Visualizzazione post con etichetta Paolo Barnard. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Paolo Barnard. Mostra tutti i post

lunedì 2 aprile 2012

Italia kaputt! 

di Eugenio Orso

Non siamo ancora tornati nel devastato ’43 dell’armistizio di Cassibile, ma potrebbe non mancare molto, se è vero che quanto consumi e spesa alimentare, come ci hanno avvertito i media di recente, siamo ripiombati indietro di trenta anni buoni, rituffandoci negli ottanta.


Salari e stipendi sono fra i più bassi d’Europa, il lavoro regolare è un mito, tanto che potrebbe diventare il premio più ambito per chi vince il Grande Fratello o qualche altro concorso televisivo drogato.


I precari non ancora espulsi non saranno stabilizzati, ma in compenso si precarizzerano integralmente gli stabilizzati, e gli occupati nel sommerso parrebbe che sono diventati sei milioni.


Si moltiplicano i suicidi di coloro che sono oppressi dagli usurai di sistema, Equitalia, Agenzia delle entrate, ed è così che si conduce concretamente la lotta all’evasione … nel silenzio assoluto di Monti e Napolitano, di tutti i politici e tecnico-politici, perché, come si sa, “chi tace acconsente”.


Tutt’al più, si discute del cosiddetto fallimento individuale, o meglio la bancarotta individuale, quella dei “privati”, della gente comune che non conta che sconta pignoramenti e morte civile, con la possibilità furbescamente concessa di rateizzare le estorsioni che deve subire chi non ce la fa più a pagare.


Niente cancellazioni di debiti, e sembra che si tratti di “last chance non mercy”, architettato per tenere il debitore ancora sulla corda, presentargli l’alternativa fra liquidare il debito subito o rateizzarlo, senza escluderlo per sempre dal fondamentale “diritto al consumo”.


Per questo c’è un disegno di legge governativo in materia.


Il progetto globalista di distruzione della struttura produttiva del paese per la sua definitiva marginalizzazione nell’economia mondiale è realizzato da Monti – Napolitano senza incontrare ostacoli di rilievo, e se qualche sub-tributario politico o sindacale si permette di fare qualche bizza, avanza qualche critica destinata puntualmente a rientrare, in merito alla “riforma” del mercato del lavoro non ancora approvata formalmente, per non rischiare interruzioni nella demolizione del paese, i Mercati & Investitori aprono il fuoco contro l’Italia e si rialza minacciosamente lo spread con il bund, seminando allarme, paura e sconforto.


Un ministro di Monti, un ominicchio prezzolato e incaricato come i suoi colleghi di tagliare teste, tale Passera, avverte candidamente che la crisi continuerà per tutto il 2012, e Monti, dall’estero, mentre cerca di svendere l’Italia, o ciò che ne rimane al capo globalista cinese Hu Jintao, da Seul e da Tokyo, quale supremo tagliatore di teste nazionale minaccia e terrorizza volutamente gli italiani.


Il governo dell’occupatore finge di volersi occuparsi del problema del credit-crunch, che strangola attività produttive e famiglie, mentre invece è proprio la contrazione del credito, la chiusura dei rubinetti dai quali affluiscono i soldi, uno strumento importante per “ridimensionare” l’Italia e far evaporare le sue potenzialità produttive.


Dittatura indiretta globalista, nata dall’attuale “stato di eccezione liberalmocratico”, e i sondaggi d’opinione mutuati dal marketing in luogo delle elezioni politiche caratterizzano questo drammatico passaggio storico, e il Mario Monti non eletto è come un Caronte, anglofilo ed anglofono, che traghetta il paese nell’Ade attraversando uno Stige di lacrime e sangue.


Pietro Ancona ha scritto un bellissimo post, la scorsa settimana, dedicato alla Cattiveria al Potere, in cui avverte che i sadici e gli assassini (espressioni mie e non sue, beninteso) sono saldamente al potere, in Italia, e non si preoccupano minimamente della strage che stanno provocando, tacciono ignorando la cosa, non hanno una sola parola di cordoglio, sia pur ipocrita e formale, per gli assassinati dal fisco e dalla riscossione implacabile dei tributi.


Marco Della Luna, con un’interessante analisi della situazione italiana dal taglio un po’ tecnico, in cui segnala evidenti convergenze fra la strategia recessiva di Monti e la strategia autolesionistica di molte banche e industrie, ci avverte che l’Esodo è bello: scappare via, emigrare: cercare rifugio altrove è l’unica soluzione possibile per salvarsi, naturalmente per coloro che possono permettersi di farlo.


Paolo Barnard, assunto definitivamente un taglio da predicatore, trasformatosi in un Girolamo Savonarola contemporaneo, continua ad incaponirsi nel voler “spiegare l’economia agli italiani” (MMT, Keynes, consumi da sostenere, moneta da rinazionalizzare, debito pubblico positivamente inteso, eccetera) attribuendo all’economia spiegata agli italiani una funzione salvifica, e la sua opera sarà pure meritoria (anzi, lo è), ma purtroppo otterrà scarsi frutti, perché l’orizzonte di massa sta diventando, sempre di più, quello della sopravvivenza quotidiana, e ci saranno sempre meno tempo e risorse intellettuali a disposizione per riflettere, studiare, capire.


Marco Cedolin, con Fabio Polese, ha scritto Ci stanno suicidando, mettendo bene in rilievo che le politiche “di austerità” montiane spingono al suicidio, e che è in corso una pesante demolizione di tutti i rapporti sociali non basati sull’economia.


