Ex comunisti al soldo della finanza e
sinistra neoliberale
di Eugenio Orso
(I) Sinistra politica neoliberale ed ex comunisti
Le metamorfosi della cosiddetta sinistra politica in liberaldemocrazia,
all’interno della quale, nei decenni del dopoguerra si situavano sempre di più
i comunisti “occidentali”, dagli anni cinquanta e soprattutto dal sessantotto a
oggi sono numerose e qualitativamente rilevanti. Per quanto riguarda i
comunisti italiani costretti nel campo occidentale, il percorso, lungo e
accidentato, che li ha portati dallo stalinismo alla dissoluzione del pc, e
oltre nel postmortem con la sequenza pds-ds-pd, ha determinato, una volta
giunto a compimento, la loro sostanziale internità alla sinistra neoliberale,
quale componente di rilievo dell’ala sinistra nell’unico partito
neocapitalistico. Un partito opaco, non troppo visibile soprattutto in
occasione delle campagne elettorali, ma fortemente centralizzato e costruito
intorno agli interessi privati della classe neodominante globale, l’unica che
può decidere le politiche strategiche da applicare nei paesi occidentali, e
quindi anche in Italia. L’internità degli ex comunisti alla sinistra tributaria
del grande capitale finanziario, l’accettazione piena del sistema politico
liberaldemocratico occidentale, sempre più assolutista e lontano da una
(presunta) “volontà popolare”, ha comportato un “giù la testa” di rilevanza
storica sul piano socioeconomico, che ha favorito, all’interno di paesi europei
occidentali come l’Italia, le peggiori dinamiche neocapitalistiche oggi in
pieno sviluppo: globalizzazione economica delocalizzante, imposizione di una
moneta straniera e privata, distruzione della socialità, svalorizzazione del
lavoro, liberalizzazioni e privatizzazioni, eccetera, eccetera.
Non a caso oggi, la sinistra politica neoliberale e in particolare gli ex
comunisti ammaestrati, fagocitati nel sistema di potere vigente, sovente
mostrano di essere i servitori più zelanti di questo capitalismo, zelanti come
furono, in altri evi della storia umana, i “conversi” che aderivano per
imposizione (e paura) a una religione dominante. Quei conversi che desideravano
accreditarsi, agli occhi dei nuovi padroni, offrendo una prova di continua
devozione e, appunto, di zelo. Altrimenti avrebbero perso i loro beni e forse
la loro stessa vita, o avrebbero dovuto vagabondare per il mondo, per terra e
mare cercando un nuovo approdo, come fecero gli ebrei irriducibili. Se gli
ebrei conversi, in forza di paura o per opportunismo, hanno assunto nel vecchio
continente cognomi che testimoniavano la loro devozione religiosa, ad esempio,
in Italia Amadio, Graziadio o Servadio, gli ex comunisti superstiti, passati
attraverso numerose metamorfosi “devozionali” capitalistiche nei decenni
passati, oggi aderiscono numerosi al pd, che è, appunto, un partito democratico
approssimativamente sul modello dei democratici americani, e difendono a spada
tratta, per conto delle Aristocrazie finanziarie dominanti, il lager
euroglobalista della moneta unica in cui è costretta l’Italia. Senza le
metamorfosi “devozionali” degli ex comunisti il direttorio euroglobalista di
Monti non avrebbe potuto reggere per tredici mesi, a suon di finanziarie e
controriforme antipopolari, e Marchionne non avrebbe potuto imporre i suoi
modelli contrattuali con venature schiavistiche in questo paese. Sovranismo,
dirigismo economico statale, nazionalismo (o meglio, nazionalitarismo)
rappresentano per gli ex comunisti espressioni blasfeme, non tanto perché
memori dei precetti comunistico-marxisti otto e novecenteschi
(internazionalismo proletario, collettivismo, scomparsa dello stato nello
stadio finale comunistico), ormai definitivamente abiurati e dimenticati, ma in
quanto espressioni radicalmente contrarie alle logiche nuovo-capitalistiche,
finanziarie e globalizzanti.
