giovedì 31 gennaio 2013



Ex comunisti al soldo della finanza e sinistra neoliberale 



di Eugenio Orso

(I) Sinistra politica neoliberale ed ex comunisti
Le metamorfosi della cosiddetta sinistra politica in liberaldemocrazia, all’interno della quale, nei decenni del dopoguerra si situavano sempre di più i comunisti “occidentali”, dagli anni cinquanta e soprattutto dal sessantotto a oggi sono numerose e qualitativamente rilevanti. Per quanto riguarda i comunisti italiani costretti nel campo occidentale, il percorso, lungo e accidentato, che li ha portati dallo stalinismo alla dissoluzione del pc, e oltre nel postmortem con la sequenza pds-ds-pd, ha determinato, una volta giunto a compimento, la loro sostanziale internità alla sinistra neoliberale, quale componente di rilievo dell’ala sinistra nell’unico partito neocapitalistico. Un partito opaco, non troppo visibile soprattutto in occasione delle campagne elettorali, ma fortemente centralizzato e costruito intorno agli interessi privati della classe neodominante globale, l’unica che può decidere le politiche strategiche da applicare nei paesi occidentali, e quindi anche in Italia. L’internità degli ex comunisti alla sinistra tributaria del grande capitale finanziario, l’accettazione piena del sistema politico liberaldemocratico occidentale, sempre più assolutista e lontano da una (presunta) “volontà popolare”, ha comportato un “giù la testa” di rilevanza storica sul piano socioeconomico, che ha favorito, all’interno di paesi europei occidentali come l’Italia, le peggiori dinamiche neocapitalistiche oggi in pieno sviluppo: globalizzazione economica delocalizzante, imposizione di una moneta straniera e privata, distruzione della socialità, svalorizzazione del lavoro, liberalizzazioni e privatizzazioni, eccetera, eccetera.
Non a caso oggi, la sinistra politica neoliberale e in particolare gli ex comunisti ammaestrati, fagocitati nel sistema di potere vigente, sovente mostrano di essere i servitori più zelanti di questo capitalismo, zelanti come furono, in altri evi della storia umana, i “conversi” che aderivano per imposizione (e paura) a una religione dominante. Quei conversi che desideravano accreditarsi, agli occhi dei nuovi padroni, offrendo una prova di continua devozione e, appunto, di zelo. Altrimenti avrebbero perso i loro beni e forse la loro stessa vita, o avrebbero dovuto vagabondare per il mondo, per terra e mare cercando un nuovo approdo, come fecero gli ebrei irriducibili. Se gli ebrei conversi, in forza di paura o per opportunismo, hanno assunto nel vecchio continente cognomi che testimoniavano la loro devozione religiosa, ad esempio, in Italia Amadio, Graziadio o Servadio, gli ex comunisti superstiti, passati attraverso numerose metamorfosi “devozionali” capitalistiche nei decenni passati, oggi aderiscono numerosi al pd, che è, appunto, un partito democratico approssimativamente sul modello dei democratici americani, e difendono a spada tratta, per conto delle Aristocrazie finanziarie dominanti, il lager euroglobalista della moneta unica in cui è costretta l’Italia. Senza le metamorfosi “devozionali” degli ex comunisti il direttorio euroglobalista di Monti non avrebbe potuto reggere per tredici mesi, a suon di finanziarie e controriforme antipopolari, e Marchionne non avrebbe potuto imporre i suoi modelli contrattuali con venature schiavistiche in questo paese. Sovranismo, dirigismo economico statale, nazionalismo (o meglio, nazionalitarismo) rappresentano per gli ex comunisti espressioni blasfeme, non tanto perché memori dei precetti comunistico-marxisti otto e novecenteschi (internazionalismo proletario, collettivismo, scomparsa dello stato nello stadio finale comunistico), ormai definitivamente abiurati e dimenticati, ma in quanto espressioni radicalmente contrarie alle logiche nuovo-capitalistiche, finanziarie e globalizzanti.