Altri hanno scritto, e fra questi anch’io.


Ci sono in rete innumerevoli post, articoli, analisi, saggi che testimoniano una volta di più una sola cosa: comprendere non significa cambiare.


Sabato trentun marzo, come risposta a questa situazione, i soliti antagonisti da operetta molto indignati, che contano quanto il due di coppe a briscola, quando escono spade, hanno indetto l’ennesima manifestazione, diretta contro la speculazione, contro la grande finanza internazionale e, naturalmente, contro le solite banche che non possono simbolicamente mancare, in simili occasioni.


Occupy Piazza Affari” era il loro slogan, se ben ricordo, ma sappiamo bene che la borsa di Milano era, è e resterà piccola, provinciale, asfittica, poco importante, simbolo della minorità dell’Italia nel contesto internazionale, come sappiamo altrettanto bene che l’”occupazione” di Wall Street, cuore finanziario occidentale con Londra, con annesso campeggio degli indignati americani a Manhattan, non ha portato alcun frutto, non ha lasciato alcun segno visibile.


A Milano si è verificato qualche incidente trascurabile, ed in manifestanti hanno simbolicamente murato l’ingresso della filiale della BNL di corso di Porta romana.


L’apparato massmediatico di sistema, molto efficiente nella sua opera di sistematica disinformazione e “distrazione” di massa, pur diffondendo qualche notizia in merito, non ha certo enfatizzato la cosa oltremisura.


Il potere non si spaventa per questo, non si sente in pericolo, e sembra che ghigni: “ordinaria amministrazione, lasciamo sfogare che tanto non hanno capito il nostro gioco e non sanno come difendersi, ammesso che lo vogliano fare.”


Se questo è almeno parzialmente il quadro della situazione, possiamo ben dire, parafrasando lo scrittore Sven Hassel che narrava con crudezza storie della seconda guerra mondiale, non Germania Kaputt, perché non è ancora venuto il momento della Germania, ma Italia Kaputt!, perché il momento, per l’Italia, è arrivato.

mercoledì 7 marzo 2012


QUELL'AMERICANATA DELLA MMT (2)

Una teoria economica imperialistica?
La Modern Money Theory o il mito della Cornucopia 


(seconda parte)


di Moreno Pasquinelli


«Potevamo andare al summit di Rimini a dire queste cose? Meglio di no. E comunque non sarebbe stato possibile, visto che il Barnard l’ha organizzato alla stregua di un simposio di sacerdoti gnostici, quasi si trattasse di un rito per seguaci o iniziati».


La bacchetta magica fasulla della MMT



La MMT non ci convince. Ciò non dev’essere inteso come una perorazione delle politiche degli eurocrati —che tengono duro con la linea contraria, quella del ferreo pareggio di bilancio (salvo erogare, vedi la decisione della Bce di Mario Draghi, una montagna di danaro fresco alle banche per evitare il loro fallimento). Né vogliamo negare (fermo restando il diverso universo concettuale) i punti di accordo con gli MMtisti, quattro fondamentalmente: l’attacco all’architettura stessa dell’Unione europea, la necessità per uno Stato di esercitare pienamente la propria sovranità monetaria, quindi la preferenza per l’uscita dall’eurozona, ed infine che la banca centrale di uno stato sovrano dovrebbe usare la leva monetaria in favore degli interessi del popolo lavoratore e non di quelli di ristrette oligarchie finanziarie e della pletora di ceti sociali parassitari.

Quel che cerchiamo di sostenere è che il sistema economico capitalistico ha delle sue proprie leggi di movimento, che la recessione deve seguire sempre il periodo di crescita, che le crisi catastrofiche sono connaturate ad esso, che per uscirne, come aveva sottolineato Marx, il capitale deve compiere per intero il suo ciclo di svalorizzazione e che per ri-valorizzarsi e rilanciare il ciclo di accumulazione esso deve passare per una guerra fratricida tra capitali (i liberisti, con pelosa metafora, la chiamano distruzione creativa) e vincere quella col lavoro salariato, riducendolo in condizioni di schiavitù. Cerchiamo di sostenere che la terapia che ci propongono gli MMTisti per porre fine al marasma, tutta fondata sulla centralità della moneta e quindi sull’idea che la banca centrale debba stampare moneta a gogò per finanziare ad libitum la spesa pubblica è una pia illusione.

Se la crisi degli anni ’60-’70 revocò in dubbio la validità della teoria economica keynesiana —col che ribadiamo il nostro dissenso con la tesi, come minimo semplicistica del Barnard (domanda: ma i teorici della MMT la condividono?), per il quale le politiche economiche di tipo keynesiano vennero abbandonate a causa del complotto di ristrette cricche di plutocrati—, l’attuale impasse dell’economia americana mostra l’inefficacia della terapia anti-ciclica fondata su una politica monetaria espansiva e sull’indebitamento pubblico.

Non c’è dubbio infatti che nella disperata ricerca evitare che il capitalismo precipiti nell’abisso, di contro alla cura deflattiva perseguita dagli eurocrati, le autorità politiche e monetarie anglosassoni stiano agendo di rimessa in base alla Keynesiana Trappola della liquidità.

