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martedì 15 aprile 2014



AUTONOMIA PROLETARIA: RESISTENZA COMUNITARIA



Di Maurizio Neri



Credo che oggi il punto fondamentale da cui ripartire resta l’esperienza dell’autonomia, quella con la lettera piccola, quella dello spontaneismo e della frattura con il bagaglio ideologico dei gruppi e dei partiti, l’autonomia operaia degli anni Settanta, quella che cercava la sintesi delle sue due diverse anime, quella operaia e operaista e quella studentesca e potremmo dire libertaria. Autonomia operaia si diceva e senza dubbio l’anima che prevalse alla fine fu proprio quella operaista, quella di Piperno e Scalzone, quella della rivista Rosso e di Toni Negri. Si è già più e più volte parlato dei danni a lungo termine che portò con sé la corrente operaista e quindi non è necessario né interessante ora stare a ripetere concetti già più volte ripetuti ma è importante far notare come allora avesse ancora un senso valido o perlomeno percepito tale parlare di autonomia OPERAIA, quando si stava entrando in un periodo di percepita maturazione delle lotte operaie all’interno delle grandi fabbriche fordiste e del loro stretto collegamento con le lotte studentesche degli anni passati. A distanza di anni e con il fatidico senno del poi possiamo dire che fu proprio il prevalere dell’operaismo all’interno dell’autonomia operaia a costituire quel peccato originale che in breve tempo portò prima alla morte dell’autonomia come movimento spontaneo ed autorganizzato dal basso e quindi al costituirsi in seguito di una struttura organizzata verticalmente, l’Autonomia con la A maiuscola. E tuttavia parlare di autonomia operaia allora aveva un senso e senza dubbio era proprio la grande fabbrica fordista (ed il connubio con l’area studentesca) ad essere il luogo più avanzato delle lotte e delle proposte ed era allora altamente percepibile e palpabile la presenza di quella che viene chiamata la coscienza di classe e la conseguente solidarietà e compattezza (nelle differenze!) di tutto il movimento. La storia della fine dell’autonomia e della crisi progressiva da quegli anni ad oggi è nota a tutti ed è stata già tracciata più e più volte e dunque non verrà ripetuta. Di quell’esperienza rimane la grande intuizione della fine delle forme partitiche e dei gruppi, la ricerca creativa di nuove forme di lotta e di nuove strutture e nuove teorie e l’esigenza di cercare una autorganizzazione dell’area attraverso un agire concreto e teso verso l’esterno e la cosiddetta massa. Basta ricordare in tal senso le esperienze delle radio come Radio Onda Rossa a Roma, Radio Alice a Bologna o Radio Sherwood a Padova dove per la prima volta potevano intervenire nelle trasmissioni le persone all’ascolto creando assieme la trasmissione stessa e trasformando in parte attiva il soggetto passivo, oppure alle lotte locali nei quartieri, le occupazioni delle case, le autoriduzioni delle bollette, le spese proletarie sempre nell’ottica del coinvolgimento e della proposizione verso la gente comune. Era un lavoro politico non strutturato in una visione di inquadramento passivo e già predeterminato ma in uno scambio continuo dei ruoli fino al coinvolgimento e la fusione in un'unica soggettività in lotta concreta. Si creava così un collegamento biunivoco di scambio reciproco tra interno ed esterno ed allo stesso tempo si apriva un varco tra massa e sistema in cui si inserivano le lotte e diventavano pratica quotidiana. Fu davvero per molti versi l’ultima intuizione veramente rivoluzionaria, la parte più avanzata di un movimento unico esente da avanguardie.

La convinzione di chi scrive è che questo passaggio sia a tutt’oggi il risultato più rilevante raggiunto dall’area comunista negli ultimi quarant’anni; da allora i passi fatti sono solamente stati passi all’indietro sostanzialmente cancellando e smantellando tutto ciò che era stato raggiunto. Gli stessi centri sociali nati come collettivi in conseguenza ed in continuità di quel lavoro proprio per proseguire sul territorio l’esperienza dell’autonomia sono andati con gli anni ad assumere un carattere autoreferenziale (salvo le debite eccezioni) fino a collassare su sé stessi e ad arrivare a marginalizzarsi e ad essere marginalizzati proprio da quel territorio che doveva essere l’obiettivo principale delle attività dei centri sociali stessi.
E’ stato detto più volte, riprendiamo il discorso dall’autonomia. Riprendere il discorso non significa chiaramente riprendere l’autonomia del 1974 o quella del 1977 e portarla qui come se non ci fossero in mezzo più di trent’anni.
Quell’autonomia è fallita, un pò sotto le spinte della repressione violenta dello stato e un pò sotto il peso dei propri errori e dei propri peccati originari, un pò per l’implosione delle previsioni e delle visioni operaiste e delle lotte operaie (ma sarebbe più corretto dire in tal senso per la fine stessa della coscienza di classe e della solidarietà di classe all’interno del mondo operaio). Appurato e dato per chiaro una volta per tutte che la classe operaia non esiste più o meglio non esiste più come soggetto politico autocosciente e come soggettività trainante e monolitica ed appurato che l’operaismo è definitivamente tramontato e le ulteriori teorizzazioni nate da quelle ceneri come le varie teorie delle moltitudini di Negri alla prova dei fatti si sono dimostrate inefficienti ed errate non rimane che cercare una nuova soggettività da cui ricominciare. Ora considerato che il marxismo di Marx è una scienza sociale in quanto tale segue le regole della metodologia scientifica il primo passo da compiere è quello di ragionare in termini metodologici e scientifici (ricordando che per Marx l’ideologia era una “falsa rappresentazione” della realtà). 


