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martedì 15 aprile 2014



AUTONOMIA PROLETARIA: RESISTENZA COMUNITARIA



Di Maurizio Neri



Credo che oggi il punto fondamentale da cui ripartire resta l’esperienza dell’autonomia, quella con la lettera piccola, quella dello spontaneismo e della frattura con il bagaglio ideologico dei gruppi e dei partiti, l’autonomia operaia degli anni Settanta, quella che cercava la sintesi delle sue due diverse anime, quella operaia e operaista e quella studentesca e potremmo dire libertaria. Autonomia operaia si diceva e senza dubbio l’anima che prevalse alla fine fu proprio quella operaista, quella di Piperno e Scalzone, quella della rivista Rosso e di Toni Negri. Si è già più e più volte parlato dei danni a lungo termine che portò con sé la corrente operaista e quindi non è necessario né interessante ora stare a ripetere concetti già più volte ripetuti ma è importante far notare come allora avesse ancora un senso valido o perlomeno percepito tale parlare di autonomia OPERAIA, quando si stava entrando in un periodo di percepita maturazione delle lotte operaie all’interno delle grandi fabbriche fordiste e del loro stretto collegamento con le lotte studentesche degli anni passati. A distanza di anni e con il fatidico senno del poi possiamo dire che fu proprio il prevalere dell’operaismo all’interno dell’autonomia operaia a costituire quel peccato originale che in breve tempo portò prima alla morte dell’autonomia come movimento spontaneo ed autorganizzato dal basso e quindi al costituirsi in seguito di una struttura organizzata verticalmente, l’Autonomia con la A maiuscola. E tuttavia parlare di autonomia operaia allora aveva un senso e senza dubbio era proprio la grande fabbrica fordista (ed il connubio con l’area studentesca) ad essere il luogo più avanzato delle lotte e delle proposte ed era allora altamente percepibile e palpabile la presenza di quella che viene chiamata la coscienza di classe e la conseguente solidarietà e compattezza (nelle differenze!) di tutto il movimento. La storia della fine dell’autonomia e della crisi progressiva da quegli anni ad oggi è nota a tutti ed è stata già tracciata più e più volte e dunque non verrà ripetuta. Di quell’esperienza rimane la grande intuizione della fine delle forme partitiche e dei gruppi, la ricerca creativa di nuove forme di lotta e di nuove strutture e nuove teorie e l’esigenza di cercare una autorganizzazione dell’area attraverso un agire concreto e teso verso l’esterno e la cosiddetta massa. Basta ricordare in tal senso le esperienze delle radio come Radio Onda Rossa a Roma, Radio Alice a Bologna o Radio Sherwood a Padova dove per la prima volta potevano intervenire nelle trasmissioni le persone all’ascolto creando assieme la trasmissione stessa e trasformando in parte attiva il soggetto passivo, oppure alle lotte locali nei quartieri, le occupazioni delle case, le autoriduzioni delle bollette, le spese proletarie sempre nell’ottica del coinvolgimento e della proposizione verso la gente comune. Era un lavoro politico non strutturato in una visione di inquadramento passivo e già predeterminato ma in uno scambio continuo dei ruoli fino al coinvolgimento e la fusione in un'unica soggettività in lotta concreta. Si creava così un collegamento biunivoco di scambio reciproco tra interno ed esterno ed allo stesso tempo si apriva un varco tra massa e sistema in cui si inserivano le lotte e diventavano pratica quotidiana. Fu davvero per molti versi l’ultima intuizione veramente rivoluzionaria, la parte più avanzata di un movimento unico esente da avanguardie.

La convinzione di chi scrive è che questo passaggio sia a tutt’oggi il risultato più rilevante raggiunto dall’area comunista negli ultimi quarant’anni; da allora i passi fatti sono solamente stati passi all’indietro sostanzialmente cancellando e smantellando tutto ciò che era stato raggiunto. Gli stessi centri sociali nati come collettivi in conseguenza ed in continuità di quel lavoro proprio per proseguire sul territorio l’esperienza dell’autonomia sono andati con gli anni ad assumere un carattere autoreferenziale (salvo le debite eccezioni) fino a collassare su sé stessi e ad arrivare a marginalizzarsi e ad essere marginalizzati proprio da quel territorio che doveva essere l’obiettivo principale delle attività dei centri sociali stessi.
E’ stato detto più volte, riprendiamo il discorso dall’autonomia. Riprendere il discorso non significa chiaramente riprendere l’autonomia del 1974 o quella del 1977 e portarla qui come se non ci fossero in mezzo più di trent’anni.
Quell’autonomia è fallita, un pò sotto le spinte della repressione violenta dello stato e un pò sotto il peso dei propri errori e dei propri peccati originari, un pò per l’implosione delle previsioni e delle visioni operaiste e delle lotte operaie (ma sarebbe più corretto dire in tal senso per la fine stessa della coscienza di classe e della solidarietà di classe all’interno del mondo operaio). Appurato e dato per chiaro una volta per tutte che la classe operaia non esiste più o meglio non esiste più come soggetto politico autocosciente e come soggettività trainante e monolitica ed appurato che l’operaismo è definitivamente tramontato e le ulteriori teorizzazioni nate da quelle ceneri come le varie teorie delle moltitudini di Negri alla prova dei fatti si sono dimostrate inefficienti ed errate non rimane che cercare una nuova soggettività da cui ricominciare. Ora considerato che il marxismo di Marx è una scienza sociale in quanto tale segue le regole della metodologia scientifica il primo passo da compiere è quello di ragionare in termini metodologici e scientifici (ricordando che per Marx l’ideologia era una “falsa rappresentazione” della realtà). 


Metodologicamente dunque dobbiamo stabilire che all’interno di un discorso scientifico e attorno ad un nucleo fondativo (e tra le altre cose il marxismo è anche una filosofia fondazionale) si costruiscono poi le varie teorie che vanno progressivamente verificate nella prassi. Il nucleo fondativo del marxismo di Marx è strutturato attorno al proletariato inteso come classe sociale, quindi a parere di chi scrive è fondamentale riprendere come soggettività da analizzare proprio il concetto di proletariato. Cos’è questo proletariato oggi. È evidente che esso non può essere il proletariato di Marx, non è il proletariato di Lenin e non è nemmeno quello degli anni Settanta, e come detto poco sopra non è nemmeno la moltitudine di Negri. Non è possibile a mio parere oggi dare una definizione precisa e circostanziata di proletariato in quanto esso è definibile negativamente (ovvero dicendo quello che non è) ma non positivamente (dicendo quello che è); di una cosa sola si può essere certi, il proletariato contemporaneo vive polverizzato nei mille rivoli e rami di un sistema ultraflessibile e motore primo di un modello culturale ultraindividualista e corporativo che rende il proletariato stesso un fantasma che si aggira per il Centro Capitalista privo della percezione di sé, trasformato in macchina desiderante, desiderante di essere parte stessa di quel sistema che lo schiavizza e tende allo stesso tempo a marginalizzarlo (senza mai escluderlo chiaramente). Conseguenza di questo è che ogni definizione positiva che viene data oggi del proletariato finisce inevitabilmente per diventare un contenitore vuoto in cui si affastellano teorizzazioni prive di riscontro e dunque metodologicamente votate al fallimento alla prova dei fatti. Chi sarà arrivato a leggere fino a questo punto si starà chiedendo dunque il perché del titolo. Perché autonomia proletaria se non è in alcun modo individuabile con l’analisi e l’osservazione un proletariato cosciente di sé e inscrivibile all’interno di una teoria. La risposta sta nella seconda parte del titolo di questo articolo: resistenza comunitaria.

Come detto all’inizio si assiste ad una riproposizione da più parti dell’area comunista italiana della parola “comunità”. Noi come comunisti comunitari non possiamo che guardare con soddisfazione (e aggiungo anche con un sorriso sardonico) a questa novità assieme ad una profonda preoccupazione di vedere scippato ma soprattutto vanificato il nostro lavoro (per alcuni compagni più che decennale e tra numerose critiche e soprattutto infamie, accuse e marginalizzazioni) da un eccessivo uso superficiale del concetto di comunità. Una parola difatti è in sé solo un segno, un involucro dentro cui mettere un significato e a seconda del significato cambia anche il valore ed il  concetto stesso. Non è stavolta inutile stare a ripetere che quello che come comunisti comunitari intendiamo costruire è un tessuto interconnesso di comunità (intese come Gemeinwesen marxiana)  aperte di libere individualità legate tra loro da un tessuto connettivo che neutralizzi il passaggio dell’uomo da ente naturale ad ente mercantile. Comunità aperte che sappiano creare una intercapedine, un fulcro che si inserisca tra la massa atomizzata ed indistinta passiva ed il sistema istituzionale, borghese, liberista e capitalista, un modello intuito ed analizzato in parte già anche fuori dal centro capitalista, qualche cosa che non si contrapponga semplicemente allo stato ed al sistema ma sia in grado di inserirsi prima e di sostituirsi ad esso gradualmente (comunità aperte in grado di abbattere tra l’altro anche uno dei falsi miti più dannosi per l’area comunista di questi ultimi decenni ovvero il mito della contrapposizione totale e continua al Capitale, mito creatore di società chiuse in sé stesse ed autoalimentanti e autoreferenziali sostanzialmente innocue per il sistema stesso in quanto escluse da esso e dunque anche dal contatto con la massa, per volontà propria reale o percepita che sia).
Ed il proletariato? E la ripresa del discorso dell’autonomia? Qui sta il nodo centrale di questo breve articolo.

Si è detto poco sopra che il proletariato odierno è un proletariato disperso, polverizzato, non circoscrivibile e soprattutto senza coscienza di sé stesso e dunque ancora più sfuggente alle analisi anche dei più zelanti e dei più volenterosi. In una logica atomista e ultraindividualista in cui l’uomo è ente mercantile potremmo affermare (per molti provocatoriamente) che non esiste un solo proletariato come soggetto monolitico ma in potenza tanti proletariati diversi, tanti quanti sono gli enti mercantili atomizzati raggruppati di volta in volta all’interno di logiche corporative che creano unità di vedute puramente tattiche e contingenti sul momento per poi dissolversi di nuovo una volta raggiunto l’obiettivo a breve termine. In parole povere credo sia sotto gli occhi di tutti che in questi ultimi anni le rivendicazioni all’interno del mondo del lavoro sono sempre state rivendicazioni di tipo corporativo in cui di volta in volta ogni categoria si ritrovava unita per questo o quel motivo avvolta nella sostanziale indifferenza delle altre (e a volte anche con un senso di fastidio) per poi ricadere nell’oblio e nell’apatia passiva a rivendicazione, lotta o protesta finita. E’ proprio la mancanza del tessuto comunitario di cui si accennava prima a creare questo stato di cose e si perpetra e riproduce sostanzialmente nella stessa maniera anche al di fuori del mondo del lavoro in ogni aspetto singolo della vita sociale dell’individuo e della società massificata e atomizzata allo stesso tempo. E dunque in un humus sociale, economico e politico simile che la ricomposizione di tale tessuto all’interno di comunità aperte di libere individualità fungerebbe da catalizzatore, da attrattore per quel proletariato senza coscienza e polverizzato, per quella miriade di potenziali proletariati (o proletari) che si ritroverebbero di nuovo assieme come un'unica soggettività collettiva aperta e non coatta, una unica soggettività non più passiva ma attiva e dunque di nuovo non più potenziale ma in atto e quindi con coscienza di sé.

Ecco il passaggio quindi, autonomia proletaria all’interno delle comunità; comunità autonome connesse tra loro in diversi gradi orizzontali proprio come le maglie di un tessuto, comunità proletarie, autonomia comunitaria, o meglio ancora comunità come autonomia e autonomia come comunità in una relazione biunivoca e sostanzialmente identitaria in cui i due termini (autonomia e comunità) finirebbero per assumere la stessa funzione e lo stesso significato.
Come infatti nell’esperienza dell’autonomia di trent’anni fa all’interno delle comunità si ribalterebbe il ruolo degli individui da soggetti passivi a soggetti attivi, soggetti creatori e creativi, soggetti che non subiscono il sistema e dunque cercano di interpretarlo e di adattarsi ad esso cercando di farne parte ma si sostituiscono ad esso assieme creando qualche cosa di nuovo che renderebbe inutile il sistema stesso senza allo stesso tempo autoescludersi da esso ma agendo come un virus all’interno di un organismo vivente, parassitandolo (ovvero sfruttando tutti i varchi e le contraddizioni che esso offre e mostra necessariamente per sua natura) e contemporaneamente modificandolo. Un ribaltamento progressivo dei ruoli in cui il sistema stesso diventerebbe alla fine soggetto passivo. È difatti il principio della delega, della rappresentatività, della volontaria cessione della gestione della propria vita che crea falsa coscienza e passività, che rende l’ente naturale umano soggetto mercantile ovvero consumatore di idee già pronte e preparate dall’esterno. La spinta creatrice spontanea d’altra parte annulla il principio di passività e quindi di mercantilizzazione del pensiero e quindi la dipendenza da qualche cosa che è esterno che non viene più visto a quel punto come punto fisso e quindi ineludibile ed inattaccabile ma come qualche cosa non solo di alieno (altro da sé, in cui il sé diventa declinazione sia di sé stessi che della comunità tutta) ma soprattutto di inutile.
Ma perché “resistenza”? Perché autonomia proletaria come resistenza comunitaria? E’ il caso di demolire un altro mito oramai logoro dell’area comunista italiana ovvero che esista una biunivocità fra rivoluzione e volontà rivoluzionaria. In sostanza non è altro che la sensazione che prima o poi attraversa tutti i compagni ovvero che basta essere comunisti o far parte di un collettivo o di una realtà comunista o anche semplicemente essere all’interno del movimento antagonista per vivere all’interno di un mondo rivoluzionario, più semplicemente essere dei rivoluzionari. È allora davvero il caso di dirlo bene una volta per tutte: nessuno di noi è un rivoluzionario, non c’è alcuna rivoluzione per il momento in atto o in potenza, non c’è alcun palazzo d’inverno da prendere nell’immediato futuro, questa non è un epoca rivoluzionaria. Si tratta sostanzialmente di una conseguenza del mito avanguardista; se difatti esiste un avanguardia allora esistono coloro che compongono l’avanguardia ed essi non possono dunque che essere rivoluzionari in quanto l’avanguardia non può che essere rivoluzionaria. Ma questa non è un epoca rivoluzionaria, non ci sono le condizioni nell’immediato per pensare ad alcuna rivoluzione nel Centro Capitalista e se non esiste alcuna rivoluzione allora non può esistere alcun rivoluzionario al pari del principio per cui se non hai delle scarpe da riparare allora non puoi essere un calzolaio e se non sai come coltivare la terra e non hai terra da coltivare allora non puoi essere e definirti un agricoltore. La rivoluzione non c’è, non sappiamo come farla e dunque non siamo rivoluzionari.



