Costanzo Preve, Marx inattuale. Eredità e prospettiva
Bollati Borighieri, Torino 2004
Secondo Preve, il pensiero di Marx nasce da un orientamento a rinunciare alla teoresi, intesa come specifica ricerca della verità, fondante ogni particolare scienza particolare e ogni scelta di carattere pratico, e a privilegiare lo studio scientifico e la critica dialettica dell’economia politica inglese, al fine di individuare, nell’emergente realtà capitalista, le condizioni materiali e concrete per una rivoluzione sociale che consentisse di sopprimere l’alienazione reale. Gli elementi filosofici, maturati attorno alle riflessioni giovanili sul problema dell’alienazione, che si innestavano organicamente sulle linee di pensiero della filosofia classica tedesca, vengono volutamente lasciati incompiuti, a favore di una scelta di prassi rivoluzionaria, considerata da Marx di primaria importanza di fronte ad un presunto conservatorismo politico della filosofia di Hegel, all’inconcludenza di Bauer e della sinistra hegeliana, all’urgenza della situazione storica, sentita dal giovane intellettuale di Treveri come matura per un salto di qualità rivoluzionario, come “gravida di rivoluzione”.
Ne scaturisce una teoria dei modi di produzione e una visione dialettica della storia e del capitalismo, fondate scientificamente ma non filosoficamente. Ciò significa che il materialismo storico è privo di una riflessione fondante di carattere veritativo –tipica invece della filosofia greca e dei classici tedeschi-; la sola che gli consentirebbe di contenere in sé quegli elementi di assolutezza, in grado di sollevarne i valori espressi al di sopra di ogni relativismo storico.
Aggiungiamo che la questione dell’assolutezza del sapere non è sconosciuta all’interno del marxismo ed è tutt’altro che accademica. Lukàcs la solleva con chiarezza ne Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista, in modo specifico nei capitoli dedicati alla Fenomenologia dello spirito. Ivi sostiene apertamente che il sapere umano deve avere in sé elementi di assolutezza, che lo sottraggano al cambiamento dei tempi e creino quindi un quadro teorico valido universalmente, capace di orientare gli uomini al di là del cambiamento storico e geografico di teorie, culture, mode e quant’altro. Se, nella vita quotidiana come in quella pubblica, si può far riferimento a principi di valore assoluto, ad una verità –posta naturalmente all’interno di un circolo ermeneutico che consenta il libero dialogo fra opinioni veritative diverse-, ci si può sottrarre più facilmente ai condizionamenti culturali dei sistemi sociali di appartenenza e ai mutamenti opportunistici della politica.
Questo non è certo accaduto al mitico “movimento operaio socialista e comunista”! Per capirlo, senza troppe parafrasi, è sufficiente guardare le immagini delle code chilometriche di auto sulle autostrade di agosto –spesso sorrette da debiti contratti ad hoc pur di poter “fare le ferie”- e ricostruire le vicende politiche di personaggi come Eltsin, Putin, Ferrara, D’Alema, ecc.
In questo saggio, Costanzo Preve cerca anche di capire i motivi più profondi di quanto è storicamente accaduto, soprattutto dopo il 1989. In sostanza, secondo la sua opinione, il pensiero di Marx si muove sul terreno del nichilismo filosofico, rinnegando la grande tradizione teoretica greca e occidentale, e genera, con ciò, gli spazi storico-culturali per la sua sostanziale riduzione, sin dagl’anni del tardo Engels e della II Internazionale, ad ideologia semireligiosa del movimento operaio; un’ideologia fondata su uno storicismo determinista e unilineare, speculare a quello del pensiero borghese sia illuministico che positivistico, paragonato dall’autore ad una linea ferroviaria con itinerario prefissato.
La storia diventa una successione di modi di produzione, espressiva di paradigmi teorici e valori culturali diversi, legittimi su basi storiche, mossa oggettivamente da elementi economici, con una meta finale inevitabile per tutti i paesi del pianeta, come oggi lo sarebbero la globalizzazione neoliberista e la società americanizzata. Dopo la partenza dal comunismo primitivo, si passa per le stazioni dello schiavismo e del feudalesimo; successivamente è necessità che tutte le nazioni
passino a quelle del capitalismo per approdare alla meta ultima del comunismo maturo, che distribuirà secondo i bisogni.