Metodologicamente dunque dobbiamo stabilire che all’interno di un discorso scientifico e attorno ad un nucleo fondativo (e tra le altre cose il marxismo è anche una filosofia fondazionale) si costruiscono poi le varie teorie che vanno progressivamente verificate nella prassi. Il nucleo fondativo del marxismo di Marx è strutturato attorno al proletariato inteso come classe sociale, quindi a parere di chi scrive è fondamentale riprendere come soggettività da analizzare proprio il concetto di proletariato. Cos’è questo proletariato oggi. È evidente che esso non può essere il proletariato di Marx, non è il proletariato di Lenin e non è nemmeno quello degli anni Settanta, e come detto poco sopra non è nemmeno la moltitudine di Negri. Non è possibile a mio parere oggi dare una definizione precisa e circostanziata di proletariato in quanto esso è definibile negativamente (ovvero dicendo quello che non è) ma non positivamente (dicendo quello che è); di una cosa sola si può essere certi, il proletariato contemporaneo vive polverizzato nei mille rivoli e rami di un sistema ultraflessibile e motore primo di un modello culturale ultraindividualista e corporativo che rende il proletariato stesso un fantasma che si aggira per il Centro Capitalista privo della percezione di sé, trasformato in macchina desiderante, desiderante di essere parte stessa di quel sistema che lo schiavizza e tende allo stesso tempo a marginalizzarlo (senza mai escluderlo chiaramente). Conseguenza di questo è che ogni definizione positiva che viene data oggi del proletariato finisce inevitabilmente per diventare un contenitore vuoto in cui si affastellano teorizzazioni prive di riscontro e dunque metodologicamente votate al fallimento alla prova dei fatti. Chi sarà arrivato a leggere fino a questo punto si starà chiedendo dunque il perché del titolo. Perché autonomia proletaria se non è in alcun modo individuabile con l’analisi e l’osservazione un proletariato cosciente di sé e inscrivibile all’interno di una teoria. La risposta sta nella seconda parte del titolo di questo articolo: resistenza comunitaria.

Come detto all’inizio si assiste ad una riproposizione da più parti dell’area comunista italiana della parola “comunità”. Noi come comunisti comunitari non possiamo che guardare con soddisfazione (e aggiungo anche con un sorriso sardonico) a questa novità assieme ad una profonda preoccupazione di vedere scippato ma soprattutto vanificato il nostro lavoro (per alcuni compagni più che decennale e tra numerose critiche e soprattutto infamie, accuse e marginalizzazioni) da un eccessivo uso superficiale del concetto di comunità. Una parola difatti è in sé solo un segno, un involucro dentro cui mettere un significato e a seconda del significato cambia anche il valore ed il  concetto stesso. Non è stavolta inutile stare a ripetere che quello che come comunisti comunitari intendiamo costruire è un tessuto interconnesso di comunità (intese come Gemeinwesen marxiana)  aperte di libere individualità legate tra loro da un tessuto connettivo che neutralizzi il passaggio dell’uomo da ente naturale ad ente mercantile. Comunità aperte che sappiano creare una intercapedine, un fulcro che si inserisca tra la massa atomizzata ed indistinta passiva ed il sistema istituzionale, borghese, liberista e capitalista, un modello intuito ed analizzato in parte già anche fuori dal centro capitalista, qualche cosa che non si contrapponga semplicemente allo stato ed al sistema ma sia in grado di inserirsi prima e di sostituirsi ad esso gradualmente (comunità aperte in grado di abbattere tra l’altro anche uno dei falsi miti più dannosi per l’area comunista di questi ultimi decenni ovvero il mito della contrapposizione totale e continua al Capitale, mito creatore di società chiuse in sé stesse ed autoalimentanti e autoreferenziali sostanzialmente innocue per il sistema stesso in quanto escluse da esso e dunque anche dal contatto con la massa, per volontà propria reale o percepita che sia).
Ed il proletariato? E la ripresa del discorso dell’autonomia? Qui sta il nodo centrale di questo breve articolo.

Si è detto poco sopra che il proletariato odierno è un proletariato disperso, polverizzato, non circoscrivibile e soprattutto senza coscienza di sé stesso e dunque ancora più sfuggente alle analisi anche dei più zelanti e dei più volenterosi. In una logica atomista e ultraindividualista in cui l’uomo è ente mercantile potremmo affermare (per molti provocatoriamente) che non esiste un solo proletariato come soggetto monolitico ma in potenza tanti proletariati diversi, tanti quanti sono gli enti mercantili atomizzati raggruppati di volta in volta all’interno di logiche corporative che creano unità di vedute puramente tattiche e contingenti sul momento per poi dissolversi di nuovo una volta raggiunto l’obiettivo a breve termine. In parole povere credo sia sotto gli occhi di tutti che in questi ultimi anni le rivendicazioni all’interno del mondo del lavoro sono sempre state rivendicazioni di tipo corporativo in cui di volta in volta ogni categoria si ritrovava unita per questo o quel motivo avvolta nella sostanziale indifferenza delle altre (e a volte anche con un senso di fastidio) per poi ricadere nell’oblio e nell’apatia passiva a rivendicazione, lotta o protesta finita. E’ proprio la mancanza del tessuto comunitario di cui si accennava prima a creare questo stato di cose e si perpetra e riproduce sostanzialmente nella stessa maniera anche al di fuori del mondo del lavoro in ogni aspetto singolo della vita sociale dell’individuo e della società massificata e atomizzata allo stesso tempo. E dunque in un humus sociale, economico e politico simile che la ricomposizione di tale tessuto all’interno di comunità aperte di libere individualità fungerebbe da catalizzatore, da attrattore per quel proletariato senza coscienza e polverizzato, per quella miriade di potenziali proletariati (o proletari) che si ritroverebbero di nuovo assieme come un'unica soggettività collettiva aperta e non coatta, una unica soggettività non più passiva ma attiva e dunque di nuovo non più potenziale ma in atto e quindi con coscienza di sé.