Ma allora cosa siamo? Siamo resistenti, perché questa è un epoca di resistenza, siamo coloro che debbono riprendere il discorso e tentare di ricominciare a portarlo avanti. Ma sia chiaro a tutti non siamo una avanguardia e non esiste alcuna avanguardia di resistenza. La resistenza si può pensare di farla e di trasformarla in qualche cosa di altro e di rivoluzionario solo all’interno di un tessuto comunitario ricostituito, all’interno di una logica di autonomia in cui si riunisca in atto il proletariato disperso ed assente. La resistenza non può che essere come il comunismo, comunitaria. Autonomia proletaria per la resistenza comunitaria e viceversa. Comunità Resistenti vuol essere solo un auspicio, un virus appunto che vada diffondendosi spontaneamente attraverso un meccanismo di interconnessioni (un tessuto) creative. Questo è il momento di farlo, questo è il momento di spingere e di alzare un po’ più la voce, questo è il momento. Le elezioni degli ultimi anni, hanno sancito esplicitamente la fine di ogni differenza tra destra e sinistra istituzionali, la sinistra radicale istituzionale è stata e si è annientata ed ora è fuori dai palazzi alla ricerca di nuova verginità all’interno di un movimento che è fermo ed in agonia. Una agonia che dovremmo cominciare ad ammettere sembra irreversibile o troppo avanzata per tentare di rimettere a posto ciò che da troppo tempo non lo è più e continua a peggiorare. La crisi di legittimazione territoriale dei Centri Sociali, l’immobilismo autoreferenziale del movimento antagonista italiano (ma anche di quello buona parte del Centro Capitalista con le solite debite eccezioni che non è necessario stare a ripetere ancora una volta), la cacciata dalle istituzioni della sinistra radicale istituzionale, gli appelli lanciati negli ultimi tempi alla solita astratta e tardiva unità dei comunisti rappresentano per chi vuole parlare ed intendere come noi (e con noi) il concetto di autonomia proletaria, di resistenza comunitaria, di comunità, di ripresa del marxismo, di ripensamento in genere del comunismo e dell’area comunista. C’è una grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. Bene dunque ripartiamo, ripartiamo da zero, e facciamolo ora, queste sono le premesse, il lavoro fatto fino ad oggi è la nostra premessa.
Che fare? Se questa è la premessa, se questa è il nucleo, la struttura da cui partire e da realizzare, che cosa si deve fare per rendere tutto questo realizzabile? È chiaro infatti che è la prassi quotidiana, l’impegno personale e collettivo, le proposte concrete che rendono realizzabile o anche semplicemente verificabile una analisi; è il processo marxiano d’altronde ed anche il semplice buonsenso a ribadirlo.
Cosa proponiamo dunque, cosa propone chi scrive in questo Laboratorio, La risposta non c’è. Non c’è a questo punto alcun deus ex machina a mettere l’animo in pace di chi sta leggendo queste parole, non c’è il lieto fine o anche semplicemente la chiusura a questo articolo. Chi scrive non sta facendo un decalogo o un manifesto programmatico da esportare; il Laboratorio,   non è in cerca di proseliti o di esecutori a cui far mettere in atto ciò che già è stato scritto. Come già detto noi non siamo una avanguardia, né rivoluzionaria né resistente. Non siamo qui a proporci come deus ex machina per tutta l’area comunista e per il movimento antagonista; questo articolo non sono le parole di un oratore da strillare sopra di un pulpito, questa è solo una
proposta. La proposta contiene in sé già la risposta alla domanda. Ricucire un tessuto comunitario, riprendere il discorso dell’autonomia, ricreare un blocco proletario resistente significa sostanzialmente uscire là fuori, scendere per le strade e cominciare a guardarsi intorno, abbandonare le mura tranquille e rassicuranti delle sedi partitiche, dei centri sociali, della rete, non aspettare più che qualcuno si faccia avanti ma andare a prendere le persone. Come si può  farlo? Noi non lo sappiamo, noi navighiamo in mare aperto, cerchiamo e sperimentiamo ogni idea pratica, viviamo dei nostri fallimenti e delle nostre conferme e rimettiamo tutto in gioco. Non può esistere una risposta unica e valida per ogni realtà locale, non può esistere un modello unico di comunità aperta, non può esistere una parola d’ordine che racchiuda in sé ogni granello di quel proletariato polverizzato e anche se ci fosse non sarebbe e non è più compito nostro, compito di chi scrive ora, compito del Laboratorio, starlo a dire. Siete voi che ora state leggendo a dovervi spremere le meningi, a fare i passi concreti adesso, a riappropriarvi in prima persona di quella volontà creatrice, a creare quella comunità aperta attiva e pensante, siete voi a dover creare le condizioni per creare quel virus che modifichi attivamente il sistema.

Fino a che si continuerà ad aspettare le idee di qualcun altro, ad imitare le azioni e le lotte di altri e fino a che le idee continueranno ad essere tese verso l’autoalimentazione di quella piccola realtà, fino a che un idea una volta verificata sul campo si dimostrerà perdente e nonostante tutto si continuerà a riproporla costantemente senza cercare di nuovo e rimettere in moto un ciclo costante di analisi, teorizzazione e prassi allora tutte queste parole rimarranno lettera morta. Noi la nostra parte la stiamo  facendo, non chiediamo a nessuno di seguirci né di applaudirci, non cerchiamo in altri compagni lodi o critiche, il nostro lavoro politico sul territorio è rivolto certamente verso i compagni ma soprattutto verso chi compagno non è, verso la gente comune, verso le loro difficoltà senza premesse o condizioni di adesione. L’adesione deve essere spontanea e frutto di una maturazione che ogni individuo coinvolto mette in moto attraverso il circolo  virtuoso che le nostre proposte dovrebbero far partire.



mercoledì 8 febbraio 2012

Applicazione del comunismo e relazioni tra comunità nazionali ed internazionali




Uno dei punti deboli (o meglio assenti) dell'analisi marxiana è l'aver prospettato il comunismo come un semplice rovesciamento economico dei rapporti di produzione capitalistici. Da tale rovesciamento sarebbe scaturita da sé una società di liberi produttori cooperanti liberati dallo sfruttamento e dalle stesse strutture sociali che ne condizionavano l'agire.
In tal senso il comunismo marxiano è un comunismo che si realizza senza problematizzazioni politiche, giuridiche, istituzionali ed etiche. La polemica di Marx contro i tentativi puramente politici di rovesciare il capitalismo (polemica contro il socialismo utopistico) era fino ad una certa misura corretta e necessaria, poiché aveva la funzione di mostrare la debolezza di un'ideale politico che non si curava di cogliere le contraddizioni interne alla produzione capitalistica da cui potevano sorgere le condizioni oggettive per un passaggio al socialismo e poi al comunismo. Tuttavia questa corretta critica se diviene ipertrofica finisce per rendere il comunismo, nel senso marxiano, un comunismo iper-economico che prescinde dalla realizzazione etico-politica. Di qui l'utopia (scorretta a nostro avviso) dell'estinzione dello Stato e delle stesse strutture sistemiche (che hanno carattere permanente e non transitorio). Un'utopia che si è rovesciata, nel comunismo storico realizzato novecentesco, nel suo opposto (Stato invasivo, centralizzazione burocratica, collettivizzazione forzata etc etc).
La riflessione filosofica che invece è necessaria per sintetizzare lo strutturalismo marxiano con un fondamento universalista e umanista, è quella inerente al carattere ontologico della natura umana e, da ciò derivato,inerente al legame tra individuo e comunità, tra particolare e universale.
L'uomo è infatti un essere sociale e comunitario la cui singolarità è unita, seppur distinta, dalla comunità cui appartiene intesa come stratificazione di aggregati umani che vanno dalla famiglia di origine fino al genere umano, passando dalle comunità intermedie.
A partire da tale riflessione è possibile pensare al comunismo come società in cui si realizza la difficile e sempre incerta mediazione tra individuo e comunità.
Nel concreto il comunismo potrebbe configurare la sintesi tra: sul piano economico, una produzione collettiva-cooperativa e personale, con collettivizzazione dei mezzi di produzione maggiori, cooperativizzazione dei medi e piena accettazione della proprietà personale per ciò che riguarda i piccoli settori ad uso personale o micro-commerciale; sul piano etico-politico, la realizzazione di una società in cui le singole comunità intese nella loro stratificazione dimensionale (da quella più piccola a quella più grande) si interconnettono costituendo, entro uno Stato, quella che è la comunità politica. Ciò è possibile soltanto alla luce di una Metafisica sociale della relazione tra individuo e comunità che superi l'approccio liberale-individualista senza cadere in nessun modo in tentazioni organicistiche.
Per ciò che riguarda il rapporto tra Comunità nazionali (politiche), naturalmente, va detto che, la Comunità non è luogo esaustivo di realizzazione ultima dell'essere umano. L'Uomo, in quanto essere universale, è per natura teso ad universalizzare la propria esistenza ponendosi in contatto (ideale e non solo) con l'intero genere umano. In questo senso una Comunità politica non può configurarsi come comunità chiusa, ma avrà per forza di cose contatti e rapporti con le altre comunità, basati sul mutuo soccorso, la mutua solidarietà e la fratellanza basata sulla comune appartenenza alla famiglia umana. Naturalmente questa forma di universalismo forte potrà scontrarsi oggettivamente, di volta in volta, con il concetto di sovranità dei singoli Stati. Si tratta di un problema molto grande, che oggi, nel mondo capitalistico, si mostra in tutta la sua crudezza, dal momento che uno pseudo-universalismo astratto (orrendo) viene usato per ledere il sacrosanto principio di sovranità degli Stati e muovere loro guerre umanitarie devastanti. Anche in un ipotetico comunismo o socialismo internazionale, il problema della sovranità degli Stati resterà, pur se attenuato, un problema non banale. Solo un intelligente mediazione tra esigenze sovraniste (imprescindibili) ed esigenze universalistiche (anch'esse imprescindibili) può risolvere l'apparente antinomia tra universalismo e sovranità comunitaria.

domenica 20 novembre 2011

BERLUSCONEIDE 

Considerazioni storiche e politiche dopo la caduta di Berlusconi.





di Costanzo Preve



1. Una premessa. Scrivo queste considerazioni su esplicito invito di amici, francesi e greci, interessati ad avere una mia analisi strutturale, e non solo pettegola o episodica, sulla caduta di Berlusconi. Caduta certo non ancora formalizzata, ma io credo irreversibile. Ed irreversibile non certamente perchè causata da tre fattori a mio avviso poco rilevanti (ceto po­litico professionale ex-comunista ed ex-cattolico democristiano, circo mediatico asservito alle strategie oligarchiche del grande capitalismo finanziario g1obalizzato, magistratura politicizzata anti-berlusconiana). Poco rilevanti sono stati anche gli scandali, le prostitute, i sorrisini di Merkel e Sarkozy, e tutto il ciarpame sollevato da quell’autentico scandalo culturale e giornalistico chiamato “La Repubblica”, incrocio fra la componente borghese laica ex-azionista e la componente “picista”, che con tutta la mia buona volontà non intendo connotare con il glorioso anche se discusso nome di “comunista”.


Partirò quindi da un fattore tutto sommato secondario come il berlusconismo, ma arriverò presto al vero ed unico problema storico che ci sta dietro, l'adeguamento e poi la sparizione del modello europeo di capitalismo verso un unico modello anglosassone di capitalismo totale. Prego il lettore di prestare attenzione a questa tesi finale, perche tutto quanto c‘è prima è solo gli “antipasti”, le “tapas” per dirla in spagnolo.






2. Il giorno 5 novembre 2011 il Canale La Sette ha trasmesso in prima sera­ta, modificando la programmazione prevista, un film su Berlusconi intitola­to BERLUSCONI FOR EVER. Si tratta di una sintesi del come per circa vent'anni l’intera classe dirigente italiana ed i suoi intellettuali, dall’italianista Asor Rosa al comico Benigni hanno visto Berlusconi. Ecco perchè conviene partire da lì. In sintesi, evidenzierei quattro temi in ordine di importanza:


(1) Berlusconi appare come un megalomane in preda ad un compulsivo deli­rio di onnipotenza patologica, una sorta di piazzista e di venditore di tappeti levantino autoreferenziale, che crede che la propria “verità” sia anche l’unica verità. Il riferimento è al vecchio giornalista vate della borghesia italiana, Indro Montanelli, esempio di passaggio e di “riciclaggio” in tempo reale dal fascismo al regime dopo il 1945. Non a caso il suo successore, il sionista fanatico Travaglio, è diventato per un ventennio l'idolo della sinistra anti-berlusconiana.


