Sul manifesto per la Libertà e la Sovranità
1. Abbiamo ricevuto un “Manifesto per le Libertà e Sovranità monetaria, economica, culturale, comunitaria e politica” che come sottotitolo recita: «Come contrastare, abbattere, eliminare e rimuovere il Sistema capitalista. Come combattere il Signoraggio bancario e l’Usura internazionale. Come abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione. Come affrontare e vincere l’imperialismo statunitense. Come liberarci dai banchieri centrali e commerciali. Come fuoriuscire dal Nichilismo occidentale. Come prospettare una Decrescita graduale. Come contrastare le catastrofi ecologiche. Come giungere ad un Mondo multipolare. Come abolire le Imprese multinazionali. Come raggiungere la Giustizia sociale. Come risollevare la nostra Europa» .
Potremmo allora aggiungere: «Come non essere lì per lì d’accordo? Non sono cose che anche noi andiamo dicendo?».
Lì per lì la risposta è positiva, ma in realtà, come vedremo, solo lì per lì, perché la risposta profonda è “No, non possiamo essere d’accordo”.
Già quegli obiettivi ad una seconda lettura iniziano a convincerci poco. Il “Signoraggio bancario e l’Usura internazionale” cosa sono? Qual’è il ruolo dei “banchieri centrali e commerciali”? Perché dovrebbero essere l’obiettivo principale? Che cosa c’entrano con la “proprietà privata dei mezzi di produzione” e con la sua “rimozione”, che come la Storia del Novecento insegna ha portato allo statalismo lassalliano e non al comunismo pensato da Marx? E infine cos’è la “nostra Europa”? Perché dovrebbe essere “nostra”? Perché ci viviamo? perché riconosciamo nella sua civiltà qualcosa di superiore, di irrinunciabile? perché può giocare un ruolo geopolitico?
2. Non è possibile esaminare tutte le tesi di queste fittissime ottanta pagine. Anche perché non sono né ordinate sequenzialmente né ordinate conseguenzialmente. I temi vanno e vengono, spariscono, vengono ripresi sotto altra forma, in una sorta di caos dove sembra che manchi un centro, un nucleo da cui partire.
Ora, la mancanza di un metodo non è di per sé un peccato mortale. Lo diventa quando non permette di districarsi in un ammasso di concetti e pensieri presi un po’ da chiunque, da Marx a Claudio Mutti, passando attraverso ogni pensatore di estrema sinistra o di estrema destra che sia considerato “creativo”, da Giulietto Chiesa e Costanzo Preve a Tiberio Graziani e Alessandra Colla, senza dimenticarsi del Campo Antimperialista.
Ora, anche noi siamo molto interessati ai pensatori di estrema sinistra “creativi” (di quelli di estrema destra ci interessa meno), perché riteniamo che la sinistra tardo-marxista sconti un grave ritardo rimanendo legata a certi concetti ereditati da una gloriosa tradizione e mantenuti ormai per superstizione. Ma la nostra critica al marxismo novecentesco è una critica per superare la crisi del marxismo che si è accompagnata alla sconfitta del comunismo storico, non è l’apertura a tutto e a tutti, non è il trionfo dell’eclettismo. Infatti è una critica che vuole essere marxista, ovvero che segue il metodo di Marx. E qui c’è la prima grande differenza, perché in realtà un metodo gli estensori del “manifesto” ce l’hanno ed è antimarxiano.
Così come hanno un metodo hanno anche un nucleo dal quale iniziare la sua applicazione. Tale nucleo è il concetto di “Moneta” con tutti i suoi annessi e connessi (signoraggio, usura, banchieri centrali e non, oligarchie finanziarie mondiali, eccetera). Il metodo è invece lo sprofondamento dall’apparenza del concreto agli abissi dell’astrattezza, laddove il metodo di Marx – che noi rivendichiamo – è la nota “risalita dall’astratto al concreto”, ovvero la deduzione logica delle categorie interpretative dai rapporti sociali storici.
