I cattivi nel futuro scontro sociale in Italia
di Eugenio Orso
Dopo l’uscita di scena di Berlusconi, i guasti provocati nella società italiana dal berlusconismo e dal regionalismo tribalistico leghista continueranno, seppure presumibilmente in misura decrescente nel tempo, e quei gruppi sociali che effettivamente hanno sostenuto per oltre un quindicennio Berlusconi e/o Bossi, sosteranno chiunque in futuro, pur di poter mantenere indefinitamente il loro status e i loro ingiusti privilegi, concessigli oltre il limite della legalità dalla politica sistemica.
Una prima individuazione dei “cattivi” nel futuro scontro sociale in Italia, oggetto del presente elaborato assieme alla necessaria individuazione dei “buoni”, ci riporta proprio a questi gruppi, storici sostenitori del berlusconismo e del leghismo, che per numerosi ipocriti ed alcuni imbecilli rappresenterebbero i veri e i soli “ceti produttivi” e l’unica speranza futura della nazione.
Il discorso anticapitalista della corretta individuazione di nemici, avversari e amici, nella dimensione politica e in quella sociale, bene impostato dal filosofo Costanzo Preve sul piano teorico in alcuni dei suoi saggi più recenti e in alcune conferenze, può essere compendiato, per quanto riguarda specificamente la questione sociale italiana, dalla breve analisi che seguirà.
Per una corretta definizione dei gruppi che storicamente hanno supportato il tribalismo leghista e il “dispotismo dolce” berlusconiano – i quali stanno presumibilmente giungendo al capolinea – sarebbe troppo superficiale, e quindi sarebbe un errore, credere che nel primo caso avessero agito in primo luogo pulsioni di natura comunitaria, desiderio di indipendenza o autonomia, e legittime resistenze alle imposizioni del capitalismo globale finanziarizzato, e che nel secondo caso si sia trattato semplicemente di una ricerca di rappresentanza politica da parte di elettorati resi “orfani” da Tangentopoli-Mani pulite, che per lunghi anni hanno fatto riferimento ai vecchi partiti di massa, strutturati sul territorio, come furono la DC e il PSI.
Commercianti, impresari, patrimonializzati che devono la loro fortuna alle eredità di famiglia, professionisti ambiziosi e piccoli rentiers, benestanti vari ed altri simili soggetti hanno sostanzialmente accettato – unicamente per perseguire i loro personali interessi economici, senza che in ciò vi sia alcuna traccia di idealità e di riferimenti più alti e collettivi – un mercimonio elettoralistico, fondato sullo scambio del consenso con la praticabilità effettiva dell’evasione fiscale e contributiva, la concreta rinuncia alla lotta all’evasione ed una relativa “impunità” concessa agli evasori.
Quanto precede compendiato, naturalmente, dal rifiuto berlusconiano “di mettere le mani in tasca agli italiani” – ma soltanto nelle tasche di certi italiani, bene inteso – che guarda caso ha portato in prima battuta all’abolizione dell’imposta di successione e donazione [18 ottobre 2001] ed ha risparmiato fiscalmente le rendite finanziarie, grandi e piccole, a scapito dei redditi da lavoro.
E’ bene precisare che il consenso elettorale ottenuto dal berlusconismo e dal leghismo in questi anni difficili, di crisi complessiva della società italiana e di peggioramento delle condizioni di vita per gran parte della popolazione, ha valicato i confini di questi specifici gruppi, fino a carpire il voto di molti disoccupati, operai, casalinghe, impiegati, pensionati, del nord, nel caso della Lega, ed in tutta la penisola per quanto riguarda i cartelli elettori che fanno direttamente riferimento al nostro sgraziato “Tycoon di provincia”, ma la sostanza del discorso non cambia, perché la base essenziale del consenso, quella irrinunciabile, quella intorno alla quale è stata costruita la “fortuna” di tutto il cento-destra nell’agone della politica sistemica, si identifica con i predetti gruppi sociali e con la tutela dei loro particolari interessi.
Nel caso di Berlusconi e del suo cartello elettorale primigeneo, Forza Italia, è soprattutto una “distorsiva”, istupidente e continua azione mediatica – iniziata negli anni ottanta [dal Drive In di Antonio Ricci su Italia 1, partito nel 1983, in poi], ben prima della sua improvvisa intrusione nella politica – che ha consentito al suddetto di estorcere a piene mani i consensi elettorali di soggetti deboli, culturalmente e non di rado socialmente, sommandoli ai voti del suo “zoccolo duro”.
