venerdì 29 giugno 2012

La Rivoluzione di Eugenio Orso


I) La Rivoluzione.

Se i rivoluzionari sono gli agenti della Rivoluzione, coloro che la fanno ai diversi gradi di consapevolezza possibili, ed esprimono una critica “radicale”, non riassorbibile, al sistema di potere e ai rapporti sociali dell’epoca, allora è necessario definire senza troppe imprecisioni cos’è la Rivoluzione, richiamando la definizione che ne ho dato in un saggio intitolato, appunto, Insurrezione e Rivoluzione.
Pur non essendo questo un trattato dedicato alla Rivoluzione, con tutta l’analisi storica che può comportare lo studio di un simile fenomeno di rottura (e ricomposizione in altra forma) dell’ordine sociale vigente, è bene definire cosa si intende per “rivoluzione”, prima di affrontare il tema dei Rivoluzionari di domani, delle loro caratteristiche e del loro rapporto con le masse.
E’ necessario, per andare un po’ di più in profondità nella questione, distinguere lo specifico fenomeno politico e sociale rivoluzionario, che investe ogni aspetto della vita associata dei singoli, da altri importanti fenomeni che hanno l’effetto di “infiammare” la società, di sconvolgerne (seppur nel breve) gli equilibri, di mettere alla prova la stessa tenuta sistemica, trattandosi di eventi in certi casi apparentemente simili o addirittura sovrapponibili al processo rivoluzionario, come l’Insurrezione.
Per Rivoluzione qui si intende, non un semplice cambio di governo, sia pure realizzato con metodi “non democratici” ed “extracostituzionali”, che mira alla sostituzione della dirigenza politica e di una parte di quella burocratica, ma una tappa fondamentale, un momento topico del lungo processo di Liberazione ed Emancipazione umana per il raggiungimento dell’autocoscienza, che supera l’ordine precedente ed instaura un nuovo ordine politico e sociale, nuovi rapporti sociali e di produzione stabiliti fra gli uomini.
La Rivoluzione rappresenta, perciò, un punto di rottura, un discrimine fra due mondi (prima Rivoluzione Francese e Ottobre Rosso in Europa, Rivoluzione Maoista in Asia, Rivoluzione Cubana in America, eccetera), il segnale che è in corso un vero e proprio “cambio di Evo”, essendo il cambiamento prodotto dalle inevitabili trasformazioni culturali che caratterizzano il corso storico e dalla stessa azione dei rivoluzionari.
L’effettivo momento di passaggio da un vecchio ad un nuovo modo di produzione sociale può essere rappresentato, o almeno accelerato, dalla Rivoluzione, un fenomeno per sua natura tridimensionale, contrapposto all’unidimensionalità insurrezionale alimentata dalla sola rabbia dei dominati, in quanto (A) dotato della necessaria profondità storica (il periodo di “incubazione” può durare decenni, o secoli), (B) guidato da una visione politica e sociale autenticamente alternativa a quella ancora dominante, (C) animato dalla coscienza e dalla determinazione dei rivoluzionari, vero “intelletto attivo del cambiamento e trasformativo dell’ordine esistente”, quando riescono ad incanalare positivamente in termini politici, sulla via del cambiamento e della trasformazione economico-sociale, la rabbia montante, l’odio che nasce dall’iniquità sistemica, la forza degli oppressi e delle masse soggette al potere vigente.
Non esiste un unico modello di Rivoluzione universalmente applicabile, e l’implosione del comunismo sovietico, nato da una Rivoluzione, non significa in alcun modo – come la propaganda liberal-liberista ha cercato di far credere in questi anni, mistificando – che la Rivoluzione stessa è morta insieme all’Unione Sovietica e al blocco geopolitico socialista, ma significa semplicemente che la via rivoluzionaria, in futuro, potrà seguire direzioni diverse da quelle e rivestire altre forme, non più leniniste, con esiti sociopolitici ben diversi.