(2) Berlusconi appare come il portatore dei difetti atavici degli italia­ni, primo dei quali sarebbe la sostituzione della furbizia all’intelligenza. Il suo “successo” (qui si ripete l’interpretazione di Piero Gobetti sulle ragioni del successo di Mussolini) appare dovuto proprio al fatto che ha incarnato la parte peggiore della tradizione antropologico-sociale italiana.


(3) Viene continuamente suggerito un fatto non provato, ma dato assolutamente per scontato dall'italiano medio di “sinistra”, il fatto che Berlusco­ni abbia fondato il suo impero economico, prima da costruttore e poi da magnate dei media, riciclando alla grande denaro di provenienza mafiosa. Ma il piazzista è ora diventato inaffidabile. Il piazzista non può per venti anni dare “bidoni”.


(4) Berlusconi appare portatore della vecchia ipocrisia cattolica italia­na. Da lato puttaniere impenitente, adultero manifesto, laido organizza­tore di festini con adolescenti ambiziose, e dall'altro cattolico fervente che faceva la comunione tutte le domeniche.


Potremo continuare ma è chiaro che un simile personaggio da commedia dell'arte è troppo ghiotto per non attirare l'attenzione di quella che è stata battezzata “opinione pubblica”, la cui completa sparizione era stata peraltro diagnosticata da Habermas quando era ancora sotto il controllo di Adorno. Tutto questo, ovviamente, è vero, non mi sogno assolutamente di negarlo. Ritengo però che sia solo la superficie, e si è detto che la “scienza” sarebbe inutile se la superficie e la profondità coincidessero. E allora indaghiamo prima la superficie e poi la profondità.


3. Partiamo prima dall’ideologia anti-berlusconiana, durata parossisticamente in Italia quasi un ventennio. Si tratta, per usare un termine del filo­sofo-economista althusseriano francese Charles Bettelheim, di una vera e propria “formazione ideologica”. Essa è a mio avviso il prodotto della fu­sione di due elementi distinti ma intercorressi:


(1) L’origine risale ai primi anni Venti, e fu proposta per la prima volta dal saggista torinese Piero Gobetti. Il popolo italiano soffrirebbe di una grave carenza morale complessiva, dovuta in primo luogo alla mancata riforma protestante (non importa se luterana o calvinista, ma meglio cal­vinista in quanto individualistica, borghese-capitalistica e soprattutto inglese ed anglofila), ed in secondo luogo al carattere ristretto ed elitario del risorgimento (il “risorgimento senza eroi”). II secondo punto a mio avviso è inesatto, e rimando ad un recente ottimo testo pubblicato in 1ingua francese (cfr. Yves Branca , Le risorgimento au coeur de l’Euro­pe), che corregge in buona parte questa visione unilaterale.


L’idea degli italiani come popolo delle scimmie e del risorgimento senza eroi ha nutrito, in particolare dopo il 1945, 1’ala “azionista” della cultura borghese italiana, ansiosa di “scaricare” il fascismo sui difetti atavici degli italiani, per poter così far dimenticare le dirette responsabilità del grande capitale italiano, che abbandonò il fascismo soltanto nell'an­no della sua sconfitta evidente (l943). Si trattava di una ala anglofila, empirista in filosofia e quindi nemica soprattutto dell’idealismo e dunque di Hegel.Questa posizione, assolutamente minoritaria nel popolo ita­liano, era però assolutamente maggioritaria nel mondo degli intellettuali. Ed a proposito degli intellettuali, categoria con la quale chi scrive non vuole avere assolutamente niente a che fare, ricordo la posizione anticipatrice espressa più di un secolo fa da Georges Sorel, che a mio avviso Bourdieu ha saputo sistematizzare bene, quando definisce gli intel­lettuali come gruppo sociale (e non come insieme eterogeneo di individua­lità diverse), come una sezione dominala della classe dominante. Lo ripeto per chi se lo fosse lasciato scappare: una sezione dominata della classe dominante, non certo i “portatori” della visione del mondo dei do­minati.


(2) La seconda componente risulta geneticamente dalla riconversione ideolo­gica del picismo italiano, che mi rifiuto di chiamare “comunismo” per le ragioni esposte in precedenza. Questo enorme rinoceronte sociologico ed antropologico aveva già gestito fra il 1956 ed il 1962 il passaggio dal modello sovietico alla cosiddetta “via italiana al socialismo”, che copriva una integrazione strutturale nei meccanismi riproduttivi del sistema ca­pitalistico italiano, e poi dal l976 al 1982, dopo la presa in giro mediatica del cosiddetto “eurocomunismo”, il passaggio dal partito della critica al capitalismo al partito degli “onesti”, contrappasso ovviamente ai “disonesti” (prima il socialista Bettino Craxi e poi ovviamente Berlusconi, in quanto suo presunto erede). Dopo il triennio 1989-1991 il bestione so­ciologico ed antropologico dovette riconvertirsi alle nuove condizioni storiche aperte dalla dissoluzione del comunismo storico novecentesco (19I7-1991) il solo ed unico comunismo “pratico” mai esistito, essendo restati tutti gli altri mere petizioni morali alternative oppure gruppi di testimonianza settaria, sia pure pieni di “buone intenzioni”. Si tratta di un'azienda che produce scarpe e che dopo un'alluvione è obbligata, per non uscire dal mercato, a produrre pinne e stivali di gomma per alluvio­nati.


Il riciclaggio di questi cialtroni fu fatto talmente bene che essi riusci­rono a portarsi dietro gran parte della loro precedente clientela fideliz­zata identitaria, nella forma del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD. In proposito, l’antiberlusconismo fu provvidenziale perché permise una rapida e performativa sostituzione alla identità precedente. Il serpentone meta­morfico fu sempre in primo piano per appoggiare attivamente tutte le strategie di guerra USA-NATO, dal Kosovo nel l999 (D'Alema) alla Libia 2011 (Napolitano).


L'unione di questi due elementi fecero sì che l’antiberlusconismo fosse veramente provvidenziale.






4. Non vorrei che sorgessero spiacevoli equivoci. Io considero Berlusco­ni, come figura umana, culturale, storica e politica un ripugnante cialtrone, ed in questo non mi distinguo affatto (purtroppo) dall'anti-berlusconiano medio. Ma insisto sul fatto che rifiuto la koinè pittoresca ed estetica del riciclaggio delle classi dominanti italiane, per cui Berlusconi, lungi dall’esserne stato il rappresentante, è stato piuttosto un “incidente di percorso”. Un incidente di percorso? Certamente. Vediamo come.






5. Per usare un lessico militare, Berlusconi fu un “incidente di percorso”, o più esattamente un “danno collaterale” di Mani Pulite, che fu nella sua fun­zione storico-politica oggettiva (e non nella sua rappresentazione ideolo­gica, che fu il teatrino della vittoria degli onesti sul cinghialone, porcone, corrottone Craxi, che la marmaglia plebea fanatizzata avrebbe voluto uc­cidere ed appendere per i piedi, come Mussolini) un colpo di stato giudiziario extra-parlamentare, il cui scopo fu quello di sostituire un modello di stato neo-liberale privatizzato al precedente modello di stato, certamente corrotto, ma anche e soprattutto assistenziale-keynesiano. In onesta sede è del tutto irrilevante se gli agenti storici che propiziarono questo passaggio ne fossero pienamente consapevoli, o pensassero di agire spinti dalla morale kantiana e dal “senso dello stato”. Ciò che conta furono i risultati politici “oggettivi”.


E' del tutto chiaro che la decapitazione dell'intera classe politica di provenienza DC, PSI, PSDI, PRI, PLI non eliminava anche automaticamente il loro bacino elettorale, che restava praticamente intatto, e che non intendeva


accettare la facile presa del governo da parte del PCI riciclato. Ci voleva però qualcuno che avesse la forza economica e l'iniziativa politica per impedire tutto questo, e fu appunto Berlusconi, indipendentemente dalle sue caratteristiche antropologiche o dalla probabile origine mafiosa del suo denaro.


Questa è la genesi del fenomeno Berlusconi. Naturalmente la cultura detta di “sinistra” non poteva accettare questa semplice realtà,ed è allora chia­ro che dovesse attivare il teatrino dei vizi atavici degli italiani, popolo delle scimmie manipolato dalla televisione del Grande Corruttore e della sua corte di puttane, attricette, intellettuali falliti oppure con il “dente avvelenato” verso il PCI (pensiamo al notevole filosofo ex-marxista Lucio Colletti).


Si apriva così il teatrino identitario del Partito B e del Partito Anti-B, che hanno soffocato per un ventennio il nostro povero paese pri­vato di sovranità politica e geopolitica.


Ma ora cominciano, caro lettore, le analisi serie, cui ti chiedo di presta­re un'attenzione particolare.


6. Non dimentichiamoci dunque del punto da cui siamo partiti: Berlusconi ha dovuto andarsene, chiudendo un intero ciclo politico che essendo stato ventennale è anche stato un ciclo storico, non certo perchè cacciato dal buon gusto snobistico degli intellettuali alla Eco-Baricco, dal popolo urlante identitario PD, da Bersani e dai cooperatori emiliani, dai giornali­sti di “Repubblica” e dalle loro “dieci domande”, dai magistrati milanesi, dal­le puttanelle ricattatrici di Ancore, dai suoi vizi di vecchio satiro solo nella vecchiaia incombente, eccetera; Berlusconi è stato cacciato dalla grande finanzia internazionale, e da nient'altro, perchè non ha saputo, potuto o voluto sincronizzare l'intera Italia (anzi, 1’azienda-Italia) al ritmo della nuova forma egemonica del capitalismo imperialistico neoliberale e globalizzato. Non facciamoci scappare questa dato storico, che implica un radicale riorientamento gestaltico rispetto alle fole ed alle panzane con cui ci ha rintronato per un ventennio il coro politico, mediatico ed intellettuale, prevalentemente di “sinistra”, ma non solo. Cerchiamo allora di arrivare a questo riorientamento gestaltico mediante alcuni passaggi, non troppo nume­rosi per non confondere le menti intorpidite dallo spettacolo di manipola­zione dell'ultimo ventennio. Ecco i passeggi principali: (l) La fine del comunismo storico novecentesco veramente esistito (19I7-1991), che non aveva assolutamente nulla a che fare con le ipotesi filosofiche e scientifiche ottocentesche di Marx e con l’originario progetto nove­centesco di Lenin, è stata una catastrofe storica e geopolitica terribile, incondizionatamente negativa, una vera tragedia, accolta con gridolini di entusiasmo dalla emulsione culturale più stupida dell'intera galassia, la cosiddetta “sinistra”. Questa fine ha propiziato, anche se non direttamente causato (1e cause profonde erano già interne alla dinamica illimitata di riproduzione nel modo di produzione capitalistico) il successo evolutivo darwiniano del modello anglosassone-americano di capitalismo sul precedente modello europeo. (2) Fino a qualche tempo fa si poteva dire grosso modo che c'erano tre di­versi tipi di capitalismo; il capitalismo anglosassone americano, interamen­te privatizzato; il capitalismo europeo, frutto di un compromesso detto a volte impropriamente keynesiano-fordista , che veniva sia dall'alto (Bismarck, De Gaulle, eccetera), sia dal basso (laburismo, sindacalismo, movimento operaio organizzato); il capitalismo cinese, derivato da una storia particolare, che potremmo riassumere in due punti, eredità del modo di produzione asiatica (e quindi non occidentale, prima schiavistico antico e poi feudale-signorile) e di una accumulazione primitiva collettiva del capitale di tipo maoista, con precedenti nella storia cinese (Wang Mang, rivolte contadine, riformismo Ming, Taiping, eccetera). (3) Stiamo assistendo all'intera assimilazione del modello europeo, e cioè alla sua fine, nell'unico modello anglosassone-USA, frutto di un tradi­mento storico delle classi dirigenti europee, americanizzate linguisticamente e culturalmente. Questo non avviene attraverso la vecchia ed obsoleta dicotomia Destra/ S inistra, difesa per interesse dal ceto politico pro­fessionale e per stupidità dal ceto intellettuale identitario e tifoso, ma attraverso la vittoria del partito degli economisti (PE) sul partito del po­litici (PP). (4) Di conseguenza, e per finire, Berlusconi non ha potuto, saputo e voluto effettuare questo passaggio, nonostante la sua natura di pescecane capita­lista liberale lo spingesse soggettivamente a propiziarla, per il sempli­ce fatto che era pur sempre legittimato elettoralmente ed una legittima­zione elettorale non può consentirlo, per il fatto che i tacchini non pos­sono votare il loro assenso al cenone di Natale, che prevede la loro messa in pentola. Il CHE FARE? -e ci arriverò brevemente alla fine- non può quindi essere pen­sato nelle forme della vecchia dicotomia Destra/ Sinistra, sempre più protesi manipolatoria di adattamento di masse atomizzate e babbionizzate dal circo politico, dal circo mediatico e dal circo intellettuale tradizionale. Vediamo le cose con ordine.






7. La prima operazione teorica da fare è un riorientamento gestaltico globa­le rispetto al bilancio storico-politico del socialismo reale, che preferisco chiamare “comunismo storico novecentesco” (CSN), per distinguerlo dal comuni­smo utopico-scientifico (l’ossimoro è intenzionale) di Marx, assolutamente inapplicabile perchè basato su previsioni storiche inevitabilmente non cor­rette (in sintesi: incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive; capacità rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria; entrambe le ipotesi totalmente falsificate dalla storia rea­le).