La trappola descrive la situazione in cui la politica monetaria non riesce più a sortire effetti sull’economia in recessione. Si cade nella trappola quando i tassi d’interesse pur essendo prossimi allo zero e non potendo scendere ulteriormente non riescono a far ripartire il motore economico. Per spiegare l’arcano Keynes la butta in psicologia: non i tassi d’interesse, afferma, sono il fattore decisivo, bensì “la fiducia” dei capitalisti. Quando i loro sentimenti sono dominati dall’incertezza e dalla paura essi non investono, tesaurizzano anziché spendere. Così la domanda si blocca e sopraggiunge la recessione, questa crea la disoccupazione, la quale, a sua volta determina minori redditi e calo dei consumi.

Con tutto il rispetto per Keynes, la sua spiegazione emotiva delle crisi capitalistiche non sta né in cielo né in terra. Mette in luce due cose: che egli non aveva compreso l’essenza stessa del modo capitalistico di produzione, e dunque la sua distanza siderale dal pensiero Marx. E qui cade la pretesa di alcuni degli MMTisti, tra cui L. Randall Wray per cui la MMT sarebbe, tra l’altro, l’incontro tra Keynes e Marx. Il tentativo di ottenere un cocktail tra i due è come pretendere di mescolare olio e acqua, i due elementi alla fine si scorporano per tornare al loro irriducibile stato fisico.

La MMT è invece, come abbiamo detto, una versione sesquipedale del keynesismo, solo con più attenzione etica a nobili valori sociali. Ascoltiamo quel che dice l’americanissimo Barnard nella sua vulgata ad uso e consumo dei suoi compatrioti.
E una citazione lunga, ma ne vale la pena, perché contiene la quint’essenza della MMT:



«In primo luogo, il governo americano potrebbe retribuire ogni disoccupato con uno stipendio che gli rende possibile vivere, anche a quelli che attualmente hanno un salario bassissimo. Ha tutti i soldi del mondo per farlo, perché il nostro governo possiede il dollaro USA e può pagare qualsiasi salario voglia (sotto vi darò una semplice spiegazione).
Voi chiederete: questo non provocherebbe un aumento del già enorme debito pubblico? No, per niente, semplicemente perché una classe lavoratrice americana ben pagata può creare tanta nuova produzione, nuove infrastrutture, nuovi investimenti e nuovi servizi che forniranno più ricchezza nelle tasche degli americani e nelle casse del suo governo. Si tratta di una spesa pubblica che finirebbe per pagare in gran parte sé stessa, a beneficio di tutti. Non c'è bisogno d'aver paura di un debito ingente.
In secondo luogo, il governo potrebbe pagare adeguati servizi per tutti gli americani, vale a dire una copertura sanitaria universale, una buona istruzione, l’assistenza sociale per i bisognosi e gli anziani e un buon sistema pensionistico. Di nuovo, non provocherebbe ulteriore debito a Washington, perché ci renderebbe di nuovo migliori lavoratori, migliori studenti e anziani meno bisognosi.
In sintesi: saremmo una nazione ancora più competitiva che crea valore invece di sprecarlo per problemi sociali gravissimi. E una società dove il senso di sicurezza sostituisce il dolore e la paura porta a meno mali sociali, a meno disintegrazione della famiglia, a meno criminalità.
Suona bene, vero? Ma il governo ha davvero tutti questi dollari da spendere per noi? (…) Solo il nostro governo può farlo [stampare dollari, Nda]. Lo fa presso la Tesoreria e alla Federal Reserve.
Pensate in questo modo: il governo crea dollari mettendo la sua firma su pezzi di carta (banconote e obbligazioni), oppure sui trasferimenti di moneta elettronica. Può mai essere a corto della propria firma?
Ha bisogno di prenderli in prestito da qualcun altro? Ha bisogno di tassare la gente per riavere quelle firme che lui ha creato? No, certo che no. Quindi, per ricapitolare: il governo crea nuovi dollari, non deve mai prenderli a prestito, non può mai finirli, non ha bisogno di tassare nessuno per questo. E così può usare i suoi dollari per fare qualsiasi cosa voglia, come creare occupazione per tutti noi, educare tutti noi, prendersi cura di tutti noi. E non dimenticate: questa forma di spesa del governo finisce per pagarsi in gran parte da sola, a causa del circolo virtuoso della nuova ricchezza nazionale netta che crea.

E questo non richiede super-tasse per nessuno. In realtà, tutto funziona proprio come se il governo ci desse più dollari di quanti ne preleva con la tassazione.
Si combatte anche l'inflazione grazie a tutte le cose nuove che saranno prodotte e così il governo riuscirà a smettere di aumentare la sua spesa (oppure ulteriori emissioni di dollari) quando tutti noi avremo più posti di lavoro». [Paolo Rossi Barnard, La moderna teoria monetaria spiegata alle mamme]

Come detto: il paese della Cuccagna.
Anzi, ci vengono in mente le parole del Boccaccio quando descriveva il paese di Bengodi:

«Maso rispose che le piú si trovavano in Berlinzone, terra de' Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta; ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giú, e chi piú ne pigliava piú se n'aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d'acqua».

Come si può credere a simili sciocchezze? Vero è che la MMT è una teoria più complessa di quanto Barnard tenti di far credere, che la sua è una volgarizzazione forse maldestra. Tuttavia il succo non gli è sfuggito. Come ha confermato Michael Hudson a commento dell’incontro di Rimini:


«Quindi, qual è l’aspetto fondamentale? È avere una banca centrale che opera nel modo per cui sono state fondate: per monetizzare il passivo di bilancio e per spendere fondi nell'economia, nel modo adatto a promuovere la crescita economica e la piena occupazione. Questo era il messaggio della MMT per cui cinque di noi sono stati invitati a Rimini».