Nessun momento rivoluzionario è mai uguale ai precedenti (ed ai successivi), così come le forze rivoluzionarie, cioè l’insieme degli agenti che trasformano la realtà e “disalienano” l’uomo, sono perfettamente immerse nel corso storico, quale più avanzata risultante delle precedenti trasformazioni antropologico-culturali, ma nel contempo concretamente esprimono, combattendo il sistema e le forze che cercano di perpetuarlo o semplicemente di riformarlo, la potenzialità connessa alla natura umana della “possibilità di scegliere e di opporsi” – anche contro lo stesso interesse personale e di classe del singolo – che è frutto dell’esercizio della ragione nel calcolo politico-sociale e l’esito della possibilità di critica.
Per definire la Rivoluzione in un modo sintetico ma efficace, non in contraddizione con i concetti che ho esposto in precedenza, si può ricorrere alle parole del filosofo Costanzo Preve:
«Se vogliamo usare il termine di rivoluzione nel solo modo corretto e non equivoco [ ... ] e cioè di rivolgimento che attiene il funzionamento riproduttivo complessivo dell’intera struttura dei rapporti di produzione [ ... ] allora ne consegue che nell’ultimo secolo in Europa (1912 – 2012) la sola ed unica rivoluzione sia stata quella russa del 1917.»
[Etica comunitaria, progresso e rivoluzione, Costanzo Preve intervistato su questi temi da Luigi Tedeschi]
Al massimo grado possibile di cambiamento storico e culturale, come sostiene il grande filosofo marxiano ed hegeliano Costanzo Preve, vi è il rivolgimento che attiene il funzionamento riproduttivo complessivo dell’intera struttura dei rapporti di produzione, e ciò vale, in estrema sintesi, ad esplicitare l’importanza del momento rivoluzionario, che si riverbera su ogni aspetto della stessa vita quotidiana (e dell’esperienza esistenziale) dei singoli.
Lungi dal rappresentare un semplice cambio di governo e/o un rinnovo forzato della “classe dirigente politica” (che potrebbero tranquillamente avvenire in seguito ad un golpe “nonviolento” e la nomina di un Monti alla guida dell’esecutivo), la Rivoluzione è la risultante storica di un processo articolato, che implica per sua natura significativi cambiamenti culturali e una rinnovata consapevolezza umana (o almeno della parte migliore e più avanzata dell’umanità , rappresentata dalla élite rivoluzionaria) nel lungo cammino verso l’autocoscienza e l’emancipazione.
Il momento rivoluzionario deve essere inteso quale momento culminante del cambiamento, di quel processo storico che si sostanzia in una profonda trasformazione dei rapporti sociali di produzione, e per conseguenza della stessa organizzazione sociale nel suo complesso.
La società non si rinnova mai nei suoi tratti essenziali per “gentile concessione” dei gruppi dominanti, mossi dal senso di responsabilità nei confronti dei sottoposti, guidati dall’”empatia” nei confronti del resto dell’umanità e disposti, perciò, a sacrificare una parte dei loro privilegi, o a ridimensionare progressivamente il loro potere.
La società si rinnova da cima a fondo soltanto attraverso la lotta, che può assumere forme estreme (“terrorismo”, rivolte violente, conseguenti e sanguinose repressioni sistemiche, eccetera), e gli assetti sociali mutano attraverso sconvolgimenti epocali dell’ordine costituito, fino a raggiungere il culmine della lotta stessa, il climax della “tragedia sociale”, rappresentato dalla Rivoluzione.