Ecco il passaggio quindi, autonomia proletaria all’interno delle comunità; comunità autonome connesse tra loro in diversi gradi orizzontali proprio come le maglie di un tessuto, comunità proletarie, autonomia comunitaria, o meglio ancora comunità come autonomia e autonomia come comunità in una relazione biunivoca e sostanzialmente identitaria in cui i due termini (autonomia e comunità) finirebbero per assumere la stessa funzione e lo stesso significato.
Come infatti nell’esperienza dell’autonomia di trent’anni fa all’interno delle comunità si ribalterebbe il ruolo degli individui da soggetti passivi a soggetti attivi, soggetti creatori e creativi, soggetti che non subiscono il sistema e dunque cercano di interpretarlo e di adattarsi ad esso cercando di farne parte ma si sostituiscono ad esso assieme creando qualche cosa di nuovo che renderebbe inutile il sistema stesso senza allo stesso tempo autoescludersi da esso ma agendo come un virus all’interno di un organismo vivente, parassitandolo (ovvero sfruttando tutti i varchi e le contraddizioni che esso offre e mostra necessariamente per sua natura) e contemporaneamente modificandolo. Un ribaltamento progressivo dei ruoli in cui il sistema stesso diventerebbe alla fine soggetto passivo. È difatti il principio della delega, della rappresentatività, della volontaria cessione della gestione della propria vita che crea falsa coscienza e passività, che rende l’ente naturale umano soggetto mercantile ovvero consumatore di idee già pronte e preparate dall’esterno. La spinta creatrice spontanea d’altra parte annulla il principio di passività e quindi di mercantilizzazione del pensiero e quindi la dipendenza da qualche cosa che è esterno che non viene più visto a quel punto come punto fisso e quindi ineludibile ed inattaccabile ma come qualche cosa non solo di alieno (altro da sé, in cui il sé diventa declinazione sia di sé stessi che della comunità tutta) ma soprattutto di inutile.
Ma perché “resistenza”? Perché autonomia proletaria come resistenza comunitaria? E’ il caso di demolire un altro mito oramai logoro dell’area comunista italiana ovvero che esista una biunivocità fra rivoluzione e volontà rivoluzionaria. In sostanza non è altro che la sensazione che prima o poi attraversa tutti i compagni ovvero che basta essere comunisti o far parte di un collettivo o di una realtà comunista o anche semplicemente essere all’interno del movimento antagonista per vivere all’interno di un mondo rivoluzionario, più semplicemente essere dei rivoluzionari. È allora davvero il caso di dirlo bene una volta per tutte: nessuno di noi è un rivoluzionario, non c’è alcuna rivoluzione per il momento in atto o in potenza, non c’è alcun palazzo d’inverno da prendere nell’immediato futuro, questa non è un epoca rivoluzionaria. Si tratta sostanzialmente di una conseguenza del mito avanguardista; se difatti esiste un avanguardia allora esistono coloro che compongono l’avanguardia ed essi non possono dunque che essere rivoluzionari in quanto l’avanguardia non può che essere rivoluzionaria. Ma questa non è un epoca rivoluzionaria, non ci sono le condizioni nell’immediato per pensare ad alcuna rivoluzione nel Centro Capitalista e se non esiste alcuna rivoluzione allora non può esistere alcun rivoluzionario al pari del principio per cui se non hai delle scarpe da riparare allora non puoi essere un calzolaio e se non sai come coltivare la terra e non hai terra da coltivare allora non puoi essere e definirti un agricoltore. La rivoluzione non c’è, non sappiamo come farla e dunque non siamo rivoluzionari.



Ma allora cosa siamo? Siamo resistenti, perché questa è un epoca di resistenza, siamo coloro che debbono riprendere il discorso e tentare di ricominciare a portarlo avanti. Ma sia chiaro a tutti non siamo una avanguardia e non esiste alcuna avanguardia di resistenza. La resistenza si può pensare di farla e di trasformarla in qualche cosa di altro e di rivoluzionario solo all’interno di un tessuto comunitario ricostituito, all’interno di una logica di autonomia in cui si riunisca in atto il proletariato disperso ed assente. La resistenza non può che essere come il comunismo, comunitaria. Autonomia proletaria per la resistenza comunitaria e viceversa. Comunità Resistenti vuol essere solo un auspicio, un virus appunto che vada diffondendosi spontaneamente attraverso un meccanismo di interconnessioni (un tessuto) creative. Questo è il momento di farlo, questo è il momento di spingere e di alzare un po’ più la voce, questo è il momento. Le elezioni degli ultimi anni, hanno sancito esplicitamente la fine di ogni differenza tra destra e sinistra istituzionali, la sinistra radicale istituzionale è stata e si è annientata ed ora è fuori dai palazzi alla ricerca di nuova verginità all’interno di un movimento che è fermo ed in agonia. Una agonia che dovremmo cominciare ad ammettere sembra irreversibile o troppo avanzata per tentare di rimettere a posto ciò che da troppo tempo non lo è più e continua a peggiorare. La crisi di legittimazione territoriale dei Centri Sociali, l’immobilismo autoreferenziale del movimento antagonista italiano (ma anche di quello buona parte del Centro Capitalista con le solite debite eccezioni che non è necessario stare a ripetere ancora una volta), la cacciata dalle istituzioni della sinistra radicale istituzionale, gli appelli lanciati negli ultimi tempi alla solita astratta e tardiva unità dei comunisti rappresentano per chi vuole parlare ed intendere come noi (e con noi) il concetto di autonomia proletaria, di resistenza comunitaria, di comunità, di ripresa del marxismo, di ripensamento in genere del comunismo e dell’area comunista. C’è una grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. Bene dunque ripartiamo, ripartiamo da zero, e facciamolo ora, queste sono le premesse, il lavoro fatto fino ad oggi è la nostra premessa.
Che fare? Se questa è la premessa, se questa è il nucleo, la struttura da cui partire e da realizzare, che cosa si deve fare per rendere tutto questo realizzabile? È chiaro infatti che è la prassi quotidiana, l’impegno personale e collettivo, le proposte concrete che rendono realizzabile o anche semplicemente verificabile una analisi; è il processo marxiano d’altronde ed anche il semplice buonsenso a ribadirlo.
Cosa proponiamo dunque, cosa propone chi scrive in questo Laboratorio, La risposta non c’è. Non c’è a questo punto alcun deus ex machina a mettere l’animo in pace di chi sta leggendo queste parole, non c’è il lieto fine o anche semplicemente la chiusura a questo articolo. Chi scrive non sta facendo un decalogo o un manifesto programmatico da esportare; il Laboratorio,   non è in cerca di proseliti o di esecutori a cui far mettere in atto ciò che già è stato scritto. Come già detto noi non siamo una avanguardia, né rivoluzionaria né resistente. Non siamo qui a proporci come deus ex machina per tutta l’area comunista e per il movimento antagonista; questo articolo non sono le parole di un oratore da strillare sopra di un pulpito, questa è solo una
proposta. La proposta contiene in sé già la risposta alla domanda. Ricucire un tessuto comunitario, riprendere il discorso dell’autonomia, ricreare un blocco proletario resistente significa sostanzialmente uscire là fuori, scendere per le strade e cominciare a guardarsi intorno, abbandonare le mura tranquille e rassicuranti delle sedi partitiche, dei centri sociali, della rete, non aspettare più che qualcuno si faccia avanti ma andare a prendere le persone. Come si può  farlo? Noi non lo sappiamo, noi navighiamo in mare aperto, cerchiamo e sperimentiamo ogni idea pratica, viviamo dei nostri fallimenti e delle nostre conferme e rimettiamo tutto in gioco. Non può esistere una risposta unica e valida per ogni realtà locale, non può esistere un modello unico di comunità aperta, non può esistere una parola d’ordine che racchiuda in sé ogni granello di quel proletariato polverizzato e anche se ci fosse non sarebbe e non è più compito nostro, compito di chi scrive ora, compito del Laboratorio, starlo a dire. Siete voi che ora state leggendo a dovervi spremere le meningi, a fare i passi concreti adesso, a riappropriarvi in prima persona di quella volontà creatrice, a creare quella comunità aperta attiva e pensante, siete voi a dover creare le condizioni per creare quel virus che modifichi attivamente il sistema.

