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mercoledì 4 gennaio 2012

Una recente moda filosofica: il nuovo realismo (new realism).



Note di interpretazione.

di Costanzo Preve



1. Ai primi di dicembre 2011, in contemporanea con il commissionamento della politica italiana da parte della giunta Monti (filosoficamente interpretabile come il passaggio dall'illusionismo idealistico di Berlusconi al realismo materialistico di Monti) si è tenuto a Torino un convegno di lancio pubblicitario di un nuovo brand filosofico, il nuovo realismo, definito direttamente in inglese new realism per piacere subito ai padroni imperiali americani, che oltre ad avere sport nazionali (baseball e football americano) hanno anche ovviamente una filosofia nazionale, la filosofia analitica. Il padrone di casa era Maurizio Ferraris, vecchio allievo di Vattimo che ovviamente ha ucciso il padre (come fanno regolarmente i filosofi, Giorello con Geymonat, Rovarotti con Paci, Vattimo ed Eco con Pareyson, eccetera). Presenti anche molti membri del jet-set colto italiano, dal bobbiano di regime Zagrebelski al moralista antiberlusconiano ed antiratzingeriano Flores d'Arcais fino al prezzemolo di incontri come questo, il pagliaccio Umberto Eco.


Non vado mai a fare lo spettatore passivo di questi riti accademici di intellettuali. Ma commentarle questo sì. E mi sembra anche giusto.






2. Una premessa. Nonostante la stima personale che nutro per la commentatrice torinese Franca d'Agostini (di cui si legga l'educata stroncatura del convegno in "Repubblica", 7/12/2011), non condivido la messa sullo stesso piano dei cosiddetti "continentali" e dei cosiddetti "analitici". Si tratta di una bestemmia preventiva e di uno in proiezione subalterna del peggior americanismo. I cosiddetti "continentali" sono la sola ed unica filosofia esistente al mondo, la philosophia perennis, che nasce con i greci, passa attraverso l'esperienza cristiana ed infine sfocia in giganti come Spinoza, Kant, Fichte, Hegel, e Marx. I cosiddetti "analitici" sono una curiosa ed irrilevante scuola britannica, esito dialettico dello scetticismo, dell'empirismo e dell'utilitarismo, che si caratterizza per trattare da "oggetti" sia i concetti astratti sia gli oggetti concreti, e che ha come logica immanente la delegittimazione radicale di qualunque universale normativo, in modo che di fatto l'unica universalità normativa rimasta possa essere il dominio totalitario dei mercati economici. Che questo sia già stato chiaro ai suoi fondatori, ad esempio il secondo Wittgenstein, non lo credo. Probabilmente Wittgenstein voleva esercitare una terapia antimetafisica del linguaggio, perché veniva dalla generazione sciagurata degli anni Venti che credeva in buona fede che la metafisica fosse stata responsabile indiretta dello scoppio della prima guerra mondiale. Ma l'inferno è lastricato di buone intenzioni.


Nessuno mi può chiedere di prendere sul serio la teoria della razza di Rosenberg oppure la teologia dei Testimoni di Geova. Il fatto che ci si chieda di prendere sul serio una pagliacciata coloniale come la filosofia analitica è considerato semplicemente più cool a causa dello snobismo degli intellettuali universitari.






3. Che cosa significa in filosofia "realismo"? Nel linguaggio quotidiano, unica bussola da cui partire (a cui non fermarsi, come ha magistralmente dimostrato Hegel, che lo chiamava "sapere immediato"), significa il riconoscimento dell'esistenza oggettiva di una realtà materiale esterna a noi. Gli psicologi cognitivisti sanno addirittura determinare i mesi in cui il bambino vi arriva. L'esistenza del mondo esterno non è un dato filosofico, ma una premessa evolutiva della sopravvivenza, da quando attraversiamo la strada per non farci arrotare a quando prendiamo atto di una difficoltà da affrontare.


Deve essere chiaro, quindi, che l'esistenza "reale" del mondo esterno non è mai, proprio mai, ma assolutamente mai, un problema filosofico. La filosofia inizia quando la totalità della realtà viene interrogata nel suo significato globale di Bene e di Male e di giusto ed ingiusto, non certo quando ci chiediamo se questa concreta tazzina di caffè esista realmente, e non sia solo uno schema interpretativo o costruttivo. Non fatevi ingannare dai pagliacci che mettono sullo stesso piano, chiamandolo magari pomposamente "ontologia", la totalità dell'essere sociale e la tazzina di caffè ed il telefonino.






4. Ho usato volutamente parole forti, perché non bisogna mai "stare al gioco" di chi ci prende in giro. Se un furbastro inscatola la sua "merda d'artista", e la quota sul mercato dell'arte, non bisogna iniziare dotte dissertazioni sul diritto dell'artista allo sperimentalismo o allo "straniamento del punto di vista del moralismo borghese bacchettone". Neppure per sogno. Bisogna immediatamente fargli fare le scale a calci nel sedere insieme con la sua merda d'artista inscatolata. Una società entra in "decadenza" quando diventa incapace, in preda a complessi di colpa, di effettuare una simile facile operazione.






5. Passiamo ora alle cose serie. L'esistenza degli oggetti esterni dati per presupposti (costruiti o meno kantianamente nello spazio e nel tempo come forme a priori della sensibilità) si chiama in filosofia "realismo gnoseologico". Ai greci antichi, a tutti i greci antichi, senza distinzione alcuna fra cosiddetti "idealisti" (Platone) e cosiddetti "materialisti" (Epicuro), questo problema era completamente estraneo, e non poteva neppure essere concettualizzato e verbalizzato. Tutti davano per scontata l'esistenza di oggetti esterni, sia i veritativi (Platone, Socrate), sia i convenzionalisti ed i relativisti (Protagora, Gorgia). La messa in dubbio dell'eventuale esistenza del mondo esterno comincia soltanto quando questo mondo esterno viene concettualmente unificato in modo, direbbe Marx, "sensibilmente sovrasensibile". E questa concettualizzazione unificata dell'essere astratto del mondo può avvenire soltanto in due modi, ed esclusivamente in due: Dio e la Storia. Entrambe le nozioni (teologia monoteistica e filosofia unificata del flusso storico) erano completamente e disperatamente estranee ai nostri padri greci. Il cosiddetto "realismo gnoseologico", infatti, comincia soltanto quando essi si congedano dalla scena europea, e per semplificare citerò soltanto due filosofi sintomatici: Tommaso d'Aquino e Lenin.


Il teologo domenicano Tommaso d'Aquino pratica il cosiddetto "realismo gnoseologico" perché presuppone l'esistenza esterna alla coscienza umana di una realtà suprema, il Dio della tradizione biblica. Dal momento che Dio, lo vogliamo o no, esiste fuori di noi, è chiaro che la vera conoscenza è in vario modo un riflesso, o un rispecchiamento, di oggetti in ultima istanza creati, o permessi, o concessi da Dio. Solo una presunzione luciferina (il cui primo esponente coerente è stato il tedesco Fichte) ci può far pensare che sia l'Uomo (maiuscolo, alla faccia degli anti-umanisti) a creare, non certo il Sole o la Luna, ma l'intero mondo storico e sociale che conosciamo.


Il militante comunista Lenin adotta la stessa teoria, il realismo gnoseologico. Si dirà che è strano, in quanto Lenin non solo era ateo, ma considerava attardati e superstiziosi cretini (in buona compagnia con Odiffredi, la Turchetto e la simpatica rivista l'Ateo, cui pure ho a suo tempo inviato un intervento, in seguito pubblicato) quelli che ci credevano. Ma una realtà esterna per Lenin c'era, ed erano le inesorabili leggi dialettiche della storia (si veda il modo bestiale e furioso con cui si relazionava con chi lo metteva in dubbio, cfr. Valentinov, I miei colloqui con Lenin, il Saggiatore).


Ricapitoliamo: in filosofia realismo gnoseologico non significa ammissione dell'esistenza esterna di oggetti o di processi, tipica del senso comune, ma significa rispecchiamento o riflesso di due datità a loro volta del tutto indimostrabili dal metodo scientifico moderno, cioè Dio e la Storia (intesa come processo storico unificato concettualmente e variamente direzionato).


Non si pensi di poter capire una cosa così semplice con il pagliaccio superpagato Umberto Eco, che ha recentemente definito il teologo bavarese Ratzinger inferiore filosoficamente ad uno studente di scuola media. Possibile che solo loro possano impunemente distribuire pagelle di imbecillità a platee di babbioni semicolti adoranti?






6. La strategia di rilancio del cosiddetto "new realism" è a tutti gli effetti una strategia pubblicitaria, che vede la sinergia di baroni universitari e di giornalisti di regime. Da un lato, una congrega di professori universitari, che lanciano il prodotto in convegni a New York, Torino e Bonn. Dall'altro, la cassa di risonanza di quotidiani come "Repubblica", organo dei semicolti italiani riciclati dal vecchio storicismo gramsciano al cosiddetto new realism attraverso la camera di decompressione provvisoria del cosiddetto pensiero debole, ermeneutico e nicciano.


Le cose sono forse più "complesse"? La complessità è una divinità universitaria cui prestare un culto conformistico. Ma neppure per sogno! I gruppi intellettuali accademici delle facoltà di filosofia sono più prevedibili degli spostamenti dei banchi di pesci, delle migrazioni degli uccelli e delle transumanze di bisonti. Certo, sono prevedibili se li si studia non come insieme aleatorio di singoli individui, ma come gruppo sociale unitario, il gruppo degli intellettuali, che a suo tempo Pierre Bourdieu definì un gruppo dominato della classe dominante. Un gruppo a guinzaglio lunghissimo, per dargli l'impressione della libertà, ma che alla fine deve cadere gravitazionalmente nello stesso posto.


Sono troppo settario? Sono troppo estremista? Sono troppo politicamente scorretto? Politicamente scorretto certamente sì, ma estremista e settario non credo. Passiamo ad alcuni esempi concreti.






7. Come disse don Abbondio a proposito dei bravi di don Rodrigo: "Le ho viste io quelle facce!". Ho avuto la fortuna di assistere in diretta ed in tempo reale, nel biennio 1977-78, al primo lancio pubblicitario di una scuola filosofica fatto con il metodo delle saponette e dei deodoranti per le ascelle, e cioè dei cosiddetti "nuovi filosofi francesi" (il cui esponente più noto, l'osceno BHL, si è distinto come consigliere di Sarkozy per l'aggressione alla Libia ed è tuttora editorialista del "Corriere della Sera", immagino superpagato). Ricordo quel biennio, perché segnò la fine del mio agitarmi senza scopo da militonto di "sinistra" ed il ritorno ad uno studio serio della filosofia, che avevo praticamente abbandonato per un decennio, travolto dal vergognoso ballo di San Vito sessantottino.


Il lancio pubblicitario dei "nuovi filosofi" segnò in effetti un'interessante sinergia fra il circo mediatico ed il mondo dei cosiddetti "intellettuali". Si trattò di una sorta di grande riciclaggio simbolico, di riconversione e di decompressione. In Italia un'intera generazione si era consegnata a vere e proprie "cupole criminali" (esemplare la cupola di Lotta continua di Sofri e Pietrostefani, mandanti dell'omicidio Calabresi), era entrata nel parossismo della illusione operaista ed aveva addirittura "flirtato" con la lotta armata, ed ora poteva sgonfiarsi e decomprimersi simbolicamente con la "scoperta" che tutto il comunismo con cui aveva rotto le scatole a genitori ed insegnanti non era altro che un'illusione criminale.


Devo ringraziare i "nuovi filosofi". Mi accorsi che si trattava di un riciclaggio generazionale particolarmente miserabile, e che è impossibile che una corrente filosofica seria possa accettare la via pubblicitaria alla "visibilità". Improvvisamente, il situazionismo di Debord e la dialettica negativa di Adorno, che avevo sempre costeggiato senza mai assimilarle, divennero improvvisamente chiare. Avevo permesso ai greci, a Hegel ed a Marx di dormire troppo a lungo. La ripugnanza verso la volgarità porta irresistibilmente a rivalorizzare le cose serie.


Grazie BHL!






8. Un discorso diverso deve essere fatto per il cosiddetto "pensiero debole" legato al nome di Gianni Vattimo. Mentre la nuova filosofia francese è stata soltanto un'operazione pubblicitaria di riciclaggio intellettuale di estremisti deficienti ricondotti all'ovile, con il pensiero debole siamo di fronte a qualcosa di diverso. Il cosiddetto "pensiero debole" si presenta come un'operazione di "indebolimento" non tanto della religione (da Vattimo furbescamente abbandonata dopo essere stato intronizzato all'accademia dal cattolico esistenzialista Pareyson, nemico in tutto di Abbagnano al di fuori del comune odio verso Hegel e la dialettica), quanto della filosofia storicista marxista della storia, cui il comunismo italiano aveva legato il suo profilo teorico (lo storicismo assoluto di tipo crociano, soltanto di "sinistra"). Si trattava di una forma di relativismo nichilistico "educato", che legittimava una liberalizzazione del costume sessuale svincolando questa liberalizzazione da una filosofia comunista della storia, cui gli imbecilli sessantottini l’avevano improvvidamente legata. Qui non esiste lo spazio, e neppure la necessità, di analizzare i due punti fondamentali di questo profilo filosofico, la lettura libertaria di sinistra di Nietzsche, già praticata da Bataille e soprattutto da Deleuze, e la lettura di Heidegger come annunciatore della "consumazione storica dell'Essere", lettura che non sta filologicamente né in cielo né in terra e che lo stesso Gadamer smentì apertamente (ma non c'era neppure bisogno della sua peraltro benvenuta auctoritas).