La gallina dalle uova d’oro non esiste…

E’ stato giustamente fatto notare che il modello proposto dalla MMT, semmai avesse un luogo in cui potesse funzionare, questo sarebbe soltanto quello di un paese ad economia chiusa e pienamente protezionista. In altre parole esterno al mercato mondiale. Lo staliniano “socialismo in un solo paese” verrebbe da pensare, o l’autarchia fascista.
Monetizzare un passivo di bilancio crescente emettendo titoli di debito, autorizzare la banca centrale a stampare illimitatamente moneta per accrescere e finanziare la spesa pubblica, non porterebbe al collasso catastrofico solo in un luogo immaginario posto fuori dal mercato capitalistico mondiale.
Ancora deve nascere un sistema economico che possa starsene fuori dal sistema di vasi comunicanti rappresentato dal mercato mondiale. Accadde alla Cambogia dei Khmer Rossi, tuttavia Pol Pot non farneticava che il suo paese sarebbe potuto sopravvivere a lungo isolandosi dal mondo. Nel suo piano i lavori forzati per rilanciare la produzione su larga scala di riso, erano solo il male necessario per dare vita ad un’accumulazione primitiva che avrebbe consentito al paese di superare la soglia dell’autosufficenza alimentare, raggiungere livelli produttivi che avrebbero permesso in un secondo momento di esportare riso in cambio di beni strumentali per avviare l’industrializzazione. Pol Pot, al contrario degli MMtisti, aveva capito Marx, che in ultima istanza la Legge del valore l’avrebbe spuntata.

Un paese “evoluto”, non con un’economia claustrale (ma le abbazie benedettine non lo erano nemmeno loro), cioè con un sistema industriale avanzato e una popolazione dai bisogni molteplici, è costretto a importare tutto quanto serve alla sua economia. Con che pagherebbe questi prodotti? Dando in cambio a chi li offre la sua propria moneta? Ma come sperare che essi la accettino se detto paese sta fuori dai mercati finanziari e monetari internazionali? Essi la rifiuterebbero, per la semplice ragione che non gli attribuirebbero alcun valore e chiederebbero di essere rimborsati con una terza moneta di conto che abbia per loro valore, o con un equivalente come l'oro.

A questo punto al nostro paese non resterebbero che tre scelte: o l’autarchia, appunto, ma ciò a spese del proprio sviluppo e del benessere dei cittadini che dovrebbero vivere con quello che passa il proprio convento (altro che Bengodi!); o proporre uno swap, un baratto, dando in cambio al fornitore le proprie merci; o decidersi, allo scopo di disporre di una terza moneta o di oro, ad entrare nei circuiti finanziari e monetari internazionali internazionali, con tutto quanto ne consegue.

E’ evidente che il baratto (seconda scelta) ha limiti intrinseci, di sicuro è una gabbia per scambi generalizzati, poiché l’altra parte potrebbe non avere alcun bisogno dei beni che tu offri in cambio, e viceversa. Esso avverrebbe comunque in base alle leggi di mercato (ecco che non sfuggi alla Legge del valore). Come stabilire che ad una data quantità di merce X debba corrispondere questo e non un altro ammontare di merce Y? Da che dipende il loro valore di scambio se non dalla quantità di lavoro, vivo e passato, in esse contenuto? Ma allora ciò che verrebbero qui a confrontarsi faccia a faccia sono i livelli di produttività: se una mia giornata lavorativa produce (grazie ad esempio ad un uso di tecnologie più avanzate e a tassi di sfruttamento della forza lavoro più alti) il doppio della tua, in base al principio dello scambio tra equivalenti, minor tempo di lavoro si scambierà con maggior tempo di lavoro, col che avremo un drenaggio di ricchezza dal paese meno produttivo a quello che lo è di più. Se il paese A impiega il doppio di tempo e risorse per estrarre un barile di petrolio rispetto ad un suo concorrente non è che io, B, che ti offro, che so, macchinari, te lo pago il doppio del tuo concorrente. Il valore di una merce, sottolineava Marx svelando l'arcano su cui si erano impigliati i classici, dipende non dal mero tempo di lavoro speso per produrla (che aaltrimenti il prodotto di uno scansafatiche che impiega il triplo di tempo di un altro avrebbe il triplo del valore), ma dal lavoro medio socialmente neecessario effettivamente erogato.

Ma questa seconda ipotesi è del tutto virtuale. Se non vuole perire sotto questa forma di autarchia capitalstica mascherata, un paese quale che sia, che adotti o non adotti la MMT, deve tornare sui mercati finanziari e monetari internazionali. Ma se torna nel grande gioco degli scambi capitalistici (la qual cosa è appunto data per scontata dagli MMTisti) esso non può farsi regole su misura, deve soggiacere alle leggi che presiedono questi scambi. Allora esso dovrà fare i conti con la bilancia dei pagamenti, con la legge della domanda e dell’offerta, con le partite correnti, con la politica dei cambi (fissi o flottanti), con la convertibilità o meno della sua valuta e dei suoi tassi di cambio, con le politiche monetarie degli altri, quindi svalutazioni competitive, inflazioni, default e spietata concorrenza. E dovrebbe forse trovare acquirenti stranieri affinché acquistino i titoli di Stato emessi per finanziare la propria macchina pubblica o il suo welfare. Una volta entrati nel circuito si possono adottare politiche protettive, non abolire e nemmeno sterilizzare le sue dinamiche effettuali.

