giovedì 31 gennaio 2013



Ex comunisti al soldo della finanza e sinistra neoliberale 



di Eugenio Orso

(I) Sinistra politica neoliberale ed ex comunisti
Le metamorfosi della cosiddetta sinistra politica in liberaldemocrazia, all’interno della quale, nei decenni del dopoguerra si situavano sempre di più i comunisti “occidentali”, dagli anni cinquanta e soprattutto dal sessantotto a oggi sono numerose e qualitativamente rilevanti. Per quanto riguarda i comunisti italiani costretti nel campo occidentale, il percorso, lungo e accidentato, che li ha portati dallo stalinismo alla dissoluzione del pc, e oltre nel postmortem con la sequenza pds-ds-pd, ha determinato, una volta giunto a compimento, la loro sostanziale internità alla sinistra neoliberale, quale componente di rilievo dell’ala sinistra nell’unico partito neocapitalistico. Un partito opaco, non troppo visibile soprattutto in occasione delle campagne elettorali, ma fortemente centralizzato e costruito intorno agli interessi privati della classe neodominante globale, l’unica che può decidere le politiche strategiche da applicare nei paesi occidentali, e quindi anche in Italia. L’internità degli ex comunisti alla sinistra tributaria del grande capitale finanziario, l’accettazione piena del sistema politico liberaldemocratico occidentale, sempre più assolutista e lontano da una (presunta) “volontà popolare”, ha comportato un “giù la testa” di rilevanza storica sul piano socioeconomico, che ha favorito, all’interno di paesi europei occidentali come l’Italia, le peggiori dinamiche neocapitalistiche oggi in pieno sviluppo: globalizzazione economica delocalizzante, imposizione di una moneta straniera e privata, distruzione della socialità, svalorizzazione del lavoro, liberalizzazioni e privatizzazioni, eccetera, eccetera.
Non a caso oggi, la sinistra politica neoliberale e in particolare gli ex comunisti ammaestrati, fagocitati nel sistema di potere vigente, sovente mostrano di essere i servitori più zelanti di questo capitalismo, zelanti come furono, in altri evi della storia umana, i “conversi” che aderivano per imposizione (e paura) a una religione dominante. Quei conversi che desideravano accreditarsi, agli occhi dei nuovi padroni, offrendo una prova di continua devozione e, appunto, di zelo. Altrimenti avrebbero perso i loro beni e forse la loro stessa vita, o avrebbero dovuto vagabondare per il mondo, per terra e mare cercando un nuovo approdo, come fecero gli ebrei irriducibili. Se gli ebrei conversi, in forza di paura o per opportunismo, hanno assunto nel vecchio continente cognomi che testimoniavano la loro devozione religiosa, ad esempio, in Italia Amadio, Graziadio o Servadio, gli ex comunisti superstiti, passati attraverso numerose metamorfosi “devozionali” capitalistiche nei decenni passati, oggi aderiscono numerosi al pd, che è, appunto, un partito democratico approssimativamente sul modello dei democratici americani, e difendono a spada tratta, per conto delle Aristocrazie finanziarie dominanti, il lager euroglobalista della moneta unica in cui è costretta l’Italia. Senza le metamorfosi “devozionali” degli ex comunisti il direttorio euroglobalista di Monti non avrebbe potuto reggere per tredici mesi, a suon di finanziarie e controriforme antipopolari, e Marchionne non avrebbe potuto imporre i suoi modelli contrattuali con venature schiavistiche in questo paese. Sovranismo, dirigismo economico statale, nazionalismo (o meglio, nazionalitarismo) rappresentano per gli ex comunisti espressioni blasfeme, non tanto perché memori dei precetti comunistico-marxisti otto e novecenteschi (internazionalismo proletario, collettivismo, scomparsa dello stato nello stadio finale comunistico), ormai definitivamente abiurati e dimenticati, ma in quanto espressioni radicalmente contrarie alle logiche nuovo-capitalistiche, finanziarie e globalizzanti.
La globalizzazione di matrice neoliberista ha sostituito impropriamente il vecchio internazionalismo proletario. I processi di globalizzazione economico-finanziaria, quali insiemi di politiche strategiche e di trattati imposti ai paesi, hanno una sostanza concreta, sono reali, causano profonde trasformazioni sociali e determinano il futuro dei popoli, mentre l’internazionalismo proletario, preconizzato nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 da Marx ed Engels, non ha avuto luogo, non è mai stato realizzato. La rivoluzione nel punto più basso dello sviluppo capitalistico, l’Ottobre Rosso, non ha impedito la continuazione della grande guerra, né ha potuto “contaminare” i punti più alti dello sviluppo, nell’Europa occidentale e insulare, realizzando l’internazionalismo comunista proletario, che è sopravvissuto come mito e pura speranza fra le masse dominate. Il dirigismo economico dello stato presuppone la piena sovranità, monetaria e politica, dello stato stesso. Ma ciò che sarebbe rimasto, dopo la rivoluzione proletaria, era un semi-stato leniniano nella fase socialista, in attesa della scomparsa definitiva e liberatoria dello stato nello stadio finale comunista. Le attese dei vecchi comunisti non si sono concretate, e la storia è andata in tutt’altra direzione. In verità, la stessa URSS di riferimento è diventata la prima potenza comunista della storia umana dotandosi di un apparato statale esteso e solidissimo (almeno fino a una certa epoca), di potenti forze militari, e accettando la realtà del socialismo realizzato in un solo paese.  Da un paio di decenni a questa parte, il capitalismo neoliberista e finanziarizzato sta ridimensionando in modo efficace e progressivo gli stati – vedi quello italiano prigioniero dell’unione europide – privandoli della sovranità, a partire da quella monetaria, e riducendone le funzioni. La prospettiva, in Europa, è quella del superamento degli stati nazionali e dell’avvento di un unico governo sopranazionale, che deciderà per tutti, ma che non sarà “eletto dal popolo” e non sarà una sua espressione.
Globalizzazione neoliberista e governo sopranazionale possono apparire, anche se non lo sono per genesi e sostanza, come veri e propri sostituti nuovo-capitalistici dell’internazionalismo proletario unificante e del semi-stato socialista destinato a scomparire con il pieno avvento del comunismo. Possiamo affermare che la globalizzazione in atto è l’esatto opposto dell’internazionalismo proletario di marxiana memoria, e il governo sopranazionale atteso, nell’Europa dell’euro, è uno strumento di dominazione globalista e non una sorta di approdo storico definitivo, che comporterà la liberazione dell’uomo dall’oppressione del vecchio stato “borghese e imperialista”. Ma forse è vero che gli opposti in qualche misura si attraggono, e sono nate persino folli teorie che postulano una “globalizzazione buona”, democratizzata, a vantaggio delle masse (denominate capziosamente moltitudini), in grado di realizzare la “democrazia globale” sull’intero pianeta. Sopravvivenze truffaldine e alterate, nei loro connotati, dell’internazionalismo proletario e dell’approdo definitivo allo stadio comunistico? Utili sostituti ideologici e propagandistici, non corrispondenti alla realtà economica, sociale e politica del presente, dei miti marxistico-comunisti ormai smessi, che hanno attraversato più di un secolo di storia?  Sta di fatto che il neocapitalismo ha vinto, affermando la sua realtà economica, sociale e politica, mentre il comunismo storico novecentesco realmente esistito (secondo l’espressione di Costanzo Preve) è stato sconfitto e si è dissolto, trascinando con sé nella caduta i suoi miti. 