Nel caso della Lega Nord, i consensi sono stati gonfiati fin dall’inizio da una generica protesta, nel settentrione del paese, rivolta integralmente contro la politica di sistema e le sue dinamiche, nonché, più di recente, dall’incolpevole voto operaio che non sa più a quale santo votarsi …
Un giorno, ricordando il fenomeno del berlusconismo indissolubilmente legato a questo tetro periodo della storia d’Italia, apparirà chiaro che dietro il cosiddetto scudo fiscale concesso alla grande speculazione e alla criminalità organizzata, e dietro la stessa “licenza d’evadere” concessa ai piccoli impresari e ai furbi, si nasconde una precisa scelta di natura sociale e politica e nel contempo la necessità di conservare lo “zoccolo duro” del consenso elettorale.
E’ per tale motivo, tenuto conto che in questo caso parliamo in prevalenza della “piccola evasione fiscale”, che le dimensioni del fenomeno in Italia hanno raggiunto livelli intollerabili, anche per un sistema liberaldemocratico che massacra i lavoratori coccolando i bottegai, gli impresari ed i furbi, esprimendo volumi d’evasione non facilmente quantificabili, i quali oscillano fra i cento ed i duecento miliardi di euro l’anno, IVA compresa o esclusa e in dipendenza della fonte.
Tale mercimonio, determinante negli ultimi due decenni assieme all’avanzare della globalizzazione per gli equilibri politici e gli squilibri sociali prodottisi in questo paese, è profondamente segnato dall’illegalità, ed anzi, è a sua volta fonte di illegalità, di ingiustizia dal punto di vista sociale – e quindi sul piano etico –, rappresentando uno dei principali fattori che alimentano il degrado complessivo del paese.
Considerando questo aspetto, si riesce a cogliere un po’ meglio la vera sostanza del cosiddetto berlusconismo ed anche quella del leghismo bossiano.
L’illegalità nasce, in prima battuta, dalla mancata applicazione e dal mancato rispetto della legislazione fiscale italiana, che pur esiste ed è in vigore, ed è un’illegalità voluta, tollerata e promossa, nel concreto, dalla politica berlusconiana e leghista, con lo scopo precipuo della difesa dei loro principali “bacini elettorali” e di consenso nella società.
Questo aspetto deleterio e per qualche verso decisivo nella vicenda italiana – non assolutamente corretto da una penosa sinistra sistemica, totalmente asservita ai potentati finanziari e militari anglo-americani, nei periodi in cui è stata al governo – ha comportato minori risorse pubbliche da destinare alla scuola, alla sanità, all’assistenza dei malati e dei soggetti deboli, e a quelle stesse infrastrutture che avrebbero dovuto favorire, in un’ottica squisitamente capitalistica, una ripartenza economica che non c’è mai stata.
Ecco perché, banalmente, porgendo un unico esempio qualificante, in questo paese si è condotta una campagna di criminalizzazione rivolta contro i “falsi invalidi”, intendendo in realtà colpire – in nome di quella stessa giustizia che l’evasione fiscale ammessa quotidianamente viola – tutte le pensioni di invalidità, indiscriminatamente, nel tentativo di lasciare senza mezzi di sostentamento, peraltro già da tempo insufficienti in relazione al crescente costo della vita e dei servizi di assistenza, proprio gli invalidi veri, in paese in cui vivono oltre quattro milioni di disabili.
Del resto, come si sbandiera ad arte per far passare in secondo piano i tagli alla socialità, questo è il paese del volontariato diffuso, che fortunatamente con la sua azione caritatevole allevia le sofferenze dei più deboli e supplisce a quei vuoti assistenziali, sempre più ampi, lasciati da uno stato sociale storicamente in ritirata.
Non solo, ma diventa una scelta obbligata, in tali frangenti, massacrare fiscalmente i redditi di lavoro dipendente, dopo averli abbondantemente ridotti con l’applicazione dei contratti precari e a termine, con l’invenzione dei parasubordinati [i falsi lavoratori autonomi] e con i contratti nazionali truffa della cui parte economica beneficia la sola Confindustria, scaricando su questi redditi la parte maggiore della spesa pubblica.
