AUTONOMIA PROLETARIA: RESISTENZA COMUNITARIA
Di Maurizio Neri
La convinzione di chi scrive è
che questo passaggio sia a tutt’oggi il risultato più rilevante raggiunto
dall’area comunista negli ultimi quarant’anni; da allora i passi fatti sono
solamente stati passi all’indietro sostanzialmente cancellando e smantellando
tutto ciò che era stato raggiunto. Gli stessi centri sociali nati come
collettivi in conseguenza ed in continuità di quel lavoro proprio per
proseguire sul territorio l’esperienza dell’autonomia sono andati con gli anni
ad assumere un carattere autoreferenziale (salvo le debite eccezioni) fino a
collassare su sé stessi e ad arrivare a marginalizzarsi e ad essere marginalizzati
proprio da quel territorio che doveva essere l’obiettivo principale delle
attività dei centri sociali stessi.
E’ stato detto più volte,
riprendiamo il discorso dall’autonomia. Riprendere il discorso non significa
chiaramente riprendere l’autonomia del 1974 o quella del 1977 e portarla qui
come se non ci fossero in mezzo più di trent’anni.
Quell’autonomia è fallita, un pò
sotto le spinte della repressione violenta dello stato e un pò sotto il peso
dei propri errori e dei propri peccati originari, un pò per l’implosione delle
previsioni e delle visioni operaiste e delle lotte operaie (ma sarebbe più
corretto dire in tal senso per la fine stessa della coscienza di classe e della
solidarietà di classe all’interno del mondo operaio). Appurato e dato per
chiaro una volta per tutte che la classe operaia non esiste più o meglio non
esiste più come soggetto politico autocosciente e come soggettività trainante e
monolitica ed appurato che l’operaismo è definitivamente tramontato e le
ulteriori teorizzazioni nate da quelle ceneri come le varie teorie delle
moltitudini di Negri alla prova dei fatti si sono dimostrate inefficienti ed
errate non rimane che cercare una nuova soggettività da cui ricominciare. Ora
considerato che il marxismo di Marx è una scienza sociale in quanto tale segue
le regole della metodologia scientifica il primo passo da compiere è quello di
ragionare in termini metodologici e scientifici (ricordando che per Marx
l’ideologia era una “falsa rappresentazione” della realtà).
Metodologicamente dunque dobbiamo
stabilire che all’interno di un discorso scientifico e attorno ad un nucleo
fondativo (e tra le altre cose il marxismo è anche una filosofia fondazionale) si costruiscono poi le varie teorie che
vanno progressivamente verificate nella prassi. Il nucleo fondativo del
marxismo di Marx è strutturato attorno al proletariato inteso come classe
sociale, quindi a parere di chi scrive è fondamentale riprendere come
soggettività da analizzare proprio il concetto di proletariato. Cos’è questo proletariato
oggi. È evidente che esso non può essere il proletariato di Marx, non è il
proletariato di Lenin e non è nemmeno quello degli anni Settanta, e come detto
poco sopra non è nemmeno la moltitudine di Negri. Non è possibile a mio parere
oggi dare una definizione precisa e circostanziata di proletariato in quanto
esso è definibile negativamente (ovvero dicendo quello che non è) ma non
positivamente (dicendo quello che è); di una cosa sola si può essere certi, il
proletariato contemporaneo vive polverizzato nei mille rivoli e rami di un
sistema ultraflessibile e motore primo di un modello culturale
ultraindividualista e corporativo che rende il proletariato stesso un fantasma
che si aggira per il Centro Capitalista privo della percezione di sé, trasformato
in macchina desiderante, desiderante di essere parte stessa di quel sistema che
lo schiavizza e tende allo stesso tempo a marginalizzarlo (senza mai escluderlo
chiaramente). Conseguenza di questo è che ogni definizione positiva che viene
data oggi del proletariato finisce inevitabilmente per diventare un contenitore
vuoto in cui si affastellano teorizzazioni prive di riscontro e dunque
metodologicamente votate al fallimento alla prova dei fatti. Chi sarà arrivato
a leggere fino a questo punto si starà chiedendo dunque il perché del titolo.
Perché autonomia proletaria se non è in alcun modo individuabile con l’analisi
e l’osservazione un proletariato cosciente di sé e inscrivibile all’interno di
una teoria. La risposta sta nella seconda parte del titolo di questo articolo:
resistenza comunitaria.