Tuttavia, l'importanza di Vattimo non sta affatto nella sua predicazione "debolista", quanto nel valore di posizione ideologica nella "congiuntura", che finì con l’incontrare il percorso autonomo di Massimo Cacciari. Se infatti dal "basso" il Pci era sempre di più un partito di cooperatori e di amministratori senza coscienza infelice hegelo-marxiana, dall'"alto" i suoi intellettuali "organici" furono indirettamente chiamati a smantellare la pappa storicistica pseudo-gramsciana ossessivamente fatta ingozzare ai militanti semicolti fra il 1968 ed il 1978.


Non so come Vattimo valuti soggettivamente il successo del suo stesso pensiero. Non gliel'ho mai chiesto, sebbene sia con lui in buoni rapporti, e valuti molto positivamente il suo atteggiamento verso la Palestina, Cuba ed il Venezuela. Può darsi che le interpreti come una giusta ricompensa ai suoi meriti soggettivi. Ma senza essere un "maestro del sospetto", in base all'analisi ideologica di matrice marxiana e dalla deduzione sociale delle categorie del pensiero, credo che il pensiero di Vattimo abbia incontrato una "finestra storica" congiunturale in cui la nausea verso lo storicismo beota era giunta a livelli di parossismo, e gli intellettuali volevano soltanto potersi sganciare dalle grandi narrazioni (Lyotard) e prendere il mondo così com'è (Sloterdijk). A un livello accademico di benpensanti privi di rimorsi "militanti" e di coscienza infelice di ex-estremisti pentiti bastavano Rawls, Habermas e Bobbio, tutti e tre felicemente schierati per il bombardamento etico-umanitario del 1999 su Belgrado.


Ma perché oggi pensiero debole ed il post-moderno sono in crisi? Ma è elementare, Watson!






9. A partire dalla svolta del 1989 il pensiero debole perde ogni funzione di mandato sociale verso la casta degli intellettuali, e può continuare ancora per un ventennio grazie alla terribile vischiosità inerziale delle corporazioni filosofiche universitarie, che riproducendosi per cooptazione possono durare un tempo molto maggiore di quanto spetterebbe al clima culturale che intendono promuovere e legittimare. Il pensiero debole era stato la versione italiana del più vasto fenomeno europeo del post-moderno filosofico, il cui motto era che non esisteva la realtà, ma soltanto la sua interpretazione. Questo rifletteva il desiderio del ceto intellettuale non solo di emanciparsi dal vecchio fardello dell'impegno sociale di legislatori in pectore (da Fichte a Sartre passando per Gramsci), ma anche di fondare il proprio arbitrio soggettivo assoluto su di una metafisica apertamente nichilistica. In Italia il pensiero debole sarebbe impensabile senza connetterlo con il desiderio degli intellettuali di emanciparsi dai due bestioni visti come ormai insopportabili, l'elefante-Chiesa cattolica ed il rinoceronte-Pci.


Oggi il postmoderno debole è presentato in modo manicomiale, come se costoro avessero voluto negare la realtà di oggetti esterni con un telefonino, una tazzina, un'esondazione di fiume, una cardiopatia, una crisi finanziaria, eccetera. Tipico del malcostume filosofico è presentare la tesi avversaria in modo manicomiale, in modo da poterla vincere con facilità. Naturalmente il pensiero debole post-moderno non intendeva affatto negare queste realtà concretamente effettuali. Intendeva negare la normatività di realtà "sensibilmente sovrasensibili" come Dio, la Storia ed il Capitalismo, ed intendeva negare Dio, la Storia ed il Capitalismo perché queste tre realtà sensibilmente sovrasensibili erano in qualche modo fondatrici e normative del mondo dell'esperienza.


A partire dal 1989 tutto cambia. Il comunismo storico novecentesco (nulla a che vedere con il comunismo utopico-scientifico di Marx, ove l'ossimoro è volontario) si suicida per la sinergia di una maestosa controrivoluzione sociale di massa dei nuovi ceti medi sovietici e cinesi, da un lato, e per la putrefazione antropologica degli apparati comunisti, dall'altro (si presti attenzione all'oscillare dell'ubriacone Eltsin ed al sorriso beota di Gorbaciov mentre pubblicizza le borse Vuitton e la pizza americana Hut). In quanto a Dio, è palese che i preti ormai vengono invocati solo come assistenti sociali per poveracci, drogati, criminali pentiti e come psicologi assistenziali per malati gravi. Dio resiste peraltro più della Storia per ragioni squisitamente filosofiche, in quanto la religione (lo aveva già capito bene Hegel, molto più di Feuerbach e di Marx) è un fenomeno di massa in cui gli uomini, guardando dentro se stessi, danno un senso alla loro vita (vallo a far capire agli atei positivisti!). In Italia Mani pulite, che fu sempre e solo un colpo di Stato giudiziario ed extraparlamentare, volto a distruggere quanto restava di uno Stato keynesiano (sia pure corrotto), iniziò nel 1992 un ciclo privatizzatore neoliberale destinato ad essere perfezionato nel 2011 dalla giunta Monti. Per non far capire quanto stava avvenendo si aprì uno spettacolo di pupi siciliani: il popolo viola, il popolo rosa, le donne in quanto donne, la casta dei mangioni, i diritti umani messi in pericolo da dittatori baffuti o barbuti, il Grande Puttaniere Berlusconi con i suoi due Ciambellani Bruno Vespa ed Emilio Fede, eccetera. Spettacolo riuscitissimo e performativo, se consideriamo la sua spettacolare riuscita popolare.






10. Ripetiamo ancora una volta il punto essenziale del problema. Non bisogna pensare in modo manicomiale che il pensiero debole post-moderno intendesse negare la realtà intesa come scatole, terremoti, cardiopatie, reumatismi, eccetera. Intendeva negare la normatività di realtà "sensibilmente sovrasensibili", sostanzialmente due, Dio e la Storia (intesa come filosofia deterministica e teleologica della storia). Anche il capitalismo venne di fatto derealizzato, in quanto anche le sue crisi persero ogni oggettività, diventando prodotto di errori (si pensi a come oggi la crisi economica in Italia venga ricondotta al malgoverno e all'ottimismo da piazzista del Grande Puttaniere).


La comunità filosofica universitaria, una delle più lente di riflessi e torbide dell'intera Via Lattea, si è finalmente resa conto che la fase di delegittimazione normativa delle due realtà sensibilmente sovrasensibili (ricordiamolo: Dio e la Storia) era ormai finita, e bisognava "tornare alla realtà". Già, ma quale realtà?






11. Il ritorno alla realtà propugnato dai new realists (l’inglese è d'obbligo, e non è solo una raffinatezza cosmopolitica, ma indica un volontario adeguamento servile) è il ritorno ad una realtà frammentata di oggetti del tutto disconnessi dal legame dialettico con una totalità espressiva. Del resto, questo era già chiaro ad Herbert Marcuse, nella sua critica alla filosofia analitica contenuta nel classico novecentesco L'Uomo ad una Dimensione. Purtroppo, anche per responsabilità soggettiva di Marcuse, questo classico fu letto all'interno dell'errore metafisico del pensiero di "sinistra", l'identità fra borghesia e capitalismo. In realtà, il pensiero borghese non era affatto ad una dimensione, in quanto è dialettico per sua propria essenza storica e sociale. Il capitalismo come meccanismo anonimo, impersonale e religioso, invece, non è effettivamente dialettico, ma si basa su di un pensiero della "differenza" che riflette la separazione ontologica fra oggetti e soprattutto fra differenziati e potenzialmente infiniti poteri d'acquisto di merci e di servizi. La lettura sessantottina del capolavoro di Marcuse, invece, la fraintese proprio nel suo nucleo comunicativo essenziale. Entrato in una fase post-borghese, ed appunto per questo ultra-capitalistica, la filosofia analitica rispecchiava questa frammentazione senza più ormai nessuna coscienza infelice di una totalità alienata da emancipare. Non a caso, nel lessico di questi nuovi realisti non trovano spazio i concetti di alienazione e di emancipazione, e qui appunto si può notare -se lo si vuole -la continuità con il pensiero debole e con il post-moderno.


Soggettivamente, questi sciagurati credono che il ritorno alla realtà sia il superamento del "populismo mediatico" di Berlusconi, identificato con un ventennio di sviamento culturale. Questa è proprio la fatua concezione del mondo di un Umberto Eco, cui giustamente costoro hanno riservato un posto da guru e padre nobile.






12. Ci si può legittimamente chiedere se questa operazione mediatico-pubblicitaria riuscirà a "mordere" sulla realtà concreta, la realtà cui pure costoro si appellano. Mi sembra evidente che il loro sia un fuoco di sbarramento preventivo contro un possibile ritorno del pensiero dialettico, che deve essere esorcizzato ad ogni costo.


La totalità capitalistica appare oggi fuori controllo, e soltanto un cosciente ritorno alla dialettica potrebbe interpretarla e cambiarla, secondo la formulazione delle marxiane Tesi su Feuerbach. Il pensiero dialettico è il pensiero che trova il suo coronamento in Fichte, Hegel e Marx, ed ha come presupposti Vico e Spinoza, e come continuatori Adorno, Marcuse, Bloch e soprattutto Lukàcs.


In questa fase speculativa del capitalismo assoluto (assoluto in quanto absolutus, sciolto da precedenti legami borghesi e proletari) abbiamo bisogno di un sapere assoluto nel senso di Hegel. Tuttavia, per evitare pittoreschi equivoci, diamo la parola a Remo Bodei, indiscusso conoscitore della dialettica hegeliana: "Si pensa che il sapere assoluto per Hegel sia qualcosa di manicomiale, come se sostenesse che con la sua filosofia si sa tutto. Ma le cose non stanno così: absolutus vuol dire sciolto da ogni legame, e cioè da ogni condizionamento del passato". Non si poteva dire meglio. Ma oggi sapere assoluto è il sapere filosofico sciolto da ogni legame con la pretesa del presente capitalistico di essere la fine della storia. Questo è oggi il "sapere assoluto" di cui abbiamo bisogno.


Nella sua fase astratta, il capitalismo si è costituito unificando teoricamente il mondo, lo spazio (materia), il tempo (progresso), il lavoro (valore), la società economica, la morale dell'individuo (robinsonismo). Nella sua posteriore fase dialettica, la filosofia ha dato spazio all'elaborazione della polarità tra borghesia e proletariato. In questa terza fase speculativa, in cui il capitalismo si contempla allo specchio (speculum) come insieme oggettuale di merci pure, abbiamo bisogno di ridialettizzare appunto lo speculativo.


La ridialettizzazione dello speculativo non avverrà facilmente. La corporazione dei filosofi universitari con accesso mediatico filtrato, gruppo dominato della classe dominante, vi si opporrà certamente. I new realists sono fra costoro. Certo, occuperanno il davanti della scena, ma sono sicuro che non avranno campo libero.

martedì 27 dicembre 2011

LA DEMENZA GENERALIZZATA DEL POPOLO ITALIANO

Un enigma storico da decifrare



di Costanzo Preve






1. Nell’editoriale della rivista Italicum, dicembre 2011, Luigi Tedeschi fa un primo completo bilancio dei provvedimenti della giunta Monti, e ne rintraccia anche correttamente la genesi economica, storica e politica. Alla fine di queste analisi Tedeschi osserva che tutti i partiti, di destra e di sinistra, “volevano che Monti attuasse quelle manovre impopolari che essi non erano in grado di condurre in porto per motivi elettorali”. Mi sembra evidente. E ancora: “Potrebbero un domani tentare di svincolarsi dalle loro responsabilità addossando a Monti la colpa per misure impopolari approvate, contando sulla demenza generalizzata del popolo italiano, che darebbe loro nuovo consenso, non essendoci alternative”.


A livello di filosofia politica, ci si potrebbe chiedere se il popolo in quanto tale è demente (spiegazione nicciana e delle teorie delle élites) oppure se lo è soltanto quando è ridotto a corpo elettorale (spiegazione che risale a Rousseau e ai teorici della democrazia diretta, fra cui anche Lenin).