 http://pauperclass.myblog.it/archive/2012/06/21/la-rivoluzione-di-eugenio-orso.html

sabato 16 giugno 2012

Stato Versus Mercato L’Italia stretta fra globalizzazione, Europa unionista e deficit di sovranità nazionale

 

Inseriamo questo contributo di Eugenio Orso sul problema della fine sostanziale della sovranità politica degli Stati nel contesto dell’UE e della globalizzazione capitalstica



di Eugenio Orso

Premessa
Come si evidenzia nel sottotitolo di questo breve saggio politico, l’Italia è finita nella morsa globalizzante neoliberista, stretta com’è fra i processi di globalizzazione, mai interrotti dalla crisi strutturale neocapitalistica, un’Europa aliena e unionista che la sta stritolando imponendo con brutalità i suoi programmi economici, e il drammatico deficit di sovranità nazionale che non consente al paese di decidere, autonomamente, del proprio futuro.
Il presente scritto si articola in due capitoli. Il primo capitolo è introduttivo, ed attraverso un esercizio di storia comparata si tenta di evidenziare la gravità e le potenzialità distruttive della crisi neocapitalistica in Italia. Il secondo capitolo, che costituisce il cuore del saggio, è relativo al rapporto, ormai fin troppo chiaro, fra l’avvento dell’Europa dell’Unione, la riorganizzazione delle sue istituzioni sopranazionali, la creazione della BCE, l’introduzione dell’euro e la perdita di sovranità politica e monetaria degli stati succubi, fra i quali lo stato nazionale italiano. Lo scontro fra il sopranazionale e il nazionale che si sta verificando nel vecchio continente, cioè fra l’Unione europea globalista ed alcuni Stati da “normalizzare” economicamente e socialmente (per ora, l’Italia ela Greciamesse di recente “sotto tutela”), nasce dalla rottura dello storico patto fra il vecchio Stato nazionale dotato di sovranità politica ed il Mercato, da intendersi qui come il grande Capitale in mani private. Il “conflitto” fra i due è iniziato nella seconda metà degli anni settanta del novecento, dopo lo scadere dei cosiddetti trenta gloriosi anni di compromesso, di relativo equilibrio e di moderata emancipazione delle classi subalterne. Tale confronto riflette il tentativo, che sta per riuscire, di anteporre sempre e comunque l’economia ultraliberista, dominata dalle ragioni della finanza, alla decisione politica nazionale sovrana, e di demolire le ultime barriere, in Europa e in occidente, che ancora ostacolano la libera circolazione dei capitali. Si tratta, in sostanza, della continuazione in nuove forme, per molti versi inedite, dell’antico scontro fra la crematistica da un lato, intesa come creazione illimitata di valore monetario e finanziario, e l’etica dall’altro lato, che per sussistere può ammettere soltanto la “buona” economia, subordinata alla decisione politica della comunità. Uno scontro vivo fin dai tempi di Aristotele, che ha attraversato i secoli ed oggi potrebbe risolversi con la vittoria della nuova crematistica. Gli effetti sociali e politici, pesantemente negativi, dell’attuale crisi neocapitalistica e la ricerca di possibili vie d’uscita, per l’Italia riorganizzata in chiave neoliberista e globalista dall’esecutivo Monti, non potranno che portare all’avvio di un processo rivoluzionario, alimentato da un chiaro disegno politico, economico e sociale alternativo, pena l’implosione definitiva della sua società ed il completamento della colonizzazione neoliberista. Al di fuori di una futura via rivoluzionaria per la salvezza, non sembra che esserci un ritorno incruento, peraltro improbabile (se non impossibile), alle politiche neokeynesiane del dopoguerra, che sollecitavano un forte interventismo statale in campo economico, ammettevano la protezione dell’industria nazionale e richiedevano il controllo della moneta, come accadeva nella precedente fase storica, in cui lo stato‐nazione non era nelle attuali condizioni di subordinazione, ed era ancora dotato di un certo grado di autonomia e sovranità. Nel caso di disordini insidiosi e troppo estesi tendenti al caos permanente, di guerra civile e/o di una frantumazione regionalista del paese con il rischio di un contagio destabilizzante del cosiddetto ordine mondiale, l’occupazione globalista effettiva del paese, manu militari utilizzando lo strumento NATO, potrà diventare una drammatica realtà.