La globalizzazione di matrice neoliberista ha sostituito impropriamente il
vecchio internazionalismo proletario. I processi di globalizzazione
economico-finanziaria, quali insiemi di politiche strategiche e di trattati
imposti ai paesi, hanno una sostanza concreta, sono reali, causano profonde
trasformazioni sociali e determinano il futuro dei popoli, mentre
l’internazionalismo proletario, preconizzato nel Manifesto del Partito
Comunista del 1848 da Marx ed Engels, non ha avuto luogo, non è mai stato
realizzato. La rivoluzione nel punto più basso dello sviluppo capitalistico,
l’Ottobre Rosso, non ha impedito la continuazione della grande guerra, né ha
potuto “contaminare” i punti più alti dello sviluppo, nell’Europa occidentale e
insulare, realizzando l’internazionalismo comunista proletario, che è
sopravvissuto come mito e pura speranza fra le masse dominate. Il dirigismo
economico dello stato presuppone la piena sovranità, monetaria e politica, dello
stato stesso. Ma ciò che sarebbe rimasto, dopo la rivoluzione proletaria, era
un semi-stato leniniano nella fase socialista, in attesa della scomparsa
definitiva e liberatoria dello stato nello stadio finale comunista. Le attese
dei vecchi comunisti non si sono concretate, e la storia è andata in tutt’altra
direzione. In verità, la stessa URSS di riferimento è diventata la prima
potenza comunista della storia umana dotandosi di un apparato statale esteso e
solidissimo (almeno fino a una certa epoca), di potenti forze militari, e
accettando la realtà del socialismo realizzato in un solo paese. Da un paio di decenni a questa parte, il
capitalismo neoliberista e finanziarizzato sta ridimensionando in modo efficace
e progressivo gli stati – vedi quello italiano prigioniero dell’unione europide
– privandoli della sovranità, a partire da quella monetaria, e riducendone le
funzioni. La prospettiva, in Europa, è quella del superamento degli stati
nazionali e dell’avvento di un unico governo sopranazionale, che deciderà per
tutti, ma che non sarà “eletto dal popolo” e non sarà una sua espressione.
Globalizzazione neoliberista e governo sopranazionale possono apparire,
anche se non lo sono per genesi e sostanza, come veri e propri sostituti
nuovo-capitalistici dell’internazionalismo proletario unificante e del
semi-stato socialista destinato a scomparire con il pieno avvento del
comunismo. Possiamo affermare che la globalizzazione in atto è l’esatto opposto
dell’internazionalismo proletario di marxiana memoria, e il governo
sopranazionale atteso, nell’Europa dell’euro, è uno strumento di dominazione
globalista e non una sorta di approdo storico definitivo, che comporterà la
liberazione dell’uomo dall’oppressione del vecchio stato “borghese e
imperialista”. Ma forse è vero che gli opposti in qualche misura si attraggono,
e sono nate persino folli teorie che postulano una “globalizzazione buona”,
democratizzata, a vantaggio delle masse (denominate capziosamente moltitudini),
in grado di realizzare la “democrazia globale” sull’intero pianeta.
Sopravvivenze truffaldine e alterate, nei loro connotati,
dell’internazionalismo proletario e dell’approdo definitivo allo stadio
comunistico? Utili sostituti ideologici e propagandistici, non corrispondenti
alla realtà economica, sociale e politica del presente, dei miti
marxistico-comunisti ormai smessi, che hanno attraversato più di un secolo di
storia? Sta di fatto che il
neocapitalismo ha vinto, affermando la sua realtà economica, sociale e politica,
mentre il comunismo storico novecentesco realmente esistito (secondo
l’espressione di Costanzo Preve) è stato sconfitto e si è dissolto, trascinando
con sé nella caduta i suoi miti.
