Inseriamo questo contributo di Eugenio Orso sul problema
della fine sostanziale della sovranità politica degli Stati nel contesto
dell’UE e della globalizzazione capitalstica
di Eugenio Orso
Premessa
Come si evidenzia nel sottotitolo di questo breve saggio politico,
l’Italia è finita nella morsa globalizzante neoliberista, stretta com’è
fra i processi di globalizzazione, mai interrotti dalla crisi
strutturale neocapitalistica, un’Europa aliena e unionista che la sta
stritolando imponendo con brutalità i suoi programmi economici, e il
drammatico deficit di sovranità nazionale che non consente al paese di
decidere, autonomamente, del proprio futuro.
Il presente scritto si articola in due capitoli. Il primo capitolo è
introduttivo, ed attraverso un esercizio di storia comparata si tenta di
evidenziare la gravità e le potenzialità distruttive della crisi
neocapitalistica in Italia. Il secondo capitolo, che costituisce il
cuore del saggio, è relativo al rapporto, ormai fin troppo chiaro, fra
l’avvento dell’Europa dell’Unione, la riorganizzazione delle sue
istituzioni sopranazionali, la creazione della BCE, l’introduzione
dell’euro e la perdita di sovranità politica e monetaria degli stati
succubi, fra i quali lo stato nazionale italiano. Lo scontro fra il
sopranazionale e il nazionale che si sta verificando nel vecchio
continente, cioè fra l’Unione europea globalista ed alcuni Stati da
“normalizzare” economicamente e socialmente (per ora, l’Italia ela
Greciamesse di recente “sotto tutela”), nasce dalla rottura dello
storico patto fra il vecchio Stato nazionale dotato di sovranità
politica ed il Mercato, da intendersi qui come il grande Capitale in
mani private. Il “conflitto” fra i due è iniziato nella seconda metà
degli anni settanta del novecento, dopo lo scadere dei cosiddetti trenta
gloriosi anni di compromesso, di relativo equilibrio e di moderata
emancipazione delle classi subalterne. Tale confronto riflette il
tentativo, che sta per riuscire, di anteporre sempre e comunque
l’economia ultraliberista, dominata dalle ragioni della finanza, alla
decisione politica nazionale sovrana, e di demolire le ultime barriere,
in Europa e in occidente, che ancora ostacolano la libera circolazione
dei capitali. Si tratta, in sostanza, della continuazione in nuove
forme, per molti versi inedite, dell’antico scontro fra la crematistica
da un lato, intesa come creazione illimitata di valore monetario e
finanziario, e l’etica dall’altro lato, che per sussistere può ammettere
soltanto la “buona” economia, subordinata alla decisione politica della
comunità. Uno scontro vivo fin dai tempi di Aristotele, che ha
attraversato i secoli ed oggi potrebbe risolversi con la vittoria della
nuova crematistica. Gli effetti sociali e politici, pesantemente
negativi, dell’attuale crisi neocapitalistica e la ricerca di possibili
vie d’uscita, per l’Italia riorganizzata in chiave neoliberista e
globalista dall’esecutivo Monti, non potranno che portare all’avvio di
un processo rivoluzionario, alimentato da un chiaro disegno politico,
economico e sociale alternativo, pena l’implosione definitiva della sua
società ed il completamento della colonizzazione neoliberista. Al di
fuori di una futura via rivoluzionaria per la salvezza, non sembra che
esserci un ritorno incruento, peraltro improbabile (se non impossibile),
alle politiche neokeynesiane del dopoguerra, che sollecitavano un forte
interventismo statale in campo economico, ammettevano la protezione
dell’industria nazionale e richiedevano il controllo della moneta, come
accadeva nella precedente fase storica, in cui lo stato‐nazione non era
nelle attuali condizioni di subordinazione, ed era ancora dotato di un
certo grado di autonomia e sovranità. Nel caso di disordini insidiosi e
troppo estesi tendenti al caos permanente, di guerra civile e/o di una
frantumazione regionalista del paese con il rischio di un contagio
destabilizzante del cosiddetto ordine mondiale, l’occupazione globalista
effettiva del paese, manu militari utilizzando lo strumento NATO, potrà
diventare una drammatica realtà.
