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mercoledì 20 novembre 2013




                                                     Capitalismo e Trasgressione



 Maurizio Neri

Cosa vuol dire oggi la parola “trasgressione”? Potremmo rispondere che oggi questa parola
è diventata sinonimo di comportamenti deviati che hanno acquisito una loro legittimazione
di massa.

Negli anni sessanta e settanta si affermò presso le giovani generazioni una cd controcultura
che mettendo alla berlina la cd cultura borghese ne contestava le regole, e le istituzioni
fondanti: la scuola, la famiglia, il dovere etc il tutto sulla base di una pretesa rivolta anti-borghese che doveva liberare menti e corpi.

Chi non ricorda il dibattito sull’uso del proprio corpo, sul femminismo, sulla libera sessualità
sulle droghe.

Ebbene oggi nell’epoca del turbo capitalismo non solo tutta quella pseudocultura è stata metabolizzata ma è diventata essa stessa comportamento e morale borghese .

Infatti, in una società basata sul denaro e sul profitto come unico valore fondante, la “trasgressione”, il comportamento individuale e collettivo deviato, è tollerato se non addirittura incentivato, potremmo dire che l’unico retaggio sessantottino rimasto è proprio quello del rifiuto del dovere e della responsabilità.

A scanso di equivoci questo articolo non vuole affatto suonare come un elogio reazionario ai bei tempi andati, ma solo analizzare come il liberalismo ha saputo meglio di tutti fornire concretezza e diffusione di massa a comportamenti sociali definibili come trasgressivi.

Questi comportamenti sono strutturali ad un capitalismo avanzato post industriale che oltre a fornire scadenze temporali ben precisi agli individui ( lavoro, consumo ,vacanze ) deve poter fornire anche illusioni e vie di fuga dal quotidiano ad un individuo sempre più alienato  e condizionato dall’apparato che lo circonda .

In questo senso la diffusione di droghe come la cocaina è emblematica : da droga di elitè essa è oggi consumata da milioni di persone di ogni ceto sociale e non ha certo l’aura sinistra che accompagnava la diffusione dell’eroina negli anni settanta , perchè è in qualche modo socialmente accettata e non isola dal contesto sociale.

Lo stesso potremmo dire delle “vacanze sessuali” che ormai oltre a rappresentare un business colossale sono veri e propri intermezzi all’alienazione quotidiana per milioni di europei annoiati.

Il liberalismo quindi si è introiettato nelle coscienze fornendo l’illusoria possibilità all’uomo .-consumatore moderno di fare “ciò che gli pare” senza dover rendere conto a nessuno di ciò che fa.

In questo senso non è affatto stupefacente che i managers delle grandi multinazionali USA abbiano tra i loro benefit anche la possibilità di ricorre all’uso di stupefacenti e di “allegre compagnie” pagate dall’azienda.

La borghesia occidentale oggi è trasgressiva, perchè ha introiettato completamente quei “valori” che negli anni sessanta guardava con fastidio ed irritazione credendo che la nuova ondata giovanile fosse rivolta verso di essa mentre ne costituiva l’avanzamento ed il superamento, sempre nell’ambito della classe dominante.

Questo grave equivoco è stato portato avanti in modo stupido quanto ingenuo dalla sinistra cd progressista che innamoratasi delle sue imprese giovanili, buttata a mare l’anticapitalismo e la critica della società, ha pensato che l’unica battaglia rimasta fosse quella dell’estensione dei “diritti e della felicità”, dietro questa formulazione ambigua si nasconde la sua supina accettazione e anzi esaltazione dell’individualismo più sfrenato e della deresponsabilizzazione delle giovani generazioni che infatti non lottano più per cambiare lo stato di cose presenti.


Non esiste più neppure la “coscienza infelice” del borghese dell’Ottocento che usciva dalla propria classe e dai suoi valori per criticarne l’impianto e l’odiosa sopraffazione del proletariato, questa borghesia un po’ americanoide  che si ritiene “progressista” è invece perfettamente calata nella parte di classe dominante, tronfia del suo relativismo etico e del suo rifiuto delle ideologie, delle religioni e di ogni cosa che possa richiedere un impegno gratuito ed etico che vada al di sopra dei suoi bisogni materiali.