(II) Affermazione della sinistra neoliberale e morte del comunismo
storico
La grande svolta storica e sociale, il cambio di evo e di modo di
produzione sono stati annunciati, una prima volta, dal sessantotto
apparentemente antagonista, quando la sinistra ideologica si è separata da
quella sociale e operaia confluendo in seguito e in buona sostanza, negli apparati
ideologico-culturali e propagandistici del capitalismo. Altri consistenti
segnali del cambiamento, drammaticamente concreti, sul piano politico e sociale
ce li offrono le sconfitte operaie degli anni ottanta. Per quanto riguarda
l’Italia, possiamo ricordare la sconfitta degli operai Fiat, in sciopero da più
di un mese, a causa della “marcia dei quarantamila” nella Torino
dell’automobile il 14 ottobre 1980, e il successivo blitz
confindustrial-governativo per l’abolizione della scala-mobile, nel 1984, con
il decreto di San Valentino dell’allora esecutivo Craxi. Ma è stata la crisi
irreversibile del cosiddetto blocco orientale e dell’Unione Sovietica, nel
triennio 1989-1991, che ha dato nuovo impulso al neocapitalismo rampante,
eliminando il suo più insidioso nemico, e di conseguenza ha accelerato la
trasformazione politica, economica e sociale. La dissoluzione finale dell’URSS
ha rappresentato un momento topico della trasformazione della sinistra politica
e del riciclaggio dei comunisti sconfitti, a quel punto diventati ex a pieno
titolo, almeno nell’Italia della svolta occhettiana della Bolognina. Oggi,
giunti a compimento del processo di trasformazione, si parla indistintamente di
sinistra, o al più si distingue per stigmatizzare l’”eterodossia” di qualche
frangia falsamente radicale e massimalista nella sinistra (sel di Vendola, i
resti di rc e del pdci). Ma si tratta pur sempre di una sinistra
complessivamente neoliberista e neoliberale, rispettosa dei rapporti sociali e
di produzione dell’epoca, che non violerebbe mai e poi mai, se non ambiguamente
a parole rivolgendosi al suo elettorato, i tabù sociali, economici e politici
imposti dal neoliberismo. Vietato ipotizzare seriamente il ripristino della
sovranità nazionale, vietato anche soltanto immaginare l’uscita dall’euro,
vietato negare apertamente, con chiarezza spietata, che precarietà e
licenziamento libero servono per la futura crescita economica, per l’impulso
all’occupazione e per la modernizzazione del mercato del lavoro. Il
“capitalismo concorrenziale” è la nuova divinità, per tutti, anche per i
sinistri neoliberali e i comunisti riciclati. E pensare che un tempo lontano i
comunisti, quando esistevano veramente e si chiamavano bolscevichi, erano
nemici giurati non solo dello sfruttamento capitalistico di massa e della
proprietà privata dei mezzi di produzione, del parlamentarismo introdotto dalla
classe dominate, ma della stessa sinistra, allora borghese, alla quale
attribuivano la funzione di “quinta colonna” e il compito di imbrogliare le masse,
rendendole inoffensive per il sistema capitalista. Oggi soltanto un personaggio
del calibro di Silvio Berlusconi, quando si trasforma in macchietta
politico-mediatica davanti alle telecamere, agita in campagna elettorale il
“pericolo comunista” come se fosse incombente e reale.
(III) Unificazione della sinistra e degli ex comunisti nel partito unico
neocapitalistico
La distanza storica (ed etica) fra i comunisti storicamente esistiti e
questa sinistra, che è un prodotto nuovo-capitalistico e neoliberale, ci pare
incolmabile, addirittura plurisecolare, anche se l’intero processo di
trasformazione, velocizzatosi a partire dagli anni novanta, ha richiesto
soltanto qualche decennio. Incommensurabile ci sembra la distanza fra un
Togliatti, o un Pajetta, e un Occhetto, o ancor peggio, un Veltroni, un D’Alema
e un Bersani (chiedo umilmente perdono per il paragone!). Lo stesso Enrico
Berlinguer che ha staccato definitivamente la spina del filosovietismo creando
l’eurocomunismo occidentalistico, accettando l’”ombrello” atomico della Nato e
dichiarando di sentirsi al sicuro nell’occidente a guida americana, era
comunque ancora un comunista, al vertice di un partito ormai orientato verso la
socialdemocrazia rivendicativa, ma con tracce ancora visibili di solidarietà
operaia e di anticapitalismo. Oggi il cordone ombelicale con la tradizione
comunista novecentesca, da Antonio Gramsci fino a Palmiro Togliatti, e persino
con quella berlingueriana del dopoguerra, è stato definitivamente tagliato, e
anzi, i “conversi” tendono a nascondere pudicamente, con vergogna, le loro
lontane origini. Il “mai stato comunista” di Veltroni, tende sempre di più a
diventare: comunismo, e che cos’è? Persino un certo patriottismo presente nel
vecchio pci, che mal si sposava con l’internazionalismo proletario, è venuto
definitivamente a mancare, se gli ex comunisti sono disposti ad affidare, senza
battere ciglio, il controllo della moneta, la politica economica e quella
estera alla Bce, alla Ue e alla Nato. Ciò che conta, nel concreto, sono le
politiche che questi camaleontici apostati di una religione “atea”, eredi
degeneri di ascendenti gloriosi, sottoscrivono acriticamente e avallano.