La grande crisi e le antiche crisi

In seguito agli effetti economico‐sociali negativi delle misure imposte da governi fantoccio che operano per conto terzi, scopertamente al di fuori di un supposto quadro di legalità democratica, si sente affermare sempre più spesso che l’attuale crisi italiana (a causa dell’ingente debito “sovrano”, dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico che lievitano con lo spread, della caduta del prodotto, dei segnali economici marcatamente depressivi) è la più grave dal dopoguerra, ma spesso si omette di dire che questa crisi è ampiamente indotta dalla dinamiche neocapitalistiche, e serve per l’omologazione dell’Italia al modello di capitalismo ultraliberista anglo‐americano, “evolutosi” nell’ultimo ventennio senza incontrare ostacoli di rilievo, fino a diventare il nuovo capitalismo finanziarizzato del terzo millennio.
Pur sapendo che gli esercizi di storia comparata sono insidiosi, perché talvolta rischiano di portare fuori strada nell’analisi, non possiamo non riconoscere che la penisola, anticamente, ha già vissuto almeno una situazione simile, foriera di gravi rischi e di innumerevoli lutti, e precisamente durante la cosiddetta crisi del terzo secolo (dopo Cristo) che ha investito l’impero romano, e dalla quale l’impero – fino ad allora sufficientemente saldo ed in espansione, soprattutto nel periodo che andava da Ottaviano Augusto a Traiano, o al più a Marco Aurelio – non si è mai più ripreso. Quando scoppiò la crisi del terzo secolo, la penisola era ancora fiorente e rappresentava il cuore del sistema imperiale, ma quando la crisi finì, in termini economici, demografici e sociali le province italiane ne uscirono malconce ed esauste, pronte per entrare nel lungo tunnel della decadenza dell’occidente, durata circa due secoli, e del conseguente trapasso al “nuovo mondo” feudale. La crisi neocapitalistica che oggi investe soprattutto l’Italia e l’Europa, è nel contempo elemento strutturale del Nuovo Capitalismo, senza il quale questo modo storico di produzione non potrebbe reggersi a lungo, e manifestazione del definitivo tramonto, in quanto potenza economica e produttiva, del vecchio continente a rischio di marginalizzazione, con i paesi dell’Europa mediterranea e la stessa Italia che sembrano essere diventati, in quest’ultimo periodo, l’epicentro della crisi stessa, un’area del mondo in cui la “distruzione creatrice” in atto è più evidente e rischia di diventare sanguinosa.
Anche la crisi romana del terzo secolo fu una “distruzione creatrice”, naturalmente rapportata al sistema schiavistico e al sistema (politico) imperiale dell’epoca, e lo fu su vari piani: quello economico e sociale, quello militare, e quello dell’organizzazione dell’impero. Ma dalla crisi del terzo secolo non uscì nulla di buono, perché non sempre ciò che si crea dopo aver distrutto è positivo per le società umane e per gli equilibri sociali, per la stessa tenuta delle istituzioni che si vorrebbero preservare.
Grazie al cinquantennio ricordato come il periodo dell’anarchia militare (dal 235 al 284 dopo Cristo), si passò dal principato augusteo, che rappresentava una forma politica di dominio relativamente “soft”, in grado di mediare fra i poteri (fra i quali il senato aristocratico d’età repubblicana) e le classi sociali (patrizi e plebei, o meglio, honestiores e humiliores), ad una sorta di dominato, o di dispotismo non asiatico fortemente centralizzato, non di rado retto da figure di militari‐avventurieri emergenti (il primo fu Massimino il Trace). L’avvento del dominato imperiale riduceva i già angusti spazi di libertà concessi alla popolazione, mentre l’accresciuta pressione fiscale per affrontare le ingenti spese di guerra (contro i barbari ed i persiani), nel tentativo di rafforzare l’apparato militare e potenziare quello statale, riduceva sul lastrico ampie fasce di popolazione, risparmiando soltanto i grandi latifondisti.
Un po’ come oggi, in Italia, in cui la crescente pressione fiscale colpisce sempre più duramente i redditi da lavoro dipendente e le pensioni (in un paese in cui ci sono undici milioni di poveri, fra i quali moltissimi lavoratori e pensionati, rapidamente cresciuti di numero grazie alla crisi ed alle misure governativo‐europeiste), risparmiando soprattutto i grandi evasori fiscali, i quali nel concreto sono intoccabili perché appartengono alla classe dominante, o rappresentano potentati dell’economia formalmente criminale, che si sviluppa