Infine, la questione dell’evasione fiscale e contributiva si sovrappone a quella del lavoro nero, del sommerso, dell’economia informale, con il lavoratore in nero che è costretto ad accettare condizioni di massima flessibilità, senza versamenti contributivi, senza il diritto alle ferie, alla malattia ed agli assegni familiari, semplicemente per poter lavorare e avere un reddito, o che in qualche caso accetta tali condizioni di buon grado, onde sfuggire all’allucinante pressione fiscale esercitata sui redditi da lavoro dipendente.
Per quanto riguarda il clown paramafioso e satireggiante di Arcore, tutti dovrebbero ricordare le sue passate dichiarazioni, in relazione ad una possibile riforma del sistema di imposizione fiscale sui redditi personali che fortunatamente non si è mai concretizzata.
Un’imposta sui redditi personali strutturata su due, o peggio su una sola aliquota uguale per tutti, come era nelle intenzioni di Berlusconi quando ha esternato, pur essendo tecnicamente possibile rappresenta una palese ingiustizia che colpisce i redditi bassi, poiché, riflettendo sul caso di una sola aliquota pari ad un terzo dell’imponibile e soprassedendo sul mantenimento di un'insufficiente no tax area, diecimila euro su trentamila non pesano di certo nell’affrontare le spese della vita quotidiana come trentamila su trecentomila, ed ancor meno come trecentomila su tre milioni.
La correzione dovuta ai carichi familiari, anche se rilevante, non può cambiare la sostanza del discorso.
Del resto, se l’unica aliquota rappresenterebbe un’iniquità troppo scoperta, il progetto di riforma dell’imposizione sui redditi a due aliquote, del 23% e del 33%, risale all’ormai lontano 1994, ma è chiaro che quanto più si riduce il numero delle aliquote, e di conseguenza degli scaglioni di reddito, tanto più ci si allontana dall’equità fiscale.
Questa “semplificazione” del sistema impositivo, agognata dal conducador mediatico italiota, è strettamente correlata alla volontà di rappresentare certi gruppi sociali, nella logica prima ricordata del voto di scambio, e di mantenersi al potere fidando sul loro appoggio, contrapponendosi muro contro muro al resto della società italiana.
Non una parola, naturalmente – al di là di vaghe dichiarazioni di principio e di generiche condanne del fenomeno – sulla necessità e sull’urgenza dell’effettivo potenziamento del settore degli accertamenti fiscali, e quindi, sull’effettiva praticabilità di una capillare lotta all’evasione.
Berlusconi e i caporioni leghisti sanno bene che impegni concreti in tal senso comprometterebbero la fiducia dello “zoccolo duro” elettorale, poiché la base delle loro fortune è rappresentata proprio dall’inquità fiscale e dall’illegalità espressa da un’evasione diffusa, che si concede a certi gruppi e a certe categorie a scapito di tutti gli altri.
Strano che il personaggio in questione non sia andato oltre, fino a proporre un’imposta sui redditi regressiva, con aliquote decrescenti all’aumentare del reddito imponibile, che rappresenta eticamente e socialmente il punto massimo dell’iniquità.
Certo è che chi non paga attualmente le imposte, perché appartiene ad una di quelle categorie che beneficiano della “tolleranza” politica nei confronti dell’evasione, elettoralmente interessata e nel pieno disprezzo della legislazione vigente, continuerà in futuro a non pagarle se gli sarà assicurata una relativa impunità, sia nel caso in cui le aliquote per scaglione scenderanno tutte di uno o due punti percentuali, ed anche se si imporrà il sistema ancor più iniquo a due sole aliquote.
Per quanto riguarda Bossi – furente e volgare, a ruota libera davanti al suo miserabile popolume, del quale per l’occasione “parla la lingua”, ma sicuramente lucido e finalizzato ad ottenere precisi effetti politici ed elettorali in certe sue dichiarazioni pubbliche – nel tempo il suddetto non ha perso occasione per ricordarci pelosamente che il nord “paga le tasse”, insinuando che le pagherebbe anche per tutti gli altri.
Peccato che il nord, così come lo intende Bossi, è rappresentato esclusivamente dal grottesco, feroce e per fortuna minoritario popolume leghista, e questo richiamo frequente alle “tasse” che il nord pagherebbe per intero, fino all’ultimo euro, rivela la volontà di nascondere la vera sostanza del legame fra Bossi e il suo elettorato, quella più concreta e tangibile, cioè lo scambio “voti contro la possibilità dell’evasione”.