La globalizzazione di matrice neoliberista ha sostituito impropriamente il vecchio internazionalismo proletario. I processi di globalizzazione economico-finanziaria, quali insiemi di politiche strategiche e di trattati imposti ai paesi, hanno una sostanza concreta, sono reali, causano profonde trasformazioni sociali e determinano il futuro dei popoli, mentre l’internazionalismo proletario, preconizzato nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 da Marx ed Engels, non ha avuto luogo, non è mai stato realizzato. La rivoluzione nel punto più basso dello sviluppo capitalistico, l’Ottobre Rosso, non ha impedito la continuazione della grande guerra, né ha potuto “contaminare” i punti più alti dello sviluppo, nell’Europa occidentale e insulare, realizzando l’internazionalismo comunista proletario, che è sopravvissuto come mito e pura speranza fra le masse dominate. Il dirigismo economico dello stato presuppone la piena sovranità, monetaria e politica, dello stato stesso. Ma ciò che sarebbe rimasto, dopo la rivoluzione proletaria, era un semi-stato leniniano nella fase socialista, in attesa della scomparsa definitiva e liberatoria dello stato nello stadio finale comunista. Le attese dei vecchi comunisti non si sono concretate, e la storia è andata in tutt’altra direzione. In verità, la stessa URSS di riferimento è diventata la prima potenza comunista della storia umana dotandosi di un apparato statale esteso e solidissimo (almeno fino a una certa epoca), di potenti forze militari, e accettando la realtà del socialismo realizzato in un solo paese.  Da un paio di decenni a questa parte, il capitalismo neoliberista e finanziarizzato sta ridimensionando in modo efficace e progressivo gli stati – vedi quello italiano prigioniero dell’unione europide – privandoli della sovranità, a partire da quella monetaria, e riducendone le funzioni. La prospettiva, in Europa, è quella del superamento degli stati nazionali e dell’avvento di un unico governo sopranazionale, che deciderà per tutti, ma che non sarà “eletto dal popolo” e non sarà una sua espressione.
Globalizzazione neoliberista e governo sopranazionale possono apparire, anche se non lo sono per genesi e sostanza, come veri e propri sostituti nuovo-capitalistici dell’internazionalismo proletario unificante e del semi-stato socialista destinato a scomparire con il pieno avvento del comunismo. Possiamo affermare che la globalizzazione in atto è l’esatto opposto dell’internazionalismo proletario di marxiana memoria, e il governo sopranazionale atteso, nell’Europa dell’euro, è uno strumento di dominazione globalista e non una sorta di approdo storico definitivo, che comporterà la liberazione dell’uomo dall’oppressione del vecchio stato “borghese e imperialista”. Ma forse è vero che gli opposti in qualche misura si attraggono, e sono nate persino folli teorie che postulano una “globalizzazione buona”, democratizzata, a vantaggio delle masse (denominate capziosamente moltitudini), in grado di realizzare la “democrazia globale” sull’intero pianeta. Sopravvivenze truffaldine e alterate, nei loro connotati, dell’internazionalismo proletario e dell’approdo definitivo allo stadio comunistico? Utili sostituti ideologici e propagandistici, non corrispondenti alla realtà economica, sociale e politica del presente, dei miti marxistico-comunisti ormai smessi, che hanno attraversato più di un secolo di storia?  Sta di fatto che il neocapitalismo ha vinto, affermando la sua realtà economica, sociale e politica, mentre il comunismo storico novecentesco realmente esistito (secondo l’espressione di Costanzo Preve) è stato sconfitto e si è dissolto, trascinando con sé nella caduta i suoi miti. 