(II) Affermazione della sinistra neoliberale e morte del comunismo storico
La grande svolta storica e sociale, il cambio di evo e di modo di produzione sono stati annunciati, una prima volta, dal sessantotto apparentemente antagonista, quando la sinistra ideologica si è separata da quella sociale e operaia confluendo in seguito e in buona sostanza, negli apparati ideologico-culturali e propagandistici del capitalismo. Altri consistenti segnali del cambiamento, drammaticamente concreti, sul piano politico e sociale ce li offrono le sconfitte operaie degli anni ottanta. Per quanto riguarda l’Italia, possiamo ricordare la sconfitta degli operai Fiat, in sciopero da più di un mese, a causa della “marcia dei quarantamila” nella Torino dell’automobile il 14 ottobre 1980, e il successivo blitz confindustrial-governativo per l’abolizione della scala-mobile, nel 1984, con il decreto di San Valentino dell’allora esecutivo Craxi. Ma è stata la crisi irreversibile del cosiddetto blocco orientale e dell’Unione Sovietica, nel triennio 1989-1991, che ha dato nuovo impulso al neocapitalismo rampante, eliminando il suo più insidioso nemico, e di conseguenza ha accelerato la trasformazione politica, economica e sociale. La dissoluzione finale dell’URSS ha rappresentato un momento topico della trasformazione della sinistra politica e del riciclaggio dei comunisti sconfitti, a quel punto diventati ex a pieno titolo, almeno nell’Italia della svolta occhettiana della Bolognina. Oggi, giunti a compimento del processo di trasformazione, si parla indistintamente di sinistra, o al più si distingue per stigmatizzare l’”eterodossia” di qualche frangia falsamente radicale e massimalista nella sinistra (sel di Vendola, i resti di rc e del pdci). Ma si tratta pur sempre di una sinistra complessivamente neoliberista e neoliberale, rispettosa dei rapporti sociali e di produzione dell’epoca, che non violerebbe mai e poi mai, se non ambiguamente a parole rivolgendosi al suo elettorato, i tabù sociali, economici e politici imposti dal neoliberismo. Vietato ipotizzare seriamente il ripristino della sovranità nazionale, vietato anche soltanto immaginare l’uscita dall’euro, vietato negare apertamente, con chiarezza spietata, che precarietà e licenziamento libero servono per la futura crescita economica, per l’impulso all’occupazione e per la modernizzazione del mercato del lavoro. Il “capitalismo concorrenziale” è la nuova divinità, per tutti, anche per i sinistri neoliberali e i comunisti riciclati. E pensare che un tempo lontano i comunisti, quando esistevano veramente e si chiamavano bolscevichi, erano nemici giurati non solo dello sfruttamento capitalistico di massa e della proprietà privata dei mezzi di produzione, del parlamentarismo introdotto dalla classe dominate, ma della stessa sinistra, allora borghese, alla quale attribuivano la funzione di “quinta colonna” e il compito di imbrogliare le masse, rendendole inoffensive per il sistema capitalista. Oggi soltanto un personaggio del calibro di Silvio Berlusconi, quando si trasforma in macchietta politico-mediatica davanti alle telecamere, agita in campagna elettorale il “pericolo comunista” come se fosse incombente e reale.

(III) Unificazione della sinistra e degli ex comunisti nel partito unico neocapitalistico
La distanza storica (ed etica) fra i comunisti storicamente esistiti e questa sinistra, che è un prodotto nuovo-capitalistico e neoliberale, ci pare incolmabile, addirittura plurisecolare, anche se l’intero processo di trasformazione, velocizzatosi a partire dagli anni novanta, ha richiesto soltanto qualche decennio. Incommensurabile ci sembra la distanza fra un Togliatti, o un Pajetta, e un Occhetto, o ancor peggio, un Veltroni, un D’Alema e un Bersani (chiedo umilmente perdono per il paragone!). Lo stesso Enrico Berlinguer che ha staccato definitivamente la spina del filosovietismo creando l’eurocomunismo occidentalistico, accettando l’”ombrello” atomico della Nato e dichiarando di sentirsi al sicuro nell’occidente a guida americana, era comunque ancora un comunista, al vertice di un partito ormai orientato verso la socialdemocrazia rivendicativa, ma con tracce ancora visibili di solidarietà operaia e di anticapitalismo. Oggi il cordone ombelicale con la tradizione comunista novecentesca, da Antonio Gramsci fino a Palmiro Togliatti, e persino con quella berlingueriana del dopoguerra, è stato definitivamente tagliato, e anzi, i “conversi” tendono a nascondere pudicamente, con vergogna, le loro lontane origini. Il “mai stato comunista” di Veltroni, tende sempre di più a diventare: comunismo, e che cos’è? Persino un certo patriottismo presente nel vecchio pci, che mal si sposava con l’internazionalismo proletario, è venuto definitivamente a mancare, se gli ex comunisti sono disposti ad affidare, senza battere ciglio, il controllo della moneta, la politica economica e quella estera alla Bce, alla Ue e alla Nato. Ciò che conta, nel concreto, sono le politiche che questi camaleontici apostati di una religione “atea”, eredi degeneri di ascendenti gloriosi, sottoscrivono acriticamente e avallano.
Pensiamo al caso grottesco di Pier Luigi Bersani, ex comunista riciclatosi con successo al servizio dell’unionismo europide e del liberalismo politico, che prevede sciagure bibliche per i ceti meno abbienti (in parte significativa suoi elettori) nel caso dell’uscita dell’Italia dall’euro, sostenendo che ciò avvantaggerebbe soltanto i più ricchi, i quali possono permettersi di investire grandi capitali all’estero, mentre comporterebbe un impoverimento generale in termini di redditi e piccoli patrimoni per il resto degli italiani! La minaccia bersaniana, in poche parole, è quella di una miseria più grande che seguirebbe l’attuale impoverimento in caso di abbandono dell’euro e di riacquisizione della sovranità monetaria. Impaurire elettorato e popolazione con la minaccia di piaghe bibliche, se si abbandonerà la strada segnata dal neoliberismo, come nel caso dell’abbandono dell’euro, è una caratteristica comune a tutti questi individui, in relazione ai compiti assegnatigli dai dominanti globali. E’ chiaro che così dicendo Bersani, ex comunista e devoto cameriere neoliberista, mente sapendo di mentire e cerca di terrorizzare i suoi elettori, perché è proprio la moneta unica da lui difesa strenuamente che avvantaggia i più ricchi, e in primo luogo quelle élite finanziarie euroglobaliste al cui servizio lui stesso opera. In pratica, milioni di dominati postproletari, ivi compresa una buona fetta del ceto medio, non hanno oggi alcuna rappresentanza effettiva all’interno del sistema, anche se votano “a sinistra”. La spinta che un pd al governo darà alla diffusione del denaro elettronico e alla scomparsa del contante costituirà un’altra evidente prova di quanto qui si afferma. Il risultato non sarà il recupero dell’evasione fiscale, come millantato, ma commissioni in crescita per i gestori delle carte di credito, che si arricchiranno ancor di più, e controllo orwelliano delle abitudini di ciascuno, attraverso i pagamenti elettronicamente tracciati. La sinistra pidiina al governo, con o senza Monti continuerà sulla strada montiana dell’aumento di una fiscalità razziatrice e punitiva nei confronti della popolazione, dai lavoratori dipendenti alla piccola impresa, e quindi proseguirà il trasferimento di risorse dal lavoro al capitale finanziario, in buona parte esterno all’Italia. Le produzioni nazionali non solo non saranno incentivate, ma in nome del nuovo “internazionalismo globalista” e antisovranista saranno progressivamente smantellate in molti settori, o offerte su un piatto d’argento agli Investitori esteri.
Le manifestazioni devozionali ultraliberiste non sono una caratteristica esclusiva degli ex comunisti e della sinistra neoliberale, ma anche di personaggi politici nati a sinistra e poi riciclatisi a destra senza alcun pudore. Pensiamo agli ex socialisti italiani schieratisi a destra dello spettro politico, come Maurizio Sacconi, ministro del lavoro e del welfare con Berlusconi, che ha contribuito a mazziare in ogni occasione i lavoratori dipendenti (da lui odiatissimi), o come Renato Brunetta, la cui statura etica aderisce perfettamente a quella fisica, che ha perseguitato a lungo, in quanto ministro del IV esecutivo Berlusconi, i dipendenti pubblici, non soltanto con l’imposizione (piuttosto ridicola) dei tornelli negli uffici. Lo spostamento di risorse dal lavoro alla grande finanza internazionalizzata (giornalisticamente nota come Mercati & Investitori), la cessione della sovranità nazionale e l’occupazione dell’Italia, hanno avuto il fattivo sostegno di ex comunisti “metamorfici” come Giorgio Napolitano, in posizione chiave nelle istituzioni repubblicane, mentre al grande attacco scatenato contro i “santuari” del lavoro dipendente, regolare e stabilizzato, hanno partecipato individui come Pietro Ichino, giuslavorista al soldo del capitale, che fu comunista, poi diessino, poi pidiino e oggi montiano di ferro posizionato al centro. Non necessariamente, quindi, gli ex comunisti, e gli ex socialisti e altri ancora di sinistra, si sono riciclati nei ranghi della sinistra politica neoliberale. Ma tutti questi individui hanno qualcosa di molto importante in comune: una sola tessera in tasca, che non mostrano mai agli elettori. Fanno parte dell’unico, opaco partito della riproduzione neocapitalistica, programmaticamente coeso e diviso in fazioni solo nel momento elettorale liberaldemocratico.