2. Quindici anni fa scrissi un manifesto filosofico insieme a Massimo Bontempelli, mancato in questo stesso anno 2011 (cfr. Bontempelli-Preve, Nichilismo Verità Storia, CRT, Pistoia 1997). In un capitolo sulla menzogna del linguaggio economico (pp. 23-24), Bontempelli faceva risalire alla generalizzazione della forma di merce la scomparsa della verità delle relazioni sociali. Diagnosi a mio avviso esattissima. E poi elencava una serie incredibile di menzogne del linguaggio economico. Fra di esse si notava che “alcuni decenni orsono, quando la tecnologia e la produzione di merci erano meno sviluppate di oggi, non c’erano difficoltà a finanziare le pensioni e l’assistenza sanitaria dei lavoratori, mentre oggi, dopo tanto sviluppo, gli economisti ci dicono che il sistema economico non può sopportare questo finanziamento”.


Sembrano righe scritte nel dicembre 2011, e invece risalgono ai primi mesi del 1997. Partiamo quindi da questo rilievo.






3. Come tutti gli studiosi di storia e di filosofia, sono attirato dai due estremi complementari della coscienza sociale, la genialità e l’idiozia. E tuttavia l’idiozia è sempre più interessante, anche perché è più divertente. I mezzi di comunicazione di massa ci offrono ogni giorno quantità industriali di idiozia, e con l’arrivo della televisione e dei giornali non c’è neppure bisogno di mescolarsi agli idioti, perché l’idiozia ci viene portata a domicilio in modo semigratuito.


Mi ha colpito una manifestazione di “donne” (una delle maggiori idiozie del nostro tempo è la separazione femminista di donne e di uomini, dopo che c’è voluta tanta fatica per promuoverne la giusta e sacrosanta eguaglianza), in cui una nota regista concionava sostenendo che il nuovo governo Monti almeno “rispettava le donne”, mentre il precedente puttaniere evidentemente non lo faceva. Ora, il precedente puttaniere non era riuscito ad aumentare in un colpo solo l’età pensionabile, mentre Monti, l’uomo che rispetta le donne, lo ha fatto.


Siamo quindi di fronte ad un esempio quasi da manuale di demenza generalizzata. La sua genesi deve essere ancora indagata. A un livello superficiale, per sua natura insoddisfacente, ci si può riferire alla necessità del PD di babbionizzare il suo elettorato, oppure alle conseguenze di vent’anni di antiberlusconismo di “Repubblica”, rinforzato da dosi massicce di Floris e Gad Lerner. E’ senz’altro così. Nello stesso tempo, fermarsi a questo livello è assolutamente insoddisfacente.






4. Partiamo da un dato apparentemente secondario. Scrive il giornalista Stefano Lepri (cfr. “La Stampa”, 14 dicembre 2011): “Colpisce nel Paese, almeno a giudicare dai sondaggi, il contrasto fra gli elevati consensi di cui gode uil governo Monti e il diffuso rigetto della sua manovra di austerità. Non sembra esistere nessuna forza capace di convincere i cittadini che quello che gli viene richiesto è uno sforzo solidale”.


Partiamo da questa apparente schizofrenia. Elogi a Monti e al suo burattinaio politico Napolitano, ex comunista riciclato in uomo della NATO e degli USA in Italia, e considerato dalla massa babbiona PD il grande garante e difensore della Costituzione. E nello stesso tempo brontolio contro la manovra sul fatto che “pagano sempre i soliti noti”, “la casta non è abbastanza colpita”, eccetera. Spiegare questa schizofrenia è relativamente facile, ma richiede ugualmente uno sforzo culturale. Facciamolo, tenendo conto che mi limiterò all’Italia, e solo all’Italia, perché altrove i dati culturali egemonici possono essere e sono diversi.






5. Quando al tempo di Pio XII la chiesa cattolica “scomunicò i comunisti” siamo stati in presenza di un episodio, forse l’ultimo, di una strategia controriformistica. La chiesa non aveva mai avuto paura di quella forma di paganesimo estetizzante che era stato un certo Rinascimento, ma aveva avuto veramente paura di una possibile riforma protestante in Italia. La riforma protestante, infatti, non parlava soltanto ai dotti e agli intellettuali del tempo, ma al popolo. Nello stesso modo la chiesa cattolica, pur avendo messo debitamente all’indice le opere filosofiche di Croce e di Gentile, nonostante il loro continuo proclamarsi di “non potersi non dirsi cristiani”, non aveva mai avuto molta paura né della variante liberale del laicismo, né di quella azionista. Sia il liberalismo che l’azionismo erano infatti palesemente fenomeni ristretti di certi intellettuali. Ma con l’arrivo del “comunismo” in Italia (arrivo non precedente la guerra civile 1943-45, almeno nella sua dimensione di massa) le cose cambiavano. Il comunismo italiano, nella versione togliattiano-gramsciana, sfidava invece la chiesa cattolica sul suo stesso terreno, che era l’egemonia culturale sulle classi popolari.


Il segretario di sezione comunista iniziava sempre la sua relazione dalla cosiddetta “situazione internazionale”. Si trattava spesso di una raffigurazione assolutamente mitico-fantasmatica della realtà sociale, basata sulla metafisica storicistica del progresso, su di una immagine antropomorfica del capitalismo come società dei privilegi di mangioni e “forchettoni”, sull’elaborazione dell’invidia sociale dei subalterni, sul presupposto della supposta incapacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, e su altre sciocchezze positivistiche di questo tipo fatte indebitamente risalire a Marx, eccetera. Sarebbe estremamente facile correggere con una matita rossa e blu le ingenuità populistiche di questo messaggio. Sta di fatto che questo messaggio dava pur sempre della realtà un’immagine razionale e coerente, in grado di spiegare con un certo grado di semplificata approssimazione la storia contemporanea, anzi “il presente come storia” per usare una bella espressione di Paul Sweezy.






6. Tutto questo venne progressivamente meno in Italia nel ventennio 1968-1988. Non intendo scendere in una periodizzazione più precisa e analitica perché mi interessa connotare un processo nella sua interezza temporale evolutiva. In questo ventennio le classi popolari italiane restarono semplicemente senza gruppi intellettuali nel senso egemonico gramsciano del termine, e restarono così politicamente mute. Le facili accuse di populismo, leghismo, razzismo, eccetera, con cui vengono ingiuriate da circa un ventennio, nascondono un maestoso processo di spossessamento e di deprivazione culturale complessiva.


In termini sintetici, il comunismo italiano fra il 1968 e il 1988 si è trasformato culturalmente in una sorta di “azionismo di massa”, ma trasformandosi in azionismo di massa non poteva che cambiare radicalmente codice comunicativo ed egemonico. L’azionismo di massa, combinato con il sessantottismo dei costumi di cui il femminismo è certamente stato una componente particolarmente degenerativa in senso sociale, ha infine preparato il clima dell’ultimo ventennio, un occidentalismo di massa esplicito (antiberlusconismo moralistico ed estetico, diritti umani a bombardamento imperialistico legittimato, eccetera). Una tragedia, e soprattutto una tragedia rimasta in larga parte incomprensibile alle sue stesse vittime, oggetto di una babbionizzazione pianificata dall’alto cui era praticamente impossibile resistere.






7. Possiamo sommariamente connotare la cultura popolare promossa dal PCI, e subordinatamente anche dal PSI, fra il 1948 e il 1968 come una forma di populismo di massa. Del resto, questo era chiaro a tutti gli studiosi del tempo, basti pensare all’Asor Rosa di Scrittori e Popolo. Soltanto negli ultimi vent’anni il “populismo” è diventato un insulto applicato non solo a Berlusconi, ma anche a Chavez. Ma non si tratta che di un mascheramento linguistico del ceto intellettuale integrato e politicamente corretto, e anzi integrato perché politicamente corretto, o se si vuole politicamente corretto perché integrato.


Al ventennio del populismo di massa 1948-1968, seguì il ventennio dell’0azionismo di massa 1968-1988. Non a caso, Norberto Bobbio diventò il principale autore di riferimento dell’ex PCI spodestando completamente Gramsci, diventato autore di cult per i cultural studies delle università anglosassoni. Per comprendere il passaggio dal populismo di massa all’azionismo di massa è utile “rinfrescare” la nostra conoscenza delle fasi di sviluppo del capitalismo.






8. Il principale errore della metafisica di “sinistra” consiste nell’identificazione del capitalismo con la borghesia. In termini spinoziani, questo dà luogo a una antropomorfizzazione del capitalismo, cui sono attribuite di volta in volta caratteristiche antropomorfiche, come la conservazione o il progressismo. In termini hegeliani, questo dà luogo a una esaltazione di tipo weberiano del razionalismo astratto, per cui la razionalizzazione progressiva delle sfere sociali e il loro adattamento al consumo delle merci viene chiamato “modernizzazione”. In termini marxiani, questo significa scambiare la falsa coscienza necessaria dei gruppi intellettuali “modernizzatori” per il fronte scientifico avanzato della coscienza sociale, cui sottomettere con l’educazione i plebei invidiosi rimasti invischiati nel razzismo, nel populismo e nel leghismo.


Secondo la corretta analisi dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, la “sinistra” che conosciamo si è costituita in un ben preciso periodo e in una ormai sorpassata fase dello sviluppo capitalistico. Si è costituita fra il 1870 e il 1968 circa, sulla base di un’alleanza fra la critica sociale alle ingiustizie distributive del capitalismo di cui erano titolari le classi popolari, operaie, salariate e proletarie, e una critica artistico-culturale all’ipocrisia conservatrice della borghesia di cui erano titolari i cosiddetti “intellettuali d’avanguardia”. Questo schema corrisponde abbastanza bene, per quanto concerne l’Italia, al ventennio 1948-1968 e trova ad esempio in Pier Paolo Pasolini un rappresentante significativo.


Con il Sessantotto, una delle date più controrivoluzionarie della storia mondiale comparata, questa alleanza viene meno perché è il capitalismo stesso a liberalizzare i costumi sociali e sessuali in direzione non solo post-borghese , ma addirittura anti-borghese (e ancora una volta il femminismo dei ceti ricchi è solo la punta dell’iceberg).


L’azionismo di massa del ventennio 1968-1988 progressivamente dominante in Italia non è altro che la versione italiana di un fenomeno europeo e mondiale, ma soprattutto europeo, perché Cina, India, Brasile, eccetera, continuano a essere Stati sovrani e non occupati da basi militari USA dotate di armamenti atomici.


Un popolo privato di ogni profilo culturale autonomo è quindi preda di un processo che si può definire sommariamente come “sindrome di demenza generalizzata”. Mi spiace che possa sembrare sprezzante ed offensivo, ma non riesco a trovare altro termine per connotare la perdita totale di un “centro di gravità permanente”, per rifarci all’espressione di un noto compositore.






9. La sindrome di demenza generalizzata insorge quando vengono meno tutti gli schemi dialettici di interpretazione sociale e riguarda tutti, ma assolutamente tutti gli ambiti sociali, in alto e in basso, a destra e a sinistra, anche se ovviamente in forme diverse.


A “destra” la sindrome di demenza generalizzata assume le consuete forme paranoiche. Las paranoia è infatti una malattia soprattutto di “destra”, mentre la schizofrenia è invece una malattia soprattutto di “sinistra”. Prestiamo attenzione a fenomeni degenerativi come il pogrom di gruppi di plebei torinesi delle Vallette (non uso infatti mai la nobile parola di “popolo” per plebi decerebrate e imbarbarite) contro un insediamento di nomadi, o addirittura l’uccisione a freddo di due senegalesi a Firenze da parte di un allucinato paranoico. E’ assolutamente evidente che fatti come questi non devono essere giustificati in alcun modo con contorti argomenti sociologici da bar. E tuttavia essi sono soltanto la punte dell’iceberg di una perdita totale di comprensione del mondo, cui si supplisce con la scorciatoia della paranoia. Naturalmente il concerto politicamente corretto non è in grado di spiegare questi fenomeni di alienazione paranoica, perché si culla con i rassicuranti stereotipi del fascismo, nazismo, populismo, leghismo, revisionismo, negazionismo, eccetera. Ma la cura di queste sindromi di demenza generalizzata non può consistere in geremiadi moralistiche.


Ho già notato come la sindrome di demenza assuma a “sinistra” aspetti più simpatici e politicamente corretti perché solo schizofrenici e non paranoici (Monti è buono, ma la manovra è cattiva; Monti è buono perché rispetta le donne a differenza del laido puttaniere, eccetera). Certo, le scemenze non violente sono pur sempre meglio delle scemenze violente, ma scemenze restano e resta il problema della opacità sociale, cioè di un sistema di cui si è completamente perduta la chiave d’interpretazione. Ma non c’è nessuna chiave, dicono gli intellettuali pagliacci di regime alla Umberto Eco, e bisogna abituarsi a vivere gaiamente senza più nessuna chiave. Ma le grandi masse popolari, appunto, non possono vivere a lungo senza alcuna chiave interpretativa della riproduzione sociale, pena la caduta in sindromi di demenza generalizzata. E di questa bisogna quindi parlare.






10. Vi è un interessante passo, credo di John Reed, che può aiutarci a impostare la questione della demenza sociale generalizzata. Reed parla con un “soldato rosso” dopo il 1917 che gli dice: “I bolscevichi sono buoni perché ci hanno dato la terra. Sono invece i cattivi comunisti che ce la vogliono togliere”. Ora, è inutile assumere la spocchia della persona colta che sa che bolscevichi e comunisti sono in realtà le stesse persone. Ciò che invece conta è il modo in cui erano percepite da chi aveva tutto il diritto di non conoscere le teorie di Marx e del conflitto fra tattica bolscevica e strategia comunista.