parallelamente a quella neocapitalistica. L’intangibilità del sistema bancario, che deve essere finanziato e sostenuto a tutti i costi, se del caso sottraendo risorse agli impieghi di natura sociale e produttiva, completa il quadro.
Se la crisi romana del terzo secolo accrebbe la conflittualità sociale, suscitò le rivolte dei dominanti e modificò l’ordine sociale, in Italia ed altrove entro i confini dell’impero, l’attuale crisi neocapitalistica e l’avvento di un governo collaborazionista dell’occupatore del paese, quale è quello di Monti, suscita fuori degli schemi sistemici e del “politicamente corretto” (semi‐)rivolte sociali fino a ieri imprevedibili (Sicilia, trasportatori, tassinari, pescatori, ed in futuro molti altri), mentre la violenza della crisi e delle controriforme montiane accelerano la trasformazione dell’ordine sociale, che procederà, se non incontrerà ostacoli di rilievo, fino alla sua estrema “semplificazione” sociologica in classe globale dominante e classe povera dominata. Per evitare opposizioni di rilievo nel tessuto politico e sociale italiano, e per far procedere speditamente le controriforme pianificate, la classe globale che sostiene Monti ha “comprato” i cartelli elettorali che contano, i sindacati, i vertici delle lobby importanti, assicurandosi il loro appoggio contro gli interessi del popolo italiano (e non di rado dei loro stessi militanti, iscritti ed associati).
La prima e più profonda ragione della spaventosa crisi romana del terzo secolo, la quale ha rimodellato brutalmente la società italica peggiorando le condizioni di vita della massa, risiede nello svuotamento progressivo dei “giacimenti” di braccia per il lavoro schiavo, e più in generale per appropriare risorse, come effetto del raggiungimento della massima espansione militare, territoriale e demografica dell’impero. A ciò corrisponde nel nostro tempo storico, in cui la penisola è nuovamente funestata da una profonda crisi economica, politica e sociale, il progressivo e rapido svuotamento di sovranità dello stato nazionale, che dopo aver raggiunto l’apice della sua autonomia con il fascismo, nel periodo prebellico, ha visto progressivamente ridursi le sue competenze, ed ha perso la prerogativa della decisione politica su molte materie strategiche (moneta, debito pubblico, industria, eccetera), fino a scivolare nelle attuali condizioni di subalternità nei confronti dell’esterno. Questa perdita di sovranità, forse irreversibile, è indotta e accelerata dalle dinamiche neocapitalistiche che hanno influenzato la stessa “costruzione” europea, i parametri di Maastricht, il dominio della BCE e del FMI, ed imposto l’euro ai maggiori paesi dell’Europa occidentale. La rapacità del dominato imperial‐militare romano, che ha impoverito le popolazioni italiche fin dall’età del ferro dei Severi, trova unʹinquietante corrispondenza, oggi, nella rapacità dei globalisti dominanti, i quali, assumendo il controllo degli stati‐nazione privati della loro autonomia, saccheggiano le risorse collettive e de‐emancipano le masse, riducendole a neoplebi. Dovrebbe esser chiara anche al cosiddetto uomo della strada, giunti a questo punto, la vera funzione della UE, della BCE e dell’euro.
Come l’impero che in quegli anni lontani ha mostrato il suo vero volto, riorganizzandosi in dominato dispotico e impoverendo la popolazione, per scaricare sulle classi inferiori l’ingente costo della crisi, economica, sociale e militare del terzo secolo, cosi, oggi, la liberaldemocrazia ci mostra il suo vero volto, autoritario, dispotico, oligarchico, di totale subordinazione alle ragioni della classe dominate globale, e contribuisce ad imporre quelle controriforme, economiche e sociali, che scaricano sui più deboli l’onere della crisi e rimodellano in senso neocapitalistico la società.
Gli italici e le altre popolazioni non sono riusciti, nonostante l’insorgente conflittualità fra i gruppi sociali e le numerose rivolte, ad impedire quella trasformazione dell’ordine costituito che alla fine hanno dovuto subire, fino all’estinzione formale, avvenuta due secoli dopo, dell’impero romano d’occidente. Riusciranno nel prossimo futuro gli italiani, e gli altri popoli dell’Europa mediterranea, ad interrompere il processo in atto, sottraendosi alla morsa del nuovo potere globalista, senza dover attenderne l’estinzione? Al momento attuale, in cui gli eventi sono in pieno corso, si moltiplicano le proteste fuori degli schemi, si attiva la repressione sistemica e la “distruzione creatrice” neocapitalistica subisce un’accelerazione, il futuro è sommamente incerto e la domanda non può ancora trovare una chiara risposta.