Col che addio al dogma della MMT. Te lo scordi che il governo e la tua « banca …possano… monetizzare il passivo di bilancio e per spendere fondi nell'economia, nel modo adatto a promuovere la crescita economica e la piena occupazione», se sono incapsulati nel mercato mondiale, con banche e aziende che operano sui mercati globali, a borse aperte. Tutto potrebbero fare, meno che applicare una politica economica realmente indipendente.


La moneta, per quanto abbia tre funzioni (mezzo di scambio, unità di conto e riserva di valore) resta pur sempre una sovrastruttura. Essa è il simbolo, per quanto astratto, della ricchezza sociale e questa consiste, in ambiente capitalistico, in merci, in merci il cui valore dipende anzitutto dal lavoro (vivo e passato) in esse contenuto.


E’ quindi, oltre alla natura, il lavoro è la sola sorgente da cui sgorga la ricchezza sociale —che il denaro rappresenta e di cui consente la circolazione. Hanno voglia gli MMTisti a dire il contrario: il denaro non se ne sta sospeso nella stratosfera, dev’esserci una relazione tra soggetto e predicato, un legame indissolubile tra il simbolo e ciò di cui esso è segno astratto. A meno che non si vogliano accettare i meccanismi perversi e fasulli del capitalismo-casinò (per cui ti vendo, come Totò, anche la Fontana di Trevi, ma abbiamo visto dove siamo arrivati), non posso scambiare che ciò che effettivamente produco, e se metto in circolazione una quantità di moneta eccessiva, prima o poi, più prima che poi, il simbolo si deprezzerà, avrò svalutazione e, se non corro ai ripari riducendo la quantità di moneta in circolazione, essa potrebbe avere il valore della... carta straccia. Non posso stampare carta moneta a gogò, come se il suo valore, come la manna, scendesse dal cielo, e non invece dal lavoro, dalla produzione complessiva di beni.

…a meno che…

O il valore della moneta (che per quanto metamorfica è pur sempre una merce) dipende dal valore di chi la emette? E da che dipende questo valore dell’emittente? Dalla sua solvibilità. E da cosa dipende la sua solvibilità se non dalla capacità di creare surplus, ricchezza eccedente (e quindi destinata allo scambio)? Il mercato se ne fotte del blasone di questa o quella banca centrale. Il mercato si è già vendicato nel settembre 2009 dei trucchi del capitalismo-casinò sui derivati e la montagna dei collaterali spazzatura. Repetita juvant: il valore di un segno monetario così come quello dei titoli di debito di uno Stato vengono stabiliti in base ai fondamentali, ovvero in base alla potenza del sistema produttivo di cui sono semplici rappresentanti. Per dire che piena occupazione e benessere dipendono dalla produttività del sistema dato di produrre motu proprio quantità crescenti di sovraprodotto sociale e nient’affatto dalla quantità di moneta circolante.

I teorici della MMT dovrebbero dirci, una buona volta: com’è che il loro sistema può funzionare senza uscire dai mercati finanziari mondiali? Com’è che la banca centrale può finanziare a piacimento la spesa pubblica in ambiente capitalistico? A borse aperte in cui si transa il grosso dei capitali? Col sistema creditizio in mano al capitale privato? Con le banche oramai prima di tutto banche d’affari e non più meramente commerciali? Con i mezzi di produzione concentrati in mano a ristretti gruppi oligopolistici? Con il sovraprodotto sociale che in quanto plusvalore è accaparrato dal capitale? Dovrebbero dirci questo invece di menare il cane per l’aia e di camuffare questo loro razzolare con i loro tecnicalismi e le loro fumisterie algebriche, che tradiscono la loro adesione alla teoria economica post-marginalista e quantitativa?

Ci viene un dubbio lancinante…

Esiste teoricamente un altro ambiente oltre ai tre da noi descritti (autarchia, baratto, libero scambio) in cui gli MMTisti potrebbero mettere in pratica la loro dottrina. In linea teorica le loro ricette potrebbero essere applicate in un paese imperialista forte, anzi in un paese super-imperialista. Una paese che sia al contempo la prima potenza industriale, agricola, finanziaria, tecnologica e militare, ovvero un paese che abbia una dispiegata supremazia mondiale, e che grazie alla sua posizione dominante possa drenare e captare surplus da tutte la aree del mondo e spalmare ai quattro angoli del globo il proprio debito pubblico e la propria inflazione, e che al contempo li minacci tutti e li soggioghi con la sua deterrenza militare.

Uno stato simile, non lo escludiamo, potrebbe applicare, con relativo successo, le dottrine della MMT.

Ci viene in mente che questo Stato in effetti esiste, per quanto oramai profondamente ferito e malato: sono gli Stati Uniti d’America. Così verrebbe fuori non solo che le teorie degli MMTisti sono nate in ambiente yankee, e che solo in quello potevano nascere, ma che la loro teoria si attaglia e solo può attagliarsi agli Stati Uniti in quanto super-potenza imperialistica.

Il dubbio è questo: non sarà che la MMT è una teoria economica imperialistica? Proprio gli americani usano dire: «Se una cosa sembra una papera, cammina come una papera e fa qua-qua, probabilmente è proprio una papera».

Potevamo andare al summit di Rimini a dire queste cose? Meglio di no. E comunque non sarebbe stato possibile, visto che il Barnard l’ha organizzato alla stregua di un simposio di sacerdoti gnostici, quasi si trattasse di un rito per seguaci o iniziati.