Monti piace, mentre le sue manovre no, perché si pensa che esse colpiscano sempre i “soliti noti”. Errore. Colpiscono anche le libere professioni “borghesi” consolidate e organizzate da almerno due secoli di civiltà borghese. Naturalmente, Berlusconi si era fatto votare per “fare la rivoluzione liberale”, ma questa rivoluzione liberale, oggi come oggi, colpisce il 95% delle persone e ne salva invece solo il 5%. I vari Giavazzi e Alesina non sono affatto “liberali”, come opinano i lettori ingenui del Corrierone, ma sono solo “maschere di carattere” (le marxiane charaktermasken) di un processo anonimo e impersonale di globalizzazione liberista. Questo processo non può presentarsi apertamente nella sua concreta natura che chiamare “nazista” è dire poco. Si tratta di una società del lavoro flessibile, precario e temporaneo generalizzato, della fine di ogni democrazia e di ogni sovranità nazionale, di un interventismo imperiale continuo fatto in nome di generici “diritti umani” ad arbitrio assoluto, e della stessa fine dell’Europa come centro autonomo di civiltà non ancora del tutto “occidentalizzato”.


In un simile quadro la demenza sociale riflette l’opacità della riproduzione sociale, e assume toni schizofrenici a sinistra e paranoici a destra, anche se di diverso grado di pericolosità criminale. A sinistra, un antifascismo paranoico in totale assenza di fascismo. A destra, l’ennesima stucchevole tendenza a prendersela con i soliti capri espiatori, i nomadi, i negri, gli immigrati, eccetera. Questa demenza non verrà meno fino a che una nuova credibile interpretazione della natura degli avvenimenti in corso, e cioè del “presente come storia”, sostituirà gli spettacoli schizofrenici e paranoici in corso. I pazzi di Oslo e di Firenze non possono essere previsti. Il casuale in quanto tale è necessario, scrisse Hegel. Ma la reintroduzione della razionalità storica nella politica, questa sì, sarebbe possibile.


Torino, 17 dicembre 2011

domenica 20 novembre 2011

BERLUSCONEIDE 

Considerazioni storiche e politiche dopo la caduta di Berlusconi.





di Costanzo Preve



1. Una premessa. Scrivo queste considerazioni su esplicito invito di amici, francesi e greci, interessati ad avere una mia analisi strutturale, e non solo pettegola o episodica, sulla caduta di Berlusconi. Caduta certo non ancora formalizzata, ma io credo irreversibile. Ed irreversibile non certamente perchè causata da tre fattori a mio avviso poco rilevanti (ceto po­litico professionale ex-comunista ed ex-cattolico democristiano, circo mediatico asservito alle strategie oligarchiche del grande capitalismo finanziario g1obalizzato, magistratura politicizzata anti-berlusconiana). Poco rilevanti sono stati anche gli scandali, le prostitute, i sorrisini di Merkel e Sarkozy, e tutto il ciarpame sollevato da quell’autentico scandalo culturale e giornalistico chiamato “La Repubblica”, incrocio fra la componente borghese laica ex-azionista e la componente “picista”, che con tutta la mia buona volontà non intendo connotare con il glorioso anche se discusso nome di “comunista”.


Partirò quindi da un fattore tutto sommato secondario come il berlusconismo, ma arriverò presto al vero ed unico problema storico che ci sta dietro, l'adeguamento e poi la sparizione del modello europeo di capitalismo verso un unico modello anglosassone di capitalismo totale. Prego il lettore di prestare attenzione a questa tesi finale, perche tutto quanto c‘è prima è solo gli “antipasti”, le “tapas” per dirla in spagnolo.






2. Il giorno 5 novembre 2011 il Canale La Sette ha trasmesso in prima sera­ta, modificando la programmazione prevista, un film su Berlusconi intitola­to BERLUSCONI FOR EVER. Si tratta di una sintesi del come per circa vent'anni l’intera classe dirigente italiana ed i suoi intellettuali, dall’italianista Asor Rosa al comico Benigni hanno visto Berlusconi. Ecco perchè conviene partire da lì. In sintesi, evidenzierei quattro temi in ordine di importanza:


(1) Berlusconi appare come un megalomane in preda ad un compulsivo deli­rio di onnipotenza patologica, una sorta di piazzista e di venditore di tappeti levantino autoreferenziale, che crede che la propria “verità” sia anche l’unica verità. Il riferimento è al vecchio giornalista vate della borghesia italiana, Indro Montanelli, esempio di passaggio e di “riciclaggio” in tempo reale dal fascismo al regime dopo il 1945. Non a caso il suo successore, il sionista fanatico Travaglio, è diventato per un ventennio l'idolo della sinistra anti-berlusconiana.


(2) Berlusconi appare come il portatore dei difetti atavici degli italia­ni, primo dei quali sarebbe la sostituzione della furbizia all’intelligenza. Il suo “successo” (qui si ripete l’interpretazione di Piero Gobetti sulle ragioni del successo di Mussolini) appare dovuto proprio al fatto che ha incarnato la parte peggiore della tradizione antropologico-sociale italiana.


(3) Viene continuamente suggerito un fatto non provato, ma dato assolutamente per scontato dall'italiano medio di “sinistra”, il fatto che Berlusco­ni abbia fondato il suo impero economico, prima da costruttore e poi da magnate dei media, riciclando alla grande denaro di provenienza mafiosa. Ma il piazzista è ora diventato inaffidabile. Il piazzista non può per venti anni dare “bidoni”.


(4) Berlusconi appare portatore della vecchia ipocrisia cattolica italia­na. Da lato puttaniere impenitente, adultero manifesto, laido organizza­tore di festini con adolescenti ambiziose, e dall'altro cattolico fervente che faceva la comunione tutte le domeniche.


Potremo continuare ma è chiaro che un simile personaggio da commedia dell'arte è troppo ghiotto per non attirare l'attenzione di quella che è stata battezzata “opinione pubblica”, la cui completa sparizione era stata peraltro diagnosticata da Habermas quando era ancora sotto il controllo di Adorno. Tutto questo, ovviamente, è vero, non mi sogno assolutamente di negarlo. Ritengo però che sia solo la superficie, e si è detto che la “scienza” sarebbe inutile se la superficie e la profondità coincidessero. E allora indaghiamo prima la superficie e poi la profondità.


3. Partiamo prima dall’ideologia anti-berlusconiana, durata parossisticamente in Italia quasi un ventennio. Si tratta, per usare un termine del filo­sofo-economista althusseriano francese Charles Bettelheim, di una vera e propria “formazione ideologica”. Essa è a mio avviso il prodotto della fu­sione di due elementi distinti ma intercorressi:


(1) L’origine risale ai primi anni Venti, e fu proposta per la prima volta dal saggista torinese Piero Gobetti. Il popolo italiano soffrirebbe di una grave carenza morale complessiva, dovuta in primo luogo alla mancata riforma protestante (non importa se luterana o calvinista, ma meglio cal­vinista in quanto individualistica, borghese-capitalistica e soprattutto inglese ed anglofila), ed in secondo luogo al carattere ristretto ed elitario del risorgimento (il “risorgimento senza eroi”). II secondo punto a mio avviso è inesatto, e rimando ad un recente ottimo testo pubblicato in 1ingua francese (cfr. Yves Branca , Le risorgimento au coeur de l’Euro­pe), che corregge in buona parte questa visione unilaterale.


L’idea degli italiani come popolo delle scimmie e del risorgimento senza eroi ha nutrito, in particolare dopo il 1945, 1’ala “azionista” della cultura borghese italiana, ansiosa di “scaricare” il fascismo sui difetti atavici degli italiani, per poter così far dimenticare le dirette responsabilità del grande capitale italiano, che abbandonò il fascismo soltanto nell'an­no della sua sconfitta evidente (l943). Si trattava di una ala anglofila, empirista in filosofia e quindi nemica soprattutto dell’idealismo e dunque di Hegel.Questa posizione, assolutamente minoritaria nel popolo ita­liano, era però assolutamente maggioritaria nel mondo degli intellettuali. Ed a proposito degli intellettuali, categoria con la quale chi scrive non vuole avere assolutamente niente a che fare, ricordo la posizione anticipatrice espressa più di un secolo fa da Georges Sorel, che a mio avviso Bourdieu ha saputo sistematizzare bene, quando definisce gli intel­lettuali come gruppo sociale (e non come insieme eterogeneo di individua­lità diverse), come una sezione dominala della classe dominante. Lo ripeto per chi se lo fosse lasciato scappare: una sezione dominata della classe dominante, non certo i “portatori” della visione del mondo dei do­minati.


(2) La seconda componente risulta geneticamente dalla riconversione ideolo­gica del picismo italiano, che mi rifiuto di chiamare “comunismo” per le ragioni esposte in precedenza. Questo enorme rinoceronte sociologico ed antropologico aveva già gestito fra il 1956 ed il 1962 il passaggio dal modello sovietico alla cosiddetta “via italiana al socialismo”, che copriva una integrazione strutturale nei meccanismi riproduttivi del sistema ca­pitalistico italiano, e poi dal l976 al 1982, dopo la presa in giro mediatica del cosiddetto “eurocomunismo”, il passaggio dal partito della critica al capitalismo al partito degli “onesti”, contrappasso ovviamente ai “disonesti” (prima il socialista Bettino Craxi e poi ovviamente Berlusconi, in quanto suo presunto erede). Dopo il triennio 1989-1991 il bestione so­ciologico ed antropologico dovette riconvertirsi alle nuove condizioni storiche aperte dalla dissoluzione del comunismo storico novecentesco (19I7-1991) il solo ed unico comunismo “pratico” mai esistito, essendo restati tutti gli altri mere petizioni morali alternative oppure gruppi di testimonianza settaria, sia pure pieni di “buone intenzioni”. Si tratta di un'azienda che produce scarpe e che dopo un'alluvione è obbligata, per non uscire dal mercato, a produrre pinne e stivali di gomma per alluvio­nati.


Il riciclaggio di questi cialtroni fu fatto talmente bene che essi riusci­rono a portarsi dietro gran parte della loro precedente clientela fideliz­zata identitaria, nella forma del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD. In proposito, l’antiberlusconismo fu provvidenziale perché permise una rapida e performativa sostituzione alla identità precedente. Il serpentone meta­morfico fu sempre in primo piano per appoggiare attivamente tutte le strategie di guerra USA-NATO, dal Kosovo nel l999 (D'Alema) alla Libia 2011 (Napolitano).


L'unione di questi due elementi fecero sì che l’antiberlusconismo fosse veramente provvidenziale.






4. Non vorrei che sorgessero spiacevoli equivoci. Io considero Berlusco­ni, come figura umana, culturale, storica e politica un ripugnante cialtrone, ed in questo non mi distinguo affatto (purtroppo) dall'anti-berlusconiano medio. Ma insisto sul fatto che rifiuto la koinè pittoresca ed estetica del riciclaggio delle classi dominanti italiane, per cui Berlusconi, lungi dall’esserne stato il rappresentante, è stato piuttosto un “incidente di percorso”. Un incidente di percorso? Certamente. Vediamo come.






5. Per usare un lessico militare, Berlusconi fu un “incidente di percorso”, o più esattamente un “danno collaterale” di Mani Pulite, che fu nella sua fun­zione storico-politica oggettiva (e non nella sua rappresentazione ideolo­gica, che fu il teatrino della vittoria degli onesti sul cinghialone, porcone, corrottone Craxi, che la marmaglia plebea fanatizzata avrebbe voluto uc­cidere ed appendere per i piedi, come Mussolini) un colpo di stato giudiziario extra-parlamentare, il cui scopo fu quello di sostituire un modello di stato neo-liberale privatizzato al precedente modello di stato, certamente corrotto, ma anche e soprattutto assistenziale-keynesiano. In onesta sede è del tutto irrilevante se gli agenti storici che propiziarono questo passaggio ne fossero pienamente consapevoli, o pensassero di agire spinti dalla morale kantiana e dal “senso dello stato”. Ciò che conta furono i risultati politici “oggettivi”.


E' del tutto chiaro che la decapitazione dell'intera classe politica di provenienza DC, PSI, PSDI, PRI, PLI non eliminava anche automaticamente il loro bacino elettorale, che restava praticamente intatto, e che non intendeva


accettare la facile presa del governo da parte del PCI riciclato. Ci voleva però qualcuno che avesse la forza economica e l'iniziativa politica per impedire tutto questo, e fu appunto Berlusconi, indipendentemente dalle sue caratteristiche antropologiche o dalla probabile origine mafiosa del suo denaro.


Questa è la genesi del fenomeno Berlusconi. Naturalmente la cultura detta di “sinistra” non poteva accettare questa semplice realtà,ed è allora chia­ro che dovesse attivare il teatrino dei vizi atavici degli italiani, popolo delle scimmie manipolato dalla televisione del Grande Corruttore e della sua corte di puttane, attricette, intellettuali falliti oppure con il “dente avvelenato” verso il PCI (pensiamo al notevole filosofo ex-marxista Lucio Colletti).