Pensiamo al caso grottesco di Pier Luigi Bersani, ex comunista riciclatosi
con successo al servizio dell’unionismo europide e del liberalismo politico,
che prevede sciagure bibliche per i ceti meno abbienti (in parte significativa
suoi elettori) nel caso dell’uscita dell’Italia dall’euro, sostenendo che ciò
avvantaggerebbe soltanto i più ricchi, i quali possono permettersi di investire
grandi capitali all’estero, mentre comporterebbe un impoverimento generale in
termini di redditi e piccoli patrimoni per il resto degli italiani! La minaccia
bersaniana, in poche parole, è quella di una miseria più grande che seguirebbe
l’attuale impoverimento in caso di abbandono dell’euro e di riacquisizione
della sovranità monetaria. Impaurire elettorato e popolazione con la minaccia
di piaghe bibliche, se si abbandonerà la strada segnata dal neoliberismo, come
nel caso dell’abbandono dell’euro, è una caratteristica comune a tutti questi
individui, in relazione ai compiti assegnatigli dai dominanti globali. E’
chiaro che così dicendo Bersani, ex comunista e devoto cameriere neoliberista,
mente sapendo di mentire e cerca di terrorizzare i suoi elettori, perché è
proprio la moneta unica da lui difesa strenuamente che avvantaggia i più
ricchi, e in primo luogo quelle élite finanziarie euroglobaliste al cui
servizio lui stesso opera. In pratica, milioni di dominati postproletari, ivi
compresa una buona fetta del ceto medio, non hanno oggi alcuna rappresentanza
effettiva all’interno del sistema, anche se votano “a sinistra”. La spinta che
un pd al governo darà alla diffusione del denaro elettronico e alla scomparsa
del contante costituirà un’altra evidente prova di quanto qui si afferma. Il
risultato non sarà il recupero dell’evasione fiscale, come millantato, ma
commissioni in crescita per i gestori delle carte di credito, che si
arricchiranno ancor di più, e controllo orwelliano delle abitudini di ciascuno,
attraverso i pagamenti elettronicamente tracciati. La sinistra pidiina al
governo, con o senza Monti continuerà sulla strada montiana dell’aumento di una
fiscalità razziatrice e punitiva nei confronti della popolazione, dai
lavoratori dipendenti alla piccola impresa, e quindi proseguirà il
trasferimento di risorse dal lavoro al capitale finanziario, in buona parte
esterno all’Italia. Le produzioni nazionali non solo non saranno incentivate,
ma in nome del nuovo “internazionalismo globalista” e antisovranista saranno
progressivamente smantellate in molti settori, o offerte su un piatto d’argento
agli Investitori esteri.
Le
manifestazioni devozionali ultraliberiste non sono una caratteristica esclusiva
degli ex comunisti e della sinistra neoliberale, ma anche di personaggi
politici nati a sinistra e poi riciclatisi a destra senza alcun pudore.
Pensiamo agli ex socialisti italiani schieratisi a destra dello spettro
politico, come Maurizio Sacconi, ministro del lavoro e del welfare con
Berlusconi, che ha contribuito a mazziare in ogni occasione i lavoratori
dipendenti (da lui odiatissimi), o come Renato Brunetta, la cui statura etica
aderisce perfettamente a quella fisica, che ha perseguitato a lungo, in quanto
ministro del IV esecutivo Berlusconi, i dipendenti pubblici, non soltanto con
l’imposizione (piuttosto ridicola) dei tornelli negli uffici. Lo spostamento di
risorse dal lavoro alla grande finanza internazionalizzata (giornalisticamente
nota come Mercati & Investitori), la cessione della sovranità nazionale e
l’occupazione dell’Italia, hanno avuto il fattivo sostegno di ex comunisti
“metamorfici” come Giorgio Napolitano, in posizione chiave nelle istituzioni
repubblicane, mentre al grande attacco scatenato contro i “santuari” del lavoro
dipendente, regolare e stabilizzato, hanno partecipato individui come Pietro
Ichino, giuslavorista al soldo del capitale, che fu comunista, poi diessino,
poi pidiino e oggi montiano di ferro posizionato al centro. Non
necessariamente, quindi, gli ex comunisti, e gli ex socialisti e altri ancora
di sinistra, si sono riciclati nei ranghi della sinistra politica neoliberale.