In quest’ottica va visto lo stesso federalismo fiscale – minaccia incombente per buona parte delle regioni italiane, comprese alcune regioni settentrionali che entrerebbero in serie ambasce –, il quale federalismo, nell’attuale versione leghista, si accompagna all’illusione, diffusa ad arte fra il popolume bossiano, che “i soldi resteranno a nord”, cioè nelle sue tasche.
I “soldi che restano nelle nostre tasche” rappresentano un’illusione pericolosa, che i fatti puntualmente smentiranno, e costituiscono, oggi, l’unica e la sola giustificazione del federalismo leghista capace di catturare il consenso dei cosiddetti ceti produttivi padani.
E pensare che nel 1993 l’ideologo leghista Gianfranco Miglio, a quel tempo eletto come indipendente nelle liste della Lega Nord e oggi quasi del tutto dimenticato, metteva in guardia contro i “falsi federalisti”, descrivendo un progetto federale [che comunque lo scrivente non condivide, è bene precisare subito] ben più ambizioso, complesso ed articolato di ciò che Bossi chiama federalismo, il quale prevedeva un governo direttoriale per garantire a tutte le repubbliche diritto di voto su materie importanti per l’intera federazione, la conseguente ricostruzione dello stato fin dalle sue fondamenta, sulla base di una rinnovata legalità, e infine un’ampia autonomia impositiva concessa ai municipi ed alle repubbliche federate …
Anche Miglio parlava, dal suo particolare punto di vista, di federalismo fiscale come passo decisivo della “rivoluzione”, senza il quale non ci potrebbe essere vero e compiuto federalismo, ma il fatto è che oggi il federalismo leghista sembra ridursi esclusivamente a questo – visto che le burocrazie politiche padane sono ormai del tutto interne al sistema di potere vigente – e rischia di provocare l’accentuarsi degli squilibri fra le regioni, rappresentando per l’intero paese una potente ed ulteriore spinta dissolutiva.
Il sogno ereditato da Miglio per una nuova costituzione federale di ampio respiro sembra essersi, dunque, definitivamente infranto, e ciò è accaduto, in buona sostanza, per la stessa natura del consenso leghista, ed anche del consenso berlusconiano, entrambi fondati sulla pratica del voto di scambio e dell’illegalità diffusa, nonché sulla tutela dell’interesse particolare di gruppi minoritari nella società italiana.
E’ impossibile fondare sull’illegalità diffusa una nuova legalità e nuove istituzioni degne di rispetto.
Il fondamento illegale ed anti-etico del berlusconismo e del leghismo bossiano dovrebbe risultare ormai chiaro come il sole alla generalità delle persone, ma così non è, purtroppo, perché ipocrisia, disinformazione e distrazione mediatica, imbecillità artificialmente diffusa impediscono di vedere la vera sostanza sulla quale si regge il loro potere.
Del resto, ricordando le parole dello scomparso professor Gianfranco Miglio, apprendiamo che In molti credono che questo sia il momento del demiurgo. Cioè del personaggio che arriva con poteri speciali, si impone e salva tutti. E’ un’idea profondamente antidemocratica, oltre che criminalmente stupida. [Gianfranco Miglio, Attenti al demiurgo!, Panorama, 16 aprile 1994].
Il demiurgo in questione, stigmatizzato come un pericolo immanente dal professor Miglio, non è altri che Silvio Berlusconi, quello stesso Berlusconi che oggi la Lega bossiana puntella instancabile, cercando di assicurargli la maggioranza, per evitare la sua uscita di scena e il conseguente allontanamento della burocrazia politica leghista dal governo di Roma …
E’ chiaro che uno come Gianfranco Miglio, il miglior intellettuale [se non l’unico] che la Lega ha avuto dalla sua parte fin dal debutto nella politica nazionale, non avrebbe visto di buon occhio le pretese berlusconiane, avanzate in questi ultimi anni di governo e di ampio consenso, di estendere i poteri e le prerogative del capo dell’esecutivo.
L’epoca di Berlusconi sembra però essere giunta alla fine, come ci rivelano molti segnali, a partire da quegli stessi sondaggi che hanno orientato il demiurgo “de noantri”e nel contempo influenzato il consenso, ed anche il 44esimo Rapporto Censis avverte che il lungo ciclo iniziato negli anni ottanta – quello del decisionismo e della voglia di governabilità che ha suscitato l’illusione antipolitica, ed ha portato alla verticalizzazione ed alla distruttiva “politica del fare” – è ormai arrivato al capolinea, dopo l’apogeo toccato nel primo decennio di questo secolo.