Si apriva così il teatrino identitario del Partito B e del Partito Anti-B, che hanno soffocato per un ventennio il nostro povero paese pri­vato di sovranità politica e geopolitica.


Ma ora cominciano, caro lettore, le analisi serie, cui ti chiedo di presta­re un'attenzione particolare.


6. Non dimentichiamoci dunque del punto da cui siamo partiti: Berlusconi ha dovuto andarsene, chiudendo un intero ciclo politico che essendo stato ventennale è anche stato un ciclo storico, non certo perchè cacciato dal buon gusto snobistico degli intellettuali alla Eco-Baricco, dal popolo urlante identitario PD, da Bersani e dai cooperatori emiliani, dai giornali­sti di “Repubblica” e dalle loro “dieci domande”, dai magistrati milanesi, dal­le puttanelle ricattatrici di Ancore, dai suoi vizi di vecchio satiro solo nella vecchiaia incombente, eccetera; Berlusconi è stato cacciato dalla grande finanzia internazionale, e da nient'altro, perchè non ha saputo, potuto o voluto sincronizzare l'intera Italia (anzi, 1’azienda-Italia) al ritmo della nuova forma egemonica del capitalismo imperialistico neoliberale e globalizzato. Non facciamoci scappare questa dato storico, che implica un radicale riorientamento gestaltico rispetto alle fole ed alle panzane con cui ci ha rintronato per un ventennio il coro politico, mediatico ed intellettuale, prevalentemente di “sinistra”, ma non solo. Cerchiamo allora di arrivare a questo riorientamento gestaltico mediante alcuni passaggi, non troppo nume­rosi per non confondere le menti intorpidite dallo spettacolo di manipola­zione dell'ultimo ventennio. Ecco i passeggi principali: (l) La fine del comunismo storico novecentesco veramente esistito (19I7-1991), che non aveva assolutamente nulla a che fare con le ipotesi filosofiche e scientifiche ottocentesche di Marx e con l’originario progetto nove­centesco di Lenin, è stata una catastrofe storica e geopolitica terribile, incondizionatamente negativa, una vera tragedia, accolta con gridolini di entusiasmo dalla emulsione culturale più stupida dell'intera galassia, la cosiddetta “sinistra”. Questa fine ha propiziato, anche se non direttamente causato (1e cause profonde erano già interne alla dinamica illimitata di riproduzione nel modo di produzione capitalistico) il successo evolutivo darwiniano del modello anglosassone-americano di capitalismo sul precedente modello europeo. (2) Fino a qualche tempo fa si poteva dire grosso modo che c'erano tre di­versi tipi di capitalismo; il capitalismo anglosassone americano, interamen­te privatizzato; il capitalismo europeo, frutto di un compromesso detto a volte impropriamente keynesiano-fordista , che veniva sia dall'alto (Bismarck, De Gaulle, eccetera), sia dal basso (laburismo, sindacalismo, movimento operaio organizzato); il capitalismo cinese, derivato da una storia particolare, che potremmo riassumere in due punti, eredità del modo di produzione asiatica (e quindi non occidentale, prima schiavistico antico e poi feudale-signorile) e di una accumulazione primitiva collettiva del capitale di tipo maoista, con precedenti nella storia cinese (Wang Mang, rivolte contadine, riformismo Ming, Taiping, eccetera). (3) Stiamo assistendo all'intera assimilazione del modello europeo, e cioè alla sua fine, nell'unico modello anglosassone-USA, frutto di un tradi­mento storico delle classi dirigenti europee, americanizzate linguisticamente e culturalmente. Questo non avviene attraverso la vecchia ed obsoleta dicotomia Destra/ S inistra, difesa per interesse dal ceto politico pro­fessionale e per stupidità dal ceto intellettuale identitario e tifoso, ma attraverso la vittoria del partito degli economisti (PE) sul partito del po­litici (PP). (4) Di conseguenza, e per finire, Berlusconi non ha potuto, saputo e voluto effettuare questo passaggio, nonostante la sua natura di pescecane capita­lista liberale lo spingesse soggettivamente a propiziarla, per il sempli­ce fatto che era pur sempre legittimato elettoralmente ed una legittima­zione elettorale non può consentirlo, per il fatto che i tacchini non pos­sono votare il loro assenso al cenone di Natale, che prevede la loro messa in pentola. Il CHE FARE? -e ci arriverò brevemente alla fine- non può quindi essere pen­sato nelle forme della vecchia dicotomia Destra/ Sinistra, sempre più protesi manipolatoria di adattamento di masse atomizzate e babbionizzate dal circo politico, dal circo mediatico e dal circo intellettuale tradizionale. Vediamo le cose con ordine.






7. La prima operazione teorica da fare è un riorientamento gestaltico globa­le rispetto al bilancio storico-politico del socialismo reale, che preferisco chiamare “comunismo storico novecentesco” (CSN), per distinguerlo dal comuni­smo utopico-scientifico (l’ossimoro è intenzionale) di Marx, assolutamente inapplicabile perchè basato su previsioni storiche inevitabilmente non cor­rette (in sintesi: incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive; capacità rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria; entrambe le ipotesi totalmente falsificate dalla storia rea­le).


La “sinistra”, questa emulsione culturale intellettuale confusionaria, che Georges Sorel fu il primo a diagnosticare precocemente, ha in proposito sviluppato per quasi un secolo il teatrino della contrapposizione: in URSS c’è il socialismo oppure in URSS non c'è il socialismo? Risparmio al letto­re tutti gli argomenti pro e contro (staliniani, trotzkisti, neolinerali, bordighisti, eccetera), che richiederebbero mille pagine per la loro sempli­ce elencazione, e di cui sono uno specialista. Ma il problema URSS (e paesi fantoccio divorati alla fine della seconda guerra mondiale) è molto più semplice, perchè è storico e geopolitico, e lo formulerò sommariamente così: indipendentemente dal suo essere un esperimento artificiale di eguagliamento sociale livellatore sotto cupola geodesica protetta (protetta da un indispensabile dispotismo partitico operaio, in quanto senza coercizione dispotica la classe operaia e proletaria non potrebbe neppure gestire una bocciofila, altrochè una “transizione al comunismo”!), i1 sistema so­cialista degli stati “comunisti” (l’unico comunismo storicamente esistito, non certo le elucubrazioni snobistiche del salotti romani o l'agitarsi scomposto degli operai fondisti con i loro fischietti ed i loro tamburi) ha influenzato direttamente la storia del capitalismo, limitandone in parte (in greco antico si dice katechon) la sua tendenza illimitata ad assumere una forma pura, che nella mia personale periodizzazione filosofica del capitalismo definisco “speculativa”, con una terminologia tratta liberamente dalla Scienza della Logica di Hegel. Dunque, indipendentemente dal suo dispotismo e dal carattere miserabile del suo personale politico (i comunisti nichilisti, opportunisti, autofagi e straccioni) viva viva viva il comunismo storico novecentesco e tragedia im­mane il fatto che non si sia voluto, saputo o potuto riformare “in corso d’opera”, come avevano auspicato i più grandi intellettuali marxisti indipendenti del Novecento (Lukàcs, Gramsci, Bloch, eccetera, alla cui scuola mi sono formato, mentre ho sempre avuto ripugnanza ed estraneità per il circo intellettuale snobistico italiano detto di “sinistra”). Dunque TRAGEDIA, TRAGEDIA, TRAGEDIA.






8. Il capitalismo già ai tempi Reagan-Thatcher stava cambiando forma, e quindi prima della caduta catastrofica del baraccone socialista. Le ra­gioni del mutamento erano interne alla dinamica del modo di produzione, ed erano dettate dalla cosiddetta globalizzazione e dalla privatizzazione di tutto ciò che era privatizzabile. Sono gli animal spirits di cui hanno parlato gli economisti inglesi, e che Hegel in altro contesto definì “il regno animale dello spirito”, la definizione più geniale di capitalismo che abbia mai letto in vita mia.


Il teatro storico degli ultimi venti anni è quindi stato nell’essenziale quello di un assalto del modello americano di capitalismo contro il modello europeo, che non avrebbe avuto tanto successo senza il mantenimento dell'occupazione militare USA sull'Europa, iniziata nel l943-1945 e mai terminata, neppure dopo il 1991, anzi ampliata e rafforzata. Non c’è democrazia ad Atene con guarnigione spartana sull’Acropoli. Non ci può essere democrazia in Europa con basi militari atomiche USA in Europa. Si tratta di una semplice verità lapalissiana, che la “sinistra” ha contribuito ad occultare, con la retorica strumentale sulla Costituzione, con il proseguimento maniacale dell'antifascismo in completa, palese e totale assenza di fascismo, con l'agitare scomposto del termine “democrazia” in presenza di irrilevanti parate sindacali, femministe, ecologiste, pacifiste, ed in Ita1ia ossessivamente anti-berlusconiane. A proposito della Cina, sono un incondizionato sostenitore della sua forza geopolitica e militare, ma non mi raccontino (Losurdo, Diliberto, Sidoli, KKE greco, eccetera), che si tratta di “socialismo”, sia pure di mercato, ecce­tera. Considero la Cina completamente capitalistica, in quanto considero storicamente fallito ed esaurito l'intero modello del comunismo storico novecentesco (salvo invece il “comunismo” -sia ben chiaro- come filosofia della storia e come tendenza metastorica dell'umanità, ed in questo senso sono sempre più che mai “comunista”). Si tratta però di un capitalismo sorto da una combinazione originale del modo di produzione asiatico, caratterizzato da una forte e benefica dominanza del potere politico sull’economia, e di una esperimento egualitario estremistico maoista, sia pure fallito. Spero che l'apparato confuciano denominato partito comunista cinese continui ad iso­lare e neutralizzare, se possibile con mezzi civili ed umanistici, gli orrendi intellettuali filo-occidentali e le tendenze americanizzanti. Se queste ul­time si affermassero, magari sotto lo scudo dei diritti “umani” (la forma rovesciata della disumanità contemporanea), allora ci sarebbe uno ed un solo orribile modello di capitalismo. Sarebbe questa la vera globalizzazione politica, che per il momento non c’è ancora, al di là dei voleri della strega Clinton (ricordo il suo WOW (uau) televisivo oscenamente ostentato alla notizia del linciaggio di Gheddafi).


9. E quindi Berlusconi non ha potuto, saputo o voluto (a mio avviso lo avrebbe voluto, ma non ha potuto per il fatto che doveva pur sempre essere eletto, ed il popolo, al di là delle sue irrilevanti e confuse opinioni politiche, non può votare per la propria macelleria sociale) effettuare questa america­nizzazione. Essa presuppone il commissariamento integrale da parte non di una parte politica (destra contro sinistra o sinistra contro destra), ma di un partito degli economisti (Papadimos in Grecia, Monti in Italia, ma so­no tutti uguali -inglese perfetto e monoteismo del mercato) contro il partito dei politici.


Se utilizzassi la dicotomia Destra/ Sinistra (ma me ne guardo bene!) direi che il partito degli economisti è un partito di estrema destra, che si posiziona alla destra di Forza Nuova e di Attila, re degli Unni. Ma i mutamenti semantici propiziati dal ceto intellettuale dell’ultimo ventennio (ah, ombra di Sorel, dove sei?) ha associato la sinistra soltanto alle gesticolazioni irrilevanti della FIOM, alla retorica di Vendola, ai matri­moni gay, alla insistita polemica laico-radicale contro la chiesa cattolica e Ratzinger, alle sfilate femministe (ah, le donne, le donne!), al belare ostensivo pacifista (pacee, pacee, diritti umanii, diritti umanii, abbasso i dittatori, processate Gheddafi, Milosevic, Saddam Hussein, tutti meno la Clinton ed Obama, eccetera).


10. Che fare? Non lo so. Non sono mica Lenin! In prima approssimazione, ed in via preliminare, che cosa non fare:


(1) Smettere di fare partitini comunisti (Diliberto, Ferrero), attaccati alle mutande di Vendola e Bersani pur di poter rientrare in Parlamento, oppure di fare partitini a base settaria che ripropongono programmi sumeri, egizi ed assiro-babilonesi (Ferrando).


(2) Andare oltre la dicotomia obsoleta Destra/ Sinistra. Questo capitali­smo distrugge i popoli e le comunità, non solo le classi svantaggiate (anche se ovviamente anche queste). Ritrovare il linguaggio adatto per salvare i popoli e le comunità è impossibile sulla base della divisione settaria del popolo in popolo in destra e popolo di sinistra. Questa divisione c'è storicamente stata, e non mi sogno affatto di negarlo. Ma oggi è obsoleta, e viene reintrodotta dall'alto per via manipolatoria, utilizzando strati identitari sedimentati in basso nell'ultimo secolo. (3) Uscire da questa Europa. Se ci fossero possibilità reali di riformare l’Europa dall'interno in corso d'opera, non direi questo, ma mi unirei alla stragrande maggioranza dei “sinistri” riformatori che vogliono una Europa “diversa”. E tuttavia costoro non sono in grado di andare oltre le loro pie intenzioni soggettive. Le oligarchie reali che dirigono questa Europa (e non il sogno di Erasmo, Mazzini o Spinelli) vogliono fortemente la sua americanizzazione (modello anglosassone di capitalismo illimitato privatizzato), la sua sottomissione geopolitica agli USA (NATO, interventi in Kosovo 1999, in Afganistan 2001, in Irak 2003, in Libia 2011, domani chissà), 1’uniformità culturale occidentalistica, insomma tutta la merda (non c'è altro termine!) che ci offre quotidianamente il sistema mediatico editoriale ed universitario.






