giovedì 22 dicembre 2011

Fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo? 



di Eugenio Orso

Il passaggio da un vecchio modo storico di produzione dominante al nuovo ha richiesto per compiersi, nel corso della storia umana, tempi plurisecolari nonché trasformazioni culturali, economiche e sociali rilevanti.


La storia ha traghettato attraverso i secoli le popolazioni europee nel lungo passaggio dal feudalesimo al capitalismo, così come questione di secoli è stato l’avvento del feudalesimo che ha fatto seguito al modo di produzione schiavistico.


In questi ultimi decenni, però, le trasformazioni si sono progressivamente velocizzate, grazie all’azione congiunta della tecnoscienza e del cosiddetto sviluppo economico.


Così, dopo circa un trentennio di rapide e profonde trasformazioni culturali, politiche, ed economiche, che hanno inciso in profondità sul dato antropologico e su quello sociale, si sta realizzando il passaggio dal capitalismo del secondo millennio al Nuovo Capitalismo finanziarizzato, destinato a diventare il modo di produzione dominante.


Nel nostro presente storico non stiamo vivendo un semplice cambiamento di fase capitalistica, per quanto travagliato e gravido di eventi negativi, ma possiamo osservare l’inizio di una nuova era.


Eppure, complice la crisi globale che ha investito come un onda d’urto le vecchie strutture sociali sopravviventi, c’è qualcuno che in relazione a questo capitalismo in via d’affermazione già parla di collasso e di conseguente cambiamento epocale.


Le dinamiche finanziarie innescate dai meccanismi riproduttivi neocapitalistici, in effetti, sembrano portare al disastro, sia dal punto di vista economico e sociale sia da quello ambientale, e nessun governo, a partire dall’amministrazione federale americana, ha provveduto sinora ad imbrigliarle, per tentare di metterle sotto controllo.


Il che implicherebbe sicuramente il ritorno alle logiche del capitalismo del secondo millennio, alla “cura” keynesiana, all’interruzione, o quantomeno al rallentamento, dei processi di globalizzazione economica e finanziaria, che sono di esiziale importanza per l’affermazione del nuovo modo storico di produzione e per la sua riproduzione allargata.


Ma un ritorno al capitalismo postbellico novecentesco – oltre a non sembrare possibile, giunti a questo punto, richiederebbe un esteso consenso fra i membri della classe dominante, e la nuova Global class capitalistica, nata e cresciuta nella progressiva affermazione del neoliberismo e della globalizzazione dei mercati, non potrebbe mai accettarlo.


Al contrario, la classe globale ha voluto l’invasione e l’occupazione dell’Italia, con l’imposizione di un governo fantoccio, per preservare i meccanismi riproduttivi del Nuovo Capitalismo ed eliminare le resistenze all’avanzata neoliberista, che ormai è travolgente.


Non potranno più esistere “isole”, nel mondo occidentale, in cui sopravvivono consistenti tracce del vecchio capitalismo, ed in cui sono ancora possibili significative deviazioni dal modello neoliberista dominante.


Gli scopi dei governi liberaldemocratici soggetti al potere globalista sono di distruggere le sopravvivenze keynesiane, i residui di stato sociale e i diritti dei lavoratori, di soffiare sul fuoco dello scontro generazionale fra giovani precari e anziani tutelati, togliendo le tutele agli stabilizzati senza dare nulla ai precari, di distruggere il sistema pensionistico, di costringere i subordinati a lavorare fino alla morte con l’inganno dell’elevarsi della vita media (mentre quella massima, cruciale a tale riguardo, resta immutata), di privatizzare anche laddove non è necessario, di mantenere la precarietà e di creare disoccupazione per sostituire al profilo produttore/ consumatore quello del precario/ escluso, di mettere in liquidazione il patrimonio pubblico e di indebolire lo stato, come accade in queste settimane in Italia con l’osceno governo fantoccio di Monti (e Napolitano).


Paesi come l’Italia, che hanno già perduto la sovranità monetaria, perdono completamente anche quella politica e subiscono nell’inerzia di massa (almeno per ora) la tirannide liberista della classe globale.


Dovrebbe essere ormai chiaro anche ai più distratti che un governo come quello di Papademos, o come quello di Monti, non rappresenta il popolo (greco, italiano) o comunque una parte significativa anche se minoritaria di esso, ed anzi agisce contro il popolo, contro lo stato, contro le vecchie istituzioni.


La cosa più lontana dall’interesse collettivo, se mai questo è esistito, è il programma di un simile governo, che si regge sulla minaccia, sulla paura, sul ricatto e sull’inganno.


Agli italiani, quindi, Monti dovrebbe apparire come il peggiore fra i distruttori, in questo confortato dai suoi sodali Draghi e Napolitano.


Ma la sua, in fondo, è pur sempre “distruzione creatrice”, in quanto portatore del nuovo per conto degli unici veri referenti che ha e ai quali deve rispondere: i membri della classe globale.


Ed il nuovo può pur essere terribile, ma rappresenta la realizzazione concreta, con costi sociali che presto si riveleranno insopportabili, del modello di capitalismo vincente.


La “distruzione creatrice” di Monti e del suo esecutivo sta proprio nella disintegrazione del welfare e nella proliferazione dell’iniquità sociale (nuovo ordine sociale fondato sulla dicotomia Global class/ Pauper class), come nel porre interamente al servizio di Mercati e Investitori l’Italia e l’intero apparato produttivo nazionale, sottomettendo la sua popolazione, privata della possibilità di disporre delle risorse nazionali, alla nuova classe dominante neocapitalistica.