Ma tutti questi individui hanno qualcosa di molto importante in comune: una
sola tessera in tasca, che non mostrano mai agli elettori. Fanno parte
dell’unico, opaco partito della riproduzione neocapitalistica,
programmaticamente coeso e diviso in fazioni solo nel momento elettorale
liberaldemocratico.
(IV) Origine della trasformazione del pci
La trasformazione del pci, che lo ha portato a diventare nel tempo una
componente di rilievo della sinistra neoliberale e neoliberista, è cominciata
impercettibilmente (si potrebbe dire embrionalmente) in un passato ormai
abbastanza lontano, nell’immediato dopoguerra, molto prima del fatidico
sessantotto, quando Palmiro Togliatti, uomo di Stalin e dell’URSS, intelligente
e rispettato, sicuramente degno di elogi ma leader per certi versi ambiguo dei
comunisti in Italia, ha assunto responsabilità di governo diventando prima
vicepresidente del consiglio, e in seguito ministro di grazia e giustizia del
governo De Gasperi, partecipando i comunisti di allora ai CLN assieme alle
altre forze politiche antifasciste. I punti da considerare sono due, nel caso
del pci togliattiano ancora ben ancorato all’anticapitalismo, al mito
dell’Unione Sovietica, quale entità collettivistica guida e modello, e a quello
rivoluzionario dell’operaio di massa.
In primo luogo, la rinuncia alla rivoluzione proletaria e socialista in
Italia, paese assegnato al campo occidentale e quindi capitalistico,
democratico e liberale. Se in Grecia, nel dopoguerra, è scoppiata una
sanguinosa guerra civile, quella del triennio 1946-1949, perché i comunisti
filosovietici greci, sicuramente rivoluzionari, non accettavano la monarchia,
intendevano liberare una seconda volta il paese e aderire al blocco comunista,
la stessa cosa non sarebbe potuta accadere in Italia, pena una nuova guerra
mondiale a ridosso della seconda, questa volta combattuta con armi atomiche fra
l’est e l’ovest. Stalin non lo voleva e si mostrava intenzionato a rispettare
nella sostanza gli accordi con l’occidente (con gli americani e gli inglesi, in
poche parole) scongiurando un simile pericolo. Piccolo particolare non però
irrilevante c’era all’epoca un ritardo, uno svantaggio sovietico rispetto agli
USA in termini di sviluppo delle armi nucleari. Inoltre, l’Unione Sovietica era
appena uscita, vittoriosa ma provatissima, con immani distruzioni e perdite di
vite umane, dal precedente conflitto. Di conseguenza anche Togliatti,
tributario di Stalin, non voleva simili esiti, e ciò ha avuto l’effetto di
“tarpare le ali” a un pci ancora (potenzialmente) rivoluzionario, disposto
all’insurrezione armata per l’instaurazione del socialismo nella penisola,
Yalta o non Yalta. Si può affermare, con (amara) ironia, che la fedeltà nei
confronti del paese-guida dei comunisti, il rispetto delle sue esigenze geopolitiche
ha allontanato inesorabilmente la prospettiva rivoluzionaria in Italia. D’altra
parte, i comunisti greci del kke impegnati nella rivoluzione ricevevano aiuti
dalla Jugoslavia di Tito e non da Stalin, che non sembrava entusiasta di quella
prospettiva. Quando ci fu l’attentato a Togliatti del luglio 1948, ferito a
colpi di pistola dallo studente “qualunquista” e liberale Antonio Pallante, e
si materializzò il rischio dello scoppio di una guerra civile in Italia come
preludio della rivoluzione, a parte il distrarre la popolazione con le gare
ciclistiche e la vittoria inattesa del grande campione Gino Bartali al Tour de
France, gli stessi comunisti togliattiani si diedero da fare per placare gli
animi (“a sinistra”) e scongiurare la minaccia.