La differenza si nota subito e in verità subito la fanno notare anche gli autori del “manifesto”:
« … siamo autorizzati a credere che la Moneta-debito per Marx sia l’Essere-economico che dà luce all’ente Merce. Rileggendo con lenti heideggeriane quel passaggio si potrebbe azzardare che – rimanendo sullo sfondo, rivelandosi e nascondendosi al tempo stesso, e lasciando l’intera scena alla Merce – la Moneta venga ridotta all’oblio pur essendo essa il vero centro dell’analisi. Il Feticismo della Merce sarebbe, dunque, il Feticismo del denaro. E Marx, se lo avesse detto e scritto, si sarebbe messo al riparo da questa nostra critica».
Per fortuna che Marx non l’ha detto, commentiamo noi. E non poteva dirlo, proprio perché non partiva da “enti” astratti; e non lo faceva per il semplice fatto che i feticci lui non li adorava ma li svelava come tali. Rimandiamo alle sue Glosse a Wagner dove dice sprezzantemente agli economisti accademici tedeschi: «Prima di tutto, io non parto da “concetti” [...]. Ciò da cui io parto è la forma sociale più semplice in cui si presenta il prodotto del lavoro nell’attuale società, il prodotto in quanto “merce”».
Marx parte dalla merce perché la merce è il momento di sintesi dei rapporti sociali capitalistici. Per Marx il capitalismo non è una cosa, non è un modello di sviluppo, è un rapporto sociale costituitosi storicamente. Essendo un rapporto rovesciato, perché avendo al centro la merce i rapporti sociali sono reificati e i rapporti tra cose sono personificati, esso si basa su un meccanismo invertito che si presenta però come naturale: un feticcio, per l’appunto.
La moneta non può essere dedotta che da questa prima contraddizione, anche se storicamente, come dice Marx in “quel passaggio” di cui parla con rammarico il “Manifesto per le Libertà e Sovranità monetaria …”, il debito pubblico, l’accumulazione di strumenti finanziari, è stato uno strumento potente per sostenere l’iniziale espansione del capitalismo moderno. Ma ci sono stati anche altri strumenti per accumulare mezzi di pagamento. I principali: la rapina del Bengala e poi dell’India intera, che ha trasformato il suo surplus in un debito verso l’Inghilterra, e il commercio triangolare atlantico basato sulla tratta degli schiavi.
3. Se il processo di accumulazione è D-M-D’, è chiaro che il D iniziale deve pur esserci, filogeneticamente e ontogeneticamente. C’è in quanto disponibilità finanziaria “originaria” e rimane nel processo in quanto debito pubblico e credito nazionale e internazionale. Ma l’espansione materiale capitalistica ha il suo nucleo nella contraddizione reale tra valore d’uso e valore (di scambio) immanente alla merce.
Mettere al centro la Moneta è una manovra accattivante in un periodo di finanziarizzazione dell’economia come la nostra. Ma i casi sono due: o si deduce la finanziarizzazione dalle dinamiche capitalistiche reali o si ribalta la direzione della deduzione mettendo alla radice il capitale finanziario, come fanno gli estensori di questo “manifesto”.
A nostro avviso il primo approccio – che per noi è quello giusto – permette essenzialmente solo due varianti, una che chiameremo “ricorsiva” e una che chiameremo “stadiale”.
Secondo quest’ultima la finanziarizzazione è dovuta alla sospensione della legge del valore, per cui il capitale – per cause sociali, come i conflitti di classe – non si può più autovalorizzare col ciclo D-M-D’ e deve ricorrere al ciclo breve D-D’ (la finanziarizzazione, per l’appunto). Il rapporto sociale capitalistico, che si esplica nella produzione di merci e quindi nel ciclo D-M-D’ sarebbe allora tenuto in vita a mo’ di zombie dal “comando capitalistico”. La finanziarizzazione farebbe quindi un tutt’uno con la biopolitica. Questa è la soluzione à la Toni Negri, la più brillante se si rimane strettamente nei canoni marxisti.