(II) Affermazione della sinistra neoliberale e morte del comunismo storico
La grande svolta storica e sociale, il cambio di evo e di modo di produzione sono stati annunciati, una prima volta, dal sessantotto apparentemente antagonista, quando la sinistra ideologica si è separata da quella sociale e operaia confluendo in seguito e in buona sostanza, negli apparati ideologico-culturali e propagandistici del capitalismo. Altri consistenti segnali del cambiamento, drammaticamente concreti, sul piano politico e sociale ce li offrono le sconfitte operaie degli anni ottanta. Per quanto riguarda l’Italia, possiamo ricordare la sconfitta degli operai Fiat, in sciopero da più di un mese, a causa della “marcia dei quarantamila” nella Torino dell’automobile il 14 ottobre 1980, e il successivo blitz confindustrial-governativo per l’abolizione della scala-mobile, nel 1984, con il decreto di San Valentino dell’allora esecutivo Craxi. Ma è stata la crisi irreversibile del cosiddetto blocco orientale e dell’Unione Sovietica, nel triennio 1989-1991, che ha dato nuovo impulso al neocapitalismo rampante, eliminando il suo più insidioso nemico, e di conseguenza ha accelerato la trasformazione politica, economica e sociale. La dissoluzione finale dell’URSS ha rappresentato un momento topico della trasformazione della sinistra politica e del riciclaggio dei comunisti sconfitti, a quel punto diventati ex a pieno titolo, almeno nell’Italia della svolta occhettiana della Bolognina. Oggi, giunti a compimento del processo di trasformazione, si parla indistintamente di sinistra, o al più si distingue per stigmatizzare l’”eterodossia” di qualche frangia falsamente radicale e massimalista nella sinistra (sel di Vendola, i resti di rc e del pdci). Ma si tratta pur sempre di una sinistra complessivamente neoliberista e neoliberale, rispettosa dei rapporti sociali e di produzione dell’epoca, che non violerebbe mai e poi mai, se non ambiguamente a parole rivolgendosi al suo elettorato, i tabù sociali, economici e politici imposti dal neoliberismo. Vietato ipotizzare seriamente il ripristino della sovranità nazionale, vietato anche soltanto immaginare l’uscita dall’euro, vietato negare apertamente, con chiarezza spietata, che precarietà e licenziamento libero servono per la futura crescita economica, per l’impulso all’occupazione e per la modernizzazione del mercato del lavoro. Il “capitalismo concorrenziale” è la nuova divinità, per tutti, anche per i sinistri neoliberali e i comunisti riciclati. E pensare che un tempo lontano i comunisti, quando esistevano veramente e si chiamavano bolscevichi, erano nemici giurati non solo dello sfruttamento capitalistico di massa e della proprietà privata dei mezzi di produzione, del parlamentarismo introdotto dalla classe dominate, ma della stessa sinistra, allora borghese, alla quale attribuivano la funzione di “quinta colonna” e il compito di imbrogliare le masse, rendendole inoffensive per il sistema capitalista. Oggi soltanto un personaggio del calibro di Silvio Berlusconi, quando si trasforma in macchietta politico-mediatica davanti alle telecamere, agita in campagna elettorale il “pericolo comunista” come se fosse incombente e reale.

(III) Unificazione della sinistra e degli ex comunisti nel partito unico neocapitalistico
La distanza storica (ed etica) fra i comunisti storicamente esistiti e questa sinistra, che è un prodotto nuovo-capitalistico e neoliberale, ci pare incolmabile, addirittura plurisecolare, anche se l’intero processo di trasformazione, velocizzatosi a partire dagli anni novanta, ha richiesto soltanto qualche decennio. Incommensurabile ci sembra la distanza fra un Togliatti, o un Pajetta, e un Occhetto, o ancor peggio, un Veltroni, un D’Alema e un Bersani (chiedo umilmente perdono per il paragone!). Lo stesso Enrico Berlinguer che ha staccato definitivamente la spina del filosovietismo creando l’eurocomunismo occidentalistico, accettando l’”ombrello” atomico della Nato e dichiarando di sentirsi al sicuro nell’occidente a guida americana, era comunque ancora un comunista, al vertice di un partito ormai orientato verso la socialdemocrazia rivendicativa, ma con tracce ancora visibili di solidarietà operaia e di anticapitalismo. Oggi il cordone ombelicale con la tradizione comunista novecentesca, da Antonio Gramsci fino a Palmiro Togliatti, e persino con quella berlingueriana del dopoguerra, è stato definitivamente tagliato, e anzi, i “conversi” tendono a nascondere pudicamente, con vergogna, le loro lontane origini. Il “mai stato comunista” di Veltroni, tende sempre di più a diventare: comunismo, e che cos’è? Persino un certo patriottismo presente nel vecchio pci, che mal si sposava con l’internazionalismo proletario, è venuto definitivamente a mancare, se gli ex comunisti sono disposti ad affidare, senza battere ciglio, il controllo della moneta, la politica economica e quella estera alla Bce, alla Ue e alla Nato. Ciò che conta, nel concreto, sono le politiche che questi camaleontici apostati di una religione “atea”, eredi degeneri di ascendenti gloriosi, sottoscrivono acriticamente e avallano.