La grande crisi e le antiche crisi
In seguito agli effetti economico‐sociali negativi delle misure
imposte da governi fantoccio che operano per conto terzi, scopertamente
al di fuori di un supposto quadro di legalità democratica, si sente
affermare sempre più spesso che l’attuale crisi italiana (a causa
dell’ingente debito “sovrano”, dei tassi di interesse sui titoli del
debito pubblico che lievitano con lo spread, della caduta del prodotto,
dei segnali economici marcatamente depressivi) è la più grave dal
dopoguerra, ma spesso si omette di dire che questa crisi è ampiamente
indotta dalla dinamiche neocapitalistiche, e serve per l’omologazione
dell’Italia al modello di capitalismo ultraliberista anglo‐americano,
“evolutosi” nell’ultimo ventennio senza incontrare ostacoli di rilievo,
fino a diventare il nuovo capitalismo finanziarizzato del terzo
millennio.
Pur sapendo che gli esercizi di storia comparata sono insidiosi,
perché talvolta rischiano di portare fuori strada nell’analisi, non
possiamo non riconoscere che la penisola, anticamente, ha già vissuto
almeno una situazione simile, foriera di gravi rischi e di innumerevoli
lutti, e precisamente durante la cosiddetta crisi del terzo secolo (dopo
Cristo) che ha investito l’impero romano, e dalla quale l’impero – fino
ad allora sufficientemente saldo ed in espansione, soprattutto nel
periodo che andava da Ottaviano Augusto a Traiano, o al più a Marco
Aurelio – non si è mai più ripreso. Quando scoppiò la crisi del terzo
secolo, la penisola era ancora fiorente e rappresentava il cuore del
sistema imperiale, ma quando la crisi finì, in termini economici,
demografici e sociali le province italiane ne uscirono malconce ed
esauste, pronte per entrare nel lungo tunnel della decadenza
dell’occidente, durata circa due secoli, e del conseguente trapasso al
“nuovo mondo” feudale. La crisi neocapitalistica che oggi investe
soprattutto l’Italia e l’Europa, è nel contempo elemento strutturale del
Nuovo Capitalismo, senza il quale questo modo storico di produzione non
potrebbe reggersi a lungo, e manifestazione del definitivo tramonto, in
quanto potenza economica e produttiva, del vecchio continente a rischio
di marginalizzazione, con i paesi dell’Europa mediterranea e la stessa
Italia che sembrano essere diventati, in quest’ultimo periodo,
l’epicentro della crisi stessa, un’area del mondo in cui la “distruzione
creatrice” in atto è più evidente e rischia di diventare sanguinosa.
Anche la crisi romana del terzo secolo fu una “distruzione
creatrice”, naturalmente rapportata al sistema schiavistico e al sistema
(politico) imperiale dell’epoca, e lo fu su vari piani: quello
economico e sociale, quello militare, e quello dell’organizzazione
dell’impero. Ma dalla crisi del terzo secolo non uscì nulla di buono,
perché non sempre ciò che si crea dopo aver distrutto è positivo per le
società umane e per gli equilibri sociali, per la stessa tenuta delle
istituzioni che si vorrebbero preservare.
Grazie al cinquantennio ricordato come il periodo dell’anarchia
militare (dal 235 al 284 dopo Cristo), si passò dal principato augusteo,
che rappresentava una forma politica di dominio relativamente “soft”,
in grado di mediare fra i poteri (fra i quali il senato aristocratico
d’età repubblicana) e le classi sociali (patrizi e plebei, o meglio,
honestiores e humiliores), ad una sorta di dominato, o di dispotismo non
asiatico fortemente centralizzato, non di rado retto da figure di
militari‐avventurieri emergenti (il primo fu Massimino il Trace).