(IV) Origine della trasformazione del pci
La trasformazione del pci, che lo ha portato a diventare nel tempo una componente di rilievo della sinistra neoliberale e neoliberista, è cominciata impercettibilmente (si potrebbe dire embrionalmente) in un passato ormai abbastanza lontano, nell’immediato dopoguerra, molto prima del fatidico sessantotto, quando Palmiro Togliatti, uomo di Stalin e dell’URSS, intelligente e rispettato, sicuramente degno di elogi ma leader per certi versi ambiguo dei comunisti in Italia, ha assunto responsabilità di governo diventando prima vicepresidente del consiglio, e in seguito ministro di grazia e giustizia del governo De Gasperi, partecipando i comunisti di allora ai CLN assieme alle altre forze politiche antifasciste. I punti da considerare sono due, nel caso del pci togliattiano ancora ben ancorato all’anticapitalismo, al mito dell’Unione Sovietica, quale entità collettivistica guida e modello, e a quello rivoluzionario dell’operaio di massa.
In primo luogo, la rinuncia alla rivoluzione proletaria e socialista in Italia, paese assegnato al campo occidentale e quindi capitalistico, democratico e liberale. Se in Grecia, nel dopoguerra, è scoppiata una sanguinosa guerra civile, quella del triennio 1946-1949, perché i comunisti filosovietici greci, sicuramente rivoluzionari, non accettavano la monarchia, intendevano liberare una seconda volta il paese e aderire al blocco comunista, la stessa cosa non sarebbe potuta accadere in Italia, pena una nuova guerra mondiale a ridosso della seconda, questa volta combattuta con armi atomiche fra l’est e l’ovest. Stalin non lo voleva e si mostrava intenzionato a rispettare nella sostanza gli accordi con l’occidente (con gli americani e gli inglesi, in poche parole) scongiurando un simile pericolo. Piccolo particolare non però irrilevante c’era all’epoca un ritardo, uno svantaggio sovietico rispetto agli USA in termini di sviluppo delle armi nucleari. Inoltre, l’Unione Sovietica era appena uscita, vittoriosa ma provatissima, con immani distruzioni e perdite di vite umane, dal precedente conflitto. Di conseguenza anche Togliatti, tributario di Stalin, non voleva simili esiti, e ciò ha avuto l’effetto di “tarpare le ali” a un pci ancora (potenzialmente) rivoluzionario, disposto all’insurrezione armata per l’instaurazione del socialismo nella penisola, Yalta o non Yalta. Si può affermare, con (amara) ironia, che la fedeltà nei confronti del paese-guida dei comunisti, il rispetto delle sue esigenze geopolitiche ha allontanato inesorabilmente la prospettiva rivoluzionaria in Italia. D’altra parte, i comunisti greci del kke impegnati nella rivoluzione ricevevano aiuti dalla Jugoslavia di Tito e non da Stalin, che non sembrava entusiasta di quella prospettiva. Quando ci fu l’attentato a Togliatti del luglio 1948, ferito a colpi di pistola dallo studente “qualunquista” e liberale Antonio Pallante, e si materializzò il rischio dello scoppio di una guerra civile in Italia come preludio della rivoluzione, a parte il distrarre la popolazione con le gare ciclistiche e la vittoria inattesa del grande campione Gino Bartali al Tour de France, gli stessi comunisti togliattiani si diedero da fare per placare gli animi (“a sinistra”) e scongiurare la minaccia.
In secondo luogo, in qualità di ministro di grazia e giustizia nell’allora governo De Gasperi, Palmiro Togliatti il 22 giugno 1946 ha concesso l’amnistia ai fascisti (quelli che non si erano macchiati di gravi delitti, in un’interpretazione restrittiva) per poter ricostituire la burocrazia statale in un momento difficilissimo, dal punto di vista economico, sociale e occupazionale, dato che il paese doveva essere ricostruito a partire dall’amministrazione dello stato. L’antifascismo al governo della nazione non aveva quadri sufficienti per raggiungere questo scopo vitale. Togliatti ha concesso l’amnistia in quanto ministro della neonata repubblica italiana (nata il 2 di giugno 1946, in seguito ai risultati del plebiscito monarchia-repubblica), senza coinvolgere nella decisione i dirigenti e la base del suo partito, contrari alla riabilitazione dei fascisti. Se la motivazione più nota era quella della “riconciliazione” fra gli italiani, il motivo più concreto era la necessità di riavviare la macchina dello stato. Con quella scelta, Togliatti ha mostrato di lavorare concretamente per la rinascita di uno stato, e di un intero paese, assegnato dagli accordi fra le potenze vincitrici al campo occidentale e capitalista, a quel punto sotto l’ombrello atomico americano, e che tale sarebbe rimasto nei decenni successivi. Si può affermare che Togliatti, in qualità di ministro comunista della giustizia, ha lavorato sicuramente per il bene del paese (e delle masse popolari provate dal conflitto), ma non altrettanto bene per la rivoluzione proletaria e socialista, favorendo l’avvio della ricostruzione postbellica e la “riconciliazione” all’interno del blocco capitalistico di allora.