11. E qui provvisoriamente finisco. So perfettamente che queste tre precondi­zioni sono assolutamente inattuabili a breve termine, e sospetto anche a medio termine. I “sinistri” vocianti continueranno a proporre inutili ed irrilevanti partitini comunisti o di tipo consociativo antiberlusconiano (Diliberto, Ferrero) o di tipo settario-paleolitico (Ferrando), o semplici ap­pendici della cultura femministico-ecologista post-moderna (Sinistra Critica). Non c’è niente da fare.


Continuerà l’illusione di potere alla fine, magari cambiando le maggioranze elettorati, modificare la natura neoliberale assoluta di questa Euro­pa. Chi nutre questa illusione non capisce o non vuol capire per opportunismo, pigrizia, stupidità o boria intellettuale, che siamo di fronte ad un processo storico, e non solo politico congiunturale. Lo storicismo ed il mito del progresso lineare irreversibile sparso a piene mani nell'ultimo mezzo secolo dalle canaglie dei gruppi intellettuali comunisti degenerati hanno abituato la gente a pensare in termini ferroviari di Indietro/ avanti. Ma come, abbiamo fatto l’Europa, non possiamo mica andare Indietro! Biso­gna andare Avanti!


In realtà, nella storia non c’è un avanti ed un indietro. La storia è un luogo di prassi umana integrale, non di temporalità evoluzionistica in qualche modo prevedibile. La fine del berlusconismo è semplicemente una opportunità, che bisognerebbe saper cogliere per riorientare integralmente una intera cultura politica fallimentare.


Questa opportunità verrà colta? Sarei contento di poter lasciarmi andare ai soliti auspici generici ottimisti, del “pensare positivo”, ma purtroppo sono un allievo di Hegel e Marx, e non di Jovanotti o Celentano. Data la situazione attuale, ed il terribile potere di interdizione diretta o indiretta dei gruppi intellettuali italiani che conosciamo, non vedo nessuna possibilità di invertire la tendenza babbionizzante ed identitaria. I vele­ni dell’antiberlusconismo di “Repubblica” e del PD continueranno purtroppo a lungo, perchè sono strutturali, in quanto coprono ideologicamente una gi­gantesca tragedia storica. Vorrei poter promettere di più, ma per il momento siamo ancora alla fase dei preliminari dei preliminari. Per chi ha già la mia età è triste. In quanto ai giovani, chi vivrà vedrà.

lunedì 24 ottobre 2011

Della misura
Potrà anche contraddittoriamente fregiarsi dell’etichetta di “marxista”, ma l’economista opererà sempre in un recinto chiuso, limitato e concavo. L’economista non può illudersi di ampliare i propri striminziti orizzonti semplicemente grazie a una tardiva, autodidattica lettura di “Leggere il Capitale” o di una eccellente “Storia critica del marxismo”. Dunque, per quanto le argomentazioni per partizioni abbiano sempre evidenti limiti intrinseci, ritengo che nei dintorni della “totalità” l’economista può solo apprendere, silente, dal filosofo.
Laddove tuttavia si entri nel ristretto novero della “misura”, la prospettiva sia pure in parte cambia. Il 5% gettato li’ da Preve è una espressione retorica, e sarebbe meschino poggiare una critica su di esso. Tuttavia credo sia utile informare che le condizioni di riproducibilità del capitale sono realmente misurabili, e che alle dinamiche inflazionistiche degli anni ’70 si può scientificamente attribuire il carattere della insostenibilità sistemica. Quelle dinamiche erano generate da vari ordini di conflitti, sociali e geopolitici. Ma una parte rilevante delle medesime può essere agevolmente ricondotta a una dinamica senza precedenti dei salari nominali e della spesa pubblica nominale destinata alla produzione di merci salario.
Detto ciò, reputo anche io la vulgata operaista per altri versi fuorviante, ed evito ormai di partecipare alle cosiddette “discussioni della sinistra”. Convinto che Preve e La Grassa abbiano fornito in questi anni contributi che personalmente non ho condiviso ma che sono stati di estrema rilevanza per liberarmi da alcune desuete incrostazioni “ortodosse”, porgo i miei saluti a loro e a tutti.
Con stima, 

Emiliano Brancaccio.


COMMENTO AL TESTO “DELLA MISURA” DI EMILIANO BRANCACCIO



di Costanzo Preve

Ringrazio Emiliano Brancaccio per almeno due ragioni. In primo luogo per le parole di cortesia verso il mio testo “Storia critica del marxismo” (ed. Città del Sole) definito eccellente. Si tratta di un testo che ha già avuto un’edizione greca e una francese, ed è in gara per il premio del testo meno recensito in Italia negli ultimi anni. In secondo luogo, per la forma urbana, cortese, sintetica e chiara dei suoi rilievi. Pur sapendo di non poter competere con lui sul piano della brevità, ritengo opportuno fare alcuni rilievi.

1. Credo che ci sia una piccola contraddizione tra l’affermare che nei dintorni della totalità l’economia può solo apprendere, silente, dal filosofo, e poi dire poche righe sotto che le condizioni di riproducibilità del capitale (inteso evidentemente come totalità dinamica riproduttiva) sono misurabili. Se questo è vero, come Brancaccio afferma, allora è il filosofo che deve apprendere, silente, dall’economista, non viceversa.
Ora, il problema non è certo personale, e cioè se debba essere Brancaccio o Preve, silenti, ad apprendere dall’altro. Il senso comune direbbe giustamente che entrambi possono imparare qualcosa dall’altro. Vale invece la pena chiarire meglio quale sia l’oggetto specifico della filosofia quando pretende di interrogare criticamente la totalità; pretesa come è noto, contestata da gran parte delle scuole filosofiche oggi accademicamente riconosciute, dal neokantismo all’ermeneutica, dal positivismo alla filosofia analitica, eccetera. La filosofia ha come oggetto solo il qualitativo, e di fronte al quantitativo deve cedere il passo alla cosiddetta “scienza moderna”, sul cui modello a fine Settecento è stata costruita anche l’economia politica, e poi la sociologia, eccetera. Di fronte a questo fatto ci possono essere solo due soluzioni fondamentali.
La prima, che è anche la mia, dopo aver preso atto senza contestazioni che la filosofia ha come solo oggetto il lato qualitativo della totalità, ne rivendica tuttavia fortemente il carattere conoscitivo e addirittura veritativo, rifiutando la limitazione del sapere filosofico al campo della logica generale e/o della epistemologia. Fra i giovani studiosi, segnalo il nome di Diego Fusaro, ma per fortuna ce ne sono anche molti altri.
La seconda, che per esempio è dei dellavolpiani e degli althusseriani (ad esempio La Grassa) rivendica il fatto che l’unica e sola ideazione conoscitiva è la scienza moderna, non ce ne sono altre, e la filosofia è poco più di una chiacchiera esistenziale a ruota libera sul senso soggettivo della vita, o al massimo un “servizio epistemologico di controllo” delle scienze naturali e sociali. Io mi oppongo con tutte le mie forze a questa concezione, e quindi prego di non confondermi con l’amico La Grassa, con il quale il conflitto su questo punto è irriducibile. Io rivendico una interpretazione idealistica, umanistica e dialettica dell’eredità di Marx (cosa distinta dalla filologia marxiana e anche ovviamente dalle ortodossie marxiste), e questo è sufficiente per provocare a La Grassa tre consecutivi attacchi di orticaria.

2. Concordo con Brancaccio che la mia espressione del 5% a proposito delle lotte operaie fordiste è un’espressione retorica “a ruota libera” gettata lì, e ringrazio Brancaccio per non avere “infierito”. Premettendo che non sono un economista, ma un filosofo e uno storico della filosofia, avevo appena letto il saggio di Harvey L’enigma del Capitale (qualcosa il povero non-specialista deve pur leggere!), in cui non c’è la minima traccia della “risposta” del capitale al ciclo di lotte operaie, e quando ho letto Ferrero ho avuto un piccolo sussulto di irritazione. Tutto lì. Il 5% è solo una dilettantesca battuta per “torcere il bastone dall’altra parte”, e non vuole essere nient’altro.

3. Brancaccio ritiene utile “informare” che le condizioni di riproducibilità del capitale sono realmente misurabili (tesi I) e che alle dinamiche inflazionistiche degli anni Settanta si può scientificamente attribuire il carattere della insostenibilità sistemica (tesi II, che però discende dalla tesi I).
Lo ringrazio sinceramente dell’informazione, e non intendo affatto scherzare. Se però Brancaccio ha ragione, devo mettermi io silente al suo magistero. Non avrei certo nulla in contrario. Qui non ci stanno di mezzo vanità personali, ma l’accertamento della realtà.
Dal momento che negli USA negli anni Settanta non si era di fronte a un ciclo sistemico di lotte operaie, e tantomeno a una insostenibilità dell’assente welfare state, si può dubitare della tesi di Brancaccio. Negli USA non si poneva nessun problema di “riportare l’ordine nella produzione di fabbrica”, tipo marcia dei 40.000 a Torino, e neppure in Inghilterra o in Giappone, salvo errore. Qui cade la tesi operaista della “risposta del capitale alla insubordinazione operaia”, come se il mondo intero fosse una unica grande Mirafiori.
Se quanto dico è vero, passa in primo piano l’ipotesi del mutamento di ciclo di accumulazione, non certo la risposta alla soggettività proletaria, e su questo punto di fatto Giovanni Arrighi e Gianfranco La Grassa diventano addirittura compatibili.

4. Distinguerei due diversi problemi, quello della misurabilità delle condizioni di riproducibilità del capitale, e quello, da tenere distinto, del concetto di insostenibilità sistemica.
Ammetto apertamente di non avere le idee chiare e di non essere portatore di posizioni personali in proposito. Spero che Brancaccio apprezzi questa ammissione “scientifica”, essendo la scienza il regno del dubbio metodico e delle ipotesi. Proprio perché rivendico il carattere conoscitivo e addirittura veritativo della filosofia nel campo della totalità qualitativa (peraltro in buona compagnia, con Aristotele ed Hegel e, credo, anche di Marx), proprio per questo ho molto rispetto per il campo del pensiero scientifico. Ciò che segue è soltanto l’esplicitazione di due opinioni rivedibili, e sostenute senza arroganza e iattanza.
A mio parere le condizioni di riproducibilità del capitale non sono misurabili. Lo sarebbero, se ci fosse soltanto uno ed un solo modello di “capitale” inteso come rapporto sociale di produzione. Ma se la logica di allargamento del rapporto di capitale è data dall’estensione del processo di mercificazione, allora vi sono molti scenari possibili distinti di queste “alternative di mercificazione”, non una sola. Se è così, ci sono distinti scenari capitalistici, ognuno dei quali dà luogo a scenari plurali di misurabilità delle condizioni di riproducibilità.
Se questo è vero, allora ne consegue che ci sono anche diversi scenari di “insostenibilità sistemica”. Ma vorrei saperne di più.

5. E’ possibile che in Italia, a metà degli anni Settanta, si sia verificata una dinamica senza precedenti dei salari nominali e della spesa pubblica nominale destinata alla produzione di merci salario. Se è così, la politica di “austerità” di Berlinguer è economicamente giustificata ex post, e fu un errore “estremistico” criticarla. Ma la stessa cosa si può dire per il mondo intero?
Non credo. In gran parte del mondo intero non c’era affatto questo abnorme aumento dei beni salario, diretti o indiretti (welfare). Se è così, risale in primo piano la tesi di Harvey (e di Giacché, al netto delle sue conclusioni compatibilistiche con la linea di Diliberto) sulla logica di allargamento finanziaria globalizzata del capitale, del tutto indipendente dalla cosiddetta “risposta” alla Ferrero-Negri. In quanto alla quantificazione, concedo ancora che il 5% era una semplificazione da bar, frutto di una reazione poco meditata alla ormai per me insopportabilità della vulgata di “sinistra”.