In tal senso, l’euro ha rappresentato il cavallo di troia globalista per depotenziare e poi ridurre a completa impotenza (o quasi) gli stati nazionali, ma il Quisling Monti, spalleggiato dal tristo Napolitano aduso alla menzogna e al tradimento (anzitutto quello dell’ideale comunista), opera ufficialmente per far restare l’Italia nell’Europa fasulla dell’Unione e per la difesa a spada tratta dell’euro maligno.


La “crescita”, tanto santificata anche da questo governo, è un mero pretesto per scardinare l’ordine sociale attraverso le contro-riforme globaliste e per “aprire” l’Italia ancor di più al mercato, riducendo gli spazi di intervento pubblico nell’economia (e le iniziative a difesa dell’industria e dei prodotti nazionali), fino a completa estinzione.


Questi passaggi, che avranno effetti terribili su almeno tre quarti della popolazione italiana, sono indispensabili per l’adozione senza riserve del modello capitalistico neoliberista estremo.


Perciò Mario Monti, in un certo senso, “sta facendo soltanto il suo dovere” – così come lo facevano i comandanti dei campi di Treblinka e Dachau nello scorso secolo, e quanto più massacrerà gli italiani (anziché ebrei, zingari, armeni, disabili, dissidenti ariani, eccetera), riducendoli all’impotenza per gli anni a venire, quanto più sottrarrà risorse al collettivo rendendole disponibili per la creazione del valore finanziario, azionario e borsistico, tanto più la sua azione di governo avrà avuto successo.


Dopo Monti e dopo il completamento della sua opera, fatta la frittata senza una concreta possibilità di tornare alle uova, si concederanno “finalmente” le elezioni, perché questo rito, ad alto contenuto simbolico, è ancora importante per sostenere il sistema politico liberaldemocratico e per ingannare le masse, purché non interferisca – sia ben chiaro, con le decisioni politico-strategiche che veramente contano (moneta, finanza, spesa pubblica, welfare), rallentandole o vanificandole.


Se questo è il contesto in cui siamo costretti a muoverci, e in cui ci muoveremo nel prossimo futuro, le speranze di rapida estinzione dell’euro o addirittura di collasso del capitalismo finanziario mondiale che affiorano negli ambienti alternativi, sembrano non avere troppa consistenza, almeno per quanto riguarda il breve-medio periodo, ed anzi è probabile che vicende come quella italiana possano chiudersi con un successo globalista e neoliberista,


Inoltre, potrebbero non esserci improvvise precipitazioni degli eventi – una guerra non convenzionale contro l’Iran, ad esempio, con il coinvolgimento di Russia e Cina, tali da compromettere la riproduzione sistemica.


L’Italia è ormai un paese occupato, l’esperimento greco si è concluso con successo ed è probabile che seguiranno altre occupazioni senza l’uso dello strumento militare, per “normalizzare” quanto meno l’Europa e l’occidente.


Perciò, possibilità concrete di fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non se ne vedono ancora all’orizzonte, ma le strade future da seguire a tale scopo, nel medio-lungo periodo quando si arriverà ad un ennesimo bivio storico, saranno almeno due, l’una alternativa all’altra:


1) Quella rivoluzionaria anticapitalista e anti(liberal)democratica, oggi impensabile e per la quale è necessario che la situazione sociale precipiti ancora e l'impoverimento vero morda alle chiappe gran parte del cosiddetto ceto medio, che oggi è il vero obbiettivo delle controriforme neocapitalistiche.


2) Quella rappresentata dal ritorno al keynesismo assistenziale, con accentuati lineamenti antiliberisti, caratterizzata da un’economia dal lato della domanda, dall’esaltazione del ruolo della spesa pubblica destinata a sostenere consumi e investimenti, dalla ridistribuzione dei redditi, dall’interventismo statale nell'economia, dalla nazionalizzazione non più ostracizzata delle banche e della grande industria, dalla distruzione dei potentati finanziari privati, dall’"eutanasia del redditiero" che si ingrassa fidando sul valore della scarsità del capitale, come scrisse con intima soddisfazione J.M. Keynes nella General Theory, e da altri elementi ancora. Questa ultima possibilità – ossia il ritorno a Keynes, non sarebbe altro che un tentativo di “ritorno al passato”, e cioè all’età dell’oro (i trenta gloriosi anni) dello storico ebreo di formazione marxista Eric Hobsbawm (all'incirca il trentennio 1945-1975), e non implica come quella rivoluzionaria la fuoriuscita dal capitalismo verso il nuovo e l’ignoto, in quanto si tratta dell'unico riformismo mostratosi efficace, in grado di produrre effetti sociali moderatamente emancipativi e nel contempo di mantenere in piedi il capitalismo. Ma questo “ritorno al passato” sembra quanto mai improbabile, soprattutto nel breve, perché la maggioranza degli economisti, degli intellettuali e degli accademici – valletti ideologici della classe globale ed untori ultraliberisti, è schierata dall'altra parte, mentre i veri keynesiani, come i marxisti novecenteschi, gli sraffiani ed altri, rappresentano una minoranza destinata all'estinzione. Inoltre, una riproposizione della riforma keynesiana non incontrerebbe alcun gradimento, nei centri di potere che veramente contano (oggi controllati dalla classe globale), e gli economisti arditamente riformisti non troverebbero alcun referente di alto profilo disposto ad appoggiarli e ad accogliere le loro tesi.


Dovrebbe apparire a tutti fin troppo chiaro, non soltanto in Italia, ma in buona parte dell’Europa e dell’occidente, che “la Rivoluzione può attendere” ancora a lungo e che la fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non è certo dietro l’angolo.

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