I comportamenti trasgressivi sono come detto, ormai di massa come si soleva dire una volta, ma essendo di massa, perdono anche il loro carattere di “trasgressività” e paradossalmente acquistano quelli della borghese normalità, mentre la vera “trasgressione” è oggi quello di rifiutare certi stili di vita per riappropriarsi  di una sana etica comunitaria e comunista .

Questo discorso intende porre l’accento sul fatto che i fenomeni sovrastrutturali qui criticati sono frutto intrinseco della struttura capitalistica della società e dei rapporti di produzione, tanto è vero che sesso e droga, sono i mercati più fiorenti nell’Occidente “libero e democratico”.

Va invertita la tendenza e assunto il principio di una Rivoluzione culturale e dei valori che in nome del comunismo comunitario rifiutino questo ciarpame, per riaffermare la possibile coniugazione di individui emancipati dal rapporto di sfruttamento ma “centrati” in una visione sana della vita e della società.

Non deve essere più possibile confondere Comunismo con una serie di stili e comportamenti libertari e trasgressivi che in una società capitalista si risolvono solo nel dare un mano all’avanzamento della dissoluzione di ogni vincolo comunitario residuo e ad una superficiale visione del mondo.


Troppa pseudocultura della “felicità a tutti i costi” di derivazione americana è stata diffusa anche negli ambienti che avrebbero dovuta criticarla e metterla alla berlina come prodotto del capitale , ed invece ne sono stati gli ingenui portatori d’acqua, ma oggi è necessario parlare chiaro e rimettere le cose al loro posto.

giovedì 22 dicembre 2011

Fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo? 



di Eugenio Orso

Il passaggio da un vecchio modo storico di produzione dominante al nuovo ha richiesto per compiersi, nel corso della storia umana, tempi plurisecolari nonché trasformazioni culturali, economiche e sociali rilevanti.


La storia ha traghettato attraverso i secoli le popolazioni europee nel lungo passaggio dal feudalesimo al capitalismo, così come questione di secoli è stato l’avvento del feudalesimo che ha fatto seguito al modo di produzione schiavistico.


In questi ultimi decenni, però, le trasformazioni si sono progressivamente velocizzate, grazie all’azione congiunta della tecnoscienza e del cosiddetto sviluppo economico.


Così, dopo circa un trentennio di rapide e profonde trasformazioni culturali, politiche, ed economiche, che hanno inciso in profondità sul dato antropologico e su quello sociale, si sta realizzando il passaggio dal capitalismo del secondo millennio al Nuovo Capitalismo finanziarizzato, destinato a diventare il modo di produzione dominante.


Nel nostro presente storico non stiamo vivendo un semplice cambiamento di fase capitalistica, per quanto travagliato e gravido di eventi negativi, ma possiamo osservare l’inizio di una nuova era.


Eppure, complice la crisi globale che ha investito come un onda d’urto le vecchie strutture sociali sopravviventi, c’è qualcuno che in relazione a questo capitalismo in via d’affermazione già parla di collasso e di conseguente cambiamento epocale.


Le dinamiche finanziarie innescate dai meccanismi riproduttivi neocapitalistici, in effetti, sembrano portare al disastro, sia dal punto di vista economico e sociale sia da quello ambientale, e nessun governo, a partire dall’amministrazione federale americana, ha provveduto sinora ad imbrigliarle, per tentare di metterle sotto controllo.


Il che implicherebbe sicuramente il ritorno alle logiche del capitalismo del secondo millennio, alla “cura” keynesiana, all’interruzione, o quantomeno al rallentamento, dei processi di globalizzazione economica e finanziaria, che sono di esiziale importanza per l’affermazione del nuovo modo storico di produzione e per la sua riproduzione allargata.


Ma un ritorno al capitalismo postbellico novecentesco – oltre a non sembrare possibile, giunti a questo punto, richiederebbe un esteso consenso fra i membri della classe dominante, e la nuova Global class capitalistica, nata e cresciuta nella progressiva affermazione del neoliberismo e della globalizzazione dei mercati, non potrebbe mai accettarlo.