L’avvento del dominato imperiale riduceva i già angusti spazi di libertà
concessi alla popolazione, mentre l’accresciuta pressione fiscale per
affrontare le ingenti spese di guerra (contro i barbari ed i persiani),
nel tentativo di rafforzare l’apparato militare e potenziare quello
statale, riduceva sul lastrico ampie fasce di popolazione, risparmiando
soltanto i grandi latifondisti.
Un po’ come oggi, in Italia, in cui la crescente pressione fiscale
colpisce sempre più duramente i redditi da lavoro dipendente e le
pensioni (in un paese in cui ci sono undici milioni di poveri, fra i
quali moltissimi lavoratori e pensionati, rapidamente cresciuti di
numero grazie alla crisi ed alle misure governativo‐europeiste),
risparmiando soprattutto i grandi evasori fiscali, i quali nel concreto
sono intoccabili perché appartengono alla classe dominante, o
rappresentano potentati dell’economia formalmente criminale, che si
sviluppa
parallelamente a quella neocapitalistica. L’intangibilità del sistema
bancario, che deve essere finanziato e sostenuto a tutti i costi, se
del caso sottraendo risorse agli impieghi di natura sociale e
produttiva, completa il quadro.
Se la crisi romana del terzo secolo accrebbe la conflittualità
sociale, suscitò le rivolte dei dominanti e modificò l’ordine sociale,
in Italia ed altrove entro i confini dell’impero, l’attuale crisi
neocapitalistica e l’avvento di un governo collaborazionista
dell’occupatore del paese, quale è quello di Monti, suscita fuori degli
schemi sistemici e del “politicamente corretto” (semi‐)rivolte sociali
fino a ieri imprevedibili (Sicilia, trasportatori, tassinari, pescatori,
ed in futuro molti altri), mentre la violenza della crisi e delle
controriforme montiane accelerano la trasformazione dell’ordine sociale,
che procederà, se non incontrerà ostacoli di rilievo, fino alla sua
estrema “semplificazione” sociologica in classe globale dominante e
classe povera dominata. Per evitare opposizioni di rilievo nel tessuto
politico e sociale italiano, e per far procedere speditamente le
controriforme pianificate, la classe globale che sostiene Monti ha
“comprato” i cartelli elettorali che contano, i sindacati, i vertici
delle lobby importanti, assicurandosi il loro appoggio contro gli
interessi del popolo italiano (e non di rado dei loro stessi militanti,
iscritti ed associati).
La prima e più profonda ragione della spaventosa crisi romana del
terzo secolo, la quale ha rimodellato brutalmente la società italica
peggiorando le condizioni di vita della massa, risiede nello svuotamento
progressivo dei “giacimenti” di braccia per il lavoro schiavo, e più in
generale per appropriare risorse, come effetto del raggiungimento della
massima espansione militare, territoriale e demografica dell’impero. A
ciò corrisponde nel nostro tempo storico, in cui la penisola è
nuovamente funestata da una profonda crisi economica, politica e
sociale, il progressivo e rapido svuotamento di sovranità dello stato
nazionale, che dopo aver raggiunto l’apice della sua autonomia con il
fascismo, nel periodo prebellico, ha visto progressivamente ridursi le
sue competenze, ed ha perso la prerogativa della decisione politica su
molte materie strategiche (moneta, debito pubblico, industria,
eccetera), fino a scivolare nelle attuali condizioni di subalternità nei
confronti dell’esterno. Questa perdita di sovranità, forse
irreversibile, è indotta e accelerata dalle dinamiche neocapitalistiche
che hanno influenzato la stessa “costruzione” europea, i parametri di
Maastricht, il dominio della BCE e del FMI, ed imposto l’euro ai
maggiori paesi dell’Europa occidentale. La rapacità del dominato
imperial‐militare romano, che ha impoverito le popolazioni italiche fin
dall’età del ferro dei Severi, trova unʹinquietante corrispondenza,
oggi, nella rapacità dei globalisti dominanti, i quali, assumendo il
controllo degli stati‐nazione privati della loro autonomia, saccheggiano
le risorse collettive e de‐emancipano le masse, riducendole a neoplebi.