In secondo luogo, in qualità di ministro di grazia e giustizia nell’allora
governo De Gasperi, Palmiro Togliatti il 22 giugno 1946 ha concesso l’amnistia
ai fascisti (quelli che non si erano macchiati di gravi delitti, in
un’interpretazione restrittiva) per poter ricostituire la burocrazia statale in
un momento difficilissimo, dal punto di vista economico, sociale e
occupazionale, dato che il paese doveva essere ricostruito a partire
dall’amministrazione dello stato. L’antifascismo al governo della nazione non
aveva quadri sufficienti per raggiungere questo scopo vitale. Togliatti ha
concesso l’amnistia in quanto ministro della neonata repubblica italiana (nata
il 2 di giugno 1946, in seguito ai risultati del plebiscito
monarchia-repubblica), senza coinvolgere nella decisione i dirigenti e la base
del suo partito, contrari alla riabilitazione dei fascisti. Se la motivazione
più nota era quella della “riconciliazione” fra gli italiani, il motivo più
concreto era la necessità di riavviare la macchina dello stato. Con quella
scelta, Togliatti ha mostrato di lavorare concretamente per la rinascita di uno
stato, e di un intero paese, assegnato dagli accordi fra le potenze vincitrici
al campo occidentale e capitalista, a quel punto sotto l’ombrello atomico
americano, e che tale sarebbe rimasto nei decenni successivi. Si può affermare
che Togliatti, in qualità di ministro comunista della giustizia, ha lavorato
sicuramente per il bene del paese (e delle masse popolari provate dal
conflitto), ma non altrettanto bene per la rivoluzione proletaria e socialista,
favorendo l’avvio della ricostruzione postbellica e la “riconciliazione”
all’interno del blocco capitalistico di allora.
(V) Dall’origine della trasformazione del pci alla sua fine
La negazione della possibilità concreta della rivoluzione anticapitalista e
socialista, viva soltanto come speranza proiettata in un futuro indeterminato,
e la collaborazione nella ricostruzione della macchina dello stato accettando
la collocazione dell’Italia nel campo capitalistico e nel blocco
occidental-americano, hanno costituito i primi segnali, allora difficilmente
interpretabili come tali, dell’inizio della trasformazione del pci in
qualcos’altro. Un passo successivo è stato l’abbandono dello stalinismo, ma non
del filosovietismo, dopo la denuncia dei cosiddetti crimini di Stalin in URSS
avvenuta nel 1956, in occasione del XX congresso del PCUS, per opera di Krusčev
e di una nuova generazione di burocrati del partito nata (per ironia della
sorte e della storia) dall’industrializzazione staliniana dell’Unione
Sovietica. Ciò che è accaduto in
seguito, nei tempi più vicini a noi, lo conosciamo, e il partito comunista
italiano è diventato sempre più interno al sistema, sempre meno “soggetto
rivoluzionario” e avanguardia della classe operaia, sempre meno fattore K
bloccante – fattore Kommunizm, secondo una definizione del giornalista Alberto
Ronchey – di ostacolo al ricambio di governo nel paese, e sempre più di
sostegno a quel sistema di potere politico che faceva perno sulla dc. Un
sistema politico che non avrebbe retto, in determinate circostanze storiche –
si pensi agli anni settanta e al fenomeno destabilizzante del terrorismo, con
un morto a settimana – se non ci fosse stato un atteggiamento “costruttivo”,
collaborativo e benevolo dell’altra “metà del cielo”, rappresentata proprio dal
pci. Se ancora nei primi ottanta in pieno eurocomunismo si parlava, in
relazione ai militanti e ai quadri del pci, di “baffoni”, ossia di stalinisti,
e di “baffini” figli del sessantotto passati al leninismo (Giorgio Bocca), o
addirittura della contrapposizione interna al partito fra “filosovietici” e
“revisionisti”, oggi, queste espressioni ancora in uso una trentina di anni fa
sembrano appartenere a una lingua morta, e rischiano di non essere comprese. Di
sicuro non hanno più alcun senso in questa nuova realtà, anche se numerosi
“baffini” dell’epoca e qualche “baffone” esistono ancora in vita. Dal 1956 al dicembre del 1981 il partito comunista
italiano è passato, nella via crucis della sua trasformazione che ha rimosso,
parzialmente ma non completamente il fattore Kommunizm, da un appoggio
sostanziale all’invasione sovietica dell’Ungheria (o da una non vigorosa
condanna, se si preferisce cavillare) alla condanna esplicita del “colpo di
stato militare” del generale Jaruzelski, in una Polonia ancora interna al Patto
di Varsavia e al blocco sovietico (Riflessioni sui drammatici fatti di Polonia,
documento della direzione del pci berlingueriano del 30 dicembre 1981). La Rivoluzione
d’Ottobre aveva dunque esaurito la sua spinta propulsiva, ma vi era ancora
necessità che continuasse lo sviluppo del socialismo seguendo un’altra strada,
cioè una “terza via”, ancora largamente indeterminata, da costruire con gli
altri partiti comunisti europei, secondo quanto dichiarava Enrico Berlinguer.