Al contrario, la classe globale ha voluto l’invasione e l’occupazione dell’Italia, con l’imposizione di un governo fantoccio, per preservare i meccanismi riproduttivi del Nuovo Capitalismo ed eliminare le resistenze all’avanzata neoliberista, che ormai è travolgente.


Non potranno più esistere “isole”, nel mondo occidentale, in cui sopravvivono consistenti tracce del vecchio capitalismo, ed in cui sono ancora possibili significative deviazioni dal modello neoliberista dominante.


Gli scopi dei governi liberaldemocratici soggetti al potere globalista sono di distruggere le sopravvivenze keynesiane, i residui di stato sociale e i diritti dei lavoratori, di soffiare sul fuoco dello scontro generazionale fra giovani precari e anziani tutelati, togliendo le tutele agli stabilizzati senza dare nulla ai precari, di distruggere il sistema pensionistico, di costringere i subordinati a lavorare fino alla morte con l’inganno dell’elevarsi della vita media (mentre quella massima, cruciale a tale riguardo, resta immutata), di privatizzare anche laddove non è necessario, di mantenere la precarietà e di creare disoccupazione per sostituire al profilo produttore/ consumatore quello del precario/ escluso, di mettere in liquidazione il patrimonio pubblico e di indebolire lo stato, come accade in queste settimane in Italia con l’osceno governo fantoccio di Monti (e Napolitano).


Paesi come l’Italia, che hanno già perduto la sovranità monetaria, perdono completamente anche quella politica e subiscono nell’inerzia di massa (almeno per ora) la tirannide liberista della classe globale.


Dovrebbe essere ormai chiaro anche ai più distratti che un governo come quello di Papademos, o come quello di Monti, non rappresenta il popolo (greco, italiano) o comunque una parte significativa anche se minoritaria di esso, ed anzi agisce contro il popolo, contro lo stato, contro le vecchie istituzioni.


La cosa più lontana dall’interesse collettivo, se mai questo è esistito, è il programma di un simile governo, che si regge sulla minaccia, sulla paura, sul ricatto e sull’inganno.


Agli italiani, quindi, Monti dovrebbe apparire come il peggiore fra i distruttori, in questo confortato dai suoi sodali Draghi e Napolitano.


Ma la sua, in fondo, è pur sempre “distruzione creatrice”, in quanto portatore del nuovo per conto degli unici veri referenti che ha e ai quali deve rispondere: i membri della classe globale.


Ed il nuovo può pur essere terribile, ma rappresenta la realizzazione concreta, con costi sociali che presto si riveleranno insopportabili, del modello di capitalismo vincente.


La “distruzione creatrice” di Monti e del suo esecutivo sta proprio nella disintegrazione del welfare e nella proliferazione dell’iniquità sociale (nuovo ordine sociale fondato sulla dicotomia Global class/ Pauper class), come nel porre interamente al servizio di Mercati e Investitori l’Italia e l’intero apparato produttivo nazionale, sottomettendo la sua popolazione, privata della possibilità di disporre delle risorse nazionali, alla nuova classe dominante neocapitalistica.


In tal senso, l’euro ha rappresentato il cavallo di troia globalista per depotenziare e poi ridurre a completa impotenza (o quasi) gli stati nazionali, ma il Quisling Monti, spalleggiato dal tristo Napolitano aduso alla menzogna e al tradimento (anzitutto quello dell’ideale comunista), opera ufficialmente per far restare l’Italia nell’Europa fasulla dell’Unione e per la difesa a spada tratta dell’euro maligno.


La “crescita”, tanto santificata anche da questo governo, è un mero pretesto per scardinare l’ordine sociale attraverso le contro-riforme globaliste e per “aprire” l’Italia ancor di più al mercato, riducendo gli spazi di intervento pubblico nell’economia (e le iniziative a difesa dell’industria e dei prodotti nazionali), fino a completa estinzione.


Questi passaggi, che avranno effetti terribili su almeno tre quarti della popolazione italiana, sono indispensabili per l’adozione senza riserve del modello capitalistico neoliberista estremo.


Perciò Mario Monti, in un certo senso, “sta facendo soltanto il suo dovere” – così come lo facevano i comandanti dei campi di Treblinka e Dachau nello scorso secolo, e quanto più massacrerà gli italiani (anziché ebrei, zingari, armeni, disabili, dissidenti ariani, eccetera), riducendoli all’impotenza per gli anni a venire, quanto più sottrarrà risorse al collettivo rendendole disponibili per la creazione del valore finanziario, azionario e borsistico, tanto più la sua azione di governo avrà avuto successo.