Dovrebbe esser chiara anche al cosiddetto uomo della strada, giunti a
questo punto, la vera funzione della UE, della BCE e dell’euro.
Come l’impero che in quegli anni lontani ha mostrato il suo vero
volto, riorganizzandosi in dominato dispotico e impoverendo la
popolazione, per scaricare sulle classi inferiori l’ingente costo della
crisi, economica, sociale e militare del terzo secolo, cosi, oggi, la
liberaldemocrazia ci mostra il suo vero volto, autoritario, dispotico,
oligarchico, di totale subordinazione alle ragioni della classe dominate
globale, e contribuisce ad imporre quelle controriforme, economiche e
sociali, che scaricano sui più deboli l’onere della crisi e rimodellano
in senso neocapitalistico la società.
Gli italici e le altre popolazioni non sono riusciti, nonostante
l’insorgente conflittualità fra i gruppi sociali e le numerose rivolte,
ad impedire quella trasformazione dell’ordine costituito che alla fine
hanno dovuto subire, fino all’estinzione formale, avvenuta due secoli
dopo, dell’impero romano d’occidente. Riusciranno nel prossimo futuro
gli italiani, e gli altri popoli dell’Europa mediterranea, ad
interrompere il processo in atto, sottraendosi alla morsa del nuovo
potere globalista, senza dover attenderne l’estinzione? Al momento
attuale, in cui gli eventi sono in pieno corso, si moltiplicano le
proteste fuori degli schemi, si attiva la repressione sistemica e la
“distruzione creatrice” neocapitalistica subisce un’accelerazione, il
futuro è sommamente incerto e la domanda non può ancora trovare una
chiara risposta.
Sovranità nazionale e dominio del sopranazionale
L’opposizione, o meglio l’incompatibilità, fra l’affermazione e il
mantenimento di una sovranità assoluta degli stati nazionali e la
trasmigrazione del potere in entità sopranazionali sempre più potenti e
onninvasive, nell’Europa del dopoguerra sembra essersi risolta a favore
queste ultime. Non si può ancora sapere se il trionfo del globale sul
nazionale, del mondiale sul locale, e soprattutto del Capitale sul
Lavoro, sia definitivo, fino all’irreversibilità dei processi in atto,
ma è certo che le oligarchie globaliste, supportate dallo strumento
militare americano‐NATO e dalla finanza di rapina, hanno vinto
un’importante battaglia, sottomettendo in buona misura gli stati, i
popoli e le nazioni. La stessa, dissennata tensione, diffusa ad arte,
per la “difesa dell’euro” che spiana la strada alle controriforme
sociali, e che si giustifica minacciando sciagure inenarrabili in caso
di collasso della moneta europea, o semplicemente dell’uscita di uno
stato dall’Unione monetaria, costituisce una prova di quanto qui si
afferma. Infatti, all’euro si può sacrificare tutto, anche le pensioni,
anche la sanità o la scuola pubblica, persino il posto di lavoro fisso e
tutelato (unica fonte di sostentamento per la maggioranza), e di questo
purtroppo si mostrano convinte, in Italia e altrove, moltissime vittime
delle dinamiche neocapitalistiche. Disinformazione mediatica,
propaganda ultraliberista e neoliberale, idiotizzazione sociale,
“snazionalizzazione” delle coscienze, svalutazione del ruolo dello
stato, delle comunità di appartenenza, della socialità e diffusione
dell’individualismo anomico, hanno proceduto di pari passo con
l’affermazione dei “precetti” economico‐finanziari di questo
capitalismo, consentendogli, fino ad ora, di spianare ogni ostacolo sul
suo percorso. La grande disputa politica, come dovrebbe essere chiaro a