Sovranità nazionale e dominio del sopranazionale

L’opposizione, o meglio l’incompatibilità, fra l’affermazione e il mantenimento di una sovranità assoluta degli stati nazionali e la trasmigrazione del potere in entità sopranazionali sempre più potenti e onninvasive, nell’Europa del dopoguerra sembra essersi risolta a favore queste ultime. Non si può ancora sapere se il trionfo del globale sul nazionale, del mondiale sul locale, e soprattutto del Capitale sul Lavoro, sia definitivo, fino all’irreversibilità dei processi in atto, ma è certo che le oligarchie globaliste, supportate dallo strumento militare americano‐NATO e dalla finanza di rapina, hanno vinto un’importante battaglia, sottomettendo in buona misura gli stati, i popoli e le nazioni. La stessa, dissennata tensione, diffusa ad arte, per la “difesa dell’euro” che spiana la strada alle controriforme sociali, e che si giustifica minacciando sciagure inenarrabili in caso di collasso della moneta europea, o semplicemente dell’uscita di uno stato dall’Unione monetaria, costituisce una prova di quanto qui si afferma. Infatti, all’euro si può sacrificare tutto, anche le pensioni, anche la sanità o la scuola pubblica, persino il posto di lavoro fisso e tutelato (unica fonte di sostentamento per la maggioranza), e di questo purtroppo si mostrano convinte, in Italia e altrove, moltissime vittime delle dinamiche neocapitalistiche. Disinformazione mediatica, propaganda ultraliberista e neoliberale, idiotizzazione sociale, “snazionalizzazione” delle coscienze, svalutazione del ruolo dello stato, delle comunità di appartenenza, della socialità e diffusione dell’individualismo anomico, hanno proceduto di pari passo con l’affermazione dei “precetti” economico‐finanziari di questo capitalismo, consentendogli, fino ad ora, di spianare ogni ostacolo sul suo percorso. La grande disputa politica, come dovrebbe essere chiaro a tutti, attualmente è quella fra i sostenitori della sovranità assoluta dello stato nazionale, da un lato, e le oligarchie globaliste che istituiscono nuove forme di governo sopranazionale, dall’altro, in accordo con i loro interessi vitali. La classe dominante globale è oggi sul punto di stravincere il confronto, come provano i casi della Grecia e dell’Italia (ma non soltanto questi), e ciò equivarrebbe anche ad uno storico trionfo (irreversibile?) del Capitale sul Lavoro, perché le politiche sociali, assistenziali, di emancipazione dei lavoratori e di tutela del lavoro sono possibili, come la storia ha ampiamente dimostrato, soltanto in un quadro di ampia autonomia, politica e monetaria, degli stati nazionali. Quello che appare scontato è che non c’è più alcuna possibilità di compromesso fra Stato e Mercato (e la condizione dell’Europa lo testimonia), cioè fra la sovranità nazionale, sul piano politico, monetario ed economico, e il grande Capitale finanziario nelle mani della classe neodominante globale. Gli esecutivi di Monti, in Italia, e di Papademos, in Grecia, sono altrettanti “cani da guardia” del capitale finanziario, ed agiscono scopertamente contro i popoli e gli stati nazionali. Di recente, nella Grecia affidata a quel Papademos di cui Monti è un replicante, il maggior sindacato di polizia ellenico, che agisce nel quadro dello stato‐nazione, ha minacciato di arrestare i funzionari del FMI ed europei presenti sul territorio greco, dichiarando di schierarsi con il popolo contro l’Europa finanziaria dei dominanti e la globalizzazione.
La grande disputa politica fra i sostenitori della sovranità nazionale e i “globalizzatori”, equivale sul piano economico al confronto fra i sostenitori del “compromesso” fra politica ed economia, regolamentando i mercati (o addirittura sopprimendoli, nel caso si assumano posizioni non riformiste) e gli ultraliberisti che teorizzano, e mettono in pratica con successo, la piena autonomia e la superiorità del Mercato.