(V) Dall’origine della trasformazione del pci alla sua fine
La negazione della possibilità concreta della rivoluzione anticapitalista e socialista, viva soltanto come speranza proiettata in un futuro indeterminato, e la collaborazione nella ricostruzione della macchina dello stato accettando la collocazione dell’Italia nel campo capitalistico e nel blocco occidental-americano, hanno costituito i primi segnali, allora difficilmente interpretabili come tali, dell’inizio della trasformazione del pci in qualcos’altro. Un passo successivo è stato l’abbandono dello stalinismo, ma non del filosovietismo, dopo la denuncia dei cosiddetti crimini di Stalin in URSS avvenuta nel 1956, in occasione del XX congresso del PCUS, per opera di Krusčev e di una nuova generazione di burocrati del partito nata (per ironia della sorte e della storia) dall’industrializzazione staliniana dell’Unione Sovietica.  Ciò che è accaduto in seguito, nei tempi più vicini a noi, lo conosciamo, e il partito comunista italiano è diventato sempre più interno al sistema, sempre meno “soggetto rivoluzionario” e avanguardia della classe operaia, sempre meno fattore K bloccante – fattore Kommunizm, secondo una definizione del giornalista Alberto Ronchey – di ostacolo al ricambio di governo nel paese, e sempre più di sostegno a quel sistema di potere politico che faceva perno sulla dc. Un sistema politico che non avrebbe retto, in determinate circostanze storiche – si pensi agli anni settanta e al fenomeno destabilizzante del terrorismo, con un morto a settimana – se non ci fosse stato un atteggiamento “costruttivo”, collaborativo e benevolo dell’altra “metà del cielo”, rappresentata proprio dal pci. Se ancora nei primi ottanta in pieno eurocomunismo si parlava, in relazione ai militanti e ai quadri del pci, di “baffoni”, ossia di stalinisti, e di “baffini” figli del sessantotto passati al leninismo (Giorgio Bocca), o addirittura della contrapposizione interna al partito fra “filosovietici” e “revisionisti”, oggi, queste espressioni ancora in uso una trentina di anni fa sembrano appartenere a una lingua morta, e rischiano di non essere comprese. Di sicuro non hanno più alcun senso in questa nuova realtà, anche se numerosi “baffini” dell’epoca e qualche “baffone” esistono ancora in vita. Dal 1956  al dicembre del 1981 il partito comunista italiano è passato, nella via crucis della sua trasformazione che ha rimosso, parzialmente ma non completamente il fattore Kommunizm, da un appoggio sostanziale all’invasione sovietica dell’Ungheria (o da una non vigorosa condanna, se si preferisce cavillare) alla condanna esplicita del “colpo di stato militare” del generale Jaruzelski, in una Polonia ancora interna al Patto di Varsavia e al blocco sovietico (Riflessioni sui drammatici fatti di Polonia, documento della direzione del pci berlingueriano del 30 dicembre 1981). La Rivoluzione d’Ottobre aveva dunque esaurito la sua spinta propulsiva, ma vi era ancora necessità che continuasse lo sviluppo del socialismo seguendo un’altra strada, cioè una “terza via”, ancora largamente indeterminata, da costruire con gli altri partiti comunisti europei, secondo quanto dichiarava Enrico Berlinguer. Lo storico segretario del pci, ancora comunista benché con il suffisso euro, si è mantenuto al fianco degli operai della Fiat in sciopero, prima e dopo la decisiva sconfitta torinese del 14 ottobre 1980, non desiderando gettare alle ortiche un patrimonio di lotte e tradizioni assieme ai ritratti di Gramsci e Togliatti. Dal 1984, anno della morte di Berlinguer, alla svolta occhettiana della Bolognina del 12 novembre 1989 e ai primi novanta, alla fumosa “terza via” eurocomunista non più apertamente filosovietica (nata con la conferenza di Berlino del 1976), che implicava comunque il bisogno di socialismo e una prospettiva futura – per quanto vaga – di uscita dal capitalismo, il pci sostituì progressivamente l’accettazione passiva, quasi fatalista, di un capitalismo che si profilava vincente, pur senza dichiararlo esplicitamente e in modo chiaro alle masse e agli elettori.
L’avvento di Gorbaciov in URSS, con tanto di glasnost (trasparenza) e perestrojka (ristrutturazione) al seguito, contribuì a liberare nuove forze nel pci, sempre più lontane dalla tradizione comunista, tanto che dopo l’infarto e l’abbandono della carica di segretario da parte di Alessandro Natta, nel 1988, alla guida del partito arrivò la segreteria di Achille Occhetto, che si fece carico del “cambiamento” non solo del nome, ma del partito stesso. A suo tempo il Berlinguer eurocomunista si era mostrato contrario all’abbandono definitivo delle tradizioni del pci, e così fecero in quei difficili frangenti esponenti rispettati del partito, in particolare Giancarlo Pajetta e Pietro Ingrao, ma opporsi al “cambiamento” non servì. I tempi erano ormai maturi per un grande salto, non proprio nel vuoto, o nel nuovo ma armi e bagagli dall’altra parte della barricata, e questo si sarebbe ben compreso con il solito senno di poi. Dal Migliore, cioè da Togliatti, al Più Amato, cioè a Berlinguer, le trasformazioni del pci sono state significative, di primo rilievo, passando dallo stalinismo filosovietico e dell’attesa rivoluzionaria all’eurocomunismo (parzialmente e moderatamente) critico nei confronti della potenza socialista, ma alla fine degli ottanta qualcosa di importante cambiò, si delineò un “nuovo mondo” dominato da un Neocapitalismo spietato, finanziario e assolutista, dotato di nuovi agenti strategici, globali, postborghesi e privi di etica, che si avviava a chiudere la partita con l’alternativa collettivista targata URSS. I dirigenti comunisti italiani di allora, vista la malaparata, dovettero decidere in fretta se resistere su posizioni che sarebbero diventate, storicamente, sempre più scomode, oppure se aderire all’epocale cambiamento. I giovani dirigenti, che sostenevano la segreteria Occhetto, fecero la seconda scelta, un po’ per opportunismo e “istinto di sopravvivenza”, un po’ per “esplorare” le nuove possibilità che si delineavano. Ne consegue che l’ultimo, vero segretario di un pci di là a poco morente è stato Alessandro Natta (dal 1984 al 1988), come lui stesso ha dichiarato, mentre il primo segretario del nuovissimo pds è stato Achille Occhetto (in carica fino al 1994). Possiamo considerare Achille Occhetto, con i suoi giovani dirigenti ultrariformisti, fra i quali Massimo D’Alema e Fabio Mussi, il Gorbaciov “de noantri”, un Michail di provincia di nome Achille. Volendo essere buoni, non pensando male almeno per una volta, anche per lui potrebbe valere il detto che vale per il dissolutore dell’URSS Michail Gorbaciov e per la sua Trojka ultrarevisionista, e cioè “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno”. Così, quella “cosa” in cui si era trasformato il pci diventava ancor più informe e il cambiamento, velocizzandosi, spingeva non tanto verso l’approdo definitivo del revisionismo e di una socialdemocrazia rivendicativa un po’ più coraggiosa di quella tedesco-occidentale, ma verso l’esito finale dell’internità politica, ideologica e culturale dei comunisti italiani a quello che stava diventando sempre di più un Nuovo Capitalismo finanziarizzato, globalizzante e vincente, compendiato politicamente dalla liberaldemocrazia occidentale, anch’essa in trasformazione. Non per caso la soppressione definitiva del partito comunista, ormai altro da sé, è avvenuta nel 1991, alla fine del cosiddetto “mondo bipolare” USA-URSS e del confronto fra l’ovest capitalista e l’est collettivista. Nato come partito comunista d’Italia il 21 gennaio 1921 a Livorno, il pci morì a Rimini, in occasione del XX congresso, il 3 febbraio 1991. Un settantennio di vita, quanto la compianta Unione Sovietica (n. 1922, + 1991).
Arco costituzionale (che inglobava a pieno titolo il pci), convergenze parallele (secondo l’Aldo Moro che mediava), consociativismo politico (nei fatti, per governare l’Italia), eurocomunismo (di Berlinguer e dei suoi) sono tutte espressioni di epoche successive a quella dei primi governi unitari antifascisti, da Bonomi a De Gasperi, cui partecipava il pci. Neologismi che sintetizzano le fasi trasformative del pci postbellico, nel suo difficile e contradditorio rapporto con il capitalismo e il sistema politico vigente. In questa lunga marcia di avvicinamento al capitalismo, con progressivo abbandono del mito della rivoluzione socialista e adesione implicita a una più “tranquilla” visione socialdemocratica, sono nate e morte nuove generazioni di comunisti (il pci ufficialmente non aveva correnti), come i miglioristi amendoliani “di destra” e gli ingraiani loro avversari, i berlingueriani del distacco dall’URSS e dal sovietismo e i più ortodossi cossuttiani confluiti, in seguito, nel partito della rifondazione comunista. Alla fine il partito comunista, sempre di più “la cosa” e sempre meno la guida e il riferimento politico per le masse proletarie, è stato sciolto, mentre si faceva avanti una nuova generazione di esponenti insensibili alle grandi questioni sociali insorgenti, alle crescenti disparità che un capitalismo geneticamente mutato e rinvigorito diffondeva, alla sorte di milioni di lavoratori e di soggetti economicamente deboli. Una nuova generazione sempre più disposta, negli anni, a mettersi al soldo della finanza trionfante e delle élite dominanti postborghesi, per sopravvivere politicamente, in posizione subordinata, nel “mondo nuovo”. Per tali motivi, dopo le prime sconfitte operaie degli ottanta la situazione è precipitata e gli attacchi contro il lavoro si sono estesi, negli anni novanta fino ai giorni nostri, investendo le giovani generazioni precarizzate, la stabilità del posto di lavoro e una buona fetta del ceto medio. Se non fossero maturati gli eventi ricordati in questo saggio, sarebbe stato impossibile imporre i dogmi neoliberisti in questo paese senza incontrare alcuna resistenza, e demolire la sovranità nazionale dell’Italia senza contrasto, com’è effettivamente accaduto, ponendo il paese sotto il pieno controllo di organismi sopranazionali privati.   

Ecco il triste esito di quella che è stata definita la via italiana al Socialismo: il riciclo degli ex comunisti negli apparati ideologici e politici di un capitalismo privo di etica e di socialità, senza alcuna possibilità di ravvedimento e di ritorno a un glorioso passato di lotte, ormai completamente dimenticato.

venerdì 7 dicembre 2012

Precarietà o morte! 