La “sinistra”, questa emulsione culturale intellettuale confusionaria, che Georges Sorel fu il primo a diagnosticare precocemente, ha in proposito sviluppato per quasi un secolo il teatrino della contrapposizione: in URSS c’è il socialismo oppure in URSS non c'è il socialismo? Risparmio al letto­re tutti gli argomenti pro e contro (staliniani, trotzkisti, neolinerali, bordighisti, eccetera), che richiederebbero mille pagine per la loro sempli­ce elencazione, e di cui sono uno specialista. Ma il problema URSS (e paesi fantoccio divorati alla fine della seconda guerra mondiale) è molto più semplice, perchè è storico e geopolitico, e lo formulerò sommariamente così: indipendentemente dal suo essere un esperimento artificiale di eguagliamento sociale livellatore sotto cupola geodesica protetta (protetta da un indispensabile dispotismo partitico operaio, in quanto senza coercizione dispotica la classe operaia e proletaria non potrebbe neppure gestire una bocciofila, altrochè una “transizione al comunismo”!), i1 sistema so­cialista degli stati “comunisti” (l’unico comunismo storicamente esistito, non certo le elucubrazioni snobistiche del salotti romani o l'agitarsi scomposto degli operai fondisti con i loro fischietti ed i loro tamburi) ha influenzato direttamente la storia del capitalismo, limitandone in parte (in greco antico si dice katechon) la sua tendenza illimitata ad assumere una forma pura, che nella mia personale periodizzazione filosofica del capitalismo definisco “speculativa”, con una terminologia tratta liberamente dalla Scienza della Logica di Hegel. Dunque, indipendentemente dal suo dispotismo e dal carattere miserabile del suo personale politico (i comunisti nichilisti, opportunisti, autofagi e straccioni) viva viva viva il comunismo storico novecentesco e tragedia im­mane il fatto che non si sia voluto, saputo o potuto riformare “in corso d’opera”, come avevano auspicato i più grandi intellettuali marxisti indipendenti del Novecento (Lukàcs, Gramsci, Bloch, eccetera, alla cui scuola mi sono formato, mentre ho sempre avuto ripugnanza ed estraneità per il circo intellettuale snobistico italiano detto di “sinistra”). Dunque TRAGEDIA, TRAGEDIA, TRAGEDIA.






8. Il capitalismo già ai tempi Reagan-Thatcher stava cambiando forma, e quindi prima della caduta catastrofica del baraccone socialista. Le ra­gioni del mutamento erano interne alla dinamica del modo di produzione, ed erano dettate dalla cosiddetta globalizzazione e dalla privatizzazione di tutto ciò che era privatizzabile. Sono gli animal spirits di cui hanno parlato gli economisti inglesi, e che Hegel in altro contesto definì “il regno animale dello spirito”, la definizione più geniale di capitalismo che abbia mai letto in vita mia.


Il teatro storico degli ultimi venti anni è quindi stato nell’essenziale quello di un assalto del modello americano di capitalismo contro il modello europeo, che non avrebbe avuto tanto successo senza il mantenimento dell'occupazione militare USA sull'Europa, iniziata nel l943-1945 e mai terminata, neppure dopo il 1991, anzi ampliata e rafforzata. Non c’è democrazia ad Atene con guarnigione spartana sull’Acropoli. Non ci può essere democrazia in Europa con basi militari atomiche USA in Europa. Si tratta di una semplice verità lapalissiana, che la “sinistra” ha contribuito ad occultare, con la retorica strumentale sulla Costituzione, con il proseguimento maniacale dell'antifascismo in completa, palese e totale assenza di fascismo, con l'agitare scomposto del termine “democrazia” in presenza di irrilevanti parate sindacali, femministe, ecologiste, pacifiste, ed in Ita1ia ossessivamente anti-berlusconiane. A proposito della Cina, sono un incondizionato sostenitore della sua forza geopolitica e militare, ma non mi raccontino (Losurdo, Diliberto, Sidoli, KKE greco, eccetera), che si tratta di “socialismo”, sia pure di mercato, ecce­tera. Considero la Cina completamente capitalistica, in quanto considero storicamente fallito ed esaurito l'intero modello del comunismo storico novecentesco (salvo invece il “comunismo” -sia ben chiaro- come filosofia della storia e come tendenza metastorica dell'umanità, ed in questo senso sono sempre più che mai “comunista”). Si tratta però di un capitalismo sorto da una combinazione originale del modo di produzione asiatico, caratterizzato da una forte e benefica dominanza del potere politico sull’economia, e di una esperimento egualitario estremistico maoista, sia pure fallito. Spero che l'apparato confuciano denominato partito comunista cinese continui ad iso­lare e neutralizzare, se possibile con mezzi civili ed umanistici, gli orrendi intellettuali filo-occidentali e le tendenze americanizzanti. Se queste ul­time si affermassero, magari sotto lo scudo dei diritti “umani” (la forma rovesciata della disumanità contemporanea), allora ci sarebbe uno ed un solo orribile modello di capitalismo. Sarebbe questa la vera globalizzazione politica, che per il momento non c’è ancora, al di là dei voleri della strega Clinton (ricordo il suo WOW (uau) televisivo oscenamente ostentato alla notizia del linciaggio di Gheddafi).


9. E quindi Berlusconi non ha potuto, saputo o voluto (a mio avviso lo avrebbe voluto, ma non ha potuto per il fatto che doveva pur sempre essere eletto, ed il popolo, al di là delle sue irrilevanti e confuse opinioni politiche, non può votare per la propria macelleria sociale) effettuare questa america­nizzazione. Essa presuppone il commissariamento integrale da parte non di una parte politica (destra contro sinistra o sinistra contro destra), ma di un partito degli economisti (Papadimos in Grecia, Monti in Italia, ma so­no tutti uguali -inglese perfetto e monoteismo del mercato) contro il partito dei politici.


Se utilizzassi la dicotomia Destra/ Sinistra (ma me ne guardo bene!) direi che il partito degli economisti è un partito di estrema destra, che si posiziona alla destra di Forza Nuova e di Attila, re degli Unni. Ma i mutamenti semantici propiziati dal ceto intellettuale dell’ultimo ventennio (ah, ombra di Sorel, dove sei?) ha associato la sinistra soltanto alle gesticolazioni irrilevanti della FIOM, alla retorica di Vendola, ai matri­moni gay, alla insistita polemica laico-radicale contro la chiesa cattolica e Ratzinger, alle sfilate femministe (ah, le donne, le donne!), al belare ostensivo pacifista (pacee, pacee, diritti umanii, diritti umanii, abbasso i dittatori, processate Gheddafi, Milosevic, Saddam Hussein, tutti meno la Clinton ed Obama, eccetera).


10. Che fare? Non lo so. Non sono mica Lenin! In prima approssimazione, ed in via preliminare, che cosa non fare:


(1) Smettere di fare partitini comunisti (Diliberto, Ferrero), attaccati alle mutande di Vendola e Bersani pur di poter rientrare in Parlamento, oppure di fare partitini a base settaria che ripropongono programmi sumeri, egizi ed assiro-babilonesi (Ferrando).


(2) Andare oltre la dicotomia obsoleta Destra/ Sinistra. Questo capitali­smo distrugge i popoli e le comunità, non solo le classi svantaggiate (anche se ovviamente anche queste). Ritrovare il linguaggio adatto per salvare i popoli e le comunità è impossibile sulla base della divisione settaria del popolo in popolo in destra e popolo di sinistra. Questa divisione c'è storicamente stata, e non mi sogno affatto di negarlo. Ma oggi è obsoleta, e viene reintrodotta dall'alto per via manipolatoria, utilizzando strati identitari sedimentati in basso nell'ultimo secolo. (3) Uscire da questa Europa. Se ci fossero possibilità reali di riformare l’Europa dall'interno in corso d'opera, non direi questo, ma mi unirei alla stragrande maggioranza dei “sinistri” riformatori che vogliono una Europa “diversa”. E tuttavia costoro non sono in grado di andare oltre le loro pie intenzioni soggettive. Le oligarchie reali che dirigono questa Europa (e non il sogno di Erasmo, Mazzini o Spinelli) vogliono fortemente la sua americanizzazione (modello anglosassone di capitalismo illimitato privatizzato), la sua sottomissione geopolitica agli USA (NATO, interventi in Kosovo 1999, in Afganistan 2001, in Irak 2003, in Libia 2011, domani chissà), 1’uniformità culturale occidentalistica, insomma tutta la merda (non c'è altro termine!) che ci offre quotidianamente il sistema mediatico editoriale ed universitario.






11. E qui provvisoriamente finisco. So perfettamente che queste tre precondi­zioni sono assolutamente inattuabili a breve termine, e sospetto anche a medio termine. I “sinistri” vocianti continueranno a proporre inutili ed irrilevanti partitini comunisti o di tipo consociativo antiberlusconiano (Diliberto, Ferrero) o di tipo settario-paleolitico (Ferrando), o semplici ap­pendici della cultura femministico-ecologista post-moderna (Sinistra Critica). Non c’è niente da fare.


Continuerà l’illusione di potere alla fine, magari cambiando le maggioranze elettorati, modificare la natura neoliberale assoluta di questa Euro­pa. Chi nutre questa illusione non capisce o non vuol capire per opportunismo, pigrizia, stupidità o boria intellettuale, che siamo di fronte ad un processo storico, e non solo politico congiunturale. Lo storicismo ed il mito del progresso lineare irreversibile sparso a piene mani nell'ultimo mezzo secolo dalle canaglie dei gruppi intellettuali comunisti degenerati hanno abituato la gente a pensare in termini ferroviari di Indietro/ avanti. Ma come, abbiamo fatto l’Europa, non possiamo mica andare Indietro! Biso­gna andare Avanti!


In realtà, nella storia non c’è un avanti ed un indietro. La storia è un luogo di prassi umana integrale, non di temporalità evoluzionistica in qualche modo prevedibile. La fine del berlusconismo è semplicemente una opportunità, che bisognerebbe saper cogliere per riorientare integralmente una intera cultura politica fallimentare.


Questa opportunità verrà colta? Sarei contento di poter lasciarmi andare ai soliti auspici generici ottimisti, del “pensare positivo”, ma purtroppo sono un allievo di Hegel e Marx, e non di Jovanotti o Celentano. Data la situazione attuale, ed il terribile potere di interdizione diretta o indiretta dei gruppi intellettuali italiani che conosciamo, non vedo nessuna possibilità di invertire la tendenza babbionizzante ed identitaria. I vele­ni dell’antiberlusconismo di “Repubblica” e del PD continueranno purtroppo a lungo, perchè sono strutturali, in quanto coprono ideologicamente una gi­gantesca tragedia storica. Vorrei poter promettere di più, ma per il momento siamo ancora alla fase dei preliminari dei preliminari. Per chi ha già la mia età è triste. In quanto ai giovani, chi vivrà vedrà.

giovedì 10 novembre 2011

Comunismo fra Idea e Storia

 

Comunismo fra Idea e Storia. Riflessioni a partire da Alain Badiou, Michael Hardt, Toni Negri e Gianfranco La Grassa.



di Costanzo Preve


1. Anziché perderci nel “piccolo cabotaggio” di piccole formazioni che si auto-certificano soggettivamente come “comuniste” (ma anche i matti si auto-certificano soggettivamente come reincarnazioni di Napoleone), ma devono mettere in primo piano le compatibilità delle leggi elettorali e l’identità pregressa dei loro potenziali militanti e simpatizzanti, che non devono essere in nessun caso “scandalizzati” con novità irricevibili (novità, come è noto, di cui si nutrono esclusivamente la scienza e la filosofia), conviene invece tornare ai “fondamentali”. Ed i “fondamentali”, per un comunista, sono l’idea e la pratica del comunismo. In proposito partirò da due soli libri recenti. Il primo (AAVV, L’ idea di comunismo, Derive e Approdi, d’ora in poi IDC) contiene molti con tributi, ma per brevità mi limiterò a quelli di Alain Badiou (Badiou, IDC), Michael Hardt (Hardt, IDC) e Toni Negri (Negri, IDC). Ce ne sarebbero anche altri di meritevoli e rilevanti, ma voglio concentrare la mia attenzione su pochi nodi tematici. Il secondo (cfr. Gianfranco La Grassa, Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei Capitalismi, Besa, d’ora in poi GLG) concerne invece solo l’ultima opera di questo prolifico autore (da più di trent’anni mio amico personale al di là di divergenze radicali sullo statuto filosofico “umanistico” o meno della teoria di Marx), che però riassume mirabilmente un serissimo processo di pensiero.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2879

sabato 1 ottobre 2011

Verso una definizione condivisa di comunitarismo Il comunitarismo come etica e come politica




di Costanzo Preve


1. È possibile arrivare ad avere una definizione condivisa di comunitarismo? No, è assolutamente impossibile. È possibile ovviamente proporre alcuni elementi credibili per una sua definizione generica, ma è imHegel,possibile pensare di poter giungere ad un’unica definizione condivisa. E la ragione di questa impossibilità è molto semplice. Comunque lo si intenda, il comunitarismo è una unità di teoria e di pratica (e più esattamente di teoria comunitaria e di pratica solidaristica), e le unità di teoria e di pratica non possono essere definite. Soltanto la teoria, o per ripetizione pleonastica la “teoria teorica” può essere definita con categorie e concetti teorici. Se un “ismo” connota un’unità concreta di teoria e di pratica, questo “ismo” non può essere definito per principio, perché soltanto le forme storiche e sociali concrete della sua messa in pratica hanno in realtà un valore formativo.
Si tratta di un fatto semplice ed intuitivo. E tuttavia è bene averlo sempre ben presente. Hegel aveva ragione quando scrisse che è inutile definire teoricamente il nuoto prima di nuotare. Da un punto di vista astratto, il comunitarismo è soltanto l’astratto contrario polare dell’individualismo e del collettivismo, che in quanto opposti in correlazione essenziale non fanno che rovesciarsi continuamente l’uno nell’altro. Concretamente, soltanto la pratica comunitaria può alla lunga mostrare la sua superiorità rispetto alle pratiche individualistiche e collettivistiche. in realtà un valore normativo.