La spiegazione “ricorsiva” è data invece da Giovanni Arrighi. Anche Arrighi critica il fatto che «l’attenzione che Marx prestò agli aspetti interni dell’accumulazione del capitale gli impedì di apprezzare la persistente importanza del debito pubblico in un sistema di Stati in costante concorrenza reciproca per la conquista del sostegno dei capitalisti ai loro obiettivi di potere». Ma ciò non ha nulla a che vedere con un mondialismo finanziario. Questa concorrenza si esaspera infatti quando entra in crisi un ciclo sistemico mondiale di espansione materiale egemonizzato dallo scambio politico tra il Potere del Denaro ed un particolare Potere del Territorio (ovvero una fase monocentrica egemonizzata da uno specifico stato-nazione). Queste crisi sistemiche sono caratterizzate dalla sovraccumulazione di capitali accumulati nel ciclo D-M-D’ che quindi devono rivolgersi al ciclo breve D-D’ che è facilitato dalla concorrenza per il capitale mobile tra i vari Stati, principalmente tra i competitor della nazione egemone in declino.
L’unica cosa che resta da capire è se gli effetti accumulati dai precedenti cicli sistemici permetteranno una nuova espansione materiale oppure no. E’ un compito difficilissimo ma il problema sta tutto lì, perché il ciclo D-D’ è un po’ come un elefante che vola, e gli elefanti non possono volare indefinitamente.
Ad ogni modo in nessuno dei due casi, né nell’ipotesi stadiale né in quella ricorsiva, il motore immobile è la Moneta-debito, bensì il motore rombante sono i rapporti sociali conflittuali del capitalismo.
4. Negli estensori del documento in oggetto c’è invece un’ossessione che ricorda troppo da vicino le teorie dei “complotti mondialisti plutocratici” che riteniamo inaccettabili:
«Chi governa il Mondo non è necessariamente chi produce, chi distribuisce o chi consuma Merci, Servizi o Beni. Chi governa i destini del Mondo è colui il quale emette moneta e la presta, anche stabilendo complicità e agendo osmoticamente con le alte sfere del capitale produttivo».
Si noti che chi a sinistra parla di oligarchie finanziarie sovranazionali parla lo stesso linguaggio, che lo voglia o no, che lo sappia o no.
E’ il linguaggio delle apparenze, del Sole che gira attorno alla Terra, che può servire eventualmente per orientarsi solo finché non si ha necessità di vedere il sistema nel suo complesso.
In questo c’è da dire che gli estensori del “manifesto” sono in compagnia di tutta quella sinistra che ha preso sul serio ciò che gli agenti della cosiddetta “globalizzazione” volevano che apparisse:
«Il superamento di questo modello di Sviluppo e di prevaricazione dell’Economia sulla Politica provocherà la fine delle ragioni stesse che muovono un altro dei sintomi del Sistema Occidente: l’imperialismo americano. E’ da sottolineare come quest’ultimo – con la sua capacità di persuasione economica, culturale, politica e, non di rado, militare – sia funzionale al sostentamento dell’Occidente sviluppista, monetarista e consumista. Gli USA difendono il modello di Sviluppo e Progresso sopra esposti. Infatti questo Occidente è americanocentrico».
In altre parole: l’economia capitalistica si è mondializzata e lo stato-nazione chiamato USA è, per sue capacità derivate da non si sa cosa, il fulcro e il garante ideologico, politico e militare di questo capitalismo sovranazionale caratterizzato dalla sudditanza della politica nei confronti dell’economia.
Non si capisce assolutamente da quale cilindro esca questo coniglio americano. Abbiamo capito poco oppure salta veramente fuori dal nulla. In realtà qui siamo nel caos interpretativo, un caos interpretativo di destra che condivide moltissimi elementi col caos interpretativo di almeno il 90% della sinistra. A partire dal concetto sballato di “modello di sviluppo”.
E il caos incomincia dall’inizio:
«Se si vuole indicare in un evento l’esempio in cui banchieri e capitalisti vincolano al Mondo intero i propri comuni interessi, noi indichiamo Bretton Woods, anno 1944. Quella non fu soltanto una Conferenza in cui si stabilirono delle regole sulla Politica monetaria internazionale, ma fu anche una Conferenza che stabilì degli Accordi per liberalizzare il Commercio internazionale».
Niente di tutto ciò.
Durante la Conferenza di Bretton Woods i banchieri nemmeno c’erano. Quegli accordi gettarono le basi per il rilancio dell’espansione economica mondiale postbellica sotto l’egemonia “armata di coercizione” degli USA ribaltando le basi costitutive storiche del sistema di produzione del denaro mondiale, in un senso contrario a quel che sostengono gli estensori del “manifesto”: di fatto il controllo della sua produzione e della sua gestione fu tolto dalle mani dei banchieri e dei finanzieri privati e messo in quelle di una gerarchia di organizzazione governative capitanate dagli Stati Uniti.