Ma l’economia, abbiamo detto, è sempre economia politica, le idee economiche sono sempre idee politiche, che non solo dovrebbero giungere alle masse, ma debbono essere sottoposte al vaglio della critica. Due cose che non interessano per niente al Paolo Rossi Barnard. Peggio per lui.

lunedì 27 febbraio 2012

QUELL'AMERICANATA DELLA MMT

La Modern Money Theory o il mito della Cornucopia


(prima parte)


di Moreno Pasquinelli

“Se una cosa sembra una papera, cammina come una papera e fa qua-qua, probabilmente è proprio una papera”.

 


L’economia, l’abbiamo detto in passato, è sempre economia politica.
La pretesa degli economisti che la disciplina a cui si dedicano, e per cui vengono lautamente remunerati abbia, al pari della fisica o della chimica, valore di scienza esatta —che essa si fondi sui fenomeni “così come sono”, ovvero senza inferenze ideologiche— è la più insidiosa delle balle ideologiche.
Questa premessa non può tuttavia giustificare che in questo campo tutte le tesi si equivalgano o addirittura che una fesseria abbia lo stesso valore di un’idea seria, fondata su analisi rigorose.
Le cose si complicano nel campo della moneta, di cosa essa sia, delle sue funzioni. Lo stesso mondo accademico, quello in estrema sintesi della classe dominante, è diviso in un florilegio di scuole e dottrine. La MMT, tanto per essere chiari, non nasconde questa sua adesione al polifonico schieramento borghese.

C'era una volta...

Non è che gli accademici della MMT ne facciano mistero. Ecco, ad esempio, quanto afferma il divulgatore Paolo Rossi Barnard, a cominciamento della sua fatica Il più grande crimine:

«E’ semplice da capire. Ci fu un giorno di non molti anni fa in cui finalmente, e dopo secoli di sangue versato e di immane impegno intellettuale, gli Stati abbracciarono due cose: la democrazia e la propria moneta sovrana moderna. Un connubio unico nella Storia, veramente mai prima esistito. Significava questo: che per la prima volta da sempre noi, tutti noi, avremmo potuto acquisire il controllo della ricchezza comune e stare bene, in economie socialmente benefiche e prospere. Ma questo non piacque a qualcuno, e fu la fine di quel sogno prima ancora che si avverasse».


Improvvisatosi chef Barnard ci serve qui il suo piatto forte. Ne viene fuori un pasticcio per niente appetitoso. Occorre tuttavia farsi forza, superare la ripulsa e assaggiarlo per comprendere quali siano gli ingredienti di cui è composto. Già al primo boccone ne risaltano tre.

 
     Paolo Rossi Barnard

1) Il primo è che il “connubio unico nella Storia, veramente mai prima esistito” tra democrazia e moneta sovrana avrebbe dato i natali al Paese di Cuccagna, del benessere e dell’abbondanza.

2) Qual’era questo Paese di Cuccagna? Ça va sans dire, si tratta dell’Occidente e, in primis, degli Stati Uniti. Barnard riferisce in particolare al "periodo d’oro" succeduto alla seconda guerra mondiale, al ciclo lungo di espansione economica che durò fino alla fine degli anni ’60.

3) Il terzo ingrediente è il complottismo. La trama del racconto barnardiano, salta agli occhi, è l’eterna lotta tra il bene e il male. Una trama puerilmente manichea, ma sempre efficace per persuadere l’opinione pubblica ingenua, tipo quella yankee per capirsi. Il bene, rappresentato dal modello sociale capitalistico emerso dalla vittoria americana nella seconda guerra mondiale, venne poi vinto dal male, dalla cospirazione di pochi plutocrati cattivi.

1) Anzitutto è falsa la premessa. Non è vero che democrazia e sovranità monetaria —due fattori che come sa ogni studente che abbia superato la soglia dell’insufficienza, c’erano già ai tempi dell’Atene periclea o della Repubblica romana— si siano accoppiati per la prima volta, grazie all’egemonia americana, solo nella seconda metà del secolo scorso. La storia non è evidentemente il forte di Barnard.
2) Ma soprattutto è falsa l’asserzione che la crescita economica e il benessere relativo conosciuti dal capitalismo Occidentale dopo la seconda guerra mondiale (il periodo del cosiddetto welfare state) siano stati principalmente causati dal connubio tra democrazia e sovranità monetaria —per la precisione, ma ci torneremo più avanti, dall’applicazione della politica economica keynesiana del deficit spending.
3) È infine francamente risibile addebitare la fine di quel ciclo lungo di espansione economica, precipitato nella devastante crisi della fine degli anni ’60-70, non a fattori macroeconomici, non a cause strutturali, alle contraddizioni congenite del modo capitalistico di produzione, bensì al complotto di una conventicola di plutocrati, che per l’occasione si sarebbero serviti della teoria monetarista di Milton Friedman.
Ma andiamo con ordine.

Il capitalismo e la leggenda della panacea keynesiana

La MMT, spogliata degli orpelli, non è che una versione sesquipedale della teoria economica keynesiana. Compresa l’essenza di quest’ultima avremo compreso dove vanno a parare i guru della MMT. La leggenda vuole che fu grazie alla cura proposta da Keynes che il capitalismo poté uscire dalla sua più grave crisi, quella del 1929. Ma questa è, appunto, solo una leggenda o, quantomeno solo una parte della verità.