2. Le definizioni che cercherò di dare in questo capitolo sono pertanto del tutto formali ed astratte. Per sgombrare il terreno da alcuni possibili equivoci inizierà prima dal rapporto fra relativismo ed universalismo, e cioè fra usi particolari e possibilità di una norma universalismo, e cioè fra usi particolari e possibilità di una norma universale di comportamento estendibile in via di principio all’intera umanità, pensata come se fosse un solo soggetto unitario. Passerà poi a discutere una teoria dell’individuo, perché senza una teoria dell’individuo non ci può neppure essere comunitarismo, se non in forme regressive. Terminerò infine con una discussione sul comunitarismo come etica e come politica. E tuttavia. Questo non potrà che restare inevitabilmente astratto, se non è pensato in modo contrastivo all’individualismo ed al collettivismo.


Continua: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2758

venerdì 27 maggio 2011

L’indifferentismo morale e la cultura dell’individualismo di massa



Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi

1. Il degrado politico – culturale delle classi dirigenti della politica sia italiana che
europea, riflette il venir meno nell’ambito della società occidentale di valori di
carattere etico riconosciuti, su cui cioè, possa fondarsi un giudizio morale che
presieda alle scelte politiche dei popoli chiamati alle urne. L’indifferentismo morale
collettivo, è ahimé constatabile in questi giorni dinanzi alla aggressione armata
dell’Occidente nei confronti della Libia, stato sovrano riconosciuto dall’ONU,
bombardato in base ad una risoluzione delle Nazioni Unite voluta da Obama. Gli
USA hanno decretato la fine di Gheddafi senza che tale risoluzione, emessa in
spregio del diritto internazionale, fosse condannata dal sentire comune dei popoli,
come se tali avvenimenti, in cui l’Italia è coinvolta in prima persona, si verificassero
in altri mondi ed altri tempi. Non suscita certo entusiasmo l’aggressività armata
della Nato, né suscita molta indignazione la condanna dei presunti “crimini contro
l’umanità” attribuita a Gheddafi, ma la politica imperialista americana e lo stato di
soggezione dei paesi vassalli europei sono fatti che vengono accettati acriticamente
come uno stato di fatto che prescinde dalla volontà dei popoli, ormai estraniati dalle
scelte politiche delle classi dirigenti. Tutti ricordano i milioni di manifestanti scesi
nelle piazze di tutta l’Europa nel 2003 per condannare la guerra di Bush contro
l’Iraq, ma quei sentimenti protesta e di condanna contro l’imperialismo armato degli
USA sembrano scomparsi. In realtà l’esaurirsi di tale dissenso è dovuto proprio al
suo contenuto ideologico “pacifista”. Si condannava l’America, in quanto
aggressore armato dell’Iraq, ma nel contempo si condannavano i “crimini contro
l’umanità” di Saddam e si invocava la pace. Questo linguaggio pacifista adattato ai
tempi odierni assume questa chiave di lettura: si deve condannare l’intervento
armato della Nato, ma Gheddafi, in quanto criminale internazionale deve essere
destituito e processato, ma il tutto deve avvenire per via pacifica. E’ evidente che in
tal modo la protesta sposerebbe nella sostanza la strategia americana (tra l’altro
tendente al disimpegno militare diretto), ma contesterebbe solo le modalità
esecutive. Ipocritamente non si effettuano scelte di campo: nessuno sta con
Obama, nessuno con Gheddafi, tutti siamo per la pace. La protesta pacifista fallì nel
2003, perché non si effettuarono chiare scelte di campo. Occorre infatti schierarsi
sia con Gheddafi che con Saddam, ma non con le loro pur discutibili persone, ma
come rappresentanti legittimi di stati sovrani. La scelta è la seguente: o si prendono
le parti dell’imperialismo armato occidentale, oppure ci si batte per la sovranità
degli stati ed il diritto internazionale, tertium non datur. L’indifferentismo morale
collettivo attuale è la conseguenza della morale della non scelta, dell’assenza di una
causa con obiettivi politici concreti da conseguire.

Applicato direttamente e senza mediazione ai fatti storici, politici e sociali, il moralismo non
è solo la morte della politica, ma è anche e soprattutto la morte della stessa morale. La
morale, infatti, è sempre la specificazione problematica all’interno della singola coscienza
individuale dell’etica, e senza un’etica comunitaria sensata la stessa morale si agita in un
vuoto pneumatico senza fondamenti, consegnata al più puro arbitrio (cfr. Costanzo Preve,
Storia dell’Etica, Petite Plaisance, Pistoia 2007). Ma la stessa etica trova il suo
fondamento in una ontologia dell’essere sociale, che a sua volta presuppone un’analisi
“materiale” dell’economia e della geopolitica internazionale. Il moralismo non sa che
farsene di tutto questo, perchè è il regno dell’arbitrio soggettivo spacciato per riferimento a
presunti “eterni valori dell’Uomo”.
L’indifferentismo morale cui tu fai giustamente riferimento, e che correttamente attribuisci
al degrado delle classi dirigenti italiane ed europee (senza mai dimenticare che la testa del
serpente non sta a Roma o a Parigi, ma a Washington e nella pretesa messianica di
uniformare il mondo intero al solo criterio di giudizio protestante e sionista), è però il
prodotto dialettico perverso di una ipertrofia moralistica ipocrita, e non nasce dal nulla, ma
deve essere diagnosticato correttamente, se vogliamo guarirne ed uscirne fuori. La
recente guerra USA-NATO contro la Libia di Gheddafi, cui fai riferimento (scrivo nel giorno
di Pasqua 2011, e quindi non posso conoscerne ancora gli esiti, che immagino comunque
tragici per il popolo libico e per il diritto internazionale) ne è un esempio, ed è bene
parlarne direttamente. Non è certamente la prima volta che assistiamo a questo copione di
manipolazione organizzata e di criminalità mediatica. Dopo la dissoluzione del comunismo
storico novecentesco, talvolta impropriamente battezzato come “dittatura totalitaria” o
come “socialismo reale”, il caso-Libia è solo la terza volta. La prima volta è stata la
Jugoslavia (1999), e la seconda volta l’Irak (2003). In tutti e tre questi casi la sfacciata
violazione del diritto internazionale è stata ipocritamente motivata con ragioni “umanitarie”
cui è stata incollata anche la nuova ideologia neoliberale del diritto incondizionato di
abbattere i “dittatori”. Il “moralismo giudiziario”, inaugurato con i processi di Norimberga
e di Tokio (quest’ultimo ancora più sfacciato del precedente) vuole anche la sanzione
processuale dei Cattivi, e questo non è affatto un caso.
Non è affatto un caso, perchè la riduzione del diritto internazionale a diritto penale rivolto
verso i “dittatori” (qui non c’è differenza fra Milosevic, Saddam Hussein e Gheddafi, perchè
tutti e tre vengono simbolicamente “hitlerizzati” per poterne legittimare il trascinamento in
giudizio) non è che la conseguenza di quella privatizzazione della vita sociale cui abbiamo
già entrambi ampiamente fatto riferimento in una conversazione precedente. Sulla base di
questo criterio, Napoleone non sarebbe finito a Sant’Elena, ma sarebbe stato processato
da una corte penale inglese, russa, austriaca e prussiana. Cavour e Bismarck sarebbero
stati certamente processati, perchè non c’è dubbio che nel perseguire le loro finalità
politiche (rispettivamente l’unificazione dell’Italia e della Germania) commisero certamente
crimini penali di ogni tipo. La storia deve quindi ritenersi conclusa (vedi l’ideologia
imperiale americana di Francis Fukuyama sulla fine della storia), e conclusa in una
globalizzazione finanziaria generalizzata e guida militare e geopolitica americana. In
questo quadro il “pubblico” è ridotto a economia (più esattamente, a crematistica), e tutto il
resto è privatizzato, civilmente o penalmente.
Il discorso sarebbe lungo, e non può essere fatto in questa sede per ragioni di spazio.
Conviene invece limitarsi ad un punto solo, del resto da te bene individuato, che è la
vergognosa impotenza e connivenza del cosiddetto “pacifismo”.
Del pacifismo (chiamato a volte in modo classicistico “irenisno”) sono state date molte
definizioni, che a volte complicano le cose anzichè chiarirle. In questa sede per ragioni di
brevità e di chiarezza, mi limiterò a segnalarne due. In primo luogo, esiste un pacifismo
assoluto, che però a scanso di equivoci è bene definire subito come “non-violenza”, e che
non ha nulla e che fare con il berciare “pace, pace” in irrilevanti cortei ai cui fianchi
esagitati in passamontagna danno fuoco a cassonetti e spaccano vetrine in genere
ampiamente assicurate, nutrendo così le assicurazioni e lo spettacolo mediatico. La nonviolenza
è una tecnica politica individuale e collettiva, rivolta ad ottenere scopi, e deve
essere giudicata esclusivamente dal fatto se questi scopi vengono o no ottenuti, non certo
dal salmodiare pecoresco di belanti dipinti (vedi Gandhi, eccetera.). In secondo luogo,
possiamo chiamare pacifismo la risoluzione pacifica di conflitti originariamente violenti ed
addirittura armati in cui le due parti vengono chiamate intorno ad un tavolo di negoziazione
in presenza di un arbitro imparziale. Nel caso della Libia 2011, il solo “pacifista” degno di
questo nome è stata l’organizzazione dell’Unità Africana, il cui tentativo di mediazione è
fallito a causa del fatto che una delle due parti, che stava per perdere sulla base delle sue
sole forze, puntava ad una vittoria totale dato l’appoggio dei bombardamenti USA e
NATO. Non chiamo invece “pacifisti, perchè non lo sono in alcun modo, gli interventisti
“umanitari” violatori del diritto internazionale, che dovrebbero essere connotati invece
come “guerristi”, se le parole avessero ancora un senso non del tutto “colonizzato” dalla
manipolazione semantica del potere.
Mi congratulo con il tuo coraggio morale quando dici che occorre schierarsi sia con
Gheddafi che con Saddam, e non con le loro discutibili persone, ma come rappresentanti
legittimi di stati sovrani. Questa è esattamente anche la mia posizione. Sono stato con
Milosevic (1999) e con Saddam (2003), e sono oggi con Gheddafi (2011). In questo modo
viene colto il punto cruciale della questione, che sta nella illegittimità e nella infondatezza
(sia politica che morale) della pretesa dell’assolutezza del diritto arbitrario sul principio
dell’interventismo umanitario. Per avere un senso, il termine di “interventismo umanitario”
deve essere ferreamente limitato ai terremoti, alle catastrofi nucleari, agli tsunami, alle
carestie, ed a tutto ciò in cui è in gioco la solidarietà fra individui, popoli e nazioni.
L’interventismo militare geopolitico che si traveste da intervento umanitario (falsificando
anche le risoluzioni ONU, che parlavano solo di no-flight-zone, e non di diritto al
bombardamento con intervento unilaterale in una guerra civile fra libici) è invece sempre e
solo “guerrrismo”, ed in nessun modo “pacifismo”. Ma allora, che cosa muove le
cornacchie di “sinistra” interventiste, Pietro Ingrao, Rossana Rossanda, Dario Fo, Franca
Rame, eccetera (non parlo qui certo di Giorgio Napolitano, esponente organico della
subordinazione italiana agli USA ed alla Nato)?
Si è trattato di un impazzimento collettivo? In parte sì. Certamente, di un impazzimento
ideologico generalizzato. Ci può aiutare la scuola di Palo Alto in California (Berkeley), che
studia le psicosi dei bambini, sulla base dei messaggi contraddittori che ricevono dai
comportamenti contraddittori dei loro genitori, e che non sanno ovviamente padroneggiare,
decifrare ed elaborare. Tutta questa gente “di sinistra” non aveva mai considerato un
“valore” la sovranità nazionale, in nome della astratta solidarietà internazionalistica su
base puramente classista. Adesso questi sventurati hanno semplicemente rovesciato il
vecchio nichilismo nazionale a base anarcoide (per cui i ribelli hanno sempre ragione
contro un fantomatico “potere”, indipendentemente dal loro concreto programma politico e
sociale, che può essere ben peggiore di quello del potere precedente) in cosmopolitismo
astratto di generici “diritti umani” a base moralistica. Ma torniamo all’esempio dell’impazzimento
sulla base della mancata elaborazione di messaggi contraddittori. Da un lato,
questi fallimentari disgraziati recepiscono il messaggio dei mass media occidentali in
modo pressoché integrale e non filtrato da un metodo critico (Milosevic macellaio dei
Balcani, Saddam Hussein dittatore sanguinario, Gheddafi ridicolo tirannello amico di
Berlusconi, eccetera). Dall’altro, e contraddittoriamente, dopo aver recepito l’immagine del
Crudele Dittatore con simbolici baffi alla Hitler-Stalin, devono però belare “pace, pace” in
nome del riferimento astratto al pacifismo. Ma questi belati non possono resistere al
fascino della teoria dei diritti umani, pilastro del Politicamente Corretto con cui questi
sventurati (a mio avviso più degni di pietà che disprezzo) hanno sostituito il precedente
Operaismo Mistico (viva la FIOM) ed il precedente Culto del Guerrigliero Eroico (viva Che
Guevara). L’impazzimento ideologico che ne consegue, come nel caso dei bambini curati
a Palo Alto, li ha portati a gridare: “Viva la Pace! Uccidete il sanguinario dittatore, anche
con i bombardamenti USA e NATO, se necessario!!”.
C’è una lezione da trarre da tutta questa grottesca e triste storia? Certo che c’è. La lezione
consiste in ciò, che il pacifismo non può essere agitato in modo astrattamente ritualistico,
ma richiede una fortissima base teorica, filosofica politica e morale. Occorre ricominciare a
riconoscere l’aspetto principale e l’aspetto secondario dei problemi, e chiedersi come é
possibile che i responsabili della dittatura delle oligarchie crematistiche siano nello stesso
tempo i difensori dei diritti umani degli individui, dei popoli e delle nazioni. Il vergognoso
tradimento della parola data (il patto d’amicizia fra Italia e Libia) è stato unanimemente
avallato in Italia da tutta indistintamente la destra e la sinistra parlamentari, che hanno così
ancora una volta mostrato alla luce del sole quella che per molti è ancora una tesi
discutibile ed azzardata, e cioè l’attuale tramonto della dicotomia Destra/Sinistra. Che
cosa ci vorrà ancora perchè si cominci a capire quella che è ormai sotto gli occhi di tutti, e
cioè l’omologazione degli estremi bipolari precedenti in un Estremismo di Centro a
sorveglianza mediatico-universitaria ed a permanente minaccia di bombardamenti NATO?