Fino a che si continuerà ad aspettare le idee di qualcun altro, ad imitare le azioni e le lotte di altri e fino a che le idee continueranno ad essere tese verso l’autoalimentazione di quella piccola realtà, fino a che un idea una volta verificata sul campo si dimostrerà perdente e nonostante tutto si continuerà a riproporla costantemente senza cercare di nuovo e rimettere in moto un ciclo costante di analisi, teorizzazione e prassi allora tutte queste parole rimarranno lettera morta. Noi la nostra parte la stiamo  facendo, non chiediamo a nessuno di seguirci né di applaudirci, non cerchiamo in altri compagni lodi o critiche, il nostro lavoro politico sul territorio è rivolto certamente verso i compagni ma soprattutto verso chi compagno non è, verso la gente comune, verso le loro difficoltà senza premesse o condizioni di adesione. L’adesione deve essere spontanea e frutto di una maturazione che ogni individuo coinvolto mette in moto attraverso il circolo  virtuoso che le nostre proposte dovrebbero far partire.



mercoledì 20 novembre 2013




                                                     Capitalismo e Trasgressione



 Maurizio Neri

Cosa vuol dire oggi la parola “trasgressione”? Potremmo rispondere che oggi questa parola
è diventata sinonimo di comportamenti deviati che hanno acquisito una loro legittimazione
di massa.

Negli anni sessanta e settanta si affermò presso le giovani generazioni una cd controcultura
che mettendo alla berlina la cd cultura borghese ne contestava le regole, e le istituzioni
fondanti: la scuola, la famiglia, il dovere etc il tutto sulla base di una pretesa rivolta anti-borghese che doveva liberare menti e corpi.

Chi non ricorda il dibattito sull’uso del proprio corpo, sul femminismo, sulla libera sessualità
sulle droghe.

Ebbene oggi nell’epoca del turbo capitalismo non solo tutta quella pseudocultura è stata metabolizzata ma è diventata essa stessa comportamento e morale borghese .

Infatti, in una società basata sul denaro e sul profitto come unico valore fondante, la “trasgressione”, il comportamento individuale e collettivo deviato, è tollerato se non addirittura incentivato, potremmo dire che l’unico retaggio sessantottino rimasto è proprio quello del rifiuto del dovere e della responsabilità.

A scanso di equivoci questo articolo non vuole affatto suonare come un elogio reazionario ai bei tempi andati, ma solo analizzare come il liberalismo ha saputo meglio di tutti fornire concretezza e diffusione di massa a comportamenti sociali definibili come trasgressivi.

Questi comportamenti sono strutturali ad un capitalismo avanzato post industriale che oltre a fornire scadenze temporali ben precisi agli individui ( lavoro, consumo ,vacanze ) deve poter fornire anche illusioni e vie di fuga dal quotidiano ad un individuo sempre più alienato  e condizionato dall’apparato che lo circonda .

In questo senso la diffusione di droghe come la cocaina è emblematica : da droga di elitè essa è oggi consumata da milioni di persone di ogni ceto sociale e non ha certo l’aura sinistra che accompagnava la diffusione dell’eroina negli anni settanta , perchè è in qualche modo socialmente accettata e non isola dal contesto sociale.

Lo stesso potremmo dire delle “vacanze sessuali” che ormai oltre a rappresentare un business colossale sono veri e propri intermezzi all’alienazione quotidiana per milioni di europei annoiati.

Il liberalismo quindi si è introiettato nelle coscienze fornendo l’illusoria possibilità all’uomo .-consumatore moderno di fare “ciò che gli pare” senza dover rendere conto a nessuno di ciò che fa.

In questo senso non è affatto stupefacente che i managers delle grandi multinazionali USA abbiano tra i loro benefit anche la possibilità di ricorre all’uso di stupefacenti e di “allegre compagnie” pagate dall’azienda.

La borghesia occidentale oggi è trasgressiva, perchè ha introiettato completamente quei “valori” che negli anni sessanta guardava con fastidio ed irritazione credendo che la nuova ondata giovanile fosse rivolta verso di essa mentre ne costituiva l’avanzamento ed il superamento, sempre nell’ambito della classe dominante.

Questo grave equivoco è stato portato avanti in modo stupido quanto ingenuo dalla sinistra cd progressista che innamoratasi delle sue imprese giovanili, buttata a mare l’anticapitalismo e la critica della società, ha pensato che l’unica battaglia rimasta fosse quella dell’estensione dei “diritti e della felicità”, dietro questa formulazione ambigua si nasconde la sua supina accettazione e anzi esaltazione dell’individualismo più sfrenato e della deresponsabilizzazione delle giovani generazioni che infatti non lottano più per cambiare lo stato di cose presenti.