Come detto all’inizio si assiste
ad una riproposizione da più parti dell’area comunista italiana della parola
“comunità”. Noi come comunisti comunitari non possiamo che guardare con soddisfazione (e
aggiungo anche con un sorriso sardonico) a questa novità assieme ad una
profonda preoccupazione di vedere scippato ma soprattutto vanificato il nostro
lavoro (per alcuni compagni più che decennale e tra numerose critiche e
soprattutto infamie, accuse e marginalizzazioni) da un eccessivo uso
superficiale del concetto di comunità. Una parola difatti è in sé solo un
segno, un involucro dentro cui mettere un significato e a seconda del
significato cambia anche il valore ed il
concetto stesso. Non è stavolta inutile stare a ripetere che quello che come comunisti comunitari intendiamo
costruire è un tessuto interconnesso di comunità
(intese come Gemeinwesen marxiana) aperte di libere individualità legate tra
loro da un tessuto connettivo che neutralizzi il passaggio dell’uomo da ente
naturale ad ente mercantile. Comunità aperte che sappiano creare una
intercapedine, un fulcro che si inserisca tra la massa atomizzata ed indistinta
passiva ed il sistema istituzionale, borghese, liberista e capitalista, un
modello intuito ed analizzato in parte già anche fuori dal centro capitalista,
qualche cosa che non si contrapponga semplicemente allo stato ed al sistema ma
sia in grado di inserirsi prima e di sostituirsi ad esso gradualmente (comunità
aperte in grado di abbattere tra l’altro anche uno dei falsi miti più dannosi
per l’area comunista di questi ultimi decenni ovvero il mito della
contrapposizione totale e continua al Capitale, mito creatore di società chiuse
in sé stesse ed autoalimentanti e autoreferenziali sostanzialmente innocue per
il sistema stesso in quanto escluse da esso e dunque anche dal contatto con la
massa, per volontà propria reale o percepita che sia).
Ed il proletariato? E la ripresa
del discorso dell’autonomia? Qui sta il nodo centrale di questo breve articolo.
Si è detto poco sopra che il
proletariato odierno è un proletariato disperso, polverizzato, non
circoscrivibile e soprattutto senza coscienza di sé stesso e dunque ancora più
sfuggente alle analisi anche dei più zelanti e dei più volenterosi. In una
logica atomista e ultraindividualista in cui l’uomo è ente mercantile potremmo
affermare (per molti provocatoriamente) che non esiste un solo proletariato
come soggetto monolitico ma in potenza tanti proletariati diversi, tanti quanti
sono gli enti mercantili atomizzati raggruppati di volta in volta all’interno
di logiche corporative che creano unità di vedute puramente tattiche e
contingenti sul momento per poi dissolversi di nuovo una volta raggiunto
l’obiettivo a breve termine. In parole povere credo sia sotto gli occhi di tutti
che in questi ultimi anni le rivendicazioni all’interno del mondo del lavoro
sono sempre state rivendicazioni di tipo corporativo in cui di volta in volta
ogni categoria si ritrovava unita per questo o quel motivo avvolta nella
sostanziale indifferenza delle altre (e a volte anche con un senso di fastidio)
per poi ricadere nell’oblio e nell’apatia passiva a rivendicazione, lotta o
protesta finita. E’ proprio la mancanza del tessuto comunitario di cui si accennava prima a creare questo stato di cose
e si perpetra e riproduce sostanzialmente nella stessa maniera anche al di
fuori del mondo del lavoro in ogni aspetto singolo della vita sociale
dell’individuo e della società massificata e atomizzata allo stesso tempo. E
dunque in un humus sociale, economico e politico simile che la ricomposizione
di tale tessuto all’interno di comunità
aperte di libere individualità fungerebbe da catalizzatore, da attrattore
per quel proletariato senza coscienza e polverizzato, per quella miriade di
potenziali proletariati (o proletari) che si ritroverebbero di nuovo assieme
come un'unica soggettività collettiva aperta e non coatta, una unica
soggettività non più passiva ma attiva e dunque di nuovo non più potenziale ma
in atto e quindi con coscienza di sé.
Ecco il passaggio quindi, autonomia proletaria all’interno delle
comunità; comunità autonome connesse tra loro in diversi gradi orizzontali
proprio come le maglie di un tessuto, comunità proletarie, autonomia
comunitaria, o meglio ancora comunità come autonomia e autonomia come comunità
in una relazione biunivoca e sostanzialmente identitaria in cui i due termini
(autonomia e comunità) finirebbero
per assumere la stessa funzione e lo stesso significato.