Se Berlusconi ha “spopolato” nei primi anni del nuovo millennio, il ruolo della sinistra politica sistemica, da quella liberalsocialista a quella ridicolmente chiamata radicale, o ancor più ironicamente massimalista, in questo decennio è sembrato non a torto secondario, decisamente minore.
In questi anni la sinistra è andata a rimorchio, e quando ha avuto responsabilità di governo, non solo non ha cercato di invertire la tendenza – combattendo ad esempio l’evasione, quanto meno la “piccola” evasione che non può rifugiarsi negli intangibili paradisi fiscali, rivalendosi di conseguenza sui gruppi sociali che la esprimono – ma, al contrario, ha dato il suo contributo al massacro dei lavoratori dipendenti, dei pensionati, dei giovani, della socialità in generale, fino allo “scippo” delle tredicesime operato dal secondo governo Prodi, che ha alimentato l’indimenticabile “tesoretto” di Prodi, Visco e Padoa-Schioppa lasciato in eredità a Berlusconi, Bossi e Tremonti [un extragettito “virtuoso” stimato in circa 10,7 miliardi di euro], secondo i suddetti frutto della lotta all’evasione …
Questa sinistra, totalmente priva di programmi politici e di idealità, ma non priva di rapaci burocrazie, se mai tornerà ad assumere responsabilità di governo, non si sognerà neppure di rispondere con un deciso “niet” alle richieste dei dominanti americani, anche se queste dovessero comportare lo smantellamento definitivo degli ultimi grandi gruppi industriali italiani [Eni, Finmeccanica, Fincantieri], non salverà ciò che rimane dello stato sociale e della scuola pubblica, non combatterà l’evasione fiscale e contributiva, a partire dalla “grande evasione”, e non si sognerà di contrastare concretamente ed efficacemente l’economia criminale propriamente detta, il lavoro nero, il sommerso.
Si tratta, insomma, di una sinistra mercenaria, lontanissima dai bisogni reali e dalle istanze concrete dei subalterni, che non avrà alcuna difficoltà a continuare sulla strada della flessibilizzazione del lavoro dipendente, supportando quella lotta di classe che in occidente è portata avanti dai globalisti, e nel contempo ad imporre privatizzazioni e liberalizzazioni a tutto vantaggio del grande capitale finanziario.
Per quanto riguarda i gruppi sociali definiti dallo scrivente, senza mezze misure o ipocrisie di sorta, i “cattivi” nel futuro scontro sociale in Italia, rileviamo che da qualche mese è stata costituita la R.ETE. Imprese Italia – in rappresentanza di oltre due milioni di piccole entità con circa quattordici milioni di addetti, fra botteghe, piccole imprese, laboratori artigianali e simili –, la quale nel suo breve manifesto sostiene che Il futuro del Paese è inscindibilmente legato alle piccole e medie imprese ed all’impresa diffusa, chiave di volta della sua competitività, struttura portante dell’economia reale e dei processi di sviluppo territoriale, luogo di integrazione e costruzione delle appartenenze. [Il Manifesto delle Imprese del Territorio]
In queste parole è contenuta parte significativa del dramma della società italiana e dei suoi assetti produttivi, perché dovrebbe essere ormai chiaro che la frantumazione del tessuto produttivo in una miriade di piccole entità esposte a tutte le intemperie e non di rado inefficienti, che sopravvivono grazie ai contratti di precarietà, al nero, alla compressione del costo del lavoro e all’evasione diffusa, in alcun modo può e potrà costituire un punto di forza, all’interno delle stesse logiche capitalistico-globaliste.