Non esiste più neppure la “coscienza infelice” del borghese dell’Ottocento che usciva dalla propria classe e dai suoi valori per criticarne l’impianto e l’odiosa sopraffazione del proletariato, questa borghesia un po’ americanoide  che si ritiene “progressista” è invece perfettamente calata nella parte di classe dominante, tronfia del suo relativismo etico e del suo rifiuto delle ideologie, delle religioni e di ogni cosa che possa richiedere un impegno gratuito ed etico che vada al di sopra dei suoi bisogni materiali.

I comportamenti trasgressivi sono come detto, ormai di massa come si soleva dire una volta, ma essendo di massa, perdono anche il loro carattere di “trasgressività” e paradossalmente acquistano quelli della borghese normalità, mentre la vera “trasgressione” è oggi quello di rifiutare certi stili di vita per riappropriarsi  di una sana etica comunitaria e comunista .

Questo discorso intende porre l’accento sul fatto che i fenomeni sovrastrutturali qui criticati sono frutto intrinseco della struttura capitalistica della società e dei rapporti di produzione, tanto è vero che sesso e droga, sono i mercati più fiorenti nell’Occidente “libero e democratico”.

Va invertita la tendenza e assunto il principio di una Rivoluzione culturale e dei valori che in nome del comunismo comunitario rifiutino questo ciarpame, per riaffermare la possibile coniugazione di individui emancipati dal rapporto di sfruttamento ma “centrati” in una visione sana della vita e della società.

Non deve essere più possibile confondere Comunismo con una serie di stili e comportamenti libertari e trasgressivi che in una società capitalista si risolvono solo nel dare un mano all’avanzamento della dissoluzione di ogni vincolo comunitario residuo e ad una superficiale visione del mondo.


Troppa pseudocultura della “felicità a tutti i costi” di derivazione americana è stata diffusa anche negli ambienti che avrebbero dovuta criticarla e metterla alla berlina come prodotto del capitale , ed invece ne sono stati gli ingenui portatori d’acqua, ma oggi è necessario parlare chiaro e rimettere le cose al loro posto.

giovedì 17 febbraio 2011

Lo Stato-nazione


Edgar Morin

Lo Stato-nazione è al tempo stesso creazione e creatore dell’Europa moderna. La Storia aveva contemplato fino al Medio Evo imperi, città, popoli, etnie. La formula dello Stato-nazione, più estesa di quella delle città, è più ristretta e più unificata di quella degli imperi, anche quando è multietnica. Lo Stato-nazione si forma lentamente, e alquanto diversa­mente, in Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo a partire da e attorno a un potere monarchico che si forma esso stesso formando lo Stato-nazione. L’insularità favorisce lo sviluppo dello. Stato-nazione britannico. La Reconquista cattolica contro l’Islam favorisce lo sviluppo dello Stato-nazione ispanico. La perseveranza monarchica e la fortuna storica favoriscono lo sviluppo dello Stato-nazione francese. Poi la formula dello Stato-nazione emerge in modo evidente nella e attraverso la Rivoluzione francese. Fino allora, lo Stato monarchico aveva effettuato la gestazione della nazione attraverso la lenta francesizzazione delle etnie inglobate o conquistate. A partire dalla Rivoluzione, la nazione legittima lo Stato. La nazione è ravvivata dall’idea democratica che nomina il nuovo sovrano: l’insieme dei cittadini della nazione che costituiscono il popolo francese; essa è ipervitalizzata dalla minaccia di invasione e dalla guerra contro i nemici della «grande nazione».

Poco tempo prima, si era costituito in America un modello federale di Stato-nazione a partire dall’emancipazione dei coloni rispetto alla loro madrepatria. Da allora, tanto per il principio francese quanto per quello americano, Stato-nazione costituisce un modello emancipatore potenzial­mente universalizzabile. Ecco perché, dall’inizio del XIX secolo, l’esempio degli Stati Uniti anima le rivolte delle popolazioni bianche e meticce che fanno emergere le nuove nazioni dell’America Latina. In Europa, dove fino alla fine del XVIII secolo la nazione non emergeva che lentamente attraverso un pro­cesso multisecolare operato da uno Stato unificatore, il processo si rovescia bruscamente: in Germania e in Italia, è l’idea di nazione che, stimolata da una predicazione infiammata, animata da un vasto slancio collettivo, induce due regni periferici (il Regno di Prussia e il Regno del Piemonte) a fondare un grande Stato-nazione. Meglio ancora, in Grecia, Serbia, Bulga­ria, Romania, l’idea di nazione anticipa la costituzione di qualunque Stato e procede a tale costituzione animando le lotte emancipatrici di popoli sottomessi all’impero ottomano.

Nel XX secolo, lo smembramento dell’Impero ottomano e quello dell’Impero austro-ungarico fanno accedere allo Stato nazionale popoli o etnie che ne erano stati storicamente esclusi. Poi, dopo la Seconda guerra mondiale, la rivolta nell’ambito dei grandi imperi coloniali si fa in nome dell’emancipazione nazionale e il modello di Stato-nazione si impone nel mondo intero.

Spesso, in Africa, sulla base della suddivisione coloniale, alcuni Stati nascenti impongono una nazione ancora incerta o addirittura fittizia a etnie diverse che non possiedono nemmeno un linguaggio comune. Il caso limite è quello in cui l’idea di una nazione precede non solo la formazio­ne di uno Stato, ma finanche l’occupazione di un territorio, stimolando prima l’una e poi l’altra, come nel caso del sionismo, versione giudaica della concretizzazione di un’identità non più soltanto religiosa o etnica, ma nazionale. La formidabile realtà dello Stato-nazione che, ancora minoritaria due secoli fa, ha poi invaso e dominato il pianeta, resta ancora malconcepita e ancor meno pensata. Gli storici descrivono la formazione degli Stati­nazione, i loro sviluppi, ma, con l’eccezione di Toynbee, non c’è alcuna riflessione sulla loro natura. La sociologia parla di categorie di società (tradizionale, industriale, postindustriale) ma ignora la natura nazionale di queste società. Il marxismo ha minimizzato la realtà della nazione, chiarendo ciò che la divide (i conflitti di classe) e non ciò che la unifica,’ e ha minimizzato la realtà dello Stato, vedendo in esso non altro che uno strumento di coercizione nelle mani della classe dominante. Del resto, i partiti marxisti della Seconda Internazionale si sono infranti sul nazionalismo nel 1914, .e il «marxismo-leninismo» di Stalin si è impregnato di patriottismo negli anni Trenta.