Bretton Woods fu all’insegna del fenomeno che caratterizzò tutto il periodo prebellico, ovvero il ritorno dopo la crisi del ’29 del controllo della politica sulla finanza, implementato negli USA dal New Deal, in Italia dal fascismo, in Germania dal nazismo e in Unione Sovietica dai piani quinquennali.
Per lo stesso motivo non ci fu nessun accordo di liberalizzazione del commercio internazionale. Il Congresso USA era persino restio ad accordi bilaterali e a fatica nel 1947 si arrivò al GATT. Il libero scambio di merci e capitali fu qualcosa di sconosciuto per tutto il ventennio di espansione che seguì la fine della II Guerra Mondiale.
Finché si arrivò alla dichiarazione di Nixon della inconvertibilità del dollaro in oro il 15 agosto del 1971. Quel giorno gli USA, sfidando il fatto che stavano perdendo la guerra del Vietnam e con essa la possibilità di penetrare in profondità in Asia, dichiararono che la finzione della parità del dollaro con l’oro era finita e che il sistema internazionale si reggeva solo sulla potenza statunitense.
Gli estensori hanno un bel criticare Marx perché non si sarebbe accorto dell’enorme grado di indipendenza della Moneta-debito, ma la vera storia della Moneta-debito inizia quel giorno di Ferragosto, non poteva esserci ai tempi di Marx quando la base aurea riportava violentemente in riga il sistema monetario internazionale.
5. Dopo il cosiddetto Nixon Shock iniziava un periodo di scosse di assestamento che avrebbe portato ad un fatto totalmente inedito nella Storia: lo standard monetario internazionale era diventato un debito pubblico; il debito pubblico americano nei cui titoli, preferibilmente illiquidi, doveva essere convertito il surplus mondiale.
Il Nixon Shock era il segnale che il ciclo sistemico di accumulazione coordinato dagli Stati Uniti era entrato in crisi. I capitali sovraccumulati, abbandonando gli investimenti in commercio e industria e intrecciandosi con quei petrodollari che non venivano investiti in sistemi d’arma statunitensi, diedero vita al commercio di eurovaluta, cioè di dollari che sfuggivano al controllo delle banche centrali.
Per almeno sette anni il Governo Federale cercò di fare la guerra ai banchieri della City e di Wall Street immettendo nel sistema mondiale un crescente flusso di dollari (ormai stampabili a volontà) dando così luogo a quel fenomeno che nessun libro di economia prevedeva: la stagflazione. Poi nell’ultimo anno della presidenza Carter e più decisamente con Reagan, capì che quella guerra avrebbe portato alla rovina congiunta sia la potenza statunitense sia i propri capitalisti, industriali e finanziari.
Nacque la reaganomics, si proclamò la deregulation, si iniziò una deflazione spaventosa, gli investimenti per le Guerre Stellari attrassero capitali da tutto il mondo e si avviò la “globalizzazione”, cioè la più grande rapina di ricchezza mai avvenuta nella Storia, basata sull’imposizione alle altre nazioni degli “aggiustamenti strutturali”, tramite FMI e Banca Mondiale, basati sulla svendita dei settori pubblici e degli asset strategici dei Paesi bersaglio. Ciò succedeva con violenza nei Paesi debitori del Terzo Mondo, succedeva nella Russia cleptocratica di Yeltsin con milioni di morti per indigenza e succedeva anche in Europa Occidentale. In Italia fu ciò che caratterizzò i governi della Seconda Repubblica, a partire da quelli Amato e Ciampi, con una dedizione particolarmente canina da parte dei governi di centrosinistra i cui leader si estasiarono davanti alle politiche economiche che i Chicago Boys avevano sperimentato la prima volta in Cile sotto la protezione del golpista fascista Pinochet. Prima di accusare gli altri di non essere più sensibili alla distinzione destra-sinistra qualcuno dovrebbe accorgersi del trave nel proprio occhio!