I risvolti culturali e politici più immediati di questa versione del materialismo storico sono l’ottimismo psicologico e l’immobilismo politico di militanti e quadri dirigenti della II Internazionale; le conseguenze di più ampio respiro sono le mentalità camaleotiche, l’adattamento al mutamento dei tempi, di togliattiani, posttogliattiani, postsovietici, che rivelano una povertà sconcertante di valori forti, compendiata dall’immagine televisiva dell’ex numero uno del comunismo internazionale, Michael Gorbacev, che pubblicizza la pizza americana. Com’è stato possibile questo itinerario dal Cremlino alla pizza? Dai valori della “solidarietà socialista” a quelli del più triviale consumismo capitalista? Ci sarebbero in fondo modi più dignitosi per vivere e dialettizzare una sconfitta storica di simili proporzioni!
Sulla base del paradigma ermeneutico, che abbiamo tentato di sintetizzare succintamente, Preve ricostruisce analiticamente gli aspetti essenziali del pensiero di Marx e le posizioni teoriche che ne discendono, ricostruendo anche, con rara chiarezza esaustiva e senso dell’umorismo, i caratteri dei vari “marxismi” del novecento.
Nello specifico, gli orientamenti teorici, variamente comuni a tutte le correnti di pensiero ispirate da Marx, e contenute nella versione deterministica del suo materialismo storico, sono tre: lo storicismo, che riduce l’intera realtà umana a storia unilineare, l’economicismo, che conferisce assoluta centralità e indipendenza ai movimenti dell’economia, l’utopismo, che postula il comunismo quale meta finale e necessaria di questo processo storico deterministico, risultato dell’automovimento dialettico del capitalismo.
In questo contesto spiccano negativamente soprattutto la teoria del crollo spontaneo del capitalismo e del carattere rivoluzionario della classe operaia. La conclusione dell’autore è che il pensiero di Marx potrebbe ancora essere un riferimento valido, a patto di abbandonare completamente questi paradigmi teorici e di fondarlo filosoficamente sulla base di “una concezione ontologico-sociale di umanità”, che si alimenti dalle migliori riflessioni di Marx sulla natura e sulla libertà umane, riprendendo le intuizioni dell’Ontologia dell’essere sociale di Lukàcs (autore di cui, non casualmente, Preve è esperto di livello internazionale).
In questo direzione, nel libro, si pone in luce che una delle radici del pensiero di Marx è la tradizione greca che faceva dell’anima “il fondamento della verità”; e ciò apre in Marx lo spazio “per due teorie, una teoria della natura umana e una teoria dell’individualità umana”. Aspetti del pensiero marxiano analiticamente ricostruiti a partire dal commento di un passo fondamentale dei Grudrisse, in cui Marx evoca un comunismo quale condizione di piena libertà dell’individuo da ogni condizionamento sociale.
La prima teoria fa di Marx il teorico della possibilità di costruire un’ampia varietà di modelli sociali (e non il macchinista della locomotiva della storia), in base all’idea dell’uomo in quanto essere generico, non preordinato, dalla sua specifica struttura materiale, a date e sempre identiche modalità di vita e attività costruttive, come lo sono ad esempio le api che vivono in società e lavorano ma sempre e solo in un dato modo: creando un alveare e trasformando il polline in miele o cera. L’uomo può cambiare le sue attività lavorative, le sue creazioni e le sue forme sociali.
La seconda teoria lo erige a teorico della libertà più autentica e non del livellamento, come del resto aveva già riconosciuto, a suo tempo, Galvano Della Volpe. Su questo terreno, il filosofo di Treveri costituirebbe il più alto momento di elaborazione del concetto di libertà dell’uomo della storia universale. Gli stessi greci infatti –cui Preve riconosce un primato filosofico tutt’ora non superato- rimangono ancora legati alla concezione dell’individuo come persona, maschera di carattere, individuo socialmente condizionato; mentre il pensiero borghese si limita a pensare la libertà in termini di semplice indipendenza formale rispetto ai ruoli sociali prefissati delle società tradizionali, ma ponendola sempre entro rapporti di dipendenza materiale.
Marx sviluppa materialisticamente e porta a compimento l’eredità della migliore Filosofia Classica Tedesca, elaborando un coerente “individualismo sociale”. Nessuno prima di lui avrebbe mai pensato, con questa radicalità, ad un’individualità umana reale, originale e irripetibile, radicata e
organizzata necessariamente in società, solidale con ogni altra individualità, posta da questa stessa società solidaristica nelle condizioni di poter sviluppare, in piena indipendenza da ogni condizionamento eteronomo, ogni aspetto della propria personalità. Nessuno avrebbe posto il passaggio ad una simile comunità di uomini effettualmente liberi, al di fuori di ogni alienazione, al centro della propria attività politica, credendolo pienamente realizzabile nella storia e lavorando per costruire attorno a questo obiettivo un movimento reale di forze sociali organizzate. Questo radicale “individualismo sociale” è, secondo Preve, l’aspetto più rilevante e più fondante del pensiero marxiano, che si collega strettamente alle sue riflessioni giovanili sul problema dell’alienazione e sulla natura umana, ma anche quello più misconosciuto da tutte le sua successive formulazioni.