Pensiamo al caso grottesco di Pier Luigi Bersani, ex comunista riciclatosi con successo al servizio dell’unionismo europide e del liberalismo politico, che prevede sciagure bibliche per i ceti meno abbienti (in parte significativa suoi elettori) nel caso dell’uscita dell’Italia dall’euro, sostenendo che ciò avvantaggerebbe soltanto i più ricchi, i quali possono permettersi di investire grandi capitali all’estero, mentre comporterebbe un impoverimento generale in termini di redditi e piccoli patrimoni per il resto degli italiani! La minaccia bersaniana, in poche parole, è quella di una miseria più grande che seguirebbe l’attuale impoverimento in caso di abbandono dell’euro e di riacquisizione della sovranità monetaria. Impaurire elettorato e popolazione con la minaccia di piaghe bibliche, se si abbandonerà la strada segnata dal neoliberismo, come nel caso dell’abbandono dell’euro, è una caratteristica comune a tutti questi individui, in relazione ai compiti assegnatigli dai dominanti globali. E’ chiaro che così dicendo Bersani, ex comunista e devoto cameriere neoliberista, mente sapendo di mentire e cerca di terrorizzare i suoi elettori, perché è proprio la moneta unica da lui difesa strenuamente che avvantaggia i più ricchi, e in primo luogo quelle élite finanziarie euroglobaliste al cui servizio lui stesso opera. In pratica, milioni di dominati postproletari, ivi compresa una buona fetta del ceto medio, non hanno oggi alcuna rappresentanza effettiva all’interno del sistema, anche se votano “a sinistra”. La spinta che un pd al governo darà alla diffusione del denaro elettronico e alla scomparsa del contante costituirà un’altra evidente prova di quanto qui si afferma. Il risultato non sarà il recupero dell’evasione fiscale, come millantato, ma commissioni in crescita per i gestori delle carte di credito, che si arricchiranno ancor di più, e controllo orwelliano delle abitudini di ciascuno, attraverso i pagamenti elettronicamente tracciati. La sinistra pidiina al governo, con o senza Monti continuerà sulla strada montiana dell’aumento di una fiscalità razziatrice e punitiva nei confronti della popolazione, dai lavoratori dipendenti alla piccola impresa, e quindi proseguirà il trasferimento di risorse dal lavoro al capitale finanziario, in buona parte esterno all’Italia. Le produzioni nazionali non solo non saranno incentivate, ma in nome del nuovo “internazionalismo globalista” e antisovranista saranno progressivamente smantellate in molti settori, o offerte su un piatto d’argento agli Investitori esteri.
Le manifestazioni devozionali ultraliberiste non sono una caratteristica esclusiva degli ex comunisti e della sinistra neoliberale, ma anche di personaggi politici nati a sinistra e poi riciclatisi a destra senza alcun pudore. Pensiamo agli ex socialisti italiani schieratisi a destra dello spettro politico, come Maurizio Sacconi, ministro del lavoro e del welfare con Berlusconi, che ha contribuito a mazziare in ogni occasione i lavoratori dipendenti (da lui odiatissimi), o come Renato Brunetta, la cui statura etica aderisce perfettamente a quella fisica, che ha perseguitato a lungo, in quanto ministro del IV esecutivo Berlusconi, i dipendenti pubblici, non soltanto con l’imposizione (piuttosto ridicola) dei tornelli negli uffici. Lo spostamento di risorse dal lavoro alla grande finanza internazionalizzata (giornalisticamente nota come Mercati & Investitori), la cessione della sovranità nazionale e l’occupazione dell’Italia, hanno avuto il fattivo sostegno di ex comunisti “metamorfici” come Giorgio Napolitano, in posizione chiave nelle istituzioni repubblicane, mentre al grande attacco scatenato contro i “santuari” del lavoro dipendente, regolare e stabilizzato, hanno partecipato individui come Pietro Ichino, giuslavorista al soldo del capitale, che fu comunista, poi diessino, poi pidiino e oggi montiano di ferro posizionato al centro. Non necessariamente, quindi, gli ex comunisti, e gli ex socialisti e altri ancora di sinistra, si sono riciclati nei ranghi della sinistra politica neoliberale. Ma tutti questi individui hanno qualcosa di molto importante in comune: una sola tessera in tasca, che non mostrano mai agli elettori. Fanno parte dell’unico, opaco partito della riproduzione neocapitalistica, programmaticamente coeso e diviso in fazioni solo nel momento elettorale liberaldemocratico.