Gli USA, il più grande Paese debitore del mondo, si proclamarono autoimmuni da ogni necessità di aggiustamento strutturale. Anzi, il loro compito era quello di incrementare il disavanzo commerciale e il proprio debito pubblico e di cercare i temibili avversari di turno per ricavare quella legittimità di “Paese indispensabile” sul quale si sosteneva tutto il sistema.
Ci fu l’11 settembre e il Grande Nemico Internazionale fu trovato. Un nemico perfetto, perché indefinibile e perpetuo.
6. Questa è stata la cosiddetta “globalizzazione”, un tentativo di gestire la crisi sistemica statunitense soggiogando il resto del mondo a un dominio di carattere imperiale. Si ha dunque un generale asservimento della politica al potere del denaro proprio perché esso è imposto da una superpotenza dove quell’asservimento non c’è ma dove al contrario si è ristabilito uno scambio politico tra i due tipi di poteri.
Se di “signoraggio” si vuole parlare allora si deve parlare di questo signoraggio imperiale. Il resto sono al più tecnicalità.
Così come sono effetti di queste dinamiche il cosiddetto “iperconsumo” e il percepito strapotere delle multinazionali (che in realtà hanno come necessità fondamentale quella di farsi la guerra l’un l’altra, ognuna appoggiandosi ai propri rispettivi poteri territoriali – quando la Boeing e Airbus litigano non lo fanno con i propri amministratori delegati, ma con i propri esponenti politici di altissimo rango).
Qui stiamo oltretutto parlando solo di meno della metà dell’umanità, e di una congiuntura particolare.
Cosa avviene invece, ad esempio, nell’Oriente asiatico, dove c’è la più grande concentrazione operaia di tutti i tempi? Quanto di queste analisi, quanto di queste categorie – iperconsumo, finanziarizzazione, nichilismo, eccetera – si adatta a quei popolosissimi Paesi?
E ancora, come fare per contrastare il feroce egemonismo statunitense e arrivare ad un mondo multipolare?
Gli estensori del “manifesto” contrappongono alla cosiddetta mondializzazione, che è descritta come una sorta di congiura di banchieri e capitalisti sovranazionali, il richiamo alla tradizione, il legame con la terra, la specificità culturale. E lo fanno in un modo che ricorda il culto del Blut und Boden.
Per noi su questo punto le cose stanno in un modo ben differente.
E’ evidente che in questo tipo di crisi se non si vuole gridare nel deserto non si può fare politica senza sporcarsi le mani con i concetti di “nazione” e di “territorio”. David Harvey e Giovanni Arrighi hanno sostenuto che addirittura non si può parlare di capitalismo senza usare quelle due nozioni e quindi senza fare i conti con esse non si può parlare nemmeno di anticapitalismo e di antimperialismo.
Se ciò è vero, allora è evidente il pericolo. Il marxismo ha quasi sempre lasciato ai suoi avversari questi punti centrali. Un po’ per un legittimo rifiuto del nazionalismo razzista imperialistico e coloniale, ma più che altro perché scambiando il modello del “modo di produzione capitalistico” con la complessità del reale, la tradizione marxista non ha visto altro che l’internazionalismo proletario e la rivoluzione mondiale. Ci volle il realismo di Lenin – che pure credeva in entrambe le cose – per criticare l’ostilità di due grandi rivoluzionari come Rosa Luxemburg e Karl Radek all’idea di “autodeterminazione delle nazioni”.
Siamo ben consapevoli che il concetto di “sovranità nazionale”, nelle sue varie declinazioni che dipendono dalla posizione del Paese nella gerarchia imperiale, immette inevitabilmente in circolo elementi come “nazione” e “territorio”, “cultura” e “tradizione”. Il problema è allora come non rimanerne intossicati. E per non rimanerne intossicati c’è un solo modo: affrontarli in un’ottica marxista e leninista rinnovata, ovverosia che guardi da qui in avanti e non indietro. Non bastano gli scongiuri, non bastano i “guaritori” che ripetono le litanie della lotta di classe o della ribellione degli oppressi, agitando amuleti a forma di falce e martello. Se vogliamo rimanere puri e incontaminati possiamo farlo. Si sappia però che non riusciremmo mai a capire perché l’internazionalista Che Guevara usasse come slogan “Patria o muerte” esattamente come fanno oggi i Paesi dell’America Bolivariana, o perché i combattenti del Fronte di Liberazione Nazionale algerino e i Vietcong lottassero per l’indipendenza nazionale, o perché il progenitore dell’internazionalismo proletario, Marx, criticasse duramente l’internazionalismo dei prudhoniani francesi ritenendolo in realtà un sostegno dello sciovinismo francese: «Per negazione delle nazionalità, essi, a quanto pare, intendono inconsapevolmente l’assorbimento di nazionalità da parte della nazione francese modello» (mettete “americano” al posto di “francese” e vedrete come questa accusa si adatti perfettamente oggi).