Comunità, società

Una delle difficoltà maggiori per pensare lo Stato-nazione risiede nel suo carattere complesso. In effetti, lo Stato-nazione compiuto è un’entità al tempo stesso territoriale, politica, sociale, culturale, storica, mitica e religiosa. La sua realtà è multidimensionale, fatta dell’assemblaggio intimo di sostanze diverse unificate e articolate in una Unità.

Non mi dilungherò qui sulla realtà politica che si trova cristallizzata nella nozione di Stato sovrano. Lo Stato è un «apparato» che dispone di appendici come l’esercito, la polizia, la giustizia, eventualmente la chiesa. Dirò soltanto che la nozione di Stato non può essere esplicitata soltanto in termini politici e che è necessaria preliminarmente una definizione del concetto di apparato.

Lo Stato-nazione è un’entità sociale o società. E una società territorial­mente organizzata. Una società siffatta è complessa nella sua doppia natura in cui bisogna non solo opporre, ma altresì associare fondamentalmente le nozioni di Gemeinschaft o comunità e di Gesellsehaft o società. La nazione è una società nelle sue relazioni di interesse, di competizioni, rivalità, ambi­zioni, conflitti sociali e politici. Ma è parimenti una comunità identitaria, una comunità di atteggiamenti e una comunità di reazioni di fronte allo straniero e più ancora al nemico. Le guerre europee, dal XVII al XX secolo, hanno intensificato questa comunità per ciascuna nazione contrapposta, talvolta in una lotta mortale, a un nemico sentito in qualche caso addirit­tura come «ereditario». La storia dell’inizio del secolo rileva ad un tempo la formidabile conflittualità interna alle grandi nazioni occidentali, spinta talvolta fino alla guerra civile, e la loro formidabile solidarietà di fronte al nemico esterno. La conflittualità sembra predominante prima del 1914 opponendo i partiti operai, rivoluzionari e internazionalisti ai partiti bor­ghesi, nazionalisti e tradizionalisti. Ma improvvisamente, in ogni nazione, lo scoppio della guerra induce i partiti internazionalisti a compattarsi nella «unione sacra» contro il nemico esterno.



Comunità di destino

La comunità ha un carattere culturale e storico. È culturale sotto il profilo dei valori, i costumi, i riti, le norme, le credenze comuni, storico per le metamorfosi e le prove subite nel corso del tempo. È, nelle parole di Otto Bauer, una comunità di destino.

Le nazioni hanno in genere una lingua comune. Talvolta però il destino storico comune unisce popolazioni di lingue e religioni diverse, come la Svizzera il cui destino comune fu quello di mantenere una rigida e costante neutralità durante le guerre europee.

Questo destino comune viene memorizzato, trasmesso di generazione in generazione dalla famiglia, i canti, le musiche, le danze, le poesie e i libri, poi dalla scuola, che integra il passato nazionale nello spirito dei bambini in cui rivivono le sofferenze, i lutti, le vittorie, le glorie della storia nazionale, i martiri e le prodezze dei suoi eroi. Così l’identificazione con il passato rende presente la comunità di destino.

L’entità mitologica

La comunità di destino è tanto più profonda in quanto è suggellata da una fraternità mitologica. In effetti, lo Stato-nazione è una patria, termine femminile-maschile poiché contiene nel suo femminile il maschile della paternità. La patria è un’entità di sostanza consustanzialmente materna/ paterna. Trasferisce su una scala di popolazioni di milioni di individui, che non hanno alcun vincolo di consanguineità e spesso provengono da etnie

molto diverse, le calde relazioni che esistono fra persone appartenenti al medesimo focolare. Così la nazione, di sostanza femminile, ha in sé le qualità della terra-madre (madre patria), del Focolare (home, heimat) e suscita, nei momenti comunitari, i sentimenti d’amore che si provano naturalmente per la propria madre. Lo Stato, invece, è di sostanza paterna. Dispone dell’au­torità assoluta e incondizionata del padre-patriarca e gli si deve obbedienza assoluta. La relazione matti-patriottica con lo Stato-nazione suscita, di fronte al nemico, il sentimento della fraternità mitica dei «figli della patria».

Il mito nazionale è bipolarizzato. Al primo polo c’è il carattere spirituale della fraternità tra «figli della patria». Al secondo polo, la fraternità mito­logica appare come una fraternità biologica che unisce fra loro esseri dello stesso sangue, il che tende allora a suscitare il secondo mito (biologicamente erroneo) della «razza» comune. Così l’idea di nazione comporta un razzismo virtuale che si attiva allorché il secondo polo prende il sopravvento. Nel corso del XIX secolo, una polemica franco-tedesca ha messo in rilievo queste due polarità. La querelle sull’Alsazia-Lorena ha radicalizzato l’opposizione fra una concezione francese, che faceva della nazione un essere spirituale, un’«anima» comune che presuppone l’adesione dello spirito e dell’anima degli individui, e una concezione tedesca che insisteva su un’appartenenza quasi biologica al popolo etnicamente uno. In questa concezione, l’Alsazia­Lorena era indubitabilmente tedesca per determinazione germanica, mentre nella concezione francese era francese per scelta e volontà.

Se, in Francia, la prima concezione si impose nel partito repubblicano e permise alla terza Repubblica di continuare l’opera storica di francesizzazione attraverso l’integrazione di immigrati, la seconda polarizzazione trionfò nel partito nazionalista.