2. Non esistono oggi né partiti né movimenti politici capaci di interpretare il comune
sentire, inteso come insieme di valori morali e culturali diffusi che nella società si
contrappongano ad un ordine democratico, caratterizzato dall’assenza di
fondamenti etici su cui possano legittimarsi le istituzioni degli stati. Il fenomeno
della globalizzazione economica in atto, ha ridotto drasticamente la sovranità degli
stati ed ha anche mutato profondamente la cultura dei popoli. Le identità nazionali
hanno ceduto il passo al cosmopolitismo globale, alle differenziazioni culturali e
linguistiche si sono sostituite nuove forme di uniformazione culturale specie nei
costumi, nel modo di sentire comune, per lo più plasmato dalla virtualità
dell’immagine erogata dai media. L’umanità sembra evolvere verso forme di
omologazione del pensiero e del sentire che si impongono nel mondo non
unificandolo, ma trasformando l’umanità stessa in un agglomerato cosmopolita
globale. Il globalismo indifferenziato non richiede certo adesione e consenso, ma si
impone sia con le armi che con la cultura e l’economia dei consumi. Il globalismo
non comporta le scelte morali e le valutazioni del pensiero critico, ma investe tutti in
un unico processo che viene inteso dalla generalità delle masse come necessario
ed ineluttabile destino. Pertanto, in tale contesto è facilmente spiegabile
l’indifferentismo morale generalizzato nel nostro presente storico sia dinanzi alle
guerre imperialistiche, che nei confronti di certe scelte di trasformazione sistemica
dell’economia, che comportano l’abrogazione progressiva dello stato sociale, che
nei rapporti interpersonali improntati alle esigenze utilitaristiche dell’individuo. In
questo programmato fluire indifferenziato di eventi, la società non riproduce più sé
stessa, dal momento che è la società stessa ad aver rinunciato ai suoi presupposti
etici che ne assicurassero la sussistenza e la continuità. Una società globale
indifferenziata non può che essere sempre uguale a sé stessa, è la risultante di uno
stato di fatto permanente che non ha quindi alcuna esigenza di riprodursi.
L’economicismo globale ha distrutto inoltre i postulati basilari della stessa ragione
economica. Prevale infatti, al di là dei suoi clamorosi fallimenti, l’economia
finanziaria globale, fondata sui valori virtuali del mercato finanziario,
sull’irrazionalismo delle masse dei consumatori – investitori, a discapito della
produzione, dello sviluppo, della redistribuzione della ricchezza. Un mondo
indifferenziato globale è la conseguenza ultima di un nichilismo diffuso specie
nell’ambito di una cultura, che ha intesa da oltre un secolo prescindere dal pensiero
critico e dal giudizio morale. E’ sintomatico di tale stato di cose, che generalmente,
quando qualcuno voglia esprimere una propria opinione non perfettamente in riga
con il politically correct dominante, premetta al suo discorso che il suo pensiero
non vuole essere un giudizio morale.

Bisogna riflettere sul fatto, apparentemente secondario e minore, ma sintomatico, per cui
la gente si sbriga a dire che quanto dice non vuole essere un giudizio morale. Ciò è tanto
più paradossale, ed apparentemente contraddittorio, quanto più la politica è stata
soffocata dal moralismo degli scandali e dall’esportazione armata dei cosiddetti “diritti
umani”, che essendo appunto “umani” non possono che essere a base morale. Ma si ha
qui appunto a che fare con il fenomeno non tanto della sparizione della morale, che nella
forma del moralismo ipocrita-giudiziario è invece ipertrofica, ma con la fine dell’etica, ed in
particolare dell’etica comunitaria.
La gente non direbbe che quanto dice non vuole essere un giudizio morale se non
percepisse confusamente che c’è intorno una sorta di indiretta pressione sociale
conformistica che “preme” per questa affermazione. Non è facile il capire il perchè. Ma se
vogliamo capirlo, è necessario afferrare le cose alla radice. E la radice, a mio avviso, sta
nella riduzione del concetto di libertà a libertà del consumatore. Il consumatore può infatti
consumare quello che vuole, fino a che l’oggetto del consumo non è dichiarato
esplicitamente illegale (narcotici, pedopornografia, simboli nazisti, eccetera). Prima di
essere caratteristiche dell’ideologia contemporanea diffusa, il relativismo ed il nichilismo
sono caratteristiche organiche della libertà del consumatore, che secondo le curve di
indifferenza dell’economia neoclassica si muove in base alla massimizzazione della
propria “ofelimità” (il termine tecnico per indicare l’utilità personale).
Tutto questo, ovviamente, non è affatto di per sé un male. Finchè ci si muove nell’ambito
della legalità, ognuno ha l’insindacabile diritto sovrano di preferire un consumo ad un
altro. C’è chi preferisce la nuotata in mare, chi l’escursione in montagna, chi infine il riposo
in un agriturismo di campagna. C’è chi acquista libri rari, e chi invece preferisce un bel
viaggio in un paese lontano. Qui ci si muove nella sfera della legittima ragione economica,
ed allora il problema sta nel vedere fino a che punto quello che tu chiami “economicismo
globale” abbia distrutto, insieme con l’etica comunitaria, la stessa ragione economica. In
fondo alla catena scopriremo anche l’ometto che, convinto di essere un esprit fort libero da
vecchi e sorpassati pregiudizi, sostiene che quanto afferma non vuole essere un giudizio
morale.
Tutta la tradizione filosofica occidentale è caratterizzata dal tentativo di fondare il concetto
di libertà in qualcosa che non si riducesse a semplice arbitrio. Persino il termine di “libero
arbitrio”, centrale nelle discussioni teologiche sulla grazia e la predestinazione, è sempre
stato correlato al corretto uso di questo stesso libero arbitrio, rivolto verso il Bene ed il
Giusto e non verso il Male e l’Ingiusto. Il processo che Karl Polanyi ha descritto a livello
storico (l’autonomizzazione dell’economia dalla sua precedente “incorporazione” politica,
sociale e comunitaria) si è per così dire “duplicato” a livello ideologico-filosofico nella
separazione prima e nella assolutizzazione poi, della libertà del consumatore rispetto ad
ogni altro tipo di libertà. Da circa trent’anni, all’interno della cosiddetta
“deideologizzazione”, lo stesso elettore è trattato come un consumatore di prodotti politici
preconfezionati nel mercato politico (campagne elettorali personalizzate, sondaggi
praticamente indistinguibili dai sondaggi commerciali, eccetera).
Nella tradizione filosofica occidentale moderna il concetto di libertà è stato declinato in
due modi fondamentali, quello del criticismo di Kant e quello dell’idealismo di Hegel. In
Kant la libertà (più esattamente il libero arbitrio) è declinata come un postulato a priori
della ragion pratica, cioè del comportamento morale umano libero. Il soggetto kantiano è
però “puro” ed astratto, e cioè integralmente destoricizzato e desocializzato, ed in questo
modo il campo dell’etica, comunitario per definizione, è integralmente ridotto a campo
della morale individuale. L’etica è allora di fatto soltanto la sommatoria di singole morali
individuali. Sebbene Kant non ne fosse probabilmente consapevole, e fosse mosso dalle
migliori intenzioni illuministiche, anti-feudali, anti-signorili ed anti-assolutistiche, questa
estrema individualizzazione della morale non faceva che “duplicare” in campo filosofico
l’analoga (e storicamente coeva) individualizzazione del comportamento economico
effettuata da Adam Smith, anche se superficialmente il rigorismo dell’imperativo categorico
kantiano non aveva nulla a che fare con la cosiddetta “etica della simpatia” fra venditore e
compratore, che Kant avrebbe considerato eteronoma e non autonoma, e quindi nel suo
linguaggio non completamente “morale”. Ma qui si ha a che fare con quella fisiologica
schizofrenia del grande pensiero borghese classico, che in seguito diede poi luogo alla
famosa “coscienza infelice”.
Il grande idealismo classico tedesco (i cui principali esponenti sono stati nell’ordine Fichte,
Hegel e Marx, che non è affatto stato un filosofo materialista, ma integralmente idealista,
sia pure in modo molto peculiare) nasce come critica dell’individualismo astratto di Kant, e
prende di mira in particolare i suoi aspetti strutturali di destoricizzazione e di
desocializzazione. La destoricizzazione e la desocializzazione non erano state per nulla
degli “errori” di Kant, ma erano state ingredienti indispensabili per effettuare la rottura con
le precedenti fondazioni organicistiche delle società feudali e signorili e per poterle
sostituire con la concezione di una nuova società liberale-borghese costituita da individui
autonomi, liberi ed indipendenti. L’intera filosofia detta “moderna”, da Cartesio (il cogito) a
Kant (l’Io Penso), doveva iniziare con una costituzione formalistica del soggetto,
destoricizzato e desocializzato, perché solo in questo modo si “spianava la strada” alla
società degli individui del tutto auto-fondati economicamente e moralmente. Hegel vuole
invece ristabilire il rapporto fra filosofia e comunità, già magistralmente posto dai maestri
greci, ma nello stesso tempo è consapevole di non poter “restaurare” il modello idealistico
di Platone (di origine geometrico-pitagorica), perché nel frattempo il cristianesimo
monoteistico, che egli rifiuta di considerare in termini di semplice superstizione e
decadenza (come faranno dopo di lui i positivisti e Nietzsche), ha introdotto la nozione di
coscienza storica, più o meno diversamente secolarizzata.
In opposizione a Kant, per cui la libertà è un postulato a priori di una soggettività
individuale integralmente destoricizzata e desocializzata (la cui astrazione corrisponde al
carattere “astratto” del lavoro capitalistico), per Hegel la libertà è un risultato, un
conseguimento, il risultato finale di un processo storico e sociale di autocoscienza della
libertà. Su questo punto non esiste nessuna differenza filosofica fra Marx ed Hegel, anche
se ovviamente Marx era comunista e Hegel non lo era. L’individuo non è affatto cancellato
o umiliato, al contrario. Semplicemente, esso non è assolutizzato, ed in questo modo non
è posto astrattamente come vuota origine del Bene e del Male. L’individuo è correlato alla
comunità di appartenenza, e si tratta allora di vedere se questa comunità di appartenenza
sia o meno portatrice di valori universali, universalistici o universalizzabili. E qui viene non
solo criticato quello che Marx chiamerà “robinsonismo”, nella duplice forma filosofica di
Kant ed economica di Smith, ma viene espresso un concetto di libertà comunitario
complessivo, che in quanto tale è incompatibile con il riduzionismo alla sola libertà del
consumatore.
La libertà del consumatore si basa su di un pedigree filosofico alternativo, quello di Hume
e di Nietzsche, ereditato oggi da Faucault e da Toni Negri. Per Hume la libertà rimanda
ad un soggetto che non è che un flusso variopinto di emozioni e di sensazioni, ed è
pertanto il soggetto ideale per l’attuale seduzione consumistica del mercato pubblicitario.
D’altra parte, per Hume la società non ha bisogno di essere fondata sull’esistenza di Dio,
sul diritto naturale e sul contratto sociale, ma basta ed avanza il semplice rapporto di
abitudine fra individui. Il sulfureo Nietzsche riprende integralmente la concezione
antropologica del soggetto di Hume, in quanto il soggetto per Nietzsche non è che il flusso
energetico della volontà di potenza. L’attuale concezione post-moderna della libertà del
consumatore unifica genialmente Hume e Nietzsche, emargina quella di Kant (considerata
troppo moralistica e ritenuta valida soltanto per seminari universitari esplicitamente rivolti
contro la concezione comunitaria derivata da Hegel e poi da Marx), e si oppone
frontalmente alla concezione di Hegel e di Marx, bollati come nemici della “società aperta”
di Popper, non a caso diventato oggi il papa filosofico del capitalismo anglosassone.
Società aperta che poi non è “aperta” per nulla, ma anzi è chiusissima, perché si basa sul
presupposto della fine capitalistica della storia.
Come si vede, una corretta diagnosi dell’odierno indifferentismo morale, generalizzato,
ipocritamente unito ad un continuo moralismo asfissiante, non può evitare di risalire alle
origini dell’individualismo borghese moderno. Il comunismo storico novecentesco
recentemente defunto (1917-1991) non ha potuto e saputo in alcun modo contrapporvisi,
perchè le comunità non possono essere imposte artificialmente in modo dispotico, ed il
dispotismo, in questo simile al latte, ha una vera e propria “data di scadenza”, che coincide
con l’avvento di nuove generazioni storicamente estranee ai movimenti politici e sociali
che hanno dato luogo a questi “dispotismi sociali”. Così come avvenne per il dantesco
“contrappasso”, viviamo in un periodo storico in cui la diffusione dell’individualismo
anomico è stata ideologicamente rilegittimata da questo crollo. La sola cosa sicura, però, è
che si tratta di un fenomeno temporaneo e provvisorio.