 Eugenio Orso



Le mie analisi pregresse, sviluppate nell’arco di un decennio, mi hanno portato a indentificare con sufficiente chiarezza il possibile profilo neocapitalistico riservato ai membri della classe pauper dominata, molto diverso, se non opposto, al profilo che il capitalismo del secondo millennio riservava ai subalterni. Il profilo in questione è quello del precario/ escluso, che si contrappone al novecentesco produttore/ consumatore, modificando integralmente il panorama sociale e il valore attribuito al lavoro. Il precario deve accettare l’umiliazione dei contratti a termine, d’incerto rinnovo, in un continuo gioco a ribasso delle retribuzioni, per non scivolare nella drammatica situazione dell’escluso, che incide negativamente su tutte le relazioni, sociali, umane e private del soggetto, e persino su quelle più intime di natura affettiva. L’ampio respiro della precarietà non limita i suoi effetti alle cosiddette relazioni industriali, alle quali deve soggiacere il lavoratore flessibilizzato, ma abbraccia l’intera dimensione esistenziale. Per molti anni Luciano Gallino, sociologo ed economista, ha scritto contro la precarizzazione dei lavoratori, introdotta in dosi sempre più robuste nel sistema produttivo italiano e nelle pubbliche amministrazioni, ma trattandosi di una voce assolutamente isolata, benché accademica e prestigiosa, le sue critiche ai modelli neocapitalistici nutriti di lavoro flessibile e precario sono cadute nel vuoto. 
Da un punto di vista politico, la precarietà è stata accettata come destino inevitabile, per i lavoratori, sia dallo spettro destro sia da quello sinistro dell’Unico Partito della Riproduzione Neocapitalistica, che in pari misura hanno contribuito a diffonderla. Tiziano Treu, del centro-sinistra, con la legge 196 del 1997 detta “Pacchetto Treu” e Maurizio Sacconi, del centro-destra, esponente del governo che ha varato la legge 30 del 2003 (detta anche Maroni o Biagi), convergevano entrambi su un comune obiettivo: flessibilizzare il più possibile il lavoro in Italia. I sindacati, sempre più subalterni nei confronti del sistema e sempre più lontani dagli interessi dei lavoratori, non hanno combattuto la precarietà con la dovuta forza, e dunque l’hanno accettata come inevitabile, necessaria e ineliminabile. Tutt’al più, si è detto che la democrazia oggi si ferma davanti ai cancelli delle fabbriche, lasciando intendere che all’interno l’uomo non è più cittadino nella pienezza dei diritti, ma esclusivamente fattore-lavoro da impiegare nei processi produttivi. Questo è un discorso ingannevole, fatto da sindacalisti gialli mascherati e da falsi antagonisti, poiché implica il pieno riconoscimento degli inconsistenti diritti liberaldemocratici, la richiesta del loro ingresso nelle fabbriche e nelle entità produttive di ogni ordine e grado, e quindi l’accettazione acritica di quel sistema davanti al quale ci si prostra. Tutto è stato inventato a livello contrattuale per intensificare e diversificare la precarizzazione dei lavoratori, fin dal loro ingresso nel mondo del lavoro. Accanto ad una precarietà occupazionale, che riguarda la limitazione del tempo di lavoro per contratto secondo le esigenze della parte imprenditoriale più forte, c’è una precarietà prestazionale che investe le mansioni espletate anche nel tempo indeterminato. I contratti atipici sono stati diversificati al massimo, dai co.co.pro. alla somministrazione e al lavoro accessorio, prevedendone per legge una cinquantina, o quasi, molti dei quali abbondantemente praticati. Ci sono voluti un paio di decenni, dall’inizio processo d’incubazione della flessibilità a oggi, per ribaltare una situazione che dagli anni sessanta del novecento è stata di crescita dei diritti dei lavoratori e di stabilizzazione generalizzata, con picchi di tutela come la legge 300/70 eretta a Statuto dei Lavoratori. La struttura del mercato del lavoro è stata investita in pieno, nello sviluppo di questo processo regressivo, al punto che le esigenze riproduttive di un capitalismo qualitativamente diverso dal precedente hanno favorito la differenziazione di tre grandi mercati paralleli: quello del lavoro stabile, indeterminato e tutelato, che ha avuto i suoi capisaldi nella grande industria e nell’impiego pubblico oggi sotto attacco euromontiano, quello del lavoro flessibile e precario per anni in costante crescita e ormai metabolizzato, e quello del lavoro nero, che presenta il massimo possibile della flessibilità occupazionale, prestazionale e una piena libertà di licenziamento. 

La precarizzazione del lavoro, fin dal suo innesco, ha favorito e accelerato la trasformazione sociale imposta dal nuovo ordine neocapitalistico, dando un contributo di rilievo alla trasformazione antropologica e culturale dell’uomo da produttore/ consumatore stabilizzato, con una certa internità al sistema, a precario/ escluso dimentico dei diritti del passato. Per tali motivi, e per la rilevanza dei cambiamenti imposti al lavoro, destinati a sconfinare in tutti gli altri ambiti della vita umana, questo processo è all’origine della costruzione sociale dell’uomo precario. Così, quello che è stato definito lavoro non standard, come se avesse dovuto rappresentare un’eccezione alla regola, principalmente per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, tende a diventare sempre di più la regola stessa, assorbendo la maggioranza delle nuove assunzioni in tantissimi settori. La precarietà rappresenta, nello stesso tempo, un destino individuale gramo e uno status sociale degradato che sarà condiviso, in futuro, da intere generazioni. L’alternativa alla precarietà sarà sempre di più, nei prossimi anni, l’esclusione, che significherà emarginazione, povertà, inutilità, la perdita irreparabile di relazioni sociali e affettive e, in un certo senso, la morte. A questo punto, può essere utile presentare qualche dato, in relazione all’occupazione, alla precarietà e alla disoccupazione, ragionando brevemente sui dati stessi. Facciamo un raffronto fra le stime Istat del 2007 e i dati della recente trimestrale, sempre dell’Istat, in merito al lavoro temporaneo, per capire qual è la tendenza per il lavoro flessibilizzato in periodi di significativa e crescente disoccupazione. Se nel 2007 i lavoratori temporanei (compresi occasionali, co.co.co e lavoro a progetto) erano circa 2.759.000, nel terzo trimestre 2012 sono diventati (“collaboratori” compresi) 2.877.000 circa, quindi sono significativamente aumentati a fronte di un dilagare della disoccupazione e dell’inattività. Già nel 2007, quando l’esplosione della cosiddetta crisi globale era nell’aria, si prevedeva che quasi la metà dei precarizzanti non avrebbe potuto contare su un reddito sufficiente per mantenere se stessi e la propria famiglia. Sul fronte del lavoro part time, nel terzo trimestre dell’anno in corso, secondo l’Istat vi sono ben 3.847.000 lavoratori. Si tratta di soggetti che per oltre la metà non riescono a trovare un impiego decente, a tempo pieno. Se teniamo conto che i disoccupati ufficiali sono quasi tre milioni (ultimo dato Istat a ottobre 2012 2.870.000 unità), che vi è oltre un milione e mezzo di non attivi in età lavorativa che nascondono altrettanta disoccupazione (volendo essere prudenti), che le ore di cassa integrazione autorizzate, a settembre di quest’anno, sono cresciute in totale fino a 86 milioni, sommando Cigo, Cigs e Cassa in deroga, abbiamo il polso della disastrosa situazione del lavoro in Italia. Se gli occupati, a ottobre 2012, secondo l’Istat erano circa 22.930.000, nel secondo trimestre dello stesso anno raggiungevano quota 23.046.000, e quindi in pochi mesi c’è stato un decremento di 116.000 unità, con una perdita valutabile a circa un mezzo punto percentuale. Sommando ai disoccupati gli inattivi che nascondono altrettanta disoccupazione, tenendo conto degli occupati a tempo determinato, del part time e dei lavoratori in cassa integrazione, si sfonda abbondantemente il tetto dei 10 milioni di unità. Precarietà, sotto-occupazione e disoccupazione la fanno sempre più da padroni, in Italia. Se il tempo determinato, compresi i “collaboratori”-falsi autonomi, il part time e la disoccupazione sono in costante aumento, si riduce progressivamente l’area che corrisponde al mercato del lavoro “tradizionale”, a tempo indeterminato e pieno, in cui vi è ancor oggi – ma non sappiamo per quanto tempo ancora – la maggioranza dei lavoratori occupati. La situazione dei cassaintegrati, infine, è diversa dalle precedenti. La cassaintegrazione può corrispondere a un periodo trascorso in purgatorio, sottopagati o addirittura a zero ore, se alla fine si rientra in fabbrica o in ufficio mantenendo il contratto a tempo pieno e indeterminato, oppure può rappresentare l’anticamera per la precarietà e/o la disoccupazione di lungo periodo. 
 