Ponendo in rilievo la centralità, nel pensiero marxiano, di queste due teorie, il marxismo riassume attualità sia come critica strutturale dei ruoli sociali, che si alimenta dall’ampia conoscenza che Marx aveva dei classici della letteratura universale, sia come teoria della libertà individuale; una libertà ben distinta dall’individualismo borghese, nato sul terreno dell’utilitarismo e dell’egoismo economico.
In questo contesto, Preve fa due considerazioni che rendono ancor più profondo, di quello che non fosse nelle pagine precedenti, il fossato che separa Marx dai marxismi successivi.
In primo luogo, in base alla riflessione antropologica citata, che scorre coerente in tutte le fase del suo pensiero, come aveva già visto Garaudy, l’uomo è in sé soggetto libero, non preordinato a nulla dalla sua struttura materiale specifica, quindi è in grado di esprimere potenzialmente un’infinita varietà di attività lavorative –come dimostrato dalla storia- e di forme sociale. Se non c’è nulla, nella sua natura, che lo costringa a produrre entro un rapporto sociale di servaggio, piuttosto che entro un rapporto di libertà, neppure sul piano storico, è preordinato in base alle presunte “moire” dell’economia che debba passare dal capitalismo al comunismo, o che il capitalismo stesso sia una fase storica necessaria per i popoli che non lo hanno mai conosciuto, come i popoli aborigini dell’australia tutt’ora, o i popoli asiatici del XIX secolo.
L’uomo, come del resto molti esponenti del movimento operaio -marxisti e marxisti- avevano cercato di affermare ad inizio secolo, in reazione al determinismo della II Internazionale, da Lenin stesso al Mussolini del 1914, interagisce liberamente, con le proprie azioni organizzate, sui condizionamenti sociali e sugli eventi storici, cercando di utilizzarli nel quadro delle proprie strategie politiche di cambiamento. Com’è nata la Rivoluzione d’Ottobre –rivoluzione contro “Il Capitale”, secondo il giovane Gramsci, ancora influenzato dall’attualismo gentiliano- se non da una libera interazione fra l’azione politica del quadro dirigente del partito bolscevico, le contraddizioni della società zarista e i contraccolpi disastrosi della guerra?
Dunque la categoria centrale di Marx, partendo dal piano antropologico –quello che, secondo Preve, dovrebbe essere ripreso e fondato teoreticamente con più coerenza da un’ontologia sociale e storica dell’uomo- , non è la necessità ma la possibilità come potenza aristotelica, essente-inpossibilità. In questo senso, è nelle possibilità del capitalismo di essere il terreno di coltura del comunismo, a patto che i comunisti sappiano creare una coscienza collettiva che ne renda attraente l’idea, di fronte alle contradddizioni dell’esistente.
In secondo luogo Marx è pensatore di una forma di libertà individuale che non si può confondere con l’ndividualismo borghese, neppure nelle varianti estreme che esso ha assunto oggi, con quella che Del Noce chiamava la “rivoluzione radicale”; anzi ne è l’antitesi. E su questo terreno tornano ad essere posti sotto accusa i marxismi, in modo particolare quelli radicati nella grande pagliacciata del ’68 e nei velleitarismo democratici del comunismo occidentale. Questi e ad altri marxismi non hanno mai compreso la particolarità dell’individualismo sociale di Marx e lo hanno confuso con le nuove forme di individualismo borghese, sorte con il passaggio dall’autoritarismo patriarcale alla rivoluzione radicale, e che attraevano spontaneamente il mondo giovanile e femminile: sesso libero, viaggi liberi, musica stravagante, ecc. Su questi comodi fraintendimenti teorici, sulla confusione culturale fra la libertà del comunista e l’orgasmo onanista della femminista, si è poi innestata una precisa, semplicistica e forse anche squallida operazione politica: fare di questa ondata di individualismo radicale e di Pannella il fondamento antropologico-culturale della “Via italiana al
socialismo”. I risultati finali sono, da un lato, la correttezza istituzionale e furbesca di Violante, dall’altro lato, i tossici dei “centri sociali”.