Ciò che è importante capire, e ribadire una volta di più, è che le due battaglie, quella adifesa dell’autonomia degli stati‐nazione e quella sociale in difesa del welfare, non solo non sono incompatibili – una “di destra” e l’altra “di sinistra”, secondo i vecchi schemi ormai inattuali, ma, al contrario, sono complementari, perché ambedue costituiscono presupposti indispensabili per la libertà, l’autodeterminazione e la giustizia sociale realizzata.
Difendendo l’autonomia dello stato nazionale contro i globalisti e contro quel loro strumento di dominio che è l’Europa dell’Unione, si difendono anche il Lavoro, i diritti dei subalterni (quelli concreti, economici, non quelli astratti e posticci liberaldemocratici), le conquiste economico‐sociali della seconda metà del novecento, i meccanismi redistributivi del reddito a vantaggio dei subordinati. Possiamo perciò affermare che lo stato nazione pienamente sovrano, nelle attuali condizioni storiche, rappresenta l’ultimo baluardo della socialità, dell’etica, dell’equità contro il saccheggio operato dai mercati e l’imposizione di una globalizzazione economica che conviene soltanto ai dominanti.
L’attacco alla sovranità politica e monetaria dello stato‐nazione ha richiesto, per poter essere sferrato con successo, l’avvio di rilevanti trasformazioni culturali, economico‐sociali e politiche che si possono sintetizzare come segue.
[a] Traformazioni antropologicoculturali e dell’ordine sociale.
E’ bene evidenziare che l’attacco allo stato‐nazione, chiarissimo nell’Europa mediterranea, in cui alcune entità statuali sono occupate dagli emissari delle élite globaliste e svuotate di contenuti politici effettivi, è stato reso possibile dallo sconvolgimento dell’ordine sociale precedente e dal grandioso esperimento di manipolazione culturale ed antropologica per la creazione sociale dell’uomo precario, per la flessibilizzazione di massa a partire dal lavoro, per la diffusione della stupidità sociale organizzata. In luogo dell’inclusione domina l’esclusione, dal lavoro e dalla decisione politica, i cittadini consapevoli tendono ad essere sostituiti da “idiotai”, confinati nella dimensione privata dell’esistenza ed espropriati della dimensione politico‐sociale, all’emancipazione si è sostituita la riplebeizzazione di massa, che investe tanto gli operai quanto i ceti medi figli del welfare novecentesco. Senza questi indispensabili presupposti, l’esproprio di sovranità e di socialità in atto avrebbe trovato fortissime resistenze, e probabilmente non potrebbe esser portato a compimento con indubbio successo, come accade di questi tempi. Conditio sine qua non dell’attacco finale alla sovranità nazionale, condotto proprio in questi mesi in Italia e in Grecia, è stato quel processo manipolatorio di massa che ha distrutto le classi del vecchio ordine (espressione del capitalismo del secondo millennio) e neutralizzato l’opposizione sociale, un processo che è in corso da circa un trentennio ed ha ottenuto indiscutibili “successi”. Il mondo culturale borghese, la solidarietà e l’identità della classe operaia, salariata e proletaria, le sicurezze e le “aspettative crescenti” dei ceti medi postbellici stanno scomparendo, anzi, possiamo affermare che in assenza di contrasti fra qualche anno saranno un mero ricordo, materia per gli storici e per una retrospettiva sociologica imbevuta di nostalgismi.
[b] Trasformazioni economiche dopo la rottura definitiva del patto fra Stato e Mercato.