Dopo Monti e dopo il completamento della sua opera, fatta la frittata senza una concreta possibilità di tornare alle uova, si concederanno “finalmente” le elezioni, perché questo rito, ad alto contenuto simbolico, è ancora importante per sostenere il sistema politico liberaldemocratico e per ingannare le masse, purché non interferisca – sia ben chiaro, con le decisioni politico-strategiche che veramente contano (moneta, finanza, spesa pubblica, welfare), rallentandole o vanificandole.


Se questo è il contesto in cui siamo costretti a muoverci, e in cui ci muoveremo nel prossimo futuro, le speranze di rapida estinzione dell’euro o addirittura di collasso del capitalismo finanziario mondiale che affiorano negli ambienti alternativi, sembrano non avere troppa consistenza, almeno per quanto riguarda il breve-medio periodo, ed anzi è probabile che vicende come quella italiana possano chiudersi con un successo globalista e neoliberista,


Inoltre, potrebbero non esserci improvvise precipitazioni degli eventi – una guerra non convenzionale contro l’Iran, ad esempio, con il coinvolgimento di Russia e Cina, tali da compromettere la riproduzione sistemica.


L’Italia è ormai un paese occupato, l’esperimento greco si è concluso con successo ed è probabile che seguiranno altre occupazioni senza l’uso dello strumento militare, per “normalizzare” quanto meno l’Europa e l’occidente.


Perciò, possibilità concrete di fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non se ne vedono ancora all’orizzonte, ma le strade future da seguire a tale scopo, nel medio-lungo periodo quando si arriverà ad un ennesimo bivio storico, saranno almeno due, l’una alternativa all’altra:


1) Quella rivoluzionaria anticapitalista e anti(liberal)democratica, oggi impensabile e per la quale è necessario che la situazione sociale precipiti ancora e l'impoverimento vero morda alle chiappe gran parte del cosiddetto ceto medio, che oggi è il vero obbiettivo delle controriforme neocapitalistiche.


2) Quella rappresentata dal ritorno al keynesismo assistenziale, con accentuati lineamenti antiliberisti, caratterizzata da un’economia dal lato della domanda, dall’esaltazione del ruolo della spesa pubblica destinata a sostenere consumi e investimenti, dalla ridistribuzione dei redditi, dall’interventismo statale nell'economia, dalla nazionalizzazione non più ostracizzata delle banche e della grande industria, dalla distruzione dei potentati finanziari privati, dall’"eutanasia del redditiero" che si ingrassa fidando sul valore della scarsità del capitale, come scrisse con intima soddisfazione J.M. Keynes nella General Theory, e da altri elementi ancora. Questa ultima possibilità – ossia il ritorno a Keynes, non sarebbe altro che un tentativo di “ritorno al passato”, e cioè all’età dell’oro (i trenta gloriosi anni) dello storico ebreo di formazione marxista Eric Hobsbawm (all'incirca il trentennio 1945-1975), e non implica come quella rivoluzionaria la fuoriuscita dal capitalismo verso il nuovo e l’ignoto, in quanto si tratta dell'unico riformismo mostratosi efficace, in grado di produrre effetti sociali moderatamente emancipativi e nel contempo di mantenere in piedi il capitalismo. Ma questo “ritorno al passato” sembra quanto mai improbabile, soprattutto nel breve, perché la maggioranza degli economisti, degli intellettuali e degli accademici – valletti ideologici della classe globale ed untori ultraliberisti, è schierata dall'altra parte, mentre i veri keynesiani, come i marxisti novecenteschi, gli sraffiani ed altri, rappresentano una minoranza destinata all'estinzione. Inoltre, una riproposizione della riforma keynesiana non incontrerebbe alcun gradimento, nei centri di potere che veramente contano (oggi controllati dalla classe globale), e gli economisti arditamente riformisti non troverebbero alcun referente di alto profilo disposto ad appoggiarli e ad accogliere le loro tesi.