Morale della favola, questo è l’esito concreto, più tangibile, dell’inesistente “Cresci Italia” di Monti, che avrebbe dovuto far seguito al rigorismo estremo, fondato su tagli alla spesa sociale e sulle tasse, degli interventi governativi “Salva Italia”. Ma come abbiamo appreso di recente, proprio per bocca del presidente del consiglio intervistato dagli arabi, è niente di meno che l’austerità ad essere la ripresa, e così le due cose si compenetrano e si sovrappongono, confondendo le idee. Sempre di più, con l’avanzare del lavoro a termine, del part time e della disoccupazione effettiva (quella ufficiale sommata agli inattivi scoraggiati) ci appare chiaro che l’alternativa futura, per i lavoratori, sarà fra la precarietà e l’esclusione, o meglio, in ultima analisi, fra la precarietà e la morte, se l’esclusione rappresenta una forma di morte sociale.

martedì 20 novembre 2012

La Guerra sociale della classe globale 

 

di Eugenio Orso

Presento oggi un saggio sulla Guerra Sociale in corso, diviso in tre capitoletti, del quale metto a disposizione il pdf completo e riproduco, di seguito, il testo integrale.

La Guerra Sociale in atto
Dovrebbe essere evidente alla gran maggioranza dei lavoratori dipendenti del pubblico e del privato che in Italia siamo entrati nella fase finale dell’Attacco Neoliberista al Lavoro. Dopo il “modello” di relazioni industriali di Sergio Marchionne, pensato per scardinare il sistema della contrattazione nazionale e bypassare lo statuto dei lavoratori nell’industria, dopo la parentesi relativamente “soft” di Maurizio Sacconi (Libro bianco, o verde, contro i lavoratori) e Renato Brunetta (tornelli di controllo per il pubblico impiego), ministri nel precedente governo, l’affondo finale contro i lavoratori è stato affidato, dalle Aristocrazie finanziarie, al direttorio di Monti che Lor Signori hanno insediato in Italia. Ciò che non hanno capito, tutti quelli che nell’autunno 2011 hanno festeggiato, in piazza, l’estromissione di Berlusconi e l’avvento di Monti, è che ora si fa sul serio, quanto a Lavoro, pensioni, salari e diritti. Men che meno hanno compreso che siamo in guerra, che lo scontro è ineguale, a “senso unico” e questa volta non si fanno prigionieri. Monti e Fornero hanno potuto andar oltre Berlusconi, Sacconi e Brunetta, grazie all’appoggio, palese od occulto, dei sindacati ascari e della sinistra ammaestrata, realizzando qualche obiettivo importante (riduzione delle pensioni, scardinamento dell’art. 18, compressione del pubblico impiego). L’ultima novità, in ordine di tempo, sono gli interventi pianificati, da concordare con le solite “parti sociali” condiscendenti, per gli esuberi nella pubblica amministrazione centrale dello stato, e quindi per favorire una drastica riduzione, nel tempo, degli organici e degli occupati. Dopo il settore privato tocca al pubblico, e dopo la precarizzazione del Lavoro si passa ad aggredire una volta e per tutte l’impiego stabile, anche in quelli che furono i suoi più inattaccabili “santuari”. Decisa con la “spending review” di Monti e Bondi una riduzione generalizzata della spesa pubblica attraverso tagli lineari, con la scusa del suo contenimento a parità di servizi (cosa che è praticamente impossibile), si sono create formalmente le premesse per ridimensionare l’occupazione nel settore pubblico. Negli anni precedenti, la lunga fase preparatoria ha comportato l’avvio di una campagna mediatica e propagandistica, addirittura diffamatoria, contro i lavoratori dell’amministrazione pubblica centrale e locale, descritti sparando nel mucchio come dei pesi morti e degli autentici “fannulloni”. I Nullafacenti, pessimo elaborato del professor Pietro Ichino, sinistroide ex comunista vendutosi al liberismo, ha avuto una grande eco (mediatica) e ne è una prova evidente. Lo stesso ex socialista berlusconiano Renato Brunetta si è dato da fare, contro i lavoratori, scrivendo e pubblicando La fine della società dei salariati (comparso nel 1994). Alla criminalizzazione dei dipendenti statali hanno contribuito giornali, televisioni, economisti ed esponenti politici, preparando il terreno per i futuri interventi nel settore. La riduzione delle dimensioni occupazionali del pubblico impiego procederà a braccetto con la compressione delle dimensioni economiche dello stato sociale. E’ ovvio che si tratterà di una riduzione secca di posti di lavoro, per altro ammessa senza falsi pudori da molti “organi d'informazione” sistemici. L’obiettivo potrebbe essere quello di sopprimere mezzo milione di posti nel pubblico, di qui al 2014 o al 2015. Nelle condizioni attuali, destinate ad aggravarsi il prossimo anno e gli anni successivi, il settore privato non sarà in grado di “creare” nuovi posti di lavoro in alternativa al pubblico, arginando il dilagare della disoccupazione giovanile, che si dichiara furbescamente di voler combattere. Le politiche neoliberiste imposte al paese non mirano a quel risultato (come spesso affermano ministri, politici, economisti e giornalisti per nascondere la realtà), cioè alla sostituzione dei posti di lavoro pubblici, e impieghi in aziende decotte, con nuova occupazione nel privato in quadro di “competitività sul mercato globale”, sostenendo e incrementando in tal modo l’occupazione complessiva, ma rivelano scopi esattamente opposti. Per molto tempo l’apparato ideologico-massmediatico e accademico ha diffuso allarmismi (in sé giustificati) sui livelli di disoccupazione nel paese e sulla caduta degli indici di produzione nazionali, imputandoli all’inevitabile, ossia vendendoli come una conseguenza “naturale”, addirittura destinale, di quella ristrutturazione internazionalizzata dei sistemi produttivi, commerciali e finanziari chiamata globalizzazione e pilotata autoritariamente dall’alto. E’ ormai ovvio che hanno mentito sapendo di mentire, per non far comprendere alla classe dominata quali sono i reali scopi del “libero mercato” e qual è la sua vera natura. Non ci sono destini inevitabili in atto e non c’è un orizzonte futuro di democrazia globale e di crescita a vantaggio dei popoli, raggiungibile soltanto se si entra nelle logiche globaliste operando le dovute “riforme” e favorendo le necessarie “liberalizzazioni”. Al contrario, sono state proprio le politiche neoliberiste, le controriforme, le privatizzazioni e le liberalizzazioni finora applicate a portarci fino a questo punto, con il rischio di scivolare sempre più in basso. Hanno mentito anche sul ruolo internazionale dell’Italia, perché la “crescita” non arriverà mai, soprattutto continuando con le politiche neoliberiste, e al paese, nei contesti della sedicente economia globale, è riservato fin d’ora un ruolo di secondo o terzo piano, fino alla sua irrilevanza più completa. Perciò, com’è addirittura banale da comprendere (tanto più, con il senno di poi), tutte le vecchie litanie riflesse dai media e recitate dai politici liberaldemocratici, come il “ce lo chiede l’Europa!”, o i discorsetti propagandistici in difesa dell’euro, celavano la volontà della classe dominante di applicare ovunque, a qualsiasi prezzo per le popolazioni, i precetti e gli schemi dell’economia neoliberista. Giacché l’imbroglio ha funzionato e ha dato ottimi frutti, tutto ciò continuerà, anche se pochi collaborazionisti politici e giornalistici, oggi, si azzardano a ricorrere all’ormai trito e ritrito “ce lo chiede l’Europa” come ad una formula magica. I tassi d'impopolarità raggiunti dall’unione europide, dall’euro e dalla politica di matrice liberaldemocratica, in Italia e altrove, non costituiranno però un vero ostacolo all’applicazione concreta di tali politiche, che potrà proseguire fino alle estreme conseguenze, raggiungendo un punto di non ritorno. Ciò sarà possibile in assenza di segnali consistenti di una diffusa e destabilizzante reazione popolare. In altri termini, per ora il Nemico di Classe e di civiltà sta camminando sul velluto e spera di poterlo fare anche nei prossimi anni. Questo drammatico discorso non riguarda soltanto l’Italia, o la Grecia, ma è destinato ad assumere sempre di più una dimensione europea, fino a investire paesi come la Francia e la stessa Germania, complice nello “sfruttamento” dei popoli d’Europa più esposti alla pressione del debito e alla minaccia dello spread. Fin tanto che non vi sarà una vera opposizione, fuori dai castranti schemi liberaldemocratici, fin tanto che vi saranno soltanto “utili idioti” indignados (già morenti), sindacati gialli che di tanto in tanto sbraitano a vuoto per imbonire i lavoratori, simpatici grillini in ascesa che aspirano al parlamento liberale, vecchi comunisti in discesa fermi alla seconda o alla terza internazionale, o peggio, i dannosi esaltati di alba dorata che aggrediscono immigrati, gay e barboni come se fossero i veri responsabili dei disastri sociali, la stabilità del sistema di potere in essere e gli interessi sovrani della classe dominante non correranno alcun reale pericolo. Tanto più che si vieta tassativamente ai governi sottomessi di interferire con le dinamiche finanziarie, e di spostare i carichi fiscali dal Lavoro alla finanza, colpendo in modo efficace le rendite e la creazione del valore azionario, finanziario e borsistico. L’ultimo esproprio in un ordine storico, quello attuale neocapitalistico, è rivolto principalmente contro il Lavoro, i ceti medi morenti e in generale le vecchie classi subalterne in via di dissoluzione, e questo proprio nell’occidente “sviluppato”, che fu il cuore di una limitata ma significativa promozione sociale. Appropriarsi il patrimonio pubblico, sottomettendo definitivamente gli stati, è una prassi neocapitalistica che procede con la “globalizzazione dei mercati” e la compressione del Lavoro. Si presti la dovuta attenzione alla circostanza che le ostilità non sono rivolte soltanto contro la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo – in questo momento sotto bombardamento continuo – ma anche contro il popolo americano, ed in particolare contro l’estesa “middle class” che popola quel paese e che si avvia verso il declino. Nella stessa Germania i redditi popolari, pur ancora alti rispetto ai nostri o a quelli dei greci, da tempo stanno perdendo terreno. Anche in Germania hanno preso piede il lavoro temporaneo e quello precario, e la nazione tedesca è costretta a misurarsi come tutte le altre con l’”economia globale”,  a subire la doppiezza di governi controllati, o almeno influenzati, dal Libero Mercato. Non c’è paese che possa sottrarsi agli attacchi globalisti contro il Lavoro e i Lavoratori. La Guerra Sociale della classe globale combattuta contro di noi, negli ultimi decenni, fa tornare alla mente il lungo assedio di Sarajevo, in cui gli assedianti sparavano dalle creste dei monti contro una popolazione quasi completamente inerme, beneficiando della loro posizione strategica e del monopolio delle artiglierie.