tutti, attualmente è quella fra i sostenitori della sovranità assoluta
dello stato nazionale, da un lato, e le oligarchie globaliste che
istituiscono nuove forme di governo sopranazionale, dall’altro, in
accordo con i loro interessi vitali. La classe dominante globale è oggi
sul punto di stravincere il confronto, come provano i casi della Grecia e
dell’Italia (ma non soltanto questi), e ciò equivarrebbe anche ad uno
storico trionfo (irreversibile?) del Capitale sul Lavoro, perché le
politiche sociali, assistenziali, di emancipazione dei lavoratori e di
tutela del lavoro sono possibili, come la storia ha ampiamente
dimostrato, soltanto in un quadro di ampia autonomia, politica e
monetaria, degli stati nazionali. Quello che appare scontato è che non
c’è più alcuna possibilità di compromesso fra Stato e Mercato (e la
condizione dell’Europa lo testimonia), cioè fra la sovranità nazionale,
sul piano politico, monetario ed economico, e il grande Capitale
finanziario nelle mani della classe neodominante globale. Gli esecutivi
di Monti, in Italia, e di Papademos, in Grecia, sono altrettanti “cani
da guardia” del capitale finanziario, ed agiscono scopertamente contro i
popoli e gli stati nazionali. Di recente, nella Grecia affidata a quel
Papademos di cui Monti è un replicante, il maggior sindacato di polizia
ellenico, che agisce nel quadro dello stato‐nazione, ha minacciato di
arrestare i funzionari del FMI ed europei presenti sul territorio greco,
dichiarando di schierarsi con il popolo contro l’Europa finanziaria dei
dominanti e la globalizzazione.
La grande disputa politica fra i sostenitori della sovranità
nazionale e i “globalizzatori”, equivale sul piano economico al
confronto fra i sostenitori del “compromesso” fra politica ed economia,
regolamentando i mercati (o addirittura sopprimendoli, nel caso si
assumano posizioni non riformiste) e gli ultraliberisti che teorizzano, e
mettono in pratica con successo, la piena autonomia e la superiorità
del Mercato.
Ciò che è importante capire, e ribadire una volta di più, è che le
due battaglie, quella adifesa dell’autonomia degli stati‐nazione e
quella sociale in difesa del welfare, non solo non sono incompatibili –
una “di destra” e l’altra “di sinistra”, secondo i vecchi schemi ormai
inattuali, ma, al contrario, sono complementari, perché ambedue
costituiscono presupposti indispensabili per la libertà,
l’autodeterminazione e la giustizia sociale realizzata.
Difendendo l’autonomia dello stato nazionale contro i globalisti e
contro quel loro strumento di dominio che è l’Europa dell’Unione, si
difendono anche il Lavoro, i diritti de
i subalterni
(quelli concreti, economici, non quelli astratti e posticci
liberaldemocratici), le conquiste economico‐sociali della seconda metà
del novecento, i meccanismi redistributivi del reddito a vantaggio dei
subordinati. Possiamo perciò affermare che lo stato nazione pienamente
sovrano, nelle attuali condizioni storiche, rappresenta l’ultimo
baluardo della socialità, dell’etica, dell’equità contro il saccheggio
operato dai mercati e l’imposizione di una globalizzazione economica che
conviene soltanto ai dominanti.
L’attacco alla sovranità politica e monetaria dello stato‐nazione ha
richiesto, per poter essere sferrato con successo, l’avvio di rilevanti
trasformazioni culturali, economico‐sociali e politiche che si possono
sintetizzare come segue.
[a] Traformazioni antropologico‐culturali e dell’ordine sociale.