6. Un’ultima segnalazione, per chiarire ulteriormente il mio punto di vista. Le ragioni per cui non sopporto il modello operaista in tutte le sue varianti (faccio eccezione per Raniero Panzieri, che considero però un semplice geniale ricercatore, troppo presto mancato) non sono assolutamente “economiche”, ma sono esclusivamente filosofiche.
Il paradigma operaista è una forma di soggettivismo che pretende di essere “costituente” (addirittura una ontologia biopolitica costituente, nel linguaggio onirico di Hardt e Negri), e si oppone frontalmente alla eredità della grande filosofia classica tedesca di Fichte, Hegel e Marx, alla quale invece io mi ricollego. Non c’è qui lo spazio per chiarire, ma l’ho fatto ampiamente altrove, come io rifiuti radicalmente l’interpretazione del pensiero di Nietzsche data da Foucault (e da Vattimo), e il rifiuto della dialettica sviluppato da Negri e dai suoi seguaci, per cui la fuga in avanti del “comune” è a mio avviso un alibi grottesco per rifiutare la riqualificazione del “pubblico” e della sovranità monetaria dello stato nazionale.
Vorrei segnalare questo con forza a Brancaccio, dato che non è uno specialista in filosofia e potrebbe pensare che le mie obiezioni all’operaismo siano soltanto “economiche”. Non solo non è così (così è semmai per il solo La Grassa), ma per me questo è solo un dato minore. L’operaismo è un “capitalismo rovesciato”, e in quanto tale innocuo per le oligarchie al potere.
Ringrazio Brancaccio e gli altri eventuali lettori per la pazienza di una lettura critica.
Torino, 18 ottobre 2011

sabato 1 ottobre 2011

Verso una definizione condivisa di comunitarismo Il comunitarismo come etica e come politica




di Costanzo Preve


1. È possibile arrivare ad avere una definizione condivisa di comunitarismo? No, è assolutamente impossibile. È possibile ovviamente proporre alcuni elementi credibili per una sua definizione generica, ma è imHegel,possibile pensare di poter giungere ad un’unica definizione condivisa. E la ragione di questa impossibilità è molto semplice. Comunque lo si intenda, il comunitarismo è una unità di teoria e di pratica (e più esattamente di teoria comunitaria e di pratica solidaristica), e le unità di teoria e di pratica non possono essere definite. Soltanto la teoria, o per ripetizione pleonastica la “teoria teorica” può essere definita con categorie e concetti teorici. Se un “ismo” connota un’unità concreta di teoria e di pratica, questo “ismo” non può essere definito per principio, perché soltanto le forme storiche e sociali concrete della sua messa in pratica hanno in realtà un valore formativo.
Si tratta di un fatto semplice ed intuitivo. E tuttavia è bene averlo sempre ben presente. Hegel aveva ragione quando scrisse che è inutile definire teoricamente il nuoto prima di nuotare. Da un punto di vista astratto, il comunitarismo è soltanto l’astratto contrario polare dell’individualismo e del collettivismo, che in quanto opposti in correlazione essenziale non fanno che rovesciarsi continuamente l’uno nell’altro. Concretamente, soltanto la pratica comunitaria può alla lunga mostrare la sua superiorità rispetto alle pratiche individualistiche e collettivistiche. in realtà un valore normativo.


2. Le definizioni che cercherò di dare in questo capitolo sono pertanto del tutto formali ed astratte. Per sgombrare il terreno da alcuni possibili equivoci inizierà prima dal rapporto fra relativismo ed universalismo, e cioè fra usi particolari e possibilità di una norma universalismo, e cioè fra usi particolari e possibilità di una norma universale di comportamento estendibile in via di principio all’intera umanità, pensata come se fosse un solo soggetto unitario. Passerà poi a discutere una teoria dell’individuo, perché senza una teoria dell’individuo non ci può neppure essere comunitarismo, se non in forme regressive. Terminerò infine con una discussione sul comunitarismo come etica e come politica. E tuttavia. Questo non potrà che restare inevitabilmente astratto, se non è pensato in modo contrastivo all’individualismo ed al collettivismo.


Continua: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2758

martedì 26 aprile 2011

Costanzo Preve, Marx inattuale. Eredità e prospettiva 
Bollati Borighieri, Torino 2004