La Guerra Sociale, le prospettive e il Lavoro
Nei prossimi mesi, anche se si verificheranno disordini, con un accenno di reazione più consistente ed estesa delle masse-pauper, non dobbiamo aspettarci che le Aristocrazie finanziarie, i loro sub-dominanti e i loro collaborazionisti locali allentino la presa, fino a togliere l’assedio, proprio ora che siamo entrati nella fase finale dell’Attacco al Lavoro. Prioritaria, per la classe dominante, è la completa vittoria nella Guerra Sociale “a senso unico”, per giungere rapidamente alla soluzione finale del problema dei lavoratori e dei loro diritti. In Italia, esaurita la fase finale di attacco i tre “mercati del lavoro” esistenti, in via di ulteriore trasformazione – lavoro stabile tutelato, lavoro precario flessibilizzato e lavoro nero o informale – si appiattiranno sull’unico modello neoliberista, che implica progressive svalutazioni economiche dei redditi da lavoro e la completa rinuncia ai diritti per lavorare e sopravvivere. Questo è il target globalista, quasi raggiunto in Grecia e facilmente raggiungibile in Italia. Leggendo distrattamente in rete negli ultimi giorni, ho appreso che i capi di stato maggiore delle armi greche, al netto di eventuali indennità, percepiranno uno stipendio netto mensile inferiore a quello di un comune impiegato tedesco! Meno di duemila euro per il capo di una delle tre armi e poco più di duemila per il capo di stato maggiore delle tre armi. Naturalmente per loro ci saranno le indennità, a rimpinguare la paga, ma la cosa è oltremodo significativa. Non parliamo poi del lavoro intellettuale, degli stessi professori universitari, e per quanto riguarda la massa anonima dei lavoratori greci ancora occupati, cinque o seicento euro mensili potranno bastare e avanzare. Evidente, in questo, una rapida “cinesizzazione” del fattore lavoro destinata a estendersi al resto dell’Europa occidentale. C’è da credere che si arriverà a una tale situazione anche in Italia, dopo la Grecia, e non ci vorranno di certo decenni per raggiungere il punto di non ritorno. Ecco un risultato importante, atteso dai dominanti globali in occidente e parzialmente conseguito, che testimonia l’approssimarsi della vittoria sui dominati nella Guerra Sociale scatenata dai neoaristocratici. Per quanto riguarda specificamente il Lavoro, in Italia vi sono state tre fasi di attacco, limitandoci al periodo che va dai primi novanta a oggi: (a) l’introduzione dei contratti di precarietà per flessibilizzare il fattore e abbatterne il costo aggirando la legge 300, (b) i tentativi (in buona parte di riusciti) di bypassare lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e neutralizzare l’art.18 anti-licenziamenti dello stesso, nel settore privato, onde flessibilizzare il lavoro stabile a tempo indeterminato, e attualmente (c) le ostilità rivolte contro i lavoratori pubblici, per demolire gli ultimi “templi” della stabilità lavorativa e comprimere la spesa dello stato. Libertà di licenziamento, contrattazione individuale (a scapito del più debole, cioè del lavoratore), applicazione generalizzata dei contratti a termine e della precarietà sono altrettante parole d’ordine neoliberiste per “mettere sotto” definitivamente i lavoratori, spostando risorse in quantità crescente dal Lavoro al Capitale Finanziario. Per sconfiggere il Lavoro e annichilire la socialità, non è stato però sufficiente procedere a colpi di controriforme dirette contro i lavoratori. Si è reso necessario aggredire la sovranità nazionale, politica e monetaria, degli stati trasferendo altrove le decisioni strategiche in termini di politica monetaria, economica e sociale, perché la precondizione necessaria per la realizzazione della giustizia sociale, per il sostegno all’occupazione e ai redditi popolari, per la stessa emancipazione di massa (che teoricamente dovrebbe supportare e rendere possibile la democrazia) risiede proprio nella piena sovranità degli organismi statuali. In senso anti sovranista ha agito l’”europa dell’unione” che nei primi novanta ha sostituito la comunità europea, attraverso la moneta unica, le sue istituzioni, i trattati e la banca centrale privata. Una concezione sovranista positiva, nei termini prima descritti, non ha a niente che vedere con l’ideologia nazionalista otto-novecentesca, o con la volontà di potenza imperialistica, ma si armonizza con la socialità e con la volontà di emancipazione del Lavoro e delle masse. E’ proprio contro questi valori e questi principi che è stata diretta l’azione ventennale dell’unione europide in mani globaliste. Nei piani elaborati per il pieno successo nella Guerra Sociale in atto, è previsto l’”accanimento terapeutico” nei confronti dei paesi dell’Europa meridionale e mediterranea in difesa dell’euro. Anzi, l’”accanimento terapeutico”, che a prima vista, superficialmente, può sembrare insensato, crudelmente inutile, frutto di un cumulo di errori pregressi che non si vogliono ammettere e correggere (compiuti fin dalla nascita della moneta unica), fa parte a pieno titolo delle dinamiche neocapitalistiche dell’epoca, e perciò non è un errore, ma una necessità riproduttiva, un’arma utilizzata per piegare definitivamente il Lavoro e le entità statali. Lo stesso euro, moneta straniera sotto controllo privato che ci imprigiona in una “camicia di forza”, non è un errore da correggere, una “svista” clamorosa alla quale si può rimediare rivedendo e implementando poteri e funzioni della BCE, ma è uno strumento di dominazione elitistica che funziona a dovere, raggiungendo gli scopi assegnati. E’ proprio la “terapia” imposta a paesi come la Grecia, la Spagna e l’Italia a favorire l’esproprio di risorse neocapitalistico, la colonizzazione degli stati e la riduzione a un’impotenza sottopagata del fattore-lavoro. Tornando alla metafora del lungo e sanguinoso assedio di Sarajevo, l’”accanimento terapeutico” in difesa dell’euro può essere ben simboleggiato da una batteria di obici che spara da lontano, su un nemico ridotto all’impotenza, senza subire il fuoco di controbatteria.