E’ bene evidenziare che l’attacco allo stato‐nazione, chiarissimo
nell’Europa mediterranea, in cui alcune entità statuali sono occupate
dagli emissari delle élite globaliste e svuotate di contenuti politici
effettivi, è stato reso possibile dallo sconvolgimento dell’ordine
sociale precedente e dal grandioso esperimento di manipolazione
culturale ed antropologica per la creazione sociale dell’uomo precario,
per la flessibilizzazione di massa a partire dal lavoro, per la
diffusione della stupidità sociale organizzata. In luogo dell’inclusione
domina l’esclusione, dal lavoro e dalla decisione politica, i cittadini
consapevoli tendono ad essere sostituiti da “idiotai”, confinati nella
dimensione privata dell’esistenza ed espropriati della dimensione
politico‐sociale, all’emancipazione si è sostituita la riplebeizzazione
di massa, che investe tanto gli operai quanto i ceti medi figli del
welfare novecentesco. Senza questi indispensabili presupposti,
l’esproprio di sovranità e di socialità in atto avrebbe trovato
fortissime resistenze, e probabilmente non potrebbe esser portato a
compimento con indubbio successo, come accade di questi tempi. Conditio
sine qua non dell’attacco finale alla sovranità nazionale, condotto
proprio in questi mesi in Italia e in Grecia, è stato quel processo
manipolatorio di massa che ha distrutto le classi del vecchio ordine
(espressione del capitalismo del secondo millennio) e neutralizzato
l’opposizione sociale, un processo che è in corso da circa un trentennio
ed ha ottenuto indiscutibili “successi”. Il mondo culturale borghese,
la solidarietà e l’identità della classe operaia, salariata e
proletaria, le sicurezze e le “aspettative crescenti” dei ceti medi
postbellici stanno scomparendo, anzi, possiamo affermare che in assenza
di contrasti fra qualche anno saranno un mero ricordo, materia per gli
storici e per una retrospettiva sociologica imbevuta di nostalgismi.
[b] Trasformazioni economiche dopo la rottura definitiva del patto fra Stato e Mercato.
Altro elemento che ha creato i presupposti, quantomeno nell’Europa
mediterranea “spendacciona” e vulnerabile, per la perdita di sovranità
degli stati è la crisi neocapitalistica permanente come elemento
strutturale del Nuovo Capitalismo e come strumento di dominio
globalista, opportunamente combinata con i vincoli di Maastricht e
dell’euro. La bolla del debito pubblico e la sopravvivenza dell’euro
rappresentano altrettanti cavalli di troia per l’assoggettamento degli
stati, e per la loro occupazione (permanente? Sine die?) senza l’uso di
strumenti bellici. L’esperimento greco e la vicenda italiana sono a tali
propositi paradigmatici. Gli esecutivi imposti ai due paesi rispondono
nel concreto soltanto ad interessi esterni e al comando neocapitalistico
della classe globale. Il tutto “insaporito” con slogan neoliberisti, da
accettare acriticamente e privi di effetti economico‐sociali
positivi: l’indispensabilità della crescita, perniciosa anche dal punto
di vista ambientale, la competitività in uno scenario globale di libero
movimento dei capitali, l’apertura definitiva al mercato, la
“monotonia” del posto fisso e l’inevitabilità della flessibilizzazione
del lavoro, eccetera, eccetera. I sistemi che FMI e Banca Mondiale
usavano per assoggettare al libero mercato i paesi del terzo mondo
(piani di aggiustamento strutturale, ricatto del debito, apertura
forzata dei paesi ai capitali finanziari internazionali) sono simili,
per certi versi, a quelli che FMI, UE e BCE utilizzano oggi contro i
paesi dell’Europa mediterranea, chiamati con disprezzo PIIGS. Si pensi
al vero significato del Cresci‐Italia di Monti che accompagna, come
un’illusoria carota agitata dal Quisling globalista, le misure più
feroci e impoverenti. I veri obbiettivi delle manovre montiane in
Italia, e di quelle del suo omologo Papademos in Grecia, sono
essenzialmente i seguenti: (1) imporre il modello capitalistico
ultraliberista, portato alle estreme conseguenze, che identifica un
nuovo modo di produzione sociale, (2) ridurre all’osso l’area
dell’intervento statale, compromettendo persino i cosiddetti beni
pubblici puri, che solo lo stato può offrire a condizioni ragionevoli
(non di mercato), rendendoli accessibili a tutta la popolazione, (3)
rischiavizzare il lavoro per ridurlo a mero fattore produttivo (nello
specifico italiano, la scomparsa del contratto collettivo nazionale,
l’attacco all’art. 18, la probabile “riforma” della CIG, eccetera), (4)
accelerare latrasformazione sociale in senso neocapitalistico,
riplebeizzando una parte rilevante dei cet medi (in questo senso la
“liberalizzazione” delle professioni), fino allo stabilirsi della
dicotomia Global class/Pauper class.