(IV) Origine della trasformazione del pci
La trasformazione del pci, che lo ha portato a diventare nel tempo una componente di rilievo della sinistra neoliberale e neoliberista, è cominciata impercettibilmente (si potrebbe dire embrionalmente) in un passato ormai abbastanza lontano, nell’immediato dopoguerra, molto prima del fatidico sessantotto, quando Palmiro Togliatti, uomo di Stalin e dell’URSS, intelligente e rispettato, sicuramente degno di elogi ma leader per certi versi ambiguo dei comunisti in Italia, ha assunto responsabilità di governo diventando prima vicepresidente del consiglio, e in seguito ministro di grazia e giustizia del governo De Gasperi, partecipando i comunisti di allora ai CLN assieme alle altre forze politiche antifasciste. I punti da considerare sono due, nel caso del pci togliattiano ancora ben ancorato all’anticapitalismo, al mito dell’Unione Sovietica, quale entità collettivistica guida e modello, e a quello rivoluzionario dell’operaio di massa.
In primo luogo, la rinuncia alla rivoluzione proletaria e socialista in Italia, paese assegnato al campo occidentale e quindi capitalistico, democratico e liberale. Se in Grecia, nel dopoguerra, è scoppiata una sanguinosa guerra civile, quella del triennio 1946-1949, perché i comunisti filosovietici greci, sicuramente rivoluzionari, non accettavano la monarchia, intendevano liberare una seconda volta il paese e aderire al blocco comunista, la stessa cosa non sarebbe potuta accadere in Italia, pena una nuova guerra mondiale a ridosso della seconda, questa volta combattuta con armi atomiche fra l’est e l’ovest. Stalin non lo voleva e si mostrava intenzionato a rispettare nella sostanza gli accordi con l’occidente (con gli americani e gli inglesi, in poche parole) scongiurando un simile pericolo. Piccolo particolare non però irrilevante c’era all’epoca un ritardo, uno svantaggio sovietico rispetto agli USA in termini di sviluppo delle armi nucleari. Inoltre, l’Unione Sovietica era appena uscita, vittoriosa ma provatissima, con immani distruzioni e perdite di vite umane, dal precedente conflitto. Di conseguenza anche Togliatti, tributario di Stalin, non voleva simili esiti, e ciò ha avuto l’effetto di “tarpare le ali” a un pci ancora (potenzialmente) rivoluzionario, disposto all’insurrezione armata per l’instaurazione del socialismo nella penisola, Yalta o non Yalta. Si può affermare, con (amara) ironia, che la fedeltà nei confronti del paese-guida dei comunisti, il rispetto delle sue esigenze geopolitiche ha allontanato inesorabilmente la prospettiva rivoluzionaria in Italia. D’altra parte, i comunisti greci del kke impegnati nella rivoluzione ricevevano aiuti dalla Jugoslavia di Tito e non da Stalin, che non sembrava entusiasta di quella prospettiva. Quando ci fu l’attentato a Togliatti del luglio 1948, ferito a colpi di pistola dallo studente “qualunquista” e liberale Antonio Pallante, e si materializzò il rischio dello scoppio di una guerra civile in Italia come preludio della rivoluzione, a parte il distrarre la popolazione con le gare ciclistiche e la vittoria inattesa del grande campione Gino Bartali al Tour de France, gli stessi comunisti togliattiani si diedero da fare per placare gli animi (“a sinistra”) e scongiurare la minaccia.