Si sappia anche, cosa più importante, che la nostra “purezza” permetterebbe solo due alternative: o il rischio di consegnare le prossime mosse a una forza decisamente reazionaria (di cui la Lega è una prefigurazione, grazie al cielo autoconfinata in una piccola parte del territorio nazionale); oppure il rischio di lasciare che questi due orribili schieramenti continuino a spadroneggiare, ora l’uno ora l’altro o in condominio, protetti dai loro padrini statunitensi.
Se invece vogliamo affrontare seriamente il problema dobbiamo essere consci dei rischi, delle poste in gioco pratiche e teoriche, delle differenze nette ma anche delle sottili linee rosse di demarcazione. Inutile nasconderselo: si camminerà su territori che quando va bene non sono di nessuno, ma spesso sono borderline, veri e propri campi minati.
Ma è un lavoro necessario per tentare di evitare catastrofi come quelle già viste nella prima parte del secolo scorso, quando la sottovalutazione di questi fattori aprì le porte alla soluzione nazista. Un lavoro poco piacevole, duro e che espone ad accuse grossolane e demagogiche. Che possiamo rispedire al mittente, perché presidiare i confini di regni di cui si vuole evitare l’invasione, non significa, come è evidente, servire il miserevole apparato pseudo-teorico dell’avversario, ma al contrario guardare nella direzione da cui viene il pericolo reale e non andare invece a combattere i mulini a vento dalla parte opposta.
Si tratta di capire che lo stato-nazione è un terreno favorevole alle classi subalterne, mentre i rimandi ad istanze sovranazionali incontrollabili (per ultima il dio remoto della “mano invisibile del mercato”) e il cosmopolitismo sono un terreno più favorevole al capitalismo e alla sua grande mobilità transnazionale.
Tutto ciò non significa nessun culto della tradizione, della terra e della nazione, che sono elementi transitori con una parabola che si compie nella Storia. Senza contare che la suddivisione degli uomini tra quegli elementi può essere tanto un’arma di difesa contro l’anomia capitalistica, quanto viceversa un’arma di attacco del capitalismo per imporre e riprodurre il proprio rapporto sociale. Le infinite storie di “balcanizzazioni” perpetrate o tentate dall’imperialismo ne sono testimonianza.
Ne consegue che la lettura heideggeriana che fanno di ciò gli estensori del manifesto che stiamo esaminando va proprio nella direzione da non prendere.
Infatti qui la riduzione della realtà all’Esserci, cioè al soggetto, fa piazza pulita della sostanza e quindi di ogni ontologia degna di questo nome. Questa distruzione di ogni distinzione entra a gamba tesa sull’oggetto e trasforma le categorie marxiane in categorie esistenziali soggettive, non a caso adorate da chi – tanto a destra quanto a sinistra – usa sostituire il proprio approccio soggettivo all’oggetto da esaminare. Così, chi governa le forze produttive, lo Stato, il Partito, le multinazionali, i tecnocrati, o addirittura le forze produttive stesse in quanto tecno-scienza, e via così a seconda dell’avversario di turno, non potrà essere concepito che come la sintesi di un “Esserci” manipolatorio e totalizzante che domina su una società caratterizzata dalla “dispersione nel Si-stesso” totalizzato e manipolato, un aggregato di singoli individui esistenzialmente dominati, alienati, al quale contrapporre una contro-alienazione soggettiva che quindi può assumere ogni forma, anche quelle sgradevoli già sperimentate nella Storia.
Rivista Comunismo e Comunità
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