La religione nazionale

La mitologia matti-patriottica suscita una vera e propria religione dello Stato-nazione, che implica cerimonie di esaltazione (bandiera, monumen­to ai caduti), culto di adorazione alla Madrepatria, culti personalizzati di eroi e martiri. Come ogni religione, si nutre di amore, capace di ispirare fanatismo e odio. Lo Stato-nazione si radica nel tufo materiale della terra che sottende e costituisce il suo territorio e, al tempo stesso, vi trova il suo tufo mitolo­gico, quello della terra-madre, della madre-patria. C’è come una rotazione ininterrotta dal geopolitico al mitologico e, al tempo stesso, dal politico al culturale al religioso. Il mito non è la sovrastruttura della nazione: è ciò che genera solidarietà e comunità; è il cemento necessario a qualunque società e, nella società complessa, è il solo antidoto all’atomizzazione individuale e al dilagare distruttivo dei conflitti. Così, in una rotazione autogeneratrice del tutto attraverso i suoi elementi costitutivi, e dei suoi elementi costitutivi attraverso il tutto, il mito genera ciò che lo genera, ovvero lo Stato-nazione medesimo.

Oggigiorno, l’era in cui lo Stato-nazione rivestiva un ruolo emancipatore rispetto agli Stati coloniali è finita. Inoltre, tutto ci indica oggi che l’era della fecondità del potere assoluto dello Stato-nazione è superata. Prima di tutto, nella stessa cornice interna della nazione, lo Stato tende a diventare troppo oppressivo, astratto e omogeneizzatore a causa del suo stesso sviluppo tecno­burocratico. Ma, soprattutto, tutti i grandi problemi richiedono soluzioni multinazionali, transnazionali, continentali, perfino planetarie e necessitano di sistemi associativi, confederativi e federativi metanazionali.

In ogni caso, se è palese che in un certo numero di Paesi europei il nazionalismo aggressivo/difensivo si è considerevolmente assopito nel corso dei processi di intercomunicazione e scambio che sono seguiti alla Seconda guerra mondiale, deve essere altrettanto chiaro che lo Stato-nazione è ben lungi dall’essere diventato un fossile storico. Prima di tutto, non si può as­solutamente escludere che il rinnovamento delle esasperazioni nazionaliste che succede al crollo dell’ex impero sovietico possa effettuare una ricontaminazione dall’est all’ovest. Ma quand’anche, al contrario, l’est assistesse a una pacificazione dei nazionalismi, la resistenza multipla dello Stato-nazione, tanto nei confronti delle autonomie decentralizzate all’interno del suo ambito, quanto rispetto al sorgere di istituzioni multinazionali, resterà abbastanza forte da frenare e perfino stoppare tutti i processi che tendono a creare un sistema confederativo europeo e alle istanze sovranazionali di carattere continentale o planetario. L’antico internazionalismo aveva sottostimato la formidabile realtà mitologica dello Stato-nazione. Si tratta ormai non solo di riconoscerla, ma anche di non cercare di abolirla. Si tratta di rivitalizzarla, come è stata relativizzata la realtà provinciale che però non è stata abolita nella realtà nazionale. Ma allo scopo bisognerebbe che si amplificassero e si radicassero i sentimenti di solidarietà europei. Bisognerebbe al tempo stesso che i fondamenti mitologico-religiosi della nazione, il loro carattere matri-patriottico, fossero estesi, non solo sulla scala del nostro continente, già contrassegnato dalla civiltà che ha creato e da una comunità di destino via via più evidente, ma anche all’insieme di un pianeta ormai riconosciuto come la sola casa (home, heimat) della specie umana, e minacciata del più gran pericolo dalla specie umana medesima. Al pari della comunità nazio­nale, la comunità planetaria ha il suo nemico, ma la differenza radicale è che il nemico siamo noi stessi e che è difficile riconoscere questo nemico e affrontarlo. Tutto ciò fa sì che ci troviamo giusto al malcerto principio di questa presa di coscienza e delle nuove solidarietà. Questi processi potranno eventualmente sia accelerarsi e amplificarsi, sia al contrario disintegrarsi allorché entreremo in pieno nelle crisi che si annunciano. Ancora una volta, saremo obbligati ad attingere le nostre ragioni per sperare dalle ragioni che ci indurrebbero a disperare.

[testo inedito del 1997, tratto da: Edgar Morin, La mia sinistra. Rigenerare la speranza, a cura di Riccardo Mazzeo, Erickson, Trento 2011]

domenica 30 gennaio 2011

 E' attuale parlare di lotta di classe?