Lo storico segretario del pci, ancora comunista benché con il suffisso euro, si
è mantenuto al fianco degli operai della Fiat in sciopero, prima e dopo la
decisiva sconfitta torinese del 14 ottobre 1980, non desiderando gettare alle
ortiche un patrimonio di lotte e tradizioni assieme ai ritratti di Gramsci e
Togliatti. Dal 1984, anno della morte di Berlinguer, alla svolta occhettiana
della Bolognina del 12 novembre 1989 e ai primi novanta, alla fumosa “terza
via” eurocomunista non più apertamente filosovietica (nata con la conferenza di
Berlino del 1976), che implicava comunque il bisogno di socialismo e una
prospettiva futura – per quanto vaga – di uscita dal capitalismo, il pci
sostituì progressivamente l’accettazione passiva, quasi fatalista, di un
capitalismo che si profilava vincente, pur senza dichiararlo esplicitamente e
in modo chiaro alle masse e agli elettori.
L’avvento di Gorbaciov in URSS, con tanto di glasnost (trasparenza) e
perestrojka (ristrutturazione) al seguito, contribuì a liberare nuove forze nel
pci, sempre più lontane dalla tradizione comunista, tanto che dopo l’infarto e
l’abbandono della carica di segretario da parte di Alessandro Natta, nel 1988,
alla guida del partito arrivò la segreteria di Achille Occhetto, che si fece
carico del “cambiamento” non solo del nome, ma del partito stesso. A suo tempo
il Berlinguer eurocomunista si era mostrato contrario all’abbandono definitivo
delle tradizioni del pci, e così fecero in quei difficili frangenti esponenti
rispettati del partito, in particolare Giancarlo Pajetta e Pietro Ingrao, ma
opporsi al “cambiamento” non servì. I tempi erano ormai maturi per un grande
salto, non proprio nel vuoto, o nel nuovo ma armi e bagagli dall’altra parte
della barricata, e questo si sarebbe ben compreso con il solito senno di poi.
Dal Migliore, cioè da Togliatti, al Più Amato, cioè a Berlinguer, le
trasformazioni del pci sono state significative, di primo rilievo, passando
dallo stalinismo filosovietico e dell’attesa rivoluzionaria all’eurocomunismo
(parzialmente e moderatamente) critico nei confronti della potenza socialista,
ma alla fine degli ottanta qualcosa di importante cambiò, si delineò un “nuovo
mondo” dominato da un Neocapitalismo spietato, finanziario e assolutista,
dotato di nuovi agenti strategici, globali, postborghesi e privi di etica, che
si avviava a chiudere la partita con l’alternativa collettivista targata URSS.