Scrive Preve: “Il marxismo storicista italiano dell’ultimo cinquantennio non ha mai capito letteralmente nulla di questo elementare problema, con la tragicomica conseguenza di scambiare la modernizzazione dell’individualismo borghese nel suo passaggio dall’autoritarismo patriarcale alla liberalizzazione ‘radicale’ (nel senso di Pannella, non di Marx) con la progressiva avanzata storicista della via italiana al socialismo. Si tratta di una vera vergogna culturale nazionale, di cui provo veramente imbarazzo…Il solo pensatore italiano che ci ha capito qualcosa è stato Augusto Del Noce … aveva capito … che la dinamica della modernizzazione radicale del costume non portava assolutamente a un avvicinamento alla transizione parlamentare al socialismo sognata dai visitatori dei Festival dell’Unità, ma al più sicuro e solido assestamento delle società ultracapitaliste”.
Nell’analisi di Preve ci sono però, a nostro personale modo di vedere, due convitati di pietra, cioè due questioni di primaria importanza che rimangono sullo sfondo e non vengono prese in esame. La prima è la dialettica fra l’Illuminismo e il pensiero di Rousseau, che si travasa in gran parte nel giacobinismo francese del 1793. La seconda è il modo in cui Marx vi si rapporta, nella riflessione teorica e nell’azione politica, fra il 1843 e il 1848, anni che vedono anche il conflitto con Weitling all’interno della Lega dei Comunisti tedeschi.
L’Illuminismo, sin dai suoi prodromi greci con la scuola dei Sofisti, pone un problema reale di emancipazione dell’uomo ad una condizione di maturità razionale, in base alla quale ogni individuo valuta liberamente credenze e istituzioni cui aderire. Storicamente, sin dall’età di Pericle, questa esigenza di libertà cresce entro forme economiche mercantili avanzate e ne è condizionata fortemente, assumendo l’aspetto dell’ “individualismo possessivo” –per usare l’efficace terminologia di Macpherson: una cultura tendenzialmente individualista e utilitarista che nega il valore di ogni seria esperienza religiosa umana e, quindi, di fatto, si fonda su un’antropologia materialistica e sensista, come quella di Protagora –nell’interpretazione di Platone- e di Hobbes. Fra sei e settecento, l’ascesa del capitalismo e la modernità borghese si legano a questa linea di pensiero che pensa l’uomo come un “bourgeois” mandevilliano, ripiegato egoisticamente sui propri interessi materiali, entro rapporti sociali esasperatamente individualistici, alienanti e conflittuali. Rispetto ad essa, il pensiero di Rousseau rappresenta un tentativo di far rientrare l’uomo entro valori di integrazione comunitaria, tipici delle società e delle culture tradizionali, fondati su basi religiose. Si tratta di una reazione critica alla modernità borghese e illuminista, che confluirà nell’ideologia giacobina del “citoyen”, radicata in una profonda esigenza di spiritualità che già rendeva la figura di Robespierre invisa ai contemporanei inbevuti di illuminismo ateo (come Danton o Fouché), e a storici di orientamento radicaldemocratico come Michelet od Aulard, che lo accusano di aver impedito la liquidazione del cattolicesimo in Francia, considerata la finalità politica ultima di Voltaire e del movimento dei Lumi.
Che Robespierre sia uno spiritualista ed abbia una visione rivoluzionaria comunitaria e sociale, fondata su una fede religiosa, il cui momento culminante sarà l’istituzione in Francia del culto ufficiale dell’Essere Supremo, è, a nostro giudizio, un dato storico non più confutabili, a partire dal saggio di Henri Guillemin, Robespierre politico e mistico (Garzanti, Milano 1989). Ma sono orientamenti mediati dal pensiero di Rousseau, che sin dalla loro origine si muovevano in polemica esplicita e consapevole con la filosofia del Lumi e con i valori del “bourgeois”, di cui essa era portatrice, sulla scia del giusnaturalismo di Locke e sulla base dell’emergente, sempre più impetuoso sviluppo delle forze produttive capitalistiche.
Di conseguenza le dicotomia Voltaire-Rousseau, Girondini e Giacobini non possono essere inquadrate entro la comoda contrapposizione libertà-uguaglianza, interna al razionalismo illuminista, ancora dominante nelle pigre vulgate accademiche, sia di destra, sia di sinistra, accomunate dal rifiuto pregiudiziale di riconoscere il carattere alternativo radicale della filosofia di Rousseau, rispetto all’Illuminismo, e conseguentemente della visione rivouzionaria robespierrista, condivisa da Saint Just, rispetto alla prospettiva di rivoluzione liberale e giacobina, incarnata dalla Gironda e dai Termidoriani.