Questa associazione mercantile-industriale-artigianale dei piccoli e dei medio-piccoli, cioè dei più poveri fra i ricchi anche loro a rischio di ri-plebeizzazione negli anni venturi, è nata dal “Patto del Capranica” [maggio del 2010, Roma] che ha unito varie entità quali la Confcommercio che fu di Sergio Billè, Confartigianato, Confesercenti, Casartigiani, CNA, in rappresentanza, nella realtà sociale ed economica italiana, della piccola intermediazione commerciale, caratterizzata sostanzialmente da un pletora di botteghe che da decenni appesantiscono la rete distributiva nazionale, facendo lievitare i costi dei prodotti al dettaglio, e delle medio-piccole, piccole o piccolissime imprese, proliferate grazie da una serie di fenomeni economico-sociali pregressi in buona parte negativi, quali, ad esempio, la frantumazione del tessuto produttivo nazionale e la progressiva scomparsa [grazie a privatizzazioni e svendite] della grande industria, o la difficoltà di accesso a posti di lavoro stabili e decentemente retribuiti nel settore pubblico ed anche in quello privato.
Questi gruppi, come appare nei loro documenti, sostengono che Il federalismo fiscale può arginare il dilagare della spesa pubblica: il passaggio dalla spesa storica a quella standard per le funzioni essenziali delle Regioni e ai fabbisogni standard per il finanziamento delle funzioni fondamentali degli enti locali dovrebbe garantire il contenimento della spesa coniugata ad un miglioramento nella qualità della spesa. [Ripensare alla crescita del paese: strategie e scelte di medio termine]
Non li sfiora minimamente il dubbio che sulla questione della spesa pubblica, la quale trova sempre minor copertura nelle entrate fiscali, pesi come un macigno – quale importante ma non unico fattore, bene inteso – la questione dell’evasione, grande e piccola, questa ultima espressa da una parte non trascurabile dei loro affiliati.
Né considerano il piccolo particolare che una parte rilevante delle entrate delle regioni e degli altri enti locali territoriali deriva dai trasferimenti di risorse dal centro, e non dall’imposizione fiscale locale.
O meglio, chiedono per loro stessi nuove agevolazioni fiscali, con la solita scusa, trita e ritrita, dell’estensione della base occupazionale, ed un fisco meno oneroso, ma soltanto per le loro attività e per chi vuole diventare, in accordo con la propaganda neoliberista flessibilizzante, “imprenditore di se stesso”, naturalmente se dispone dei mezzi privati per poterlo fare.
Perfettamente nel solco della politica berlusconiana, i suddetti richiedono: la prosecuzione della detassazione della componente “di risultato” del salario, cioè quella più aleatoria e variabile, che riguarda essenzialmente straordinari e premi di produzione e che risulta vantaggiosa soprattutto per i datori di lavoro, la riforma dei contratti di lavoro nel senso voluto dal governo, da Confindustria e dalla Cisl, ed un rafforzamento degli Enti bilaterali, per scongiurare il riapparire di una più che giustificabile conflittualità, di matrice antagonistica, negli attuali rapporti di produzione.
Leggendo con la dovuta attenzione i testi disponibili in rete, la R.ETE. Imprese Italia – che parla esclusivamente per i “titolari”, è bene ricordarlo, e non certo per i molti milioni di dipendenti che in tali aziende lavorano – mostra di aderire pienamente alle politiche berlusconiane ed anche a quelle leghiste, a partire dal federalismo fiscale, e tutto questo non può certo essere privo di un chiaro significato politico e sociale.
Credere che sia possibile una saldatura fra costoro, da un lato, il lavoro operaio e quello dipendente in generale, dall’altro lato, fra costoro e quella parte del vecchio ceto medio che esprime, in qualità di dipendenti pubblici o privati, il lavoro intellettuale, fra costoro e i giovani in cerca di un’occupazione stabile e dignitosamente retribuita, fra costoro ed i precari della scuola e delle università, costituisce, per come la pensa lo scrivente, un esercizio di pura fantasia, o un modo subdolo per cercare di neutralizzare la sacrosanta protesta sociale che potrà montare, nei prossimi due o tre anni, anche in questo paese, imbrigliandola attraverso alleanze controproducenti e innaturali.
Nel novero dei “cattivi” rientrano a pieno titolo le burocrazie politiche dei partiti sistemici, svuotati di rappresentanza effettiva, ridotti ai minimi termini come numero di militanti attivi, portatori di programmi-fotocopia od anche di nessun programma politico definito [vedi in proposito il caso penoso del Pd], ma comunque dotati di costose strutture e di numerosi quadri “voraci”, che operano esclusivamente allo scopo di assicurarsi privilegi, lauti redditi personali e comode scorciatoie per la carriera.