3. Quando si evoca l’indifferentismo morale, in occidente il riferimento corre
immediato al conformismo delle masse, drogate dal consumismo indotto dallo
strapotere dei media della persuasione collettiva. Una socialità in cui prevale
l’indifferenza generalizzata non è tale. E’ assai facile per un intellettuale organico
emettere giudizi di condanna morale sulle masse che non intendono il suo verbo e
lamentare la sua emarginazione. Ma l’intellettuale emarginato dalle masse, che non
interpreta il senso comune dominante nella società n cui vive è una figura priva di
senso nel contesto sociale in cui vive. La radice dell’indifferentismo morale della
società odierna è da ricercarsi, sia dal punto di vista storico che filosofico
nell’individualismo. Anzi, l’indifferentismo morale delle masse è la conseguenza
ultima di un processo di dissociazione tra l’individuo e la società affermatosi
storicamente da almeno due secoli. Occorre infatti risalire alla genesi
dell’individualismo per comprendere la logica storico – filosofica da cui scaturisce
l’indifferentismo morale odierno. E’ infatti lo sgretolarsi progressivo dell’etica
comunitaria a produrre la morale, intesa come l’etica individuale di un uomo
dissociato dalla società e dai valori comuni di riferimento. Che poi la morale si
legittimi attraverso il primato del pensiero trascendentale (kantismo), oppure tramite
il primato della coscienza individuale (protestantesimo),la differenza non è così
rilevante: in entrambi i casi l’uomo, espropriato della suo dimensione sociale,
isolandosi dalla comunità, incardina i suoi valori in entità estranee all’uomo stesso.
Il pensiero critico è soppiantato da direttive di comportamento cui l’io deve
adeguarsi. Il precetto morale si sostituisce alla dialettica del confronto sociale
perché l’individuo diviene l’unica fonte di legittimazione di sé stesso. Quindi
all’individualismo morale succede l’individualismo prima empirista poi illuminista
che, negando al pensiero filosofico ogni fondamento metafisico, elimina dunque
ogni causalità e finalità presupposta all’individuo, che diviene in tal modo unica
causa di sé stesso e del proprio agire. Una volta ristretti gli orizzonti del pensiero ad
un agire fattuale determinato dall’utilità individuale e degradati i rapporti sociali a
rapporti economici di scambio di merci e servizi, è evidente che le problematiche
inerenti il giudizio etico – morale di sé stessi e della società appaiono
determinazioni prive di senso. La metafisica e la assiologia si sono trasformate in
psicologia individuale e di massa, sedimentata ormai la relatività del proprio essere
individuale e della stessa storia, ridotta nei limiti temporali dell’esistenza, si è
realizzata la dissoluzione dell’io, che si è sciolto nell’acido dell’indifferentismo
morale di un individualismo massificato, che non è e non vuole essere una nuova e
diversa filosofia dell’essere dell’uomo contemporaneo, ma la negazione stessa di
ogni dimensione etico – morale che conferisca senso alla vita stessa.

La colpevolizzazione aristocratico-snobistica delle masse rappresenta una facile via di
fuga per i cosiddetti “colti”, la cui cultura non gli permette però di capire che il consumismo
non è un prodotto spontaneo che viene “dal basso”, ma una forma di integrazione
artificiale integralmente gestita dai dominanti sui dominati. D’altra parte, la recente
dissoluzione del comunismo novecentesco recentemente defunto deve pur sempre
servirci da lezione, ed insegnarci che la compressione dei consumi individuali non è in
alcun modo una forma di moralizzazione, e tantomeno di ricostruzione etica comunitaria,
ma soltanto una forma di anomia che poi porta al suo contrario, il riscatenamento
dell’individualismo consumistico (ed in questo l’esempio della Cina dovrà pur sempre
essere preso in considerazione).
Nel colpevolizzare le masse per la loro presunta “volgarità” si distinguono i cosiddetti
“gruppi intellettuali”. Hai perfettamente ragione, e non posso che congratularmi con te, nel
segnalare che è assai facile per un intellettuale (organico ma non solo) emettere giudizi di
condanna morale sulle masse che non intendono il suo verbo e lamentare la sua
emarginazione. In questa mia terza risposta, quindi, mi limiterò ad esaminare il rapporto
fra gli attuali gruppi intellettuali e le forme dominanti di individualismo. Queste forme
derivano dalla società di mercato, e ci sarebbero anche se per ipotesi i gruppi intellettuali
non esistessero. Ma le forme attuali della riproduzione sociale degli intellettuali, e
soprattutto della loro visibilità pubblica (giornalistica, televisiva, ma in primo luogo e
sopratutto universitaria) sono comunque un fattore da prendere in considerazione.
I saggi che studiano la storia ed il ruolo dei gruppi intellettuali sono molto numerosi, ed io
stesso ne ho scritto uno (cfr. Il ritorno del clero, Editrice CRT, Pistoia 2000). Tuttavia
quello che imposta a mio avviso meglio i termini storici e filosofici della questione è stato
scritto da Zygmunt Bauman, ed è il suo capolavoro (cfr. La decadenza degli intellettuali,
Bollati Boringhieri, Torino 1992 e 2007). Anziché riassumerne semplicemente le tesi, le
rielaborerò autonomamente partendo da esse, per sviluppare poi il mio punto di vista, che
ritengo in gran parte convergente con il tuo.
Bauman individua la genesi storica di uno specifico gruppo sociale definibile come
“intellettuali” nei philosophes, cioè negli illuministi francesi del Settecento europeo, e li
connota come “legislatori sociali”, almeno in pectore. Gli intellettuali sarebbero quindi nati
nel Settecento, e sarebbero nati come legislatori sociali. Si tratta di una ipotesi del tutto
plausibile, che si contrappone ad altre due scuole di pensiero. La prima parla di
“intellettuali” in tutti i casi in cui una società produce dei mediatori culturali la cui funzione
è quella di produrre un mondo simbolico di integrazione sociale, ed in questo caso bisogna
risalire agli scribi egizi, ai cantori scandinavi, ai filosofi cinesi, indiani e greci, ai profeti
ebraici, eccetera, con il pericolo di produrne in questo modo una nazione talmente ampia e
generica da risultare di fatto inutilizzabile, come le maglie di una rete talmente grandi da
non poter prendere i pesci, perchè questi ultimi ci passano attraverso. La seconda limita la
nascita di veri e propri gruppi intellettuali ad un fatto molto recente avvenuto a fine
Ottocento, il caso Dreyfus e la reazione organizzata (Zola, eccetera) all’antisemitismo
moderno, con il pericolo però di produrre una nozione talmente limitativa di “intellettuali” da
renderla non euristica e non operativa per ragioni opposte ma convergenti con la
precedente. L’ipotesi di Bauman è invece plausibile perchè correla strettamente il gruppo
sociale degli intellettuali in quanto specialisti dell’universale e del simbolico con l’emergere
della borghesia come classe sociale specifica, di cui il proletariato non è tanto la
negazione ed il superamento, come ha scorrettamente opinato il marxismo ottocentesco e
novecentesco, quanto un correlato organico e complementare, che nasce con essa, si
sviluppa con essa, e tramonta con essa. Vi è pertanto un primo elemento che possiamo
trarre da Bauman: il gruppo sociale degli intellettuali sorge insieme con la borghesia e con
il suo complemento necessario chiamato proletariato, e con lo sviluppo progressivo di un
capitalismo post-borghese, e quindi post-proletario, è normale che non possano più
esistere nella vecchia forma consueta, e questo fa venir meno tutte le teorie precedenti, da
Voltaire a Mannheim, da Husserl a Gramsci, eccetera.
Ma qui il diavolo, si nasconde nel dettaglio, e cioè in una paroletta apparentemente
inoffensiva. Gli intellettuali, in questo caso i filosofi non sono nati come legislatori sociali
ma come legislatori comunitari. Non è affatto la stessa cosa. Il termine “società” non esiste
neppure in greco antico, e non esiste perchè non ne esiste neppure il concetto e la realtà,
ma c’è soltanto il termine di comunità (koinòn, koinonia). Lo stesso termine latino di
societas non è di fatto mai impiegato nel senso che oggi diamo a questa parola. La
“società” è un termine generico, la cui ipertrofia sociologica nasconde una
indeterminatezza patologica. Il “sociale” è un concetto ampio, che manca però di forza
esplicativa, se non ne viene prima posta la sua genesi ontologica, che è sempre una
ontologia storica. Per ora le scienze cosiddette “sociali” tendono a spiegare i fenomeni
sociali con altri fenomeni sociali, ed in questo mondo si crea una catena viziosa,
autoreferenziale e tautologica simile ad un serpente che si morde la coda. Ma cos’è, in
ultima istanza, l’elaborazione del sociale? Non è nulla, se non si capisce che il “sociale”
deve essere spiegato al di fuori di esso, e non è che una metafora impropria di ciò che
dovrebbe invece essere definito come “storicità”. Finchè si continuerà a pensare gli
intellettuali come “legislatori sociali”, e basta, ci si muoverà sempre in un cerchio magico
incantato in cui i concetti, come in un girotondo senza fine, si richiamano sempre e solo
l’uno con l’altro.
I primi filosofi greci, che pure a mio avviso sarebbe scorretto definire come “intellettuali”,
non erano legislatori sociali, ma erano legislatori comunitari. Una pigra abitudine inerziale
consolidata ci ha portato a pensare che fossero semplicemente dei “naturalisti”, e cioè dei
precursori artigianali dei moderni fisici, chimici e biologi. Ma non è così. In assenza di una
religione monoteistica e creazionistica rivelata, e pertanto in assenza di quella funzione
profetica diffusa presso gli Ebrei, i primi filosofi greci dovevano affermarsi come autorevoli
e credibili nella loro comunità esclusivamente attraverso l’interpretazione della genesi della
Natura, in quanto la stessa comunità sociale era pensata come duplicazione della natura
stessa, sulla base dell’originaria indistinzione fra macrocosmo naturale e microcosmo
sociale ed umano. Con l’irrompere della moneta coniata e della sua tesaurizzazione
potenzialmente illimitata (apeiron), la precedente comunità era messa in pericolo dal
potere delle ricchezze individuali e soprattutto dalla schiavitù, per debiti. Per questo era
necessario il calcolo comunitario equilibrato del potere e della ricchezza (logos), e questo
è il significato fondamentale del termine logos, che soltanto in seconda istanza significa
linguaggio o ragione discorsiva.
Gli intellettuali ottocenteschi e novecenteschi riprendono quindi questa funzione di
legislazione comunitaria, e questo è un loro titolo di merito, non certo di demerito, come
affermano i post-moderni che li accusano di essere caduti vittime della cosiddetta
“sindrome di Siracusa”, alludendo a Platone che si sarebbe illuso di poter fare da
consigliere ai tiranni. Ma qui c’è soltanto la reazione congiunturale all’ipertrofia della
ideologizzazione politica del ventennio, 1960-1980, il cui lutto non è stato ancora elaborato
se non nella forma del pentimento.
La fine della funzione intellettuale si accompagna con la visibilità mediatica ossessiva di
intellettuali conferenzieri, simili ai Luciano ed agli Apuleio del tardo impero romano. La
cultura diventa integralmente spettacolo con la passivizzazione dello spettatore. Diventati
specialisti universitari attraverso la esasperata divisione accademica delle discipline
(funzionale alla moltiplicazioni di cattedre, dipartimenti e finanziamenti), gli intellettuali non
solo si suicidano, ma si riproducono solo attraverso la cooptazione conformistica delle
cattedre universitarie. Mentre per diventare poliziotti, magistrati o insegnanti di scuola
media ci vogliono pur sempre concorsi selettivi in busta chiusa in cui vengono corretti testi
rigorosamente anonimi, i concorsi universitari (parlo qui ovviamente solo delle facoltà di
filosofia e di scienze sociali) vengono effettuati sulla base dell’integrale cooptazione, in cui
il conformismo ideologico politicamente corretto fa premio su qualsiasi altra forma di
merito, nonostante l’ipocrita e ritualistico richiamo ad una inesistente “meritocrazia”.
Questo fa diventare gli intellettuali (parlo non del singolo, che può anche cantare fuori dal
coro, ma del gruppo sociale in quanto tale) uno dei gruppi sociali più conformisti ed
“integrati” dell’intero orbe terracqueo. Se oggi il codice dominante è quello individualistico
della libertà del consumatore, possiamo essere sicuri che i gruppi intellettuali mediatici ed
universitari se ne faranno portatori, non tanto nella forma esplicita e diretta (demandata ai
pubblicitari), quanto nella forma indiretta della sistematica diffamazione di tutte le forme di
pensiero non omogenee a quest’ultimo, non importa se di destra (Ezra Pound) o di sinistra
(Karl Marx). Gli intellettuali sono oggi portatori di quello specifico estremismo di centro che
possiamo definire conformismo post-moderno. Possiamo aspettarci qualcosa di buono
dalle cosiddette “persone normali”, ma da essi intesi come gruppo sociale sicuramente no.