Come infatti nell’esperienza
dell’autonomia di trent’anni fa all’interno delle comunità si ribalterebbe il
ruolo degli individui da soggetti passivi a soggetti attivi, soggetti creatori
e creativi, soggetti che non subiscono il sistema e dunque cercano di
interpretarlo e di adattarsi ad esso cercando di farne parte ma si sostituiscono
ad esso assieme creando qualche cosa di nuovo che renderebbe inutile il sistema
stesso senza allo stesso tempo autoescludersi da esso ma agendo come un virus
all’interno di un organismo vivente, parassitandolo (ovvero sfruttando tutti i
varchi e le contraddizioni che esso offre e mostra necessariamente per sua
natura) e contemporaneamente modificandolo. Un ribaltamento progressivo dei
ruoli in cui il sistema stesso diventerebbe alla fine soggetto passivo. È
difatti il principio della delega, della rappresentatività, della volontaria
cessione della gestione della propria vita che crea falsa coscienza e
passività, che rende l’ente naturale umano soggetto mercantile ovvero
consumatore di idee già pronte e preparate dall’esterno. La spinta creatrice spontanea
d’altra parte annulla il principio di passività e quindi di mercantilizzazione
del pensiero e quindi la dipendenza da qualche cosa che è esterno che non viene
più visto a quel punto come punto fisso e quindi ineludibile ed inattaccabile
ma come qualche cosa non solo di alieno (altro da sé, in cui il sé diventa
declinazione sia di sé stessi che della comunità tutta) ma soprattutto di
inutile.
Ma perché “resistenza”? Perché
autonomia proletaria come resistenza comunitaria? E’ il caso di demolire un
altro mito oramai logoro dell’area comunista italiana ovvero che esista una
biunivocità fra rivoluzione e volontà rivoluzionaria. In sostanza non è altro
che la sensazione che prima o poi attraversa tutti i compagni ovvero che basta
essere comunisti o far parte di un collettivo o di una realtà comunista o anche
semplicemente essere all’interno del movimento antagonista per vivere
all’interno di un mondo rivoluzionario, più semplicemente essere dei
rivoluzionari. È allora davvero il caso di dirlo bene una volta per tutte:
nessuno di noi è un rivoluzionario, non c’è alcuna rivoluzione per il momento
in atto o in potenza, non c’è alcun palazzo d’inverno da prendere
nell’immediato futuro, questa non è un epoca rivoluzionaria. Si tratta
sostanzialmente di una conseguenza del mito avanguardista; se difatti esiste un
avanguardia allora esistono coloro che compongono l’avanguardia ed essi non
possono dunque che essere rivoluzionari in quanto l’avanguardia non può che
essere rivoluzionaria. Ma questa non è un epoca rivoluzionaria, non ci sono le
condizioni nell’immediato per pensare ad alcuna rivoluzione nel Centro
Capitalista e se non esiste alcuna rivoluzione allora non può esistere alcun
rivoluzionario al pari del principio per cui se non hai delle scarpe da
riparare allora non puoi essere un calzolaio e se non sai come coltivare la
terra e non hai terra da coltivare allora non puoi essere e definirti un agricoltore.
La rivoluzione non c’è, non sappiamo come farla e dunque non siamo
rivoluzionari.
Ma allora cosa siamo? Siamo resistenti, perché questa è un epoca
di resistenza, siamo coloro che debbono riprendere il discorso e tentare di
ricominciare a portarlo avanti. Ma sia chiaro a tutti non siamo una
avanguardia e non esiste alcuna avanguardia di resistenza. La resistenza si può
pensare di farla e di trasformarla in qualche cosa di altro e di rivoluzionario
solo all’interno di un tessuto comunitario ricostituito, all’interno di una
logica di autonomia in cui si riunisca in atto il proletariato disperso ed
assente. La resistenza non può che essere come il comunismo, comunitaria. Autonomia proletaria per la resistenza
comunitaria e viceversa. Comunità Resistenti vuol essere solo un auspicio,
un virus appunto che vada diffondendosi spontaneamente attraverso un meccanismo
di interconnessioni (un tessuto) creative. Questo è il momento di farlo, questo
è il momento di spingere e di alzare un po’ più la voce, questo è il momento.