Il libro di Costanzo Preve non è solo un saggio storico e critico su Marx e il Marxismo, ma un’opera filosofica, scritta da un profondo conoscitore della filosofia, che intende partire da un confronto finale con l’esperienza marxista, per creare gli spazi teoretici adeguati a ripensare le contraddizioni dell’imperialismo contemporaneo e le prospettive di un suo superamento storico.
Secondo Preve, il pensiero di Marx nasce da un orientamento a rinunciare alla teoresi, intesa come specifica ricerca della verità, fondante ogni particolare scienza particolare e ogni scelta di carattere pratico, e a privilegiare lo studio scientifico e la critica dialettica dell’economia politica inglese, al fine di individuare, nell’emergente realtà capitalista, le condizioni materiali e concrete per una rivoluzione sociale che consentisse di sopprimere l’alienazione reale. Gli elementi filosofici, maturati attorno alle riflessioni giovanili sul problema dell’alienazione, che si innestavano organicamente sulle linee di pensiero della filosofia classica tedesca, vengono volutamente lasciati incompiuti, a favore di una scelta di prassi rivoluzionaria, considerata da Marx di primaria importanza di fronte ad un presunto conservatorismo politico della filosofia di Hegel, all’inconcludenza di Bauer e della sinistra hegeliana, all’urgenza della situazione storica, sentita dal giovane intellettuale di Treveri come matura per un salto di qualità rivoluzionario, come “gravida di rivoluzione”.
Ne scaturisce una teoria dei modi di produzione e una visione dialettica della storia e del capitalismo, fondate scientificamente ma non filosoficamente. Ciò significa che il materialismo storico è privo di una riflessione fondante di carattere veritativo –tipica invece della filosofia greca e dei classici tedeschi-; la sola che gli consentirebbe di contenere in sé quegli elementi di assolutezza, in grado di sollevarne i valori espressi al di sopra di ogni relativismo storico.
Aggiungiamo che la questione dell’assolutezza del sapere non è sconosciuta all’interno del marxismo ed è tutt’altro che accademica. Lukàcs la solleva con chiarezza ne Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista, in modo specifico nei capitoli dedicati alla Fenomenologia dello spirito. Ivi sostiene apertamente che il sapere umano deve avere in sé elementi di assolutezza, che lo sottraggano al cambiamento dei tempi e creino quindi un quadro teorico valido universalmente, capace di orientare gli uomini al di là del cambiamento storico e geografico di teorie, culture, mode e quant’altro. Se, nella vita quotidiana come in quella pubblica, si può far riferimento a principi di valore assoluto, ad una verità –posta naturalmente all’interno di un circolo ermeneutico che consenta il libero dialogo fra opinioni veritative diverse-, ci si può sottrarre più facilmente ai condizionamenti culturali dei sistemi sociali di appartenenza e ai mutamenti opportunistici della politica.
Questo non è certo accaduto al mitico “movimento operaio socialista e comunista”! Per capirlo, senza troppe parafrasi, è sufficiente guardare le immagini delle code chilometriche di auto sulle autostrade di agosto –spesso sorrette da debiti contratti ad hoc pur di poter “fare le ferie”- e ricostruire le vicende politiche di personaggi come Eltsin, Putin, Ferrara, D’Alema, ecc.
In questo saggio, Costanzo Preve cerca anche di capire i motivi più profondi di quanto è storicamente accaduto, soprattutto dopo il 1989. In sostanza, secondo la sua opinione, il pensiero di Marx si muove sul terreno del nichilismo filosofico, rinnegando la grande tradizione teoretica greca e occidentale, e genera, con ciò, gli spazi storico-culturali per la sua sostanziale riduzione, sin dagl’anni del tardo Engels e della II Internazionale, ad ideologia semireligiosa del movimento operaio; un’ideologia fondata su uno storicismo determinista e unilineare, speculare a quello del pensiero borghese sia illuministico che positivistico, paragonato dall’autore ad una linea ferroviaria con itinerario prefissato.
La storia diventa una successione di modi di produzione, espressiva di paradigmi teorici e valori culturali diversi, legittimi su basi storiche, mossa oggettivamente da elementi economici, con una meta finale inevitabile per tutti i paesi del pianeta, come oggi lo sarebbero la globalizzazione neoliberista e la società americanizzata. Dopo la partenza dal comunismo primitivo, si passa per le stazioni dello schiavismo e del feudalesimo; successivamente è necessità che tutte le nazioni
passino a quelle del capitalismo per approdare alla meta ultima del comunismo maturo, che distribuirà secondo i bisogni.
I risvolti culturali e politici più immediati di questa versione del materialismo storico sono l’ottimismo psicologico e l’immobilismo politico di militanti e quadri dirigenti della II Internazionale; le conseguenze di più ampio respiro sono le mentalità camaleotiche, l’adattamento al mutamento dei tempi, di togliattiani, posttogliattiani, postsovietici, che rivelano una povertà sconcertante di valori forti, compendiata dall’immagine televisiva dell’ex numero uno del comunismo internazionale, Michael Gorbacev, che pubblicizza la pizza americana. Com’è stato possibile questo itinerario dal Cremlino alla pizza? Dai valori della “solidarietà socialista” a quelli del più triviale consumismo capitalista? Ci sarebbero in fondo modi più dignitosi per vivere e dialettizzare una sconfitta storica di simili proporzioni!
Sulla base del paradigma ermeneutico, che abbiamo tentato di sintetizzare succintamente, Preve ricostruisce analiticamente gli aspetti essenziali del pensiero di Marx e le posizioni teoriche che ne discendono, ricostruendo anche, con rara chiarezza esaustiva e senso dell’umorismo, i caratteri dei vari “marxismi” del novecento.
Nello specifico, gli orientamenti teorici, variamente comuni a tutte le correnti di pensiero ispirate da Marx, e contenute nella versione deterministica del suo materialismo storico, sono tre: lo storicismo, che riduce l’intera realtà umana a storia unilineare, l’economicismo, che conferisce assoluta centralità e indipendenza ai movimenti dell’economia, l’utopismo, che postula il comunismo quale meta finale e necessaria di questo processo storico deterministico, risultato dell’automovimento dialettico del capitalismo.
In questo contesto spiccano negativamente soprattutto la teoria del crollo spontaneo del capitalismo e del carattere rivoluzionario della classe operaia. La conclusione dell’autore è che il pensiero di Marx potrebbe ancora essere un riferimento valido, a patto di abbandonare completamente questi paradigmi teorici e di fondarlo filosoficamente sulla base di “una concezione ontologico-sociale di umanità”, che si alimenti dalle migliori riflessioni di Marx sulla natura e sulla libertà umane, riprendendo le intuizioni dell’Ontologia dell’essere sociale di Lukàcs (autore di cui, non casualmente, Preve è esperto di livello internazionale).
In questo direzione, nel libro, si pone in luce che una delle radici del pensiero di Marx è la tradizione greca che faceva dell’anima “il fondamento della verità”; e ciò apre in Marx lo spazio “per due teorie, una teoria della natura umana e una teoria dell’individualità umana”. Aspetti del pensiero marxiano analiticamente ricostruiti a partire dal commento di un passo fondamentale dei Grudrisse, in cui Marx evoca un comunismo quale condizione di piena libertà dell’individuo da ogni condizionamento sociale.
La prima teoria fa di Marx il teorico della possibilità di costruire un’ampia varietà di modelli sociali (e non il macchinista della locomotiva della storia), in base all’idea dell’uomo in quanto essere generico, non preordinato, dalla sua specifica struttura materiale, a date e sempre identiche modalità di vita e attività costruttive, come lo sono ad esempio le api che vivono in società e lavorano ma sempre e solo in un dato modo: creando un alveare e trasformando il polline in miele o cera. L’uomo può cambiare le sue attività lavorative, le sue creazioni e le sue forme sociali.
La seconda teoria lo erige a teorico della libertà più autentica e non del livellamento, come del resto aveva già riconosciuto, a suo tempo, Galvano Della Volpe. Su questo terreno, il filosofo di Treveri costituirebbe il più alto momento di elaborazione del concetto di libertà dell’uomo della storia universale. Gli stessi greci infatti –cui Preve riconosce un primato filosofico tutt’ora non superato- rimangono ancora legati alla concezione dell’individuo come persona, maschera di carattere, individuo socialmente condizionato; mentre il pensiero borghese si limita a pensare la libertà in termini di semplice indipendenza formale rispetto ai ruoli sociali prefissati delle società tradizionali, ma ponendola sempre entro rapporti di dipendenza materiale.
Marx sviluppa materialisticamente e porta a compimento l’eredità della migliore Filosofia Classica Tedesca, elaborando un coerente “individualismo sociale”. Nessuno prima di lui avrebbe mai pensato, con questa radicalità, ad un’individualità umana reale, originale e irripetibile, radicata e
organizzata necessariamente in società, solidale con ogni altra individualità, posta da questa stessa società solidaristica nelle condizioni di poter sviluppare, in piena indipendenza da ogni condizionamento eteronomo, ogni aspetto della propria personalità. Nessuno avrebbe posto il passaggio ad una simile comunità di uomini effettualmente liberi, al di fuori di ogni alienazione, al centro della propria attività politica, credendolo pienamente realizzabile nella storia e lavorando per costruire attorno a questo obiettivo un movimento reale di forze sociali organizzate. Questo radicale “individualismo sociale” è, secondo Preve, l’aspetto più rilevante e più fondante del pensiero marxiano, che si collega strettamente alle sue riflessioni giovanili sul problema dell’alienazione e sulla natura umana, ma anche quello più misconosciuto da tutte le sua successive formulazioni.
Ponendo in rilievo la centralità, nel pensiero marxiano, di queste due teorie, il marxismo riassume attualità sia come critica strutturale dei ruoli sociali, che si alimenta dall’ampia conoscenza che Marx aveva dei classici della letteratura universale, sia come teoria della libertà individuale; una libertà ben distinta dall’individualismo borghese, nato sul terreno dell’utilitarismo e dell’egoismo economico.
In questo contesto, Preve fa due considerazioni che rendono ancor più profondo, di quello che non fosse nelle pagine precedenti, il fossato che separa Marx dai marxismi successivi.
In primo luogo, in base alla riflessione antropologica citata, che scorre coerente in tutte le fase del suo pensiero, come aveva già visto Garaudy, l’uomo è in sé soggetto libero, non preordinato a nulla dalla sua struttura materiale specifica, quindi è in grado di esprimere potenzialmente un’infinita varietà di attività lavorative –come dimostrato dalla storia- e di forme sociale. Se non c’è nulla, nella sua natura, che lo costringa a produrre entro un rapporto sociale di servaggio, piuttosto che entro un rapporto di libertà, neppure sul piano storico, è preordinato in base alle presunte “moire” dell’economia che debba passare dal capitalismo al comunismo, o che il capitalismo stesso sia una fase storica necessaria per i popoli che non lo hanno mai conosciuto, come i popoli aborigini dell’australia tutt’ora, o i popoli asiatici del XIX secolo.
L’uomo, come del resto molti esponenti del movimento operaio -marxisti e marxisti- avevano cercato di affermare ad inizio secolo, in reazione al determinismo della II Internazionale, da Lenin stesso al Mussolini del 1914, interagisce liberamente, con le proprie azioni organizzate, sui condizionamenti sociali e sugli eventi storici, cercando di utilizzarli nel quadro delle proprie strategie politiche di cambiamento. Com’è nata la Rivoluzione d’Ottobre –rivoluzione contro “Il Capitale”, secondo il giovane Gramsci, ancora influenzato dall’attualismo gentiliano- se non da una libera interazione fra l’azione politica del quadro dirigente del partito bolscevico, le contraddizioni della società zarista e i contraccolpi disastrosi della guerra?
Dunque la categoria centrale di Marx, partendo dal piano antropologico –quello che, secondo Preve, dovrebbe essere ripreso e fondato teoreticamente con più coerenza da un’ontologia sociale e storica dell’uomo- , non è la necessità ma la possibilità come potenza aristotelica, essente-inpossibilità. In questo senso, è nelle possibilità del capitalismo di essere il terreno di coltura del comunismo, a patto che i comunisti sappiano creare una coscienza collettiva che ne renda attraente l’idea, di fronte alle contradddizioni dell’esistente.
In secondo luogo Marx è pensatore di una forma di libertà individuale che non si può confondere con l’ndividualismo borghese, neppure nelle varianti estreme che esso ha assunto oggi, con quella che Del Noce chiamava la “rivoluzione radicale”; anzi ne è l’antitesi. E su questo terreno tornano ad essere posti sotto accusa i marxismi, in modo particolare quelli radicati nella grande pagliacciata del ’68 e nei velleitarismo democratici del comunismo occidentale. Questi e ad altri marxismi non hanno mai compreso la particolarità dell’individualismo sociale di Marx e lo hanno confuso con le nuove forme di individualismo borghese, sorte con il passaggio dall’autoritarismo patriarcale alla rivoluzione radicale, e che attraevano spontaneamente il mondo giovanile e femminile: sesso libero, viaggi liberi, musica stravagante, ecc. Su questi comodi fraintendimenti teorici, sulla confusione culturale fra la libertà del comunista e l’orgasmo onanista della femminista, si è poi innestata una precisa, semplicistica e forse anche squallida operazione politica: fare di questa ondata di individualismo radicale e di Pannella il fondamento antropologico-culturale della “Via italiana al
socialismo”. I risultati finali sono, da un lato, la correttezza istituzionale e furbesca di Violante, dall’altro lato, i tossici dei “centri sociali”.
Scrive Preve: “Il marxismo storicista italiano dell’ultimo cinquantennio non ha mai capito letteralmente nulla di questo elementare problema, con la tragicomica conseguenza di scambiare la modernizzazione dell’individualismo borghese nel suo passaggio dall’autoritarismo patriarcale alla liberalizzazione ‘radicale’ (nel senso di Pannella, non di Marx) con la progressiva avanzata storicista della via italiana al socialismo. Si tratta di una vera vergogna culturale nazionale, di cui provo veramente imbarazzo…Il solo pensatore italiano che ci ha capito qualcosa è stato Augusto Del Noce … aveva capito … che la dinamica della modernizzazione radicale del costume non portava assolutamente a un avvicinamento alla transizione parlamentare al socialismo sognata dai visitatori dei Festival dell’Unità, ma al più sicuro e solido assestamento delle società ultracapitaliste”.
Nell’analisi di Preve ci sono però, a nostro personale modo di vedere, due convitati di pietra, cioè due questioni di primaria importanza che rimangono sullo sfondo e non vengono prese in esame. La prima è la dialettica fra l’Illuminismo e il pensiero di Rousseau, che si travasa in gran parte nel giacobinismo francese del 1793. La seconda è il modo in cui Marx vi si rapporta, nella riflessione teorica e nell’azione politica, fra il 1843 e il 1848, anni che vedono anche il conflitto con Weitling all’interno della Lega dei Comunisti tedeschi.
L’Illuminismo, sin dai suoi prodromi greci con la scuola dei Sofisti, pone un problema reale di emancipazione dell’uomo ad una condizione di maturità razionale, in base alla quale ogni individuo valuta liberamente credenze e istituzioni cui aderire. Storicamente, sin dall’età di Pericle, questa esigenza di libertà cresce entro forme economiche mercantili avanzate e ne è condizionata fortemente, assumendo l’aspetto dell’ “individualismo possessivo” –per usare l’efficace terminologia di Macpherson: una cultura tendenzialmente individualista e utilitarista che nega il valore di ogni seria esperienza religiosa umana e, quindi, di fatto, si fonda su un’antropologia materialistica e sensista, come quella di Protagora –nell’interpretazione di Platone- e di Hobbes. Fra sei e settecento, l’ascesa del capitalismo e la modernità borghese si legano a questa linea di pensiero che pensa l’uomo come un “bourgeois” mandevilliano, ripiegato egoisticamente sui propri interessi materiali, entro rapporti sociali esasperatamente individualistici, alienanti e conflittuali. Rispetto ad essa, il pensiero di Rousseau rappresenta un tentativo di far rientrare l’uomo entro valori di integrazione comunitaria, tipici delle società e delle culture tradizionali, fondati su basi religiose. Si tratta di una reazione critica alla modernità borghese e illuminista, che confluirà nell’ideologia giacobina del “citoyen”, radicata in una profonda esigenza di spiritualità che già rendeva la figura di Robespierre invisa ai contemporanei inbevuti di illuminismo ateo (come Danton o Fouché), e a storici di orientamento radicaldemocratico come Michelet od Aulard, che lo accusano di aver impedito la liquidazione del cattolicesimo in Francia, considerata la finalità politica ultima di Voltaire e del movimento dei Lumi.
Che Robespierre sia uno spiritualista ed abbia una visione rivoluzionaria comunitaria e sociale, fondata su una fede religiosa, il cui momento culminante sarà l’istituzione in Francia del culto ufficiale dell’Essere Supremo, è, a nostro giudizio, un dato storico non più confutabili, a partire dal saggio di Henri Guillemin, Robespierre politico e mistico (Garzanti, Milano 1989). Ma sono orientamenti mediati dal pensiero di Rousseau, che sin dalla loro origine si muovevano in polemica esplicita e consapevole con la filosofia del Lumi e con i valori del “bourgeois”, di cui essa era portatrice, sulla scia del giusnaturalismo di Locke e sulla base dell’emergente, sempre più impetuoso sviluppo delle forze produttive capitalistiche.
Di conseguenza le dicotomia Voltaire-Rousseau, Girondini e Giacobini non possono essere inquadrate entro la comoda contrapposizione libertà-uguaglianza, interna al razionalismo illuminista, ancora dominante nelle pigre vulgate accademiche, sia di destra, sia di sinistra, accomunate dal rifiuto pregiudiziale di riconoscere il carattere alternativo radicale della filosofia di Rousseau, rispetto all’Illuminismo, e conseguentemente della visione rivouzionaria robespierrista, condivisa da Saint Just, rispetto alla prospettiva di rivoluzione liberale e giacobina, incarnata dalla Gironda e dai Termidoriani.
Queste considerazioni non sono lontane dall’argomento di questa recensione, per quattro fondamentali motivi. In primo luogo, con il babeuvismo e Buonarroti, il robespierrismo, con tutte le esigenze di virtuosità, di ascetismo spirituale, di semplicità di vita e con tutti i limiti di arcaismo, di cui esso è portatore, rappresenta la cultura dominante del movimento socialista francese del primo ottocento. Fa sentire la sua influenza decisiva anche nelle correnti originarie del comunismo tedesco con Weitling, che ne è palesemente inbevuto. Sino al 1848, il solo Proudhon fa sentire una voce contraria a questa impostazione rousseauiana e giacobina; una voce radicata nell’Illuminismo e nel liberalismo più autentico, che l’aveva sottoposta a critica con B.Constant, nel 1819, nel nome della libertà dei moderni contrapposta a quella degli antichi.

In secondo luogo, Marx, che è, per parte di padre, di formazione mentale illuminista, nella Questione ebraica, miconosce l’alternatività di Rousseau rispetto all’Illuminismo e del giacobinismo rispetto alla rivoluzione liberale e borghese, impostando la dicotomia interpretativa citata libertà-uguaglianza, 1789 liberale contro 1793 egualitario e democratico, su cui è ancora comodamente e pigramente adagiata quasi tutta la sinistra politica e culturale. Rousseau e Robespierre sono dunque la componente più radicale e contraddittoria del pensiero illuminista. In questo ordine di idee non ci sono motivi per predere sul serio le loro istanze religiose: o sono sottaciute, o vengono minimizzate e razionalizzate, classificate sic et simpliciter come espressioni di deismo, come fatto dallo stesso A.Mathièz.
Con ciò si arriva direttamente alla terza considerazione: Marx ha una visione riduttiva dell’esperienza religiosa, come esperienza alienante, espressione di una società alienante; e ciò è molto chiaro proprio nella già citata Questione ebraica. Di conseguenza, la proprosta di una forma di libertà superiore a quella borghese viene esplicitamente fondata sull’ateismo, sulla tendenza distruttiva ad abbattere e a sradicare ogni tradizione religiosa, che richiama proprio l’Illuminismo più astratto, quello che spingeva un D’Alema ante litteram come Fouché a scrivere, sul portone d’ingresso dei cimiteri, “la morte è un sonno eterno”; iniziativa che trovò il suo critico più intransigente in Robespierre, che la denuncia con forza nel grande rapporto, tenuto alla Convenzione Nazionale, il 20 Pratile, sull’istituzione della Festa dell’Essere Supremo.
In quarto luogo, Marx, contrapponendosi a Weitling fra il 1846 e il 1848, ebbe un ruolo essenziale nel distruggere l’egemonia giacobina all’interno del primo comunismo tedesco, con le ricadute a catena che si possono immaginare su tutto il movimento europeo, dato il primato che il suo pensiero vi conseguirà a distanza di alcuni decenni. La contrapposizione fu fra volontarismo puro e radicamento nella realtà storica, fra utopia e scienza, ma anche fra una cultura sentimentale, misticheggiante, premoderna e una cultura fortemente razionalista e scientista, dichiaratamente ostile ai valori religiosi, marchiata dall’Illuminismo più astratto e voltairiano. Ne può conseguire, ove s’indeboliscono la componente dialettica di Marx, l’eredità etica e comunitaria dei Classici Tedeschi, una mentalità affine a quella borghese, aperta a valorizzare tutto ciò che è progresso o presunto tale, scienza, tecnica moderna, liberazione da tradizioni ancestrali, ecc. E allora perchè, se la storia ha conquistato lo stato laico, consentire alle ragazze musulmane il velo a scuola? Perchè non ingaggiare una furiosa battaglia politica contro i cattolici, per consentire lo svolgimento del Gay pride a Roma, in pieno Anno Santo, salvo poi recriminare sulle loro scelte elettorali l’anno successivo?
Naturalmente queste nostre considerazioni non pretendono esaustività e non tolgono nulla al valore dell’opera di Preve. Sono solo uno dei tanti tasselli del mosaico della storia del pensiero e della cultura umane, in questo caso relativa agli ultimi tre secoli e al marxismo, sui quali riflettere, dando sempre per scontata la grande lezione di Hegel: il Vero è il Tutto, non esiste mai una sola e singola causa di un evento, piccolo e grande che sia.

  Prof. Renato Pallavidini