In secondo luogo, in qualità di ministro di grazia e giustizia nell’allora governo De Gasperi, Palmiro Togliatti il 22 giugno 1946 ha concesso l’amnistia ai fascisti (quelli che non si erano macchiati di gravi delitti, in un’interpretazione restrittiva) per poter ricostituire la burocrazia statale in un momento difficilissimo, dal punto di vista economico, sociale e occupazionale, dato che il paese doveva essere ricostruito a partire dall’amministrazione dello stato. L’antifascismo al governo della nazione non aveva quadri sufficienti per raggiungere questo scopo vitale. Togliatti ha concesso l’amnistia in quanto ministro della neonata repubblica italiana (nata il 2 di giugno 1946, in seguito ai risultati del plebiscito monarchia-repubblica), senza coinvolgere nella decisione i dirigenti e la base del suo partito, contrari alla riabilitazione dei fascisti. Se la motivazione più nota era quella della “riconciliazione” fra gli italiani, il motivo più concreto era la necessità di riavviare la macchina dello stato. Con quella scelta, Togliatti ha mostrato di lavorare concretamente per la rinascita di uno stato, e di un intero paese, assegnato dagli accordi fra le potenze vincitrici al campo occidentale e capitalista, a quel punto sotto l’ombrello atomico americano, e che tale sarebbe rimasto nei decenni successivi. Si può affermare che Togliatti, in qualità di ministro comunista della giustizia, ha lavorato sicuramente per il bene del paese (e delle masse popolari provate dal conflitto), ma non altrettanto bene per la rivoluzione proletaria e socialista, favorendo l’avvio della ricostruzione postbellica e la “riconciliazione” all’interno del blocco capitalistico di allora.




(V) Dall’origine della trasformazione del pci alla sua fine
La negazione della possibilità concreta della rivoluzione anticapitalista e socialista, viva soltanto come speranza proiettata in un futuro indeterminato, e la collaborazione nella ricostruzione della macchina dello stato accettando la collocazione dell’Italia nel campo capitalistico e nel blocco occidental-americano, hanno costituito i primi segnali, allora difficilmente interpretabili come tali, dell’inizio della trasformazione del pci in qualcos’altro. Un passo successivo è stato l’abbandono dello stalinismo, ma non del filosovietismo, dopo la denuncia dei cosiddetti crimini di Stalin in URSS avvenuta nel 1956, in occasione del XX congresso del PCUS, per opera di Krusčev e di una nuova generazione di burocrati del partito nata (per ironia della sorte e della storia) dall’industrializzazione staliniana dell’Unione Sovietica.  Ciò che è accaduto in seguito, nei tempi più vicini a noi, lo conosciamo, e il partito comunista italiano è diventato sempre più interno al sistema, sempre meno “soggetto rivoluzionario” e avanguardia della classe operaia, sempre meno fattore K bloccante – fattore Kommunizm, secondo una definizione del giornalista Alberto Ronchey – di ostacolo al ricambio di governo nel paese, e sempre più di sostegno a quel sistema di potere politico che faceva perno sulla dc. Un sistema politico che non avrebbe retto, in determinate circostanze storiche – si pensi agli anni settanta e al fenomeno destabilizzante del terrorismo, con un morto a settimana – se non ci fosse stato un atteggiamento “costruttivo”, collaborativo e benevolo dell’altra “metà del cielo”, rappresentata proprio dal pci. Se ancora nei primi ottanta in pieno eurocomunismo si parlava, in relazione ai militanti e ai quadri del pci, di “baffoni”, ossia di stalinisti, e di “baffini” figli del sessantotto passati al leninismo (Giorgio Bocca), o addirittura della contrapposizione interna al partito fra “filosovietici” e “revisionisti”, oggi, queste espressioni ancora in uso una trentina di anni fa sembrano appartenere a una lingua morta, e rischiano di non essere comprese. Di sicuro non hanno più alcun senso in questa nuova realtà, anche se numerosi “baffini” dell’epoca e qualche “baffone” esistono ancora in vita. Dal 1956  al dicembre del 1981 il partito comunista italiano