Dovrebbe apparire a tutti fin troppo chiaro, non soltanto in Italia, ma in buona parte dell’Europa e dell’occidente, che “la Rivoluzione può attendere” ancora a lungo e che la fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non è certo dietro l’angolo.

 http://pauperclass.myblog.it/

venerdì 15 ottobre 2010

Capitalismo e crisi globale, l’attualità del pensiero di Giovanni Arrighi

arrighi3di Giorgio Cesarale - Micromega


Nel dibattito sulla attuale crisi economica globale è diventato ormai quasi senso comune la critica all’incapacità della scienza economica dominante di indicare e interpretare adeguatamente le cause di questa crisi, e in particolare di uno dei suoi fenomeni più abbaglianti, e cioè il processo di finanziarizzazione.
Che legami ha questo processo con ciò che, peraltro impropriamente, si chiama “economia reale”? Che nesso vi è fra questo processo e la vorticosa espansione economica di intere regioni del pianeta (il Sud-est asiatico delle quattro “tigri”, della Cina, del Vietnam ecc.)? Quale ruolo giocano in esso gli Stati, da quelli in ascesa a quelli in più evidente difficoltà? Sono domande cruciali, che obbligano a fornire una risposta alta e convincente. D’altro canto, per rispondere a queste domande è necessario collocare l’attuale crisi e la turbolenza globale che l'accompagna entro un orizzonte storico e geografico più largo. Uno “sguardo corto” sulla crisi è precisamente ciò che può impedire di comprenderla in tutta la sua complessità. E tuttavia è proprio da questo “sguardo corto” che la maggior parte degli osservatori e degli studiosi appare caratterizzata. Le eccezioni sono rare: tra queste c’è Giovanni Arrighi (1937-2009), una delle figure più rilevanti, insieme ad Andre Gunder Frank, Immanuel Wallerstein e Terence Hopkins, dell’approccio “sistemico” allo studio della storia e della struttura del capitalismo globale, dei movimenti sociali anticapitalistici, delle disuguaglianze mondiali di reddito e dei processi di modernizzazione. Nel discorso di Arrighi l’attuale crisi e l’inarrestabile processo di finanziarizzazione che le si collega sono interpretati alla luce dell’intera traiettoria di sviluppo del capitalismo mondiale, dalle città-Stato italiane rinascimentali all’ascesa degli Stati uniti alla guida del sistema economico internazionale. In questa prospettiva, il processo di finanziarizzazione che segna la nostra epoca deve essere inteso sia come sintomo della decadenza dello Stato attualmente egemone a livello internazionale, gli Stati uniti, sia come condizione della riapertura, in un diverso contesto geografico, di un nuovo ciclo di espansione economica “materiale” (industriale e commerciale).
L’eccezionalità della figura di Arrighi, il quale, e non solo ai nostri occhi, appare come uno dei massimi studiosi dell’economia-mondo capitalistica della seconda metà del Novecento, ci fa ritenere che siano ormai giunti i tempi per avviare una riflessione a tutto tondo sulla sua opera. È un compito, questo, di cui anche altrove si è espressa l’importanza, e di cui urge preparare le condizioni di realizzazione. È anche a tale scopo che è stata concepita la presente iniziativa editoriale: essa infatti contiene materiali – dall’intervista autobiografica concessa quasi in punto di morte a David Harvey (uno dei più insigni teorici marxisti contemporanei, autore de La crisi della modernità e Breve storia del neoliberismo) ad alcuni dei più importanti, e ancora inediti in italiano, saggi di teoria sociale e di interpretazione storica scritti da Arrighi – che possono aiutare a ricostruire meglio il suo profilo intellettuale complessivo, il senso della sua operazione teorica.
Su questi scritti e sulle ragioni che ci hanno condotto a proporne la traduzione in italiano diremo qualcosa al termine dell’introduzione. In via preliminare, tuttavia, vorremmo provare a offrire al lettore il nostro punto di vista sia sull’itinerario intellettuale percorso da Arrighi sia sul significato della sua opera.

http://www.cometa-online.it/index.php?option=com_content&view=article&id=986%3Acapitalismo-e-crisi-globale-lattualita-del-pensiero-di-giovanni-arrighi&catid=36%3Aetica&Itemid=50