzo, perchè esiste una sorta di giunta militarizzata
di economisti con garante un ex-comunista disilluso del comunismo, che
in una recente intervista su “Repubblica” rimprovera post mortem a
Berlinguer di avere ancora creduto che ci potesse essere una società
“alternativa” al mercato capitalistico. Ma in Grecia si decideva
effettivamente qualcosa di strategico, ed a mio avviso il fronte di
sinistra di Syriza vi giocava esattamente lo stesso ruolo anti-euro del
partito di Marine Le Pen in Francia, anche se questa ovvia verità è
nascosta da mille sigilli per chi si ostina ad orientarsi sul mercato
politico in nome della dicotomia obsoleta Destra-Sinistra. Ho letto
recentemente in una bellissima intervista autobiografica di Alain de
Benoist una frase di Bergson del 1936 che non conoscevo: “Su dieci
errori politici, nove consistono semplicemente nel continuare ancora nel
credere vero ciò che ha cessato di esserlo”. Bisognerebbe ricordarlo ai
politologi. E’ quindi inutile condannare moralisticamente gli
astensionisti oppure coloro che si rifugiano nel grillismo. Essi
prendono semplicemente atto della radicale inutilità della tensione
politica. Il vero problema, tuttavia, sta nell’immaginare come possa
continuare nel tempo e riprodursi una società tenuta insieme soltanto
dal legame del mercato, in cui la decisione politica comunitaria ha di
fatto cessato di esistere. Per il momento questa è una relativa novità
storico-politica, che deve ancora stabilizzarsi. Una società del genere è
la prima società umana completamente priva di “grande narrazione”, e
cioè di racconto identitario. Già Hegel, a proposito dell’Inghilterra,
si era meravigliato che potesse esistere una “nazione civile senza
metafisica”. Benchè abbia insegnato storia e filosofia nei licei per
trentacinque anni, solo recentemente mi è parso di capire il significato
della sentenza di Hegel. Infatti la mescolanza tipicamente inglese di
empirismo, scetticismo ed utilitarismo non è una filosofia come le
altre, ma è una anti-filosofia radicale, che ha effettivamente
anticipato la concezione attuale delle oligarchie anglosassoni, cui
l’Europa si è interamente allineata negli ultimi venti anni. Siamo
effettivamente arrivati ad essere, ed a vantarci di essere, “un popolo
civile senza metafisica”. L’attuale globalizzazione senza metafisica è
comunque intrecciata al messianesimo americano vetero testamentario, che
appunto non è una filosofia di tipo greco, ma una secolarizzazione
religiosa di origine calvinista. Questo fa anche venir meno la vecchia
mobilità sociale ascendente e discendente, sostituita da una mobilità
individualistica senza alto né basso, al di fuori della capacità di
consumo. Ma la mobilità non è più la vecchia mobilità ascendente, che
era stata per più di un secolo la grande ideologia di legittimazione
della borghesia classica. Gli atomi sradicati si muovono in uno spazio
mercantile senza alto né basso, in cui il vecchio significato
comunitario della vita è integralmente sostituito dalla capacità di
acquisto e di vendita delle proprie capacità lavorative. Come ho già
fatto notare in precedenza, il vero problema non sta nel constatare
questo processo, che è sotto gli occhi di tutti anche se per ora
oscurato dai meccanismi mediatici, editoriali ed universitari, ma nel
prospettare lo scenario allargato di questa situazione. L’accesso al
consumo dei giganteschi strati medio-bassi in India, Cina, Brasile,
eccetera può certamente rinviare di decenni una crisi generalizzata di
senso storico e politico. Un mondo globalizzato senza metafisica, si
accompagna ovviamente a sempre più virulente identità religiose, in cui
la cosiddetta arretratezza e la cosiddetta intolleranza sono
semplicemente il risvolto pseudo-comunitario della completa mancanza di
senso. Le facoltà di filosofia sono già nel loro complesso interamente
“normalizzate” in una koinè che può essere definita, in termini di
scetticismo sofisticato, di relativismo multicolore e di nichilismo
tranquillizzante. Ma quanto questo possa durare nessuno può veramente
saperlo.
(Tedeschi)
La coscienza dell’inutilità sociale ed esistenziale dell’uomo
contemporaneo non è che la proiezione massificata di un mondo economico e
politico virtuale che rivela nella crisi il vuoto di senso, cioè la sua
incontestabile inutilità. Così come inutile si è dimostrata la classe
politica, acquiescente e complice delle manovre perpetrate dalla UE a
danno degli stati. Si consideri l’euro. Che cosa è l’euro? E’ una moneta
virtuale, che non rispecchia le condizioni economiche e politiche dei
paesi della UE, una valuta imposta da una BCE senza uno stato che ne
garantisca la solvibilità e la sussistenza, da una BCE composta da
organismi tecnici non elettivi, non rappresentativi della volontà
popolare. L’euro è stato definito da alcuni non una moneta unica, ma un
sistema di cambi fissi, dato che nell’Eurozona, la valuta è comune,
mentre il debito pubblico grava sulle finanze degli stati. A cosa serve
l’euro? Con l’euro si è fermato lo sviluppo economico, si sono dimezzati
il potere d’acquisto e i risparmi dei cittadini, si è imposta una
politica di austerity che ha distrutto lo stato sociale e ha diffuso la
precarietà del lavoro. Sono state distrutte le conquiste sociali, le
certezze, mentre l’unificazione monetaria ha incrementato la
speculazione finanziaria che sta determinando il fallimento degli stati.