Le elezioni degli ultimi anni, hanno sancito esplicitamente la fine di ogni
differenza tra destra e sinistra istituzionali, la sinistra radicale
istituzionale è stata e si è annientata ed ora è fuori dai palazzi alla ricerca
di nuova verginità all’interno di un movimento che è fermo ed in agonia. Una
agonia che dovremmo cominciare ad ammettere sembra irreversibile o troppo
avanzata per tentare di rimettere a posto ciò che da troppo tempo non lo è più
e continua a peggiorare. La crisi di legittimazione territoriale dei Centri
Sociali, l’immobilismo autoreferenziale del movimento antagonista italiano (ma
anche di quello buona parte del Centro Capitalista con le solite debite
eccezioni che non è necessario stare a ripetere ancora una volta), la cacciata
dalle istituzioni della sinistra radicale istituzionale, gli appelli lanciati
negli ultimi tempi alla solita astratta e tardiva unità dei comunisti
rappresentano per chi vuole parlare ed intendere come noi (e con noi) il
concetto di autonomia proletaria, di resistenza comunitaria, di comunità, di
ripresa del marxismo, di ripensamento in genere del comunismo e dell’area
comunista. C’è una grande confusione sotto il cielo, la situazione è
eccellente. Bene dunque ripartiamo, ripartiamo da zero, e facciamolo ora,
queste sono le premesse, il lavoro fatto fino ad oggi è la nostra premessa.
Che fare? Se questa è la
premessa, se questa è il nucleo, la struttura da cui partire e da realizzare,
che cosa si deve fare per rendere tutto questo realizzabile? È chiaro infatti
che è la prassi quotidiana, l’impegno personale e collettivo, le proposte
concrete che rendono realizzabile o anche semplicemente verificabile una
analisi; è il processo marxiano d’altronde ed anche il semplice buonsenso a
ribadirlo.
Cosa proponiamo dunque, cosa propone chi scrive in questo Laboratorio, La risposta non c’è.
Non c’è a questo punto alcun deus ex machina a mettere l’animo in pace di chi
sta leggendo queste parole, non c’è il lieto fine o anche semplicemente la
chiusura a questo articolo. Chi scrive non sta facendo un decalogo o un
manifesto programmatico da esportare; il Laboratorio, non è in cerca
di proseliti o di esecutori a cui far mettere in atto ciò che già è stato
scritto. Come già detto noi non siamo una avanguardia, né rivoluzionaria né
resistente. Non siamo qui a proporci come
deus ex machina per tutta l’area comunista e per il movimento antagonista;
questo articolo non sono le parole di un oratore da strillare sopra di un
pulpito, questa è solo una
proposta. La proposta contiene in
sé già la risposta alla domanda. Ricucire un tessuto comunitario, riprendere il
discorso dell’autonomia, ricreare un blocco proletario resistente significa
sostanzialmente uscire là fuori, scendere per le strade e cominciare a guardarsi
intorno, abbandonare le mura tranquille e rassicuranti delle sedi partitiche,
dei centri sociali, della rete, non aspettare più che qualcuno si faccia avanti
ma andare a prendere le persone. Come si può
farlo? Noi non lo sappiamo, noi navighiamo in mare aperto, cerchiamo e
sperimentiamo ogni idea pratica, viviamo dei nostri fallimenti e delle nostre
conferme e rimettiamo tutto in gioco. Non può esistere una risposta unica e
valida per ogni realtà locale, non può esistere un modello unico di comunità aperta,
non può esistere una parola d’ordine che racchiuda in sé ogni granello di quel
proletariato polverizzato e anche se ci fosse non sarebbe e non è più compito
nostro, compito di chi scrive ora, compito del Laboratorio, starlo a dire. Siete
voi che ora state leggendo a dovervi spremere le meningi, a fare i passi
concreti adesso, a riappropriarvi in prima persona di quella volontà creatrice,
a creare quella comunità aperta attiva e pensante, siete voi a dover creare le
condizioni per creare quel virus che modifichi attivamente il sistema.
Fino a che si continuerà ad
aspettare le idee di qualcun altro, ad imitare le azioni e le lotte di altri e
fino a che le idee continueranno ad essere tese verso l’autoalimentazione di
quella piccola realtà, fino a che un idea una volta verificata sul campo si
dimostrerà perdente e nonostante tutto si continuerà a riproporla costantemente
senza cercare di nuovo e rimettere in moto un ciclo costante di analisi,
teorizzazione e prassi allora tutte queste parole rimarranno lettera morta. Noi
la nostra parte la stiamo facendo, non
chiediamo a nessuno di seguirci né di applaudirci, non cerchiamo in altri
compagni lodi o critiche, il nostro lavoro politico sul territorio è rivolto
certamente verso i compagni ma soprattutto verso chi compagno non è, verso la
gente comune, verso le loro difficoltà senza premesse o condizioni di adesione.
L’adesione deve essere spontanea e frutto di una maturazione che ogni individuo
coinvolto mette in moto attraverso il circolo
virtuoso che le nostre proposte dovrebbero far partire.