è passato, nella via crucis della sua trasformazione che ha rimosso, parzialmente ma non completamente il fattore Kommunizm, da un appoggio sostanziale all’invasione sovietica dell’Ungheria (o da una non vigorosa condanna, se si preferisce cavillare) alla condanna esplicita del “colpo di stato militare” del generale Jaruzelski, in una Polonia ancora interna al Patto di Varsavia e al blocco sovietico (Riflessioni sui drammatici fatti di Polonia, documento della direzione del pci berlingueriano del 30 dicembre 1981). La Rivoluzione d’Ottobre aveva dunque esaurito la sua spinta propulsiva, ma vi era ancora necessità che continuasse lo sviluppo del socialismo seguendo un’altra strada, cioè una “terza via”, ancora largamente indeterminata, da costruire con gli altri partiti comunisti europei, secondo quanto dichiarava Enrico Berlinguer. Lo storico segretario del pci, ancora comunista benché con il suffisso euro, si è mantenuto al fianco degli operai della Fiat in sciopero, prima e dopo la decisiva sconfitta torinese del 14 ottobre 1980, non desiderando gettare alle ortiche un patrimonio di lotte e tradizioni assieme ai ritratti di Gramsci e Togliatti. Dal 1984, anno della morte di Berlinguer, alla svolta occhettiana della Bolognina del 12 novembre 1989 e ai primi novanta, alla fumosa “terza via” eurocomunista non più apertamente filosovietica (nata con la conferenza di Berlino del 1976), che implicava comunque il bisogno di socialismo e una prospettiva futura – per quanto vaga – di uscita dal capitalismo, il pci sostituì progressivamente l’accettazione passiva, quasi fatalista, di un capitalismo che si profilava vincente, pur senza dichiararlo esplicitamente e in modo chiaro alle masse e agli elettori.
L’avvento di Gorbaciov in URSS, con tanto di glasnost (trasparenza) e perestrojka (ristrutturazione) al seguito, contribuì a liberare nuove forze nel pci, sempre più lontane dalla tradizione comunista, tanto che dopo l’infarto e l’abbandono della carica di segretario da parte di Alessandro Natta, nel 1988, alla guida del partito arrivò la segreteria di Achille Occhetto, che si fece carico del “cambiamento” non solo del nome, ma del partito stesso. A suo tempo il Berlinguer eurocomunista si era mostrato contrario all’abbandono definitivo delle tradizioni del pci, e così fecero in quei difficili frangenti esponenti rispettati del partito, in particolare Giancarlo Pajetta e Pietro Ingrao, ma opporsi al “cambiamento” non servì. I tempi erano ormai maturi per un grande salto, non proprio nel vuoto, o nel nuovo ma armi e bagagli dall’altra parte della barricata, e questo si sarebbe ben compreso con il solito senno di poi. Dal Migliore, cioè da Togliatti, al Più Amato, cioè a Berlinguer, le trasformazioni del pci sono state significative, di primo rilievo, passando dallo stalinismo filosovietico e dell’attesa rivoluzionaria all’eurocomunismo (parzialmente e moderatamente) critico nei confronti della potenza socialista, ma alla fine degli ottanta qualcosa di importante cambiò, si delineò un “nuovo mondo” dominato da un Neocapitalismo spietato, finanziario e assolutista, dotato di nuovi agenti strategici, globali, postborghesi e privi di etica, che si avviava a chiudere la partita con l’alternativa collettivista targata URSS. I dirigenti comunisti italiani di allora, vista la malaparata, dovettero decidere in fretta se resistere su posizioni che sarebbero diventate, storicamente, sempre più scomode, oppure se aderire all’epocale cambiamento. I giovani dirigenti, che sostenevano la segreteria Occhetto, fecero la seconda scelta, un po’ per opportunismo e “istinto di sopravvivenza”, un po’ per “esplorare” le nuove possibilità che si delineavano. Ne consegue che l’ultimo, vero segretario di un pci di là a poco morente è stato Alessandro Natta (dal 1984 al 1988), come lui stesso ha dichiarato, mentre il primo segretario del nuovissimo pds è stato Achille Occhetto (in carica fino al 1994). Possiamo considerare Achille Occhetto, con i suoi giovani dirigenti ultrariformisti, fra i quali Massimo