Queste considerazioni non sono lontane dall’argomento di questa recensione, per quattro fondamentali motivi. In primo luogo, con il babeuvismo e Buonarroti, il robespierrismo, con tutte le esigenze di virtuosità, di ascetismo spirituale, di semplicità di vita e con tutti i limiti di arcaismo, di cui esso è portatore, rappresenta la cultura dominante del movimento socialista francese del primo ottocento. Fa sentire la sua influenza decisiva anche nelle correnti originarie del comunismo tedesco con Weitling, che ne è palesemente inbevuto. Sino al 1848, il solo Proudhon fa sentire una voce contraria a questa impostazione rousseauiana e giacobina; una voce radicata nell’Illuminismo e nel liberalismo più autentico, che l’aveva sottoposta a critica con B.Constant, nel 1819, nel nome della libertà dei moderni contrapposta a quella degli antichi.
In secondo luogo, Marx, che è, per parte di padre, di formazione mentale illuminista, nella Questione ebraica, miconosce l’alternatività di Rousseau rispetto all’Illuminismo e del giacobinismo rispetto alla rivoluzione liberale e borghese, impostando la dicotomia interpretativa citata libertà-uguaglianza, 1789 liberale contro 1793 egualitario e democratico, su cui è ancora comodamente e pigramente adagiata quasi tutta la sinistra politica e culturale. Rousseau e Robespierre sono dunque la componente più radicale e contraddittoria del pensiero illuminista. In questo ordine di idee non ci sono motivi per predere sul serio le loro istanze religiose: o sono sottaciute, o vengono minimizzate e razionalizzate, classificate sic et simpliciter come espressioni di deismo, come fatto dallo stesso A.Mathièz.
Con ciò si arriva direttamente alla terza considerazione: Marx ha una visione riduttiva dell’esperienza religiosa, come esperienza alienante, espressione di una società alienante; e ciò è molto chiaro proprio nella già citata Questione ebraica. Di conseguenza, la proprosta di una forma di libertà superiore a quella borghese viene esplicitamente fondata sull’ateismo, sulla tendenza distruttiva ad abbattere e a sradicare ogni tradizione religiosa, che richiama proprio l’Illuminismo più astratto, quello che spingeva un D’Alema ante litteram come Fouché a scrivere, sul portone d’ingresso dei cimiteri, “la morte è un sonno eterno”; iniziativa che trovò il suo critico più intransigente in Robespierre, che la denuncia con forza nel grande rapporto, tenuto alla Convenzione Nazionale, il 20 Pratile, sull’istituzione della Festa dell’Essere Supremo.
In quarto luogo, Marx, contrapponendosi a Weitling fra il 1846 e il 1848, ebbe un ruolo essenziale nel distruggere l’egemonia giacobina all’interno del primo comunismo tedesco, con le ricadute a catena che si possono immaginare su tutto il movimento europeo, dato il primato che il suo pensiero vi conseguirà a distanza di alcuni decenni. La contrapposizione fu fra volontarismo puro e radicamento nella realtà storica, fra utopia e scienza, ma anche fra una cultura sentimentale, misticheggiante, premoderna e una cultura fortemente razionalista e scientista, dichiaratamente ostile ai valori religiosi, marchiata dall’Illuminismo più astratto e voltairiano. Ne può conseguire, ove s’indeboliscono la componente dialettica di Marx, l’eredità etica e comunitaria dei Classici Tedeschi, una mentalità affine a quella borghese, aperta a valorizzare tutto ciò che è progresso o presunto tale, scienza, tecnica moderna, liberazione da tradizioni ancestrali, ecc. E allora perchè, se la storia ha conquistato lo stato laico, consentire alle ragazze musulmane il velo a scuola? Perchè non ingaggiare una furiosa battaglia politica contro i cattolici, per consentire lo svolgimento del Gay pride a Roma, in pieno Anno Santo, salvo poi recriminare sulle loro scelte elettorali l’anno successivo?
Naturalmente queste nostre considerazioni non pretendono esaustività e non tolgono nulla al valore dell’opera di Preve. Sono solo uno dei tanti tasselli del mosaico della storia del pensiero e della cultura umane, in questo caso relativa agli ultimi tre secoli e al marxismo, sui quali riflettere, dando sempre per scontata la grande lezione di Hegel: il Vero è il Tutto, non esiste mai una sola e singola causa di un evento, piccolo e grande che sia.
Prof. Renato Pallavidini
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