Altro elemento che ha creato i presupposti, quantomeno nell’Europa mediterranea “spendacciona” e vulnerabile, per la perdita di sovranità degli stati è la crisi neocapitalistica permanente come elemento strutturale del Nuovo Capitalismo e come strumento di dominio globalista, opportunamente combinata con i vincoli di Maastricht e dell’euro. La bolla del debito pubblico e la sopravvivenza dell’euro rappresentano altrettanti cavalli di troia per l’assoggettamento degli stati, e per la loro occupazione (permanente? Sine die?) senza l’uso di strumenti bellici. L’esperimento greco e la vicenda italiana sono a tali propositi paradigmatici. Gli esecutivi imposti ai due paesi rispondono nel concreto soltanto ad interessi esterni e al comando neocapitalistico della classe globale. Il tutto “insaporito” con slogan neoliberisti, da accettare acriticamente e privi di effetti economico‐sociali positivi: l’indispensabilità della crescita, perniciosa anche dal punto di vista ambientale, la competitività in uno scenario globale di libero movimento dei capitali, l’apertura definitiva al mercato, la “monotonia” del posto fisso e l’inevitabilità della flessibilizzazione del lavoro, eccetera, eccetera. I sistemi che FMI e Banca Mondiale usavano per assoggettare al libero mercato i paesi del terzo mondo (piani di aggiustamento strutturale, ricatto del debito, apertura forzata dei paesi ai capitali finanziari internazionali) sono simili, per certi versi, a quelli che FMI, UE e BCE utilizzano oggi contro i paesi dell’Europa mediterranea, chiamati con disprezzo PIIGS. Si pensi al vero significato del Cresci‐Italia di Monti che accompagna, come un’illusoria carota agitata dal Quisling globalista, le misure più feroci e impoverenti. I veri obbiettivi delle manovre montiane in Italia, e di quelle del suo omologo Papademos in Grecia, sono essenzialmente i seguenti: (1) imporre il modello capitalistico ultraliberista, portato alle estreme conseguenze, che identifica un nuovo modo di produzione sociale, (2) ridurre all’osso l’area dell’intervento statale, compromettendo persino i cosiddetti beni pubblici puri, che solo lo stato può offrire a condizioni ragionevoli (non di mercato), rendendoli accessibili a tutta la popolazione, (3) rischiavizzare il lavoro per ridurlo a mero fattore produttivo (nello specifico italiano, la scomparsa del contratto collettivo nazionale, l’attacco all’art. 18, la probabile “riforma” della CIG, eccetera), (4) accelerare latrasformazione sociale in senso neocapitalistico, riplebeizzando una parte rilevante dei cet medi (in questo senso la “liberalizzazione” delle professioni), fino allo stabilirsi della dicotomia Global class/Pauper class.
[c] Trasformazioni politiche, svuotamento di contenuti effettivi delle istituzioni statuali e assimilazione completa dei cartelli elettorali liberaldemocratici nell’unico Partito della Riproduzione Neocapitalistica.
L’ultimo supporto che si è rivelato indispensabile per “piegare” gli stati nazionali ai voleri della classe globale neodominate è la piena omologazione della cosiddetta classe politica al neoliberalismo ultraliberista, con particolare biasimo per la sinistra, che si sta rivelando in diversi paesi il miglior servo dei globalisti. In Italia, ad esempio, il cosiddetto centro‐destra (con l’esclusione della Lega che agisce per puro calcolo elettoralistico) ha piegato la testa, a partire dallo spaventato ed isolato Berlusconi, ed ha accettato Monti a denti stretti, cedendogli l’esecutivo e garantendogli un appoggio incondizionato. Ma è il Pd, assieme ai centristi che si mostrano entusiasti delle riforme montiane, il sostenitore/servitore più affidabile di questo governo fantoccio, insediato a tempo di record dagli occupatori del paese, dopo le dimissioni di Berlusconi, con la decisiva complicità di Napolitano. Pur appoggiando servilmente l’esecutivo globalista (PdL, Pd, centristi), o contrastandolo fintamente in parlamento senza esiti concreti (Lega, IdV), espropriati dall’alto del controllo del governo del paese e della possibilità di fare una vera opposizione, i cartelli elettorali marginalizzati continuano nella finzione liberaldemocratica e simulano un confronto politico, ormai senza consistenza alcuna. Si va dalle accuse incrociate, quando scoppiano scandali che investono esponenti dell’uno o dell’altro cartello (il caso Penati, l’ex tesoriere della Margherita Lusi, i processi ancora in corso in cui è coinvolto Berlusconi), alle proposte di entente cordiale per la tanto attesa riforma elettorale, la quale, però, potrà trovare concreto riscontro soltanto quando e se i globalisti consentiranno di tornare alle urne.
La finzione, finalmente scoperta e trasformatasi in un’indecorosa recita, è dura a morire. Mai come oggi la situazione italiana offre la prova della fine della dicotomia politica destra/ sinistra, che non ha più alcun senso se la politica è completamente soggetta all’economia finanziaria, e supporta un “governo tecnico” incaricato di imporre il modello capitalistico ultraliberista, approvando pedissequa le sue controriforme.
In conclusione, possiamo affermare che la vittoria del globale sul nazionale, dell’economico sul politico, della finanza sulla socialità, del Capitale sul Lavoro, altro non sono che scontati riflessi della vittoria complessiva del Mercato sullo Stato, una vittoria epocale (ma forse non definitiva, per tutto il secolo) che ha instaurato il dominio sopranazionale della Global class, espropriando le entità statuali della sovranità politica e monetaria e sottomettendole al comando neocapitalistico.