Aspetti non economici della Guerra Sociale
La stessa idea del Conflitto Sociale, della Lotta di Classe in termini marxisti e marxiani, e quindi delle possibili alternative al sistema, è stata accuratamente distrutta disarticolando le vecchie classi dominate per romperne la compattezza, passivizzarle e favorire la nascita di un nuovo ordine “compatibile” con il neocapitalismo. La conclamata morte dell’idea del Conflitto fra i membri delle classi subalterne disarticolate favorisce le Aristocrazie finanziarie dominanti nella Guerra Sociale neocapitalistica, inibendo le reazioni delle vittime e avvicinando a grandi passi il momento della vittoria finale. Possiamo concludere che la Guerra Sociale oligarchica del presente – ineguale confronto fra un’Acropoli trionfante e un’Agorà ridotta all’impotenza – non ha soltanto scopi economici, che si sostanziano in un assoluto prevalere, nella distribuzione del prodotto, del Capitale Finanziario sul Lavoro, ma consente ai dominanti di raggiungere importanti obiettivi di diversa natura, primo fra tutti l’affermarsi, in tempi brevi, di un nuovo ordine sociale compatibile con le dinamiche neocapitalistiche e la superiorità, su tutto il resto (politica compresa), dei Mercati e degli Investitori. Si è scritto, nel recente passato, che gli obiettivi di politiche come quelle montiane non sono solo ragionieristico-economici, ma anche antropologici, per una trasformazione dell’uomo che le subisce in individuo adatto a vivere il presente e il futuro, nella permanente instabilità generata dall’affermazione del Nuovo Capitalismo. Così la pensa il filosofo Costanzo Preve, e così la pensa anche il sottoscritto. Trattasi di una grande verità, e in effetti, dal punto di vista della riproduzione sistemica complessiva e degli interessi sovrani che questa nasconde, è la manipolazione culturale e antropologica dei dominati a rendere possibili gli espropri oligarchici senza provocare tensioni sociali “distruttive” e insostenibili. Si potrebbe persino affermare, con cinica ironia, che sono proprio la manipolazione antropologica e la distruzione accelerata del vecchio ordine sociale (e di riflesso delle classi dominate novecentesche) a favorire la “sostenibilità” complessiva del modello neocapitalistico. La svalutazione economica del Lavoro, inoltre, ha richiesto una parallela svalutazione culturale dello stesso, che ha reso possibile e addirittura “accettabile”, da parte di chi la subisce, la progressiva riduzione del potere d’acquisto di salari e stipendi verificatasi negli ultimi due o tre decenni. Ma la Guerra Sociale ci rivela anche un altro importante scopo non economico: quello di “temprare” i membri della classe neodominante, per renderli adatti ad affrontare con la dovuta durezza minacce provenienti dal fondo della piramide sociale, nonché i pericoli esterni rappresentati da entità statali non ancora sottomesse o da residuali formazioni di resistenti. In questo ordine d’idee rientra la stessa guerra infinita al terrore (ancora in corso, nonostante il “soft power” obamiano), proclamata dopo l’11 settembre 2001 da G. W. Bush e dalle oligarchie finanziarie che lo manovravano. E’ con la guerra infinita al terrore di Bush junior e dei neocon che la guerra tradizionale esterna (Afghanistan, Iraq), nell’intero occidente si è affiancata minacciosamente al Conflitto Sociale interno, integrandolo in difesa del neocapitalismo. Uno stato di guerra permanente e la “mobilitazione” dei dominanti in difesa del modo storico di produzione prevalente, infine, contribuisce a dissolvere le dimensioni culturali pregresse della vecchia borghesia spodestata, in guisa tale che i membri della nuova classe “alta” non possano maturare alcuno spirito critico nei confronti del Nuovo Capitalismo – come accadde a molti borghesi, almeno fino alla svolta del Sessantotto, nei confronti di “quel” capitalismo – e quindi pregiudicare dall’interno la stabilità del sistema. In seno alla Global class è arduo immaginare che possa nascere, oggi, un Marx, o anche soltanto un Keynes. Inutile descrivere in questa sede i numerosi strumenti di dominazione non economici, non monetari e non finanziari impiegati contro le masse dai dominanti nel corso della Guerra Sociale (politicamente corretto, pacifismo strumentale e “fede” liberaldemocratica, frammentazione territoriale e categoriale delle lotte, divide et impera sociale mettendo i gruppi di lavoratori l’uno contro l’altro, eccetera), perché l’ho già fatto in molte altre occasioni, in diversi articoli, post e saggi rintracciabili in rete. E’ però chiaro che le armi a disposizione del nostro Nemico di Classe in questa guerra, manovrate sapientemente dai suoi mercenari e dai collaborazionisti locali, sono numerose ed efficaci, e soprattutto che gli scopi perseguiti nel conflitto non sono esclusivamente economici. Perciò, chi pensa di poter contrastare il nemico globalista soltanto sul terreno dell’economia – ad esempio rievocando la riforma capitalistica keynesiana attraverso la Modern Money Theory, restituendo così una “funzione propulsiva” ai deficit del bilancio statale e alla spesa pubblica – pur essendo in assoluta buona fede ed essendo lodevoli le sue intenzioni (far conoscere l’economia al popolo come necessaria “presa di coscienza” della situazione), sbaglia nell’analisi e nella prospettiva. In questo caso, si crede possibile il ritorno a un passato economico sepolto, che avrebbe appoggi politici inesistenti, resuscitando così com’erano formazioni sociali novecentesche e modelli di capitalismo ormai defunti. Parimenti, chi crede che l’unico e il solo motivo per cui le masse e il Lavoro sono stati costretti in un angolo è la caduta del saggio medio di profitto capitalistico, ben visibile fra gli anni sessanta e ottanta del novecento, cade in errore offrendo una visione soltanto parziale del problema. Vi è ancora l’eco delle teorie del crollo novecentesche (il saggio di profitto in declino sarà la pietra tombale del capitalismo) e una visione del sistema che si limita ai meri aspetti macroeconomici. Ancor peggio, chi crede nella possibilità di una “riforma neocapitalistica” senza pregiudicare la struttura in essere, ma mettendo semplicemente sotto controllo la finanza per ridare un po’ di ossigeno (cioè di risorse) al Lavoro e al sociale, se non è un imbroglione politico, sindacale o accademico in aperta mala fede, muove da una prospettiva completamente sbagliata, perché il sistema è “irriformabile” per ragioni strutturali, e la creazione del valore azionaria, finanziaria e borsistica, progressivamente accelerata, è una sua colonna portante irrinunciabile. Se l’economia politica timidamente critica, interna al sistema, non è certo una rarità (pensiamo a celebri premi nobel “liberal” come Paul Krugman), ciò che manca è una Nuova Critica complessiva, articolata su molti piani, dell’Economia Politica Neoliberista – sulla scorta della Critica dell’Economia Politica operata a suo tempo da Karl Marx, nei confronti del primo capitalismo industriale, dall’alienazione umana nei rapporti di produzione alla teoria del valore – ed è questa, soltanto questa, che potrebbe costituire un’arma nelle mani dei pochi resistenti, alimentando una futura ideologia di legittimazione rivoluzionaria. Mentre impazza la Guerra Sociale senza quartiere voluta dalle Aristocrazie dominanti, una cosa che non dobbiamo fare è cadere nella “trappola economicista”, cercando disperatamente di muoverci su un unico terreno, quello economico, un campo minato in cui la superiorità nemica è ormai incontrastata. Fuor di metafora e di teoria, ci sono altri terreni sui quali potrà svilupparsi concretamente, con qualche efficacia, la controffensiva, e ci sono i punti deboli del sistema di potere nemico che già oggi possiamo osservare con sufficiente chiarezza. La vulnerabilità, ad esempio, dei sub-dominanti politici locali, più facilmente e produttivamente attaccabili, più raggiungibili nell’immediato, nonché protetti da difese più deboli di quelle riservate alle Aristocrazie finanziarie. La prima linea del fronte di conflitto, quella per noi perfettamente visibile, è rappresentata proprio da loro, assieme ad altri sub-dominanti e collaborazionisti locali (sindacalisti gialli, accademici prezzolati, banchieri indigeni, alti industriali, opinionisti dei giornali, anchormen televisivi, economisti, politologi e sociologi “di grido”, eccetera, eccetera). Saranno costoro a subire, un giorno, il primo, furibondo contrattacco, quando si inizierà a fare il vuoto intorno ai dominanti globali, per cercare di interrompere i flussi della globalizzazione neoliberista e incidere sulla riproduzione sistemica. Su questo posso ancora nutrire qualche speranza. Chi vuol capire capisca … di più non posso scrivere. 


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