L’euro, anziché integrare i popoli, li ha condannati ad una
competizione sfrenata che ha condotto ad enormi sperequazioni economiche
tra popoli del nord e del sud europeo. Liberarci dall’euro
significherebbe liberarci dalla schiavitù del debito imposta dalla
speculazione finanziaria, utile ai propri profitti, ma inutile e dannosa
ai popoli. Gli stati sono stati incoraggiati ad indebitarsi, anziché a
sviluppare ala propria economia, e classi politiche corrotte hanno
goduto del consenso di masse anestetizzate da un benessere virtuale e
precario. Farla finita con l’euro però comporterebbe riforme sistemiche
negli stati e nell’ambito europeo. Ma gli stati europei non dispongono
di classi politiche adeguate a tali eventi di emergenza rivoluzionaria,
Tali concetti sono tuttora impensabili per la stragrande maggioranza
degli europei.
(Preve)
Con questa quarta ed ultima domanda mi solleciti a parlare dell’euro,
cosa però che faccio malvolentieri perché, detto in linguaggio popolare,
“non ci capisco niente”. Altre volte nelle nostre conversazioni ne
abbiamo già parlato, in genere molto negativamente. Continuare
testardamente con l’euro oppure farla finita con l’euro è infatti una
sorta di atto di fede per tutti coloro che non sono specialisti di
economia. Personalmente, pur non dominando la materia, mi riconosco
nelle opinioni di economisti come Bagnai e Brancaccio, che sono critici
radicali dell’euro, e nello stesso tempo non voglio nascondere di essere
spaventato dalle campagne di terrore indotte quotidianamente dalla
televisione e dai giornali, che annunciano apocalissi in caso di crollo
dell’euro. Fanno sul serio o minacciano soltanto? Siamo nel 2012.
Nonostante gli apparenti mutamenti, politici, le classi politiche
oligarchiche italiane sono le stesse del 1915, e del 1940. Sarebbe
troppo lungo scendere nei dettagli di questi elementi di continuità che
vanno molto al di là delle differenze superficiali fra il regime
liberale, il regime fascista ed il regime democratico. In proposito, i
manuali di storia contemporanea sono ingannatori, perchè ad esempio non
informano sulla continuità della geopolitica di espansione nei Balcani
nel 1915 e nel 1940, in modo che lo studente medio è in generale
convinto che la guerra del 1915 sia stata fatta per Trento e Trieste,
città la cui “italianità” non era messa in dubbio da nessuno, ed anzi
era fiorente sul piano culturale e letterario. Dico questo perchè gli
italiani hanno già dovuto pagare due volte, nel 1915 e nel 1940, per un
azzardo pokeristico (del tutto secondario se da parte di Salandra o di
Mussolini), e questa mi pare la terza volta. Di fronte alla sempre
maggiore evidenza che l’euro non è stata una buona idea, ma è anzi stato
un errore storico e strategico, molti si rifugiano in una vera e
propria “fuga in avanti”: l’Europa non ha una sovranità politica
unitaria, ha solo una moneta comune senza stato, adesso bisogna andare
verso uno stato europeo unitario. A mio avviso sarebbe non solo un
errore, ma un vero e proprio crimine, e cercherò brevemente di spiegare
il perché. Uno stato presuppone una nazione, una nazione europea non
esiste e non esisterà mai, al massimo l’Europa sarà una “macroregione”,
del tipo del Friuli e della Slovenia. Parlare di “unità nella diversità”
è pura retorica per borsisti Erasmus. Non ci può essere una vera unità
politica senza nazione. Possibile che i casi lampanti della
Cecoslovacchia e della Jugoslavia (per non parlare dell’Unione
Sovietica) non insegnino proprio nulla? Se mi pagassero un tanto a
pagina (come facevano con Alessandro Dumas) per scrivere un saggio sulla
presunta eredità culturale unitaria dell’Europa (che a mio avviso non
esiste, e non potrebbe esistere comunque dopo lo tsunami della
globalizzazione finanziaria) non avrei alcuna difficoltà a partorire un
migliaio di pagine ipocrite ed artificiali. Ma quando si sventolano le
bandiere, sia pure per ragioni soltanto sportive, si sventolano solo le
bandiere nazionali. Vi immaginate dei tifosi che sventolano la bandiera
europea? E poi la Russia fa parte dell’Europa oppure no? Se sì, l’Europa
finisce a Vladivostok, ed è dunque un’unità geograficamente
eurasiatica. Se invece no, bisogna artificialmente estendere l’Europa a
Tallinn e Kiev, ed escluderne Mosca, accettando invece l’integrazione
europea ideale con gli USA, il Canada ed Israele. Le contraddizioni
potrebbero continuare. L’euro è stata quindi una cattiva idea, e pensare
di salvarlo con la fuga in avanti di un unico stato-nazione europeo
inesistente è un’idea ancora peggiore, sulla quale sembrano unirsi sia
l’ex-destra sia l’ex-sinistra, in assenza di identità culturali e
politiche. I rapporti culturali fra nazioni europee erano migliori
quando non si era ancora creata l’isteria delle nazioni cicale o
spendaccione e delle nazioni virtuose. E’ già difficile far passare
l’idea della solidarietà sul debito sovrano all’interno di una sola
nazione (il caso della Lega Nord insegna, e non può essere ridotto al
folklore snobistico con cui la analizza il giornale “Repubblica”), e chi
pensa che questo sia possibile in futuro per una evidente non-nazione
come l’Europa mente a sé ed agli altri. Quello che ha prodotto l’Euro è
sotto gli occhi di tutti, e cioè la svalutazione del lavoro salariato e
lo smantellamento progressivo degli elementi di welfare. Pensare che nel
prossimo futuro la tempesta passerà è da mentitori o da incoscienti.
Dall’euro bisognerà uscire, ed il modo di uscirne sarà il principale
indicatore storico-politico del prossimo futuro. Sarà un vero
dopoguerra, cui nessuno di noi potrà sottrarsi.