Il peso dei predetti tende a diventare particolarmente intollerabile, in periodi di crisi, poiché si tratta di quasi cinquecentomila individui, consigli circoscrizionali, “consulenze” e portaborse compresi.
Data la numerosità degli “occupati in politica” e il peso che hanno nella società, la loro manifesta subalternità al mondo degli affari, la mancanza totale di idealità ben testimoniata da programmi politici “replicanti”, fotocopia o addirittura dall’assenza degli stessi [come se rappresentassero una protesi inutile], nonché la concordanza di interessi concreti e la corruttibilità che generalmente li caratterizza, da intendersi come propensione a scambiare qualsiasi cosa sia nella loro disponibilità [appalti e risorse pubbliche, pacchetti di voti, eccetera] con vantaggi personali ed immeritati benefit, li possiamo ormai considerare come un gruppo sociale a sé stante.
Un gruppo sociale compatto nel difendere i propri interessi, al di là delle apparenti differenze di schieramento, integralmente parassitario e scopertamente nocivo.
La prova che la politica minore dell’epoca si è trasformata in una “professione”, particolarmente lucrosa per chi riesce a raggiungere certi livelli, si è avuta innumerevoli volte in questi anni, ed infatti, molti parlamentari dell’opposizione sistemica sperano che Berlusconi riesca ad ottenere nuovamente la fiducia, in questo mese di dicembre del 2010, piuttosto di arrivare allo scioglimento delle camere e a nuove elezioni politiche, essenzialmente perché fanno parte di quegli oltre trecento membri del parlamento che non hanno ancora “maturato la pensione”.
Rilevante è anche il peso degli affiliati alla grande criminalità organizzata, che spesso si intreccia con la politica sistemica a tutti i livelli, quelli locali e quello nazionale, il che non significa considerare nel novero soltanto la manovalanza camorrista nei quartieri di Napoli, i gruppi di fuoco della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta, ma anche i colletti bianchi, i professionisti di supporto, gli “impiegati” e simili figure sempre più essenziali, diffuse a sud come a nord della penisola.
L’Italia intera è attraversata da un gran numero di “zone grigie”, in cui l’illegalità si leva come una nebbia che rischia di avvolgere l’intero paese.
Queste “zone grigie” non di rado si sovrappongono, e così è, infatti, per quanto riguarda l’evasione e l’elusione fiscale, il lavoro nero e l’economia informale, il lavoro schiavo, la politica minore che si lascia corrompere da impresari e malavitosi, e purtroppo ciò risulta particolarmente vero per l’economia formalmente e penalmente definibile criminale, al punto che oggi si afferma che la capitale “finanziaria” della grande malavita organizzata è diventata quella Milano in cui si concentrano i “danè” e gli affari, e non è più la Palermo dei tradizionali “mammasantissima”.
Se il nord è territorio d’affari per la criminalità organizzata, è comunque nel sud che questa riesce ad espandersi, nella crisi generale della società italiana, estendendo progressivamente il controllo effettivo del territorio, quale stato nello stato, come risulta dal 44esimo Rapporto del Censis: La regione dove la presenza della criminalità organizzata e il controllo del territorio sono più pressanti è la Sicilia (dove il 52,3% dei Comuni presenta almeno un indicatore di criminalità organizzata, coinvolgendo l’83,1% della popolazione), segue la Puglia (con il 43% dei Comuni), la Calabria (38,4%) e la Campania (36,3%).
E’ persino evidente che l’espansione dello “stato di mafia” a sud, con importanti diramazioni affaristiche nel nord, è reso possibile dalla connessione sempre più stretta fra la criminalità organizzata e la politica sistemica, di maggioranza [Lega Nord compresa] e di minoranza.
Con oltre cento e quaranta mila iscritti in rappresentanza di imprese di ogni dimensione, ma in particolare di quella grande e media industria che è minoritaria in un tessuto produttivo frantumato in una miriade di piccole entità, Confindustria fa indubbiamente parte dei “cattivi” che animeranno il futuro scontro sociale in Italia.
Si può agevolmente notare che se da un lato questa organizzazione è interessata a spingere fino alle estreme conseguenze la manovra precarizzante e flessibilizzante nei confronti del lavoro dipendente, iniziata negli anni ottanta, proseguita negli ultimi due decenni e mai più arrestatasi, dichiarando pubblicamente di farlo in nome della “competitività”, dell’”efficienza”, della “produttività” – in una, in nome della Legge del Mercato –, dall’altro chiede continuamente iniezioni di soldi pubblici, in via diretta o indiretta, fino a spingere per la svendita del patrimonio dello stato e degli enti locali, risorse che una politica compiacente non ha avuto e non avrà difficoltà a sottrarre al welfare ed alla socialità nel suo complesso.