I dirigenti comunisti italiani di allora, vista la malaparata, dovettero decidere
in fretta se resistere su posizioni che sarebbero diventate, storicamente,
sempre più scomode, oppure se aderire all’epocale cambiamento. I giovani
dirigenti, che sostenevano la segreteria Occhetto, fecero la seconda scelta, un
po’ per opportunismo e “istinto di sopravvivenza”, un po’ per “esplorare” le
nuove possibilità che si delineavano. Ne consegue che l’ultimo, vero segretario
di un pci di là a poco morente è stato Alessandro Natta (dal 1984 al 1988),
come lui stesso ha dichiarato, mentre il primo segretario del nuovissimo pds è
stato Achille Occhetto (in carica fino al 1994). Possiamo considerare Achille
Occhetto, con i suoi giovani dirigenti ultrariformisti, fra i quali Massimo
D’Alema e Fabio Mussi, il Gorbaciov “de noantri”, un Michail di provincia di
nome Achille. Volendo essere buoni, non pensando male almeno per una volta,
anche per lui potrebbe valere il detto che vale per il dissolutore dell’URSS
Michail Gorbaciov e per la sua Trojka ultrarevisionista, e cioè “di buone
intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno”. Così, quella “cosa” in cui si
era trasformato il pci diventava ancor più informe e il cambiamento,
velocizzandosi, spingeva non tanto verso l’approdo definitivo del revisionismo
e di una socialdemocrazia rivendicativa un po’ più coraggiosa di quella
tedesco-occidentale, ma verso l’esito finale dell’internità politica,
ideologica e culturale dei comunisti italiani a quello che stava diventando
sempre di più un Nuovo Capitalismo finanziarizzato, globalizzante e vincente,
compendiato politicamente dalla liberaldemocrazia occidentale, anch’essa in
trasformazione. Non per caso la soppressione definitiva del partito comunista,
ormai altro da sé, è avvenuta nel 1991, alla fine del cosiddetto “mondo
bipolare” USA-URSS e del confronto fra l’ovest capitalista e l’est
collettivista. Nato come partito comunista d’Italia il 21 gennaio 1921 a
Livorno, il pci morì a Rimini, in occasione del XX congresso, il 3 febbraio
1991. Un settantennio di vita, quanto la compianta Unione Sovietica (n. 1922, +
1991).
Arco costituzionale (che inglobava a pieno titolo il pci), convergenze
parallele (secondo l’Aldo Moro che mediava), consociativismo politico (nei
fatti, per governare l’Italia), eurocomunismo (di Berlinguer e dei suoi) sono
tutte espressioni di epoche successive a quella dei primi governi unitari
antifascisti, da Bonomi a De Gasperi, cui partecipava il pci. Neologismi che
sintetizzano le fasi trasformative del pci postbellico, nel suo difficile e
contradditorio rapporto con il capitalismo e il sistema politico vigente. In
questa lunga marcia di avvicinamento al capitalismo, con progressivo abbandono
del mito della rivoluzione socialista e adesione implicita a una più
“tranquilla” visione socialdemocratica, sono nate e morte nuove generazioni di
comunisti (il pci ufficialmente non aveva correnti), come i miglioristi
amendoliani “di destra” e gli ingraiani loro avversari, i berlingueriani del
distacco dall’URSS e dal sovietismo e i più ortodossi cossuttiani confluiti, in
seguito, nel partito della rifondazione comunista. Alla fine il partito
comunista, sempre di più “la cosa” e sempre meno la guida e il riferimento
politico per le masse proletarie, è stato sciolto, mentre si faceva avanti una
nuova generazione di esponenti insensibili alle grandi questioni sociali
insorgenti, alle crescenti disparità che un capitalismo geneticamente mutato e
rinvigorito diffondeva, alla sorte di milioni di lavoratori e di soggetti
economicamente deboli. Una nuova generazione sempre più disposta, negli anni, a
mettersi al soldo della finanza trionfante e delle élite dominanti
postborghesi, per sopravvivere politicamente, in posizione subordinata, nel
“mondo nuovo”. Per tali motivi, dopo le prime sconfitte operaie degli ottanta
la situazione è precipitata e gli attacchi contro il lavoro si sono estesi,
negli anni novanta fino ai giorni nostri, investendo le giovani generazioni
precarizzate, la stabilità del posto di lavoro e una buona fetta del ceto
medio. Se non fossero maturati gli eventi ricordati in questo saggio, sarebbe
stato impossibile imporre i dogmi neoliberisti in questo paese senza incontrare
alcuna resistenza, e demolire la sovranità nazionale dell’Italia senza
contrasto, com’è effettivamente accaduto, ponendo il paese sotto il pieno
controllo di organismi sopranazionali privati.
Ecco il triste
esito di quella che è stata definita la via italiana al Socialismo: il riciclo
degli ex comunisti negli apparati ideologici e politici di un capitalismo privo
di etica e di socialità, senza alcuna possibilità di ravvedimento e di ritorno
a un glorioso passato di lotte, ormai completamente dimenticato.
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