4. L’economia di mercato e soprattutto la società di mercato ad essa collegata,
quale complesso di rapporti sociali derivati dalla logica mercatista, produce sempre
nuovi equilibri dinamici in cui trovano il loro punto di equilibrio sia la domanda e
l’offerta di beni e servizi, che la composizione dei rapporti sociali, morali e culturali
tra le classi. Così come nel mercato si manifestano le crisi economiche, quali
momenti di trasformazione in cui il mercato tende a creare nuovi parametri di
equilibrio, anche la struttura della società tende ad evolversi parallelamente.
Pertanto, da tali mutamenti emergono alcune classi sociali, cui corrisponde il
declino di altre. Questo processo dinamico – evolutivo dell’economia di mercato,
determina dunque sempre nuovi equilibri ai quali è la società che deve adattarsi e
mai l’economia. La nuova struttura dei rapporti sociali che ne deriva è dominata da
quelle classi sociali che si siano rese compatibili con le evoluzioni del mercato con
conseguente estromissione delle altre. Il capitalismo del XXI° secolo tende ad una
accentuata logica selettiva ad excludendum, con l’effetto di marginalizzare sempre
più vasti strati del tessuto sociale, che vengono progressivamente esclusi dai nuovi
equilibri socio – economici. La selezione effettuata dal mercato determina
marginalizzazioni e disuguaglianze sempre più accentuate nel corpo sociale, mai
l’integrazione e l’eguaglianza tra le diverse componenti della società. Oggi
assistiamo con la crisi sistemica in atto sia alla emarginazione delle masse nei
paesi evoluti dell’occidente, che dei popoli del terzo mondo nell’ambito geopolitico.
L’emarginazione conduce all’isolamento sia individuale che collettivo di masse
umane che non si riconoscono nelle istituzioni, in quanto prive di un ruolo attivo
nella società sia nel campo economico che in quello politico. Quindi si afferma un
indifferentismo morale di massa derivato da una condizione umana non sorretta da
valori morali che giustifichino gli equilibri sociali selettivi e disgreganti della società
globalizzata del nostro tempo. L’emarginazione sociale comporta l’emergere di una
logica della sopravvivenza generalizzata, derivante dallo stato di precarietà
economica nel campo lavorativo ed esistenziale nei rapporti interpersonali. In tale
condizione l’uomo non tende al sovvertimento sociale, ma alla conservazione
dell’esistente: una vita precaria, concentrata sulla sopravvivenza genera solo istinto
di conservazione. Non è un caso che nella società occidentale prevalgano le
tendenze politiche conservatrici: l’estromissione delle masse da una politica
dominata dalle oligarchie delle lobbies ha prodotto ha determinato l’indifferentismo
morale quale condizione di estraniazione esistenziale dell’io sia dalla propria
identità che dal mondo in cui vive. Indifferentismo morale e conservatorismo
dell’esistente sono fenomeni paralleli che tendono ad identificarsi a vicenda. Perché
considerare la propria sostanza umana solo alla luce della realtà positiva
contingente, conduce fatalmente alla accettazione dell’esistente. Analoghi sviluppi
subisce la cultura dominante, che oggi appare concentrata nella condanna morale
di tutti quei fenomeni non del tutto compatibili con la logica relativista di
conservazione dell’ordine anomico dell’esistente (diritti umani, liberaldemocrazia,
individualismo). L’indifferentismo morale rappresenta dunque la fase terminale di
un processo degenerativo di una condizione umana che precipita nell’abisso del
suo non essere, inteso come non essere di se stessi, sia dal punto di vista
individuale che collettivo.

Ritengo che tu abbia individuato il cuore del problema del nostro tempo affermando che
oggi la società deve adattarsi all’economia, e non certo l’economia alla società. Si dirà (e
sono soprattutto i marxisti a dirlo) che questa non è una novità, perchè questo è sempre
avvenuto, e sempre la società (o più esattamente la comunità) ha dovuto adattarsi
all’economia. Ma non è vero. Se per “economia” si intendono le risorse naturali, le forze
produttive, l’agricoltura, l’allevamento, eccetera, allora questo può essere parzialmente
vero (parzialmente, ma non del tutto, perchè ambienti naturali simili hanno prodotto
configurazioni storiche e sociali, molto diverse e talvolta alternative). Ma oggi l’economia
non è più questo, quanto l’imposizione diretta di una forma obbligata politica, culturale e
sociale autoreferenziale. Si tratta di una relativa “novità”. Questa novità deve essere
indagata con categorie specifiche adatte ad essa.
Per comprendere il cuore del problema da te messo a fuoco con tanta chiarezza
un’eccessiva erudizione storica ed economica può addirittura essere fuorviante, per il noto
principio per cui occorre prima vedere le foreste, e poi esaminare i singoli alberi. Sono
invece necessari due concetti fondamentali, il primo elaborato da Karl Marx, il secondo da
Karl Polanyi. Secondo Marx il capitalismo, o più esattamente il modo di produzione
capitalistico, è retto da una norma di produzione e riproduzione illimitata, ed è proprio
questa illimitatezza l’elemento differenziale e contrastivo con tutti i precedenti (e forse i
successivi, se ci saranno successivi, cosa che nessuna filosofia della storia
necessitaristica, deterministica e teleologica può garantire a priori in forma messianica,
ricoperta o meno con una presunta veste “scientifica”) modi di produzione che hanno
caratterizzato la storia universale dei cinque continenti. Secondo Polanyi il capitalismo è
la sola società in cui l’economia non sia contenuta ed “incorporata” nella più ampia
produzione sociale e comunitaria, e questa non-incorporazione è ovviamente la premessa
non solo dell’autonomizzazione patologica dell’economia stessa, ma del suo soffocante
dominio su tutti gli ambiti della vita sociale, per cui a poco a poco, la fisiologica economia
di mercato diventa una patologica società di mercato.
Partendo dall’economia politica intesa come disciplina indipendente, in tutte le sue varianti
di destra, di centro e di sinistra, questa comprensione è impossibile, ed è impossibile per
l’autoreferenzialità della stessa scienza economica, che si basa sul presupposto
antropologico dell’individuo originario, prima produttore e poi consumatore. E’vero che a
volte si parla di macro-economia contrapposta a micro-economia, ma si tratta quasi
sempre di un espediente, perchè le stesse grandezze macro-economiche disaggregate
rimandano in ultima istanza alla sacralità indiscussa della fondazione utilitaristica
originaria.
L’economia politica trova quindi il suo fondamento ontologico ultimo in una metafisica
dell’individuo originario. Per questo fanno ridere (ma si ride per non piangere!) tutte le
affermazioni alla Habermas o alla Rorty, per cui oggi noi vivremmo finalmente in una
situazione post-metafisica, in cui il rischiaramento illuministico ha finalmente vinto sulle
precedenti superstizioni religiose e su quei succedanei religiosi imperfettamente
secolarizzati che rinviano al pensiero di Hegel e di Marx.
Chi cerca in tutti i Modi nell’economia politica la chiave per la comprensione della totalità
sociale non la troverà mai, perchè l’economia politica non è la soluzione, ma è il problema.
Una delle ragioni - non l’unica, certamente - del fallimento del marxismo storico nella
comprensione del problema della riproduzione della totalità capitalistica sta nel fatto che a
partire da Engels (ma con qualche minore responsabilità di Marx) il marxismo si è
costituito come “economia politica di sinistra” e come previsione pseudo-scientifica e
quasi-religiosa del crollo del capitalismo per opera del soggetto demiurgico proletario. Ma
l’economia politica, di destra o di sinistra che sia coincide al cento per cento con
l’utilitarismo, ed essendo l’utilitarismo una metafisica dell’individuo originario é del tutto
impossibile sulle sue basi giungere alle dinamiche della dissoluzione e della
ricomposizione della comunità. Solo la filosofia può arrivarci, e non è un caso infatti che a
partire dal 1803 circa Hegel abbia individuato nella filosofia l’unica leva per la
ricomposizione della comunità, abbandonando le precedenti generose posizioni giovanili
(l’arte, il cristianesimo, la grecità, eccetera) .
Alcuni economisti sensibili ed intelligenti hanno peraltro capito a loro modo quanto sto
dicendo, e cioè che sul terreno della sola economia è del tutto impossibile ricostruire la
totalità sociale, e pertanto modificarla in una prospettiva concreta e realistica. Fra questi
spicca l’economista-filosofo italiano Claudio Napoleoni (1924-1988). Studiando la storia
del pensiero economico, e non dimenticando mai che quella che viene chiamata “socialità”
non è altro che storicità, o se vogliamo una configurazione mobile e provvisoria della
storicità stessa, Napoleoni giunse alla comprensione della identità in ultima istanza fra la
teoria economica del valore e la teoria filosofica dell’alienazione. E mentre per il suo
compagno di strada Lucio Colletti questa scoperta fu l’occasione (o meglio, il pretesto) per
giustificare il proprio abbandono della prospettiva di Marx e la propria “conversione” al
liberalismo di Popper, per Napoleoni fu invece il punto di partenza per un ripensamento
radicale dell’intera economia politica (cfr. Discorso sull’economia politica, Boringhieri,
Torino 1985), e quindi per una uscita ragionata dalla sua assolutezza autofondata.
Personalmente, ne scrissi in proposito un commento per la rivisita “Marxismo Oggi”. Nel
1990, due anni dopo la sua morte, furono pubblicate delle sue note intitolate “cercate
ancora” (cfr. Cercate Ancora, Editori Riuniti, Roma 1990). E tuttavia, la stima e la simpatia
umana per la sua persona, da me personalmente conosciuta, non deve impedirmi di dare
un giudizio criticamente negativo sulla sua impostazione della ricerca, che esclude ogni
tipo di salvezza storico-politica, si muove verso la critica della Tecnica (intesa nel senso di
Heidegger come dispositivo anonimo ed impersonale incontrollabile ed immodificabile,
Gestell), accusata di annullare il soggetto e di portare il mondo verso un dominio
incondizionato, per cui il progetto di emancipazione umana sfocia nella sapienziale
conclusione heideggeriana che “solo un Dio ci può ancora salvare”.
In questo modo la generosa esortazione di “cercare ancora” diventa a mio avviso
completamente astratta ed ineffettuale, e sfociare nel vasto mare del pensiero postmoderno,
che non è che la razionalizzazione sofisticata dell’impotenza storica e sociale,
più o meno travestita da disincanto verso le grandi narrazioni (Lyotard, Sloterdijk,
eccetera). Bisogna indubbiamente cercare, ma cercare è del tutto inutile se non si sa dove
cercare, perchè soltanto sapendo dove cercare si può sperare di trovare qualcosa. Qui bisogna
mettersi alla scuola dei cercatori di funghi e dei pescatori, che non sono magari
sicuri di provare quello che cercano, ma sanno che in certi posti è assolutamente sicuro
che non si troverà nulla, mentre in altri è invece probabile che si troverà qualcosa.
Il luogo in cui cercare è a mio avviso perimetrato dai due concetti fondamentali prima
richiamati a proposito di Marx e di Polanyi. Se si crede di poter contestare e criticarne il
capitalismo in nome di una illimitatezza ancora più efficiente o addirittura più “giusta” si
andrà fuori strada, perchè sul terreno della illimitatezza il capitalismo è assolutamente
imbattibile. Questo non comporta automaticamente l’adozione della teoria della decrescita,
che nella forma oggi diffusa (Latouche, Badiale, Bontempelli, eccetera) non mi sembra
convincente, ma comporta la sua presa in considerazione evitando frettolose liquidazioni
in nome del modello liberale di crescita o del paradigma marxista classico, che come ho
detto prima è economicistico, ed è quindi soltanto un povero utilitarismo di sinistra a mio
avviso non riproponibile. La teoria della decrescita mi sembra per ora essere il semplice
rovesciamento non dialettico della precedente teoria della crescita. Capisco bene le
ragioni soprattutto ecologiche ed ambientali che ne possono favorire il successo, ma vi
sono troppi “passaggi” economici, politici e filosofici che questa teoria “salta” perchè si
possa pensare di avere già trovato il bandolo della matassa. Resta il fatto che la norma di
accumulazione illimitata che regge il capitalismo, in particolare nella forma attuale postborghese
e post-proletaria è il cuore da contestare e da criticare. I1 “cercare ancora”,
quindi, significa cercare le forme di aggregazione politica e sociale che possano
“praticamente” infrangere questa patetica e viziosa illimitatezza. Il pensiero greco,
pensiero della misura (metron), della giustizia (dike) e del calcolo politico e sociale
comunitario (logos) può essere in questo infinitamente più “attuale” dello storicismo
marxista o della sapienzialità heideggeriana.
E’ tuttavia la diagnosi di Po1anyi che oggi mi sembra la più ricca di insegnamenti. Finchè
l’economia (di cui non discuto la legittimità sia dell’oggetto che del metodo, se non
vengono assolutizzati in una metafisica utilitaristica dell’individuo robinsoniano originario)
non sarà riportata all’interno del controllo sociale comunitario, inevitabilmente politico, il
popolo non sarà mai al potere, ma resterà sempre un’astrazione ideologica vuota, per cui
la democrazia non potrà mai essere altro che oligarchia e l’economia non potrà mai essere
altro che crematistica.