La crisi esplosa nel 1929, che fu la più classica e marxiana crisi di sovrapproduzione, revocò in dubbio, assieme alla Legge di Say (in un’economia di mercato capitalistica si determina sempre un equilibrio tra produzione e domanda) l’idea che solo assecondando gli animal spirits del capitalismo si sarebbero avuti crescita e progresso. Quando nel 1936 Keynes pubblicò la sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, era chiaro non solo a lui, ma pure ai sassi, che per venir fuori dal marasma occorreva abbandonare il dogma liberista. A sei anni dal Martedì nero, il Pil degli Stati Uniti era sceso del 38%, la disoccupazione era ai massimi, la domanda di beni era crollata e quindi i prezzi, il capitale aveva cessato di investire.
Per uscire dalla Grande depressione e innescare un processo virtuoso di crescita, anzitutto dell’occupazione, Keynes sostenne che occorreva agire su due leve: incrementare la domanda aggregata (beni di consumo e servizi) e stimolare gli investimenti di capitale. Come? Attraverso un massiccio intervento del settore pubblico, anche in deficit spending, ovvero tramite politiche di deficit di bilancio, attraverso l’indebitamento pubblico il quale, a date condizioni, non avrebbe determinato l’aumento del tasso d’interesse e incoraggiato gli investimenti privati. In questo contesto per Keynes è decisiva la politica monetaria di governi e banche centrali, quindi fare leva sul tasso d’interesse: occorreva portarlo prossimo allo zero, aumentando l’offerta di moneta, immettendo massicce dosi di liquidità nel mercato, così che i capitalisti, non trovando conveniente tesaurizzare, sarebbero stati spinti all’investimento.

Perché è una leggenda che fu grazie a questa cura che il capitalismo occidentale uscì dalla Grande depressione? Per la semplice ragione che non ne uscì affatto. Per paradosso il solo esempio di applicazione radicale della ricetta keynesiana, fu la Germania nazista (altro che connubio democratico!), che debellò la disoccupazione e venne fuori dalla recessione grazie ad un ciclopico intervento pubblico, al deficit spending sì, ma finalizzato al riarmo su grande scala e al redde rationem bellico.

Per la verità non fu diversa la linea scelta dagli Stati Uniti d’America. Essi sì aumentarono la spesa pubblica ma anche loro, per finanziare la guerra: il 100% del Pil nel 1940. [vedi la tabella n.1]
 
  Tabella n.1 (clicca per ingrandire)

Quindi, se proprio di “connubio” si deve parlare, egregio Dottor Barnard, non è quello immaginario tra democrazia e sovranità monetaria, ma quello ben reale tra guerra e imperialismo, del riarmo su larga scala finalizzato alla conquista dei mercati mondiali finanziato dalla spesa pubblica.

La verità è infatti che il capitalismo occidentale uscì dalla Grande depressione iniziata il 1929 solo dopo la seconda guerra mondiale, dopo aver spinto le larghe masse nella più cupa miseria, ovvero, come argutamente sostenne Marx, il capitale esce dalle sue crisi cicliche e rilancia il processo di accumulazione, solo passando attraverso il letto di Procuste di distruzioni immani di forze produttive.

Solo a posteriori, solo quando la crisi toccò il fondo della guerra, dopo che, sconfitta la Germania e contestualmente costruita la Cortina di ferro che accerchiò l’Unione sovietica; solo dopo aver diversamente ripartito il succulento mercato mondiale sotto la schiacciante egemonia americana; solo a queste condizioni i governi occidentali, quello USA in primo luogo, adottarono politiche economiche di tipo (sottolineo di tipo) keynesiano.

La domanda, a questo punto, è la seguente: furono le ricette keynesiane la causa primaria del lungo ciclo espansivo postbellico? O furono altri i fattori determinanti? E’ vera la seconda risposta.

Bretton Woods e la sconfitta di Keynes

Non c’è dubbio che gli USA furono la locomotiva che trascinò dietro di sé le economie capitalistiche occidentali. Guardiamo quindi come gli Stati Uniti uscirono dalla guerra, cioè dalla crisi.
Essendo stati il paese la cui industria è stato il principale fornitore di armi dello schieramento vincente, la loro economia era la più prospera e dinamica. Il dollaro aveva definitivamente rimpiazzato la sterlina inglese come principale moneta di scambio mondiale. New York era diventata di gran lunga la principale piazza finanziaria globale. La loro bilancia dei pagamenti era in forte attivo. Gli Usa detenevano infine, nel 1944, riserve d’oro ingenti: 24 miliardi di dollari su un totale mondiale di 36. Essi erano oramai la banca centrale del mondo.

Se la Germania era in pezzi, la Gran Bretagna non stava messa meglio: essa aveva definitivamente perduto la sua supremazia, anche perché si era dissanguata per finanziare il suo sforzo bellico, a tutto vantaggio degli USA (che armarono sì gli inglesi ma in cambio di pagamenti rigorosamente in contante.

E’ in queste nuove condizioni che si aprì, il 1 luglio del 1944, la conferenza di Bretton Woods. Fedele suddito britannico, perfettamente consapevole della oramai matura supremazia americana e nel tentativo di contrastarla, Keynes, in coerenza con la sua idea della centralità assoluta della moneta, propose un piano per un nuovo ordine monetario internazionale, il cui cardine era la creazione di meccanismo di compensazione l’istituzione fondato su una nuova moneta di conto internazionale (il bancor) il cui valore sarebbe stato, seppure in maniera flessibile, agganciato all’oro. Era l’abbozzo di un’unione monetaria internazionale, che contemplava una parità stabile tra le diverse valute, un equilibrio delle bilance dei pagamenti, l’accesso al credito da parte dei paesi debitori per ristabilire eventuali rotture dell’equilibrio delle partite correnti.