Confindustria, in poche parole, esprime la tendenza liberal-capitalistica consolidata a socializzare le perdite private ed a privatizzare le risorse collettive, agitando l’improbabile carota della creazione di nuovi posti di lavoro nel settore privato, e il bastone minaccioso dei licenziamenti e della disoccupazione.
Oltre all’incapacità manageriale e all’”arretratezza” che caratterizzano molta parte dell’industria privata italiana grande e piccola – diversa da quel “capitalismo della borghesia” tedesco che resiste meglio alla crisi –, dietro questa tendenza si nasconde neppure troppo bene la vera sostanza del Libero Mercato, fondato su espropri, razionamenti e ricatti socialmente intollerabili.
Un altro gruppo di “cattivi” è ben rappresentato dai quadri dei sindacati gialli – Cisl, Uil e Ugil – che hanno svenduto i diritti dei lavoratori e il loro stesso futuro, con accordi volti a demolire progressivamente sia la parte economica sia quella dei diritti nei rinnovi dei contratti nazionali di categoria, anzi, questi pseudo-sindacati partecipano attivamente all’attacco complessivo al lavoro, in qualità di truppe ascare, rendendosi immediatamente disponibili a supportare operazioni come quella della Fiat a Pomigliano, oppure per la “riforma” dello Contratto collettivo nazionale, ultimo baluardo dei lavoratori assieme allo Statuto dei Lavoratori del 1970, che con tutta evidenza si vogliono togliere rapidamente di mezzo.
Deroghe sempre più ampie al Ccnl nell'attesa di sostituirlo con un “contratto leggero” a tutele ridotte, attivazione degli Enti bilaterali, inerzia davanti all’approvazione in parlamento dell’arbitrato, accettazione del piano Marchionne per Pomigliano d’Arco, costituiscono il prezzo che un certo sindacalismo ha accettato di pagare – o meglio, ha deciso di far pagare a tutti i lavoratori – per il mantenimento dei suoi centri di potere e dei suoi privilegi.
Questo ultimo gruppo di “cattivi” – degnamente simboleggiato dalla figura di Raffaele Bonanni al vertice della Cisl, che è il pesce più grosso nello stagno putrescente del sindacalismo giallo – è particolarmente odioso, perché disposto a vendere anche la pelle dei propri stessi iscritti, che sono pur sempre lavoratori dipendenti minacciati quanto gli altri dalla de-emancipazione e dalla disoccupazione, in cambio del mantenimento di un potere ormai del tutto autoreferenziale.
In coda, è opportuno far riferimento a quei settori della magistratura che si sono costituiti, de facto e non de iure, in potere politico autonomo, con la pretesa di condizionare i governi – Prodi o Berlusconi non importa – per mantenere il proprio status di privilegio e “orientare” la politica nel senso voluto, mentre i processi, per la gente comune che in questo sistema non conta, si accumulano come montagne di pratiche inevase, poiché non garantiscono rapide carriere, lustro mediatico e non rientrano nella logica perversa della lotta fra poteri dello stato.
Così, all’inizio del 2009 i procedimenti civili pendenti erano cinque milioni e quattrocentomila, ed i procedimenti penali “non evasi” oltre tre milioni e duecentomila.
Questa incuria, della quale dovrebbe rispondere in primo luogo la magistratura, oltre a causare danni e sofferenze crescenti alla popolazione, alimenta l’abuso, la prevaricazione, la violenza e contribuisce a diffondere l’illegalità, nella fondata speranza che la pena potrà non arrivare mai, se i tempi medi sono lievitati negli anni a quasi mille giorni per il primo grado del processo e ad oltre mille e cinquecento per il giudizio di appello.
Gli attacchi al lavoro, l’evasione concessa, la giustizia inceppata, il garantismo castale, l’economia criminale tollerata, gli appalti truccati, i costi e le vistose inefficienze della politica liberaldemocratica non sono che altrettanti sintomi dell’estinzione dell’etica, il miglior humus per la diffusione dell’illegalità, e le principali ragioni endogene del futuro conflitto sociale nella penisola.
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