[c] Trasformazioni politiche, svuotamento di contenuti effettivi
delle istituzioni statuali e assimilazione completa dei cartelli
elettorali liberaldemocratici nell’unico Partito della Riproduzione
Neocapitalistica.
L’ultimo supporto che si è rivelato indispensabile per “piegare” gli
stati nazionali ai voleri della classe globale neodominate è la piena
omologazione della cosiddetta classe politica al neoliberalismo
ultraliberista, con particolare biasimo per la sinistra, che si sta
rivelando in diversi paesi il miglior servo dei globalisti. In Italia,
ad esempio, il cosiddetto centro‐destra (con l’esclusione della Lega che
agisce per puro calcolo elettoralistico) ha piegato la testa, a partire
dallo spaventato ed isolato Berlusconi, ed ha accettato Monti a denti
stretti, cedendogli l’esecutivo e garantendogli un appoggio
incondizionato. Ma è il Pd, assieme ai centristi che si mostrano
entusiasti delle riforme montiane, il sostenitore/servitore più
affidabile di questo governo fantoccio, insediato a tempo di record
dagli occupatori del paese, dopo le dimissioni di Berlusconi, con la
decisiva complicità di Napolitano. Pur appoggiando servilmente
l’esecutivo globalista (PdL, Pd, centristi), o contrastandolo fintamente
in parlamento senza esiti concreti (Lega, IdV), espropriati dall’alto
del controllo del governo del paese e della possibilità di fare una vera
opposizione, i cartelli elettorali marginalizzati continuano nella
finzione liberaldemocratica e simulano un confronto politico, ormai
senza consistenza alcuna. Si va dalle accuse incrociate, quando
scoppiano scandali che investono esponenti dell’uno o dell’altro
cartello (il caso Penati, l’ex tesoriere della Margherita Lusi, i
processi ancora in corso in cui è coinvolto Berlusconi), alle proposte
di entente cordiale per la tanto attesa riforma elettorale, la quale,
però, potrà trovare concreto riscontro soltanto quando e se i globalisti
consentiranno di tornare alle urne.
La finzione, finalmente scoperta e trasformatasi in un’indecorosa
recita, è dura a morire. Mai come oggi la situazione italiana offre la
prova della fine della dicotomia politica destra/ sinistra, che non ha
più alcun senso se la politica è completamente soggetta all’economia
finanziaria, e supporta un “governo tecnico” incaricato di imporre il
modello capitalistico ultraliberista, approvando pedissequa le sue
controriforme.
In conclusione, possiamo affermare che la vittoria del globale sul
nazionale, dell’economico sul politico, della finanza sulla socialità,
del Capitale sul Lavoro, altro non sono che scontati riflessi della
vittoria complessiva del Mercato sullo Stato, una vittoria epocale (ma
forse non definitiva, per tutto il secolo) che ha instaurato il dominio
sopranazionale della Global class, espropriando le entità statuali della
sovranità politica e monetaria e sottomettendole al comando
neocapitalistico.