Il piano di Keynes venne bocciato. Gli americani, forti della loro supremazia, e intenzionati a difenderla con le unghie e coi denti, ebbero facile gioco ad imporre il loro proprio piano, quello di White, e da cui nacque il Fondo monetario internazionale (Fmi). Di quale ordine economico avessero bisogno gli Stati Uniti non è difficile da comprendere: avevano un eccesso di capitali e liquidità che doveva andarsene, per valorizzarsi, liberamente a spasso per il mondo, quindi debellare ogni protezionismo; avevano bisogno di prestare quattrini (Piano Marshall tanto per dire) e dunque di regole stringenti per i creditori; avevano bisogno che si aprissero i mercati e che i capitali potessero liberamente circolare; avevano bisogno di impedire agli altri concorrenti le svalutazioni competitive. Avevano infine bisogno di cristallizzare il dollaro come reale moneta di conto per gli scambi internazionali.


Il ciclo espansivo post-bellico e la crisi

Che poi siano state le ricette keynesiane, ovvero l’uso taumaturgico del deficit spending e l’emissione monetaria ex nihilo le due cause primarie del lungo ciclo espansivo postbellico americano è smentito dall’evidenza empirica. Non appena finita la guerra, dopo il picco del periodo bellico, la spesa pubblica del governo federale degli Stati Uniti è scesa vorticosamente, per poi tenersi costante, mentre Pil e consumi sono pressoché quadruplicati [vedi tabella n.2].
 
                                                            Tabella n.2 (clicca per ingrandire)


Non c’è dunque alcun rapporto causale, analizzando l’economia americana (la quale, non dimentichiamolo, viene presa ad esempio dai guru della MMT), tra crescita e spesa pubblica, la quale ultima si impenna invece proprio negli anni ’80, in pieno periodo liberista-reaganiano [vedi tabella n.3].

                                                      Tabella n.3 (clicca per ingrandire)

Non stiamo dicendo che un uso determinato della spesa pubblica e della moneta non influiscano affatto sul ciclo economico, stiamo solo affermando che per quanto importanti non sono per niente i fattori primari a innescare e determinare il ciclo virtuoso dell’accumulazione capitalistica, da cui per i teorici della MMT scaturisce gioco forza, e anche questo è tutto da dimostrare, il benessere generale.

Si osservi la Tabella n.4. Essa mostra i miliardi di dollari immessi dalla Federal Reserve nel sistema economico americano nell’ultimo trentennio. Da 800 miliardi circolanti nel 2007 si è passati ai 2.800 attuali! Una conferma lampante della politica monetaria iper-espansiva adottata dalla Casa Bianca, ovvero tutto il contrario del monetarismo alla Friedman. Si potrebbe affermare che l’Amministrazione Obama e Ben Bernanke stanno seguendo proprio la ricetta proposta dai guru della MMT (ed infatti essi non la disdegnano, per proporla anzi con forza ai pesi europei).
 
                                                Tabella n.4 (clicca per ingrandire)

Che questa terapia di stampare dollari e titoli di stato a gogò e di deficit spending serva davvero a far uscire l’economia americana dalla crisi è tuttavia da dimostrare. Nonostante il fiume di liquidità e i tassi a zero il Pil ne ha risentito ben poco, la disoccupazione resta altissima, i poveri aumentano, gli investimenti ristagnano. Per diversi analisti una nuova recessione, più grave di quella del 2008-10 è alle porte, e l’overdose di liquidità culminerà in una nuova bolla finanziaria, peggiore di quella che portò al fallimento di Lehman Brothers. Col che la MMT andrà a farsi friggere.

Ben altre furono la cause primarie del ciclo espansivo post-bellico. Quali?

1) L’applicazione sistematica, sia nell’industria, nell’agricoltura e nei trasporti, delle rivoluzionarie scoperte tecniche e scientifiche del periodo bellico, con un aumento vorticoso della produttività del lavoro;

2) l’avvento della società de consumi, ovvero la produzione su larga scala di una messe di nuovi prodotti che andavano a soddisfare una congerie multiforme di nuovi bisogni;

3) la disponibilità di petrolio di materie prime a bassissimo costo grazie al saccheggio imperialistico dei paesi semicoloniali e a spese dell’ecosistema;

4) l’adesione (tranne poche eccezioni) del movimento operaio occidentale, americano anzitutto, al modello sociale consumistico-concertativo, il suo lento incapsulamento nel sistema imperialistico;

5) Anche la spesa pubblica ha avuto ovviamente un ruolo di stimolatore del ciclo economico ma, se è per questo, l’ha avuto anzitutto la spesa per il finanziamento del blocco militare-industriale e della ricerca scientifica finalizzata allo sviluppo di nuovi armamenti nella cornice della guerra fredda anticomunista.
                                      Non siamo ad Auschwitz, ma ai bordi dell'impero USA 

Il tutto per dire che l’encomio che la MMT e Barnard fanno di questo periodo è una generosa e americano-centrica apologia, non solo del capitalismo, ma della sua metastasi imperialistica a stelle e strisce. Se solo Barnard riuscisse a voltare lo sguardo, ad osservare quello che lui chiama periodo d’oro da un’altra angolatura, ad esempio da quella di un boliviano, di un congolese o di un palestinese, da quello insomma dei tre quindi dell’umanità che ha sputato sangue per assicurare il benessere dell’Occidente, giungerebbe a ben altro conclusioni.