 Maurizio Neri

È ancora attuale parlare di lotta di classe? È ancora possibile declinare questo concetto senza sentirsi dei dinosauri storici? Questi interrogativi sono in questo quindicennio all'attenzione di molte riflessioni, proverò a dare qualche spunto di riflessione sull'argomento, seppur parziale.
Incominciamo dalla corrente di pensiero maggioritaria in Occidente che ha visto il passaggio di campo di moltissimi apologeti della lotta di classe, perlopiù intellettuali che negli anni Sessanta e Settanta si sperticavano in "osanna" verso gli operai e il proletariato, alla negazione più totale del fatto che oggi si possa in alcun modo fare riferimento a questo concetto.
Caduto il Muro di Berlino, finito il comunismo, fallito (per loro) il metodo marxista, costoro, in linea con la teoria della presunta fine della storia, non concepiscono in una società democratica e liberale avanzata che possa esistere una lotta tra interessi contrapposti di classe, ma che al massimo vi debba essere una politica redistributiva più equa ed a garanzia delle fasce più deboli della società.
La terziarizzazione dell'economia, il venir meno della centralità della classe operaia in quanto classe più rappresentativa, sia a livello numerico sia sul piano della combattività sociale, le teorie sul lavoro immateriale e le nuove figure flessibili nel lavoro sono, secondo costoro, la prova evidente ed inconfutabile di quanto affermano.
È curioso notare come molti di questi convertiti al liberalismo siano stati in realtà, almeno in Italia e in Francia, gli assertori del più convinto operaismo di 30 anni fa, ma questo non vuol dire molto perché si può e si deve poter cambiare idea nella vita.
L'importante è, però, non stravolgere i fatti. Come questi seppellitori della lotta di classe ne profetizzavano scioccamente negli anni Sessanta e Settanta l'inevitabile affermazione, prendendo come riferimento la centralità della classe operaia, come paradigma di riferimento epocale, così oggi eccedono nella visione opposta, cioè liquidando la questione una volta per tutte. Cambiano idea, ma non l'infantile estremismo intellettuale, a quanto pare.
Come in uno specchio rovesciato, abbiamo anche gli identitari, molto meno numerosi, in realtà, che continuano pedissequamente a riproporre la classe operaia come classe capace di trasformare i rapporti di forza nello scontro Capitale/Lavoro, senza indietreggiare di un centimetro e riproponendo analisi del tutto datate e con esiti fallimentari, scontati sul piano politico.
Quello che manca oggi, credo, è un'onesta disamina, senza paraocchi ideologici, della classe operaia e del proletariato in generale, del suo peso sociale e politico, della lotta di classe nella nostra epoca attuale e dei suoi possibili sbocchi futuri.
Ora, se è attendibile affermare che la forza contrattuale della classe operaia in quanto tale, costituita dalla massa di lavoratori, è oggi del tutto imparagonabile a quella degli anni Settanta (cosa ovvia e scontata), non si riesce a capire come si possa partire da questa constatazione e ricavare l'ulteriore passaggio logico della fine di questa classe né, tantomeno, dell'assoluta fine della lotta di classe in generale.
Un primo dato ci dice che gli operai, dopo un ventennio di ristrutturazioni e riorganizzazioni avvenute nell'ambito della grande industria e che ha visto una sensibile diminuzione della manodopera nelle grandi fabbriche, sono tornati a crescere numericamente, sia per l'ingresso di numerosi lavoratori interinali sia per l'afflusso di immigrati che, ad esempio, nel Nord-Est sono ormai una percentuale non marginale della forza lavoro di fabbrica. Un secondo dato ci dice che il malcontento e la rabbia per la diminuzione costante delle condizioni salariali e di aspettativa per il futuro sono in aumento tra gli operai, come ha ben descritto anche la puntata televisiva della trasmissione di Michele Santoro "Anno Zero", dedicata a questo argomento (www.annozero.rai.it).
Un'altra considerazione è che la classe operaia non si percepisce più come tale ed è incapace di progettare un'alternativa alle politiche sindacali di questi ultimi anni che hanno sicuramente intaccato le condizioni di vita dei lavoratori, in nome delle solite emergenze economiche e di sistema.
Ma l’errore di fondo compiuto dai denigratori della lotta di classe e dagli apologeti fuori tempo massimo, dicevamo, è il medesimo: sovrapporre ed identificare nella sola classe operaia la classe motrice della lotta; quindi, finita l'una deve finire anche l'altra. Non è mai stato così, nella realtà. L'aver fatto coincidere classe operaia e la lotta tra dominati e dominanti è stato un errore allora e lo è ancora di più oggi se si vuole usare questa sovrapposizione per buttare il bambino con l'acqua sporca. L'operaismo italiano ed europeo è il grande responsabile di questo gigantesco equivoco che perdura ancor oggi e che consente ai teorici del liberalismo economico e sociale di cantare vittoria e di liquidare ogni possibilità di lotta di classe.
Quindi il problema, oggi come ieri, è definire la classe dominata, alla luce dei mutamenti intercorsi in questi ultimi 30 anni e capire che le nuove forme di lavoro, l'impoverimento del ceto medio, o la sua proletarizzazione, la concentrazione del potere economico e della ricchezza in fasce sempre più ristrette della popolazione, non fanno che aumentare anziché diminuire l'importanza degli interessi contrapposti. Certo, ci si obietterà che non c'è assolutamente nessuna coscienza di classe in questo nuovo agglomerato sociale (è vero!), che non c'è nessuna autocoscienza di sé in quanto soggetto sociale (è verissimo...), che la disgregazione atomistica imposta dal consumismo e dall'edonismo hanno distrutto ogni vincolo solidaristico tra chi è nelle stesse condizioni di dominato (è altrettanto vero!!!). Ma ci chiediamo se questo basti ad eliminare del tutto la lotta tra dominati e dominanti, quando le ragioni di questa lotta sono sempre più evidenti ogni giorno che passa. Ci chiediamo anche se si sia dato troppo credito e ascolto a chi ha voluto fortemente liquidare insieme al socialismo reale anche le ragioni degli oppressi, come se le due cose non fossero attualmente diverse e non necessariamente correlate. Noi pensiamo che non si possa né si debba concedere questo favore a chi detiene culturalmente, politicamente e socialmente le leve del comando e che sia ora di ricominciare a riflettere nuovamente su questi temi, ma con strumenti culturali nuovi e linguaggi adeguati ai tempi, evitando, ben inteso, ogni superficiale analisi autoconsolatoria. Ed è per questo che da tempo stiamo tentando di rielaborare il concetto di proletariato, che tenga conto delle trasformazioni avvenute negli ultimi 30 anni e che ruoti attorno al perno delle Comunità proletarie (come punto di riferimento) e di Resistenza all'omologazione culturale e politica che, in nome dell'americanismo imperante, cerca di annacquare le differenze nel calderone della classe unica e indistinta. Conosciamo bene le difficoltà di un discorso del genere, che deve procedere, secondo noi, da una riappropriazione identitaria della classe, di un suo stile, di una sua coscienza, di una sua cultura e di una sua dimensione storico-politica che oggi non ha, frammentata, atomizzata e dispersa com'è. Nelle Comunità proletarie resistenti cosi come le immaginiamo, entrano il nuovo ceto medio impoverito e privo di riferimenti per il futuro, i precari e i disoccupati, così come le categorie tradizionali di riferimento, che insieme devono trovare l'amalgama di una nuova sintesi politica che ne raccolga le aspirazioni. Ma non si può esaurire il discorso senza parlare di liberazione nazionalitaria connessa alle esigenze di liberazione sociale del proletariato in un'epoca in cui le due questioni ancora una volta si intrecciano in modo simbiotico, senza fare riferimento anche all'importanza di contrapporre alla religione del profitto della classe dominante nazionale ed internazionale una nuova idea-forza che sia insieme un messaggio di riscatto sociale, nazionalitaria, antimperialista, anticapitalista, comunitaria e innervata da una forte tensione etica e spirituale, comunista.