D’Alema e Fabio Mussi, il Gorbaciov “de noantri”, un Michail di provincia di nome Achille. Volendo essere buoni, non pensando male almeno per una volta, anche per lui potrebbe valere il detto che vale per il dissolutore dell’URSS Michail Gorbaciov e per la sua Trojka ultrarevisionista, e cioè “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno”. Così, quella “cosa” in cui si era trasformato il pci diventava ancor più informe e il cambiamento, velocizzandosi, spingeva non tanto verso l’approdo definitivo del revisionismo e di una socialdemocrazia rivendicativa un po’ più coraggiosa di quella tedesco-occidentale, ma verso l’esito finale dell’internità politica, ideologica e culturale dei comunisti italiani a quello che stava diventando sempre di più un Nuovo Capitalismo finanziarizzato, globalizzante e vincente, compendiato politicamente dalla liberaldemocrazia occidentale, anch’essa in trasformazione. Non per caso la soppressione definitiva del partito comunista, ormai altro da sé, è avvenuta nel 1991, alla fine del cosiddetto “mondo bipolare” USA-URSS e del confronto fra l’ovest capitalista e l’est collettivista. Nato come partito comunista d’Italia il 21 gennaio 1921 a Livorno, il pci morì a Rimini, in occasione del XX congresso, il 3 febbraio 1991. Un settantennio di vita, quanto la compianta Unione Sovietica (n. 1922, + 1991).
Arco costituzionale (che inglobava a pieno titolo il pci), convergenze parallele (secondo l’Aldo Moro che mediava), consociativismo politico (nei fatti, per governare l’Italia), eurocomunismo (di Berlinguer e dei suoi) sono tutte espressioni di epoche successive a quella dei primi governi unitari antifascisti, da Bonomi a De Gasperi, cui partecipava il pci. Neologismi che sintetizzano le fasi trasformative del pci postbellico, nel suo difficile e contradditorio rapporto con il capitalismo e il sistema politico vigente. In questa lunga marcia di avvicinamento al capitalismo, con progressivo abbandono del mito della rivoluzione socialista e adesione implicita a una più “tranquilla” visione socialdemocratica, sono nate e morte nuove generazioni di comunisti (il pci ufficialmente non aveva correnti), come i miglioristi amendoliani “di destra” e gli ingraiani loro avversari, i berlingueriani del distacco dall’URSS e dal sovietismo e i più ortodossi cossuttiani confluiti, in seguito, nel partito della rifondazione comunista. Alla fine il partito comunista, sempre di più “la cosa” e sempre meno la guida e il riferimento politico per le masse proletarie, è stato sciolto, mentre si faceva avanti una nuova generazione di esponenti insensibili alle grandi questioni sociali insorgenti, alle crescenti disparità che un capitalismo geneticamente mutato e rinvigorito diffondeva, alla sorte di milioni di lavoratori e di soggetti economicamente deboli. Una nuova generazione sempre più disposta, negli anni, a mettersi al soldo della finanza trionfante e delle élite dominanti postborghesi, per sopravvivere politicamente, in posizione subordinata, nel “mondo nuovo”. Per tali motivi, dopo le prime sconfitte operaie degli ottanta la situazione è precipitata e gli attacchi contro il lavoro si sono estesi, negli anni novanta fino ai giorni nostri, investendo le giovani generazioni precarizzate, la stabilità del posto di lavoro e una buona fetta del ceto medio. Se non fossero maturati gli eventi ricordati in questo saggio, sarebbe stato impossibile imporre i dogmi neoliberisti in questo paese senza incontrare alcuna resistenza, e demolire la sovranità nazionale dell’Italia senza contrasto, com’è effettivamente accaduto, ponendo il paese sotto il pieno controllo di organismi sopranazionali privati.   

Ecco il triste esito di quella che è stata definita la via italiana al Socialismo: il riciclo degli ex comunisti negli apparati ideologici e politici di un capitalismo privo di etica e di socialità, senza alcuna possibilità di ravvedimento e di ritorno a un glorioso passato di lotte, ormai completamente dimenticato.

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