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martedì 31 luglio 2012

Dell'inutilità in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale

 

Intervista di Luigi Tedeschi a Costanzo Preve

(Tedeschi) L’avanzare e il perdurare della crisi economica europea, sta progressivamente destrutturando la società. La recessione e i decrementi del Pil hanno determinato la fuoriuscita dalla produzione di rilevanti quote di manodopera dal sistema produttivo. Si allargano a macchia d’olio la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato, il lavoro nero. Soprattutto, l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani è diventato assai difficoltoso. La nostra società diviene sempre più decadente, per il venir meno del ricambio generazionale e la mobilità sociale. La liberalizzazione dell’economia, dei costumi, della cultura di massa, quali fenomeni scaturiti dall’avvento della globalizzazione, si rivelano miti virtuali, destinati ad essere smentiti dal disfacimento degli equilibri sociali provocato dalla crisi incombente. Se volessimo elaborare un bilancio del primo decennio del XXI° secolo, dovremmo rilevare che l’avvento della società globalizzata ha avuto solo la funzione di distruggere l’eredità sociale e culturale del ‘900, dato che i nuovi orizzonti, le nuove opportunità, le grandi sfide del nuovo secolo, si sono rivelate elementi di una strategia di ascesa al potere di una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito della masse sempre più escluse dai processi produttivi. L’emarginazione sociale coinvolge interi popoli; esclusione ed emarginazione sono fenomeni conseguenti al tramonto di un sistema economico basato sulla produzione e di una società fondata su equilibri ispirati al solidarismo interclassista. La fuoriuscita dal mondo del lavoro determina negli individui un senso di inutilità esistenziale, di estraneazione sociale, che conduce alla perdita della autostima di se stessi, ad un non senso della propria individualità, ormai non più compatibile con le prospettive di sviluppo di una società elitaria, basata sulla generalizzata esclusione delle masse non più integrabili nei processi evolutivi della società globalizzata. La coscienza della inutilità è coeva quindi alla defunzionalizzazione produttiva. Tale condizione umana riflette quindi la struttura fondamentale dei rapporti sociali nella società capitalista. L’individuo ha coscienza di sé in quanto svolge un ruolo produttivo nel contesto economico, altrimenti la sua vita è condannata alla emarginazione, alla stregua di un prodotto obsoleto e quindi privo di valore economico. La funzione produttiva e il ruolo consumistico sono le sostanziali fonti di riconoscimento nella società capitalista. Dobbiamo allora credere che è il mercato, con i suoi rialzi e ribassi a dare senso alla vita di ognuno. Il lavoro è merce di scambio in un mercato che si evolve in una prospettiva selettiva di progressiva esclusione dei lavoratori dalla produzione, mai di espansione. La disoccupazione diffusa è però un fenomeno che rivela la sottoutilizzazione di risorse umane disponibili. Il paradosso dell’economia liberista è proprio questo: l’attuale capitalismo genera recessione per la propria incapacità di allocazione e razionalizzazione della risorse produttive disponibili.

(Preve) Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di “sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile. Già Hegel aveva a suo tempo rilevato che 1’ateismo non consisteva nella negazione formale, materiale e “cosale” di Dio, ma nella perdita di interesse verso la verità. Ai suoi tempi, però, questa diagnosi infausta era prematura, perchè l’interesse verso la verità comunitario-sociale (l’unica esistente, il resto essendo certezza, esattezza, veridicità, corrispondenza, eccetera), sia pure deformata dal suo uso ideologico, avrebbe avuto ancora un secolo e mezzo davanti a sé, il secolo e mezzo della civiltà borghese e della sua volonterosa ma inefficace contestazione proletaria. Al tempo di Hegel era impensabile che, appena aperta la televisione per le ultime notizie, la prima frase gridata dal mezzobusto lottizzato fosse “i mercati sono euforici”, oppure “i mercati sono nervosi”. Di fronte a questa quotidiana realtà, alienata ed antropomorfizzata insieme, Kafka appare un sobrio epistemologo popperiano. In secondo luogo, tu suggerisci un tema che dovrebbe interessare i sociologi e gli storici per i prossimi cento anni, e cioè che si sta formando a livello globale una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito delle masse sempre più escluse dai processi produttivi. In proposito, sfugge agli analisti universitari (anche i ceti universitari, gonfiati sproporzionatamente negli ultimi decenni per “assorbire” i miserabili contestatori sessantottini, sono in preda al processo di inutilità e decadenza) che questa nuova classe in formazione non è più la vecchia borghesia, sulla cui definizione multiforme erano “tarati” i concetti del pensiero politico degli ultimi due secoli. Siamo di fronte ad una vera e propria novità storica, in linguaggio hegeliano una nuova epoca di “gestazione e di trapasso”. Il vecchio apparato concettuale non serve più, ma i ceti universitari delle facoltà di filosofia e scienze sociali (non parlo qui di facoltà più serie come biologia, medicina ed ingegneria) sono ormai dei cani da guardia destinati ad impedire lo sviluppo di una nuova concettualizzazione, essendo appunto “pagati” per parlare solo di olocausto, diritti umani, dittatori baffuti e barbuti e legittimazione dei riti elettorali svuotati di ogni residua sovranità. Essi non possono impedire lo sviluppo di una nuova necessaria concettualizzazione, ma possono ritardarla, intorbidire le acque, concionare su concetti vuoti come “qualunquismo” o meglio ancora “populismo”, eccetera. In terzo luogo, infine, la sensazione di inutilità, che ha come sua base strutturale ovviamente la “superfluità” demografica della forza-lavoro valorizzabile dal capitale finanziario, si ripercuote inevitabilmente nella sensazione di inutilità e di superfluità dell’argomentazione filosofica e culturale. Il divorzio fra realtà e “virtualità”, infatti, c’è sempre stato, ma oggi sta raggiungendo vertici da record. Il cattolico Formigoni si tuffa da yacths di speculatori milionari, derubricati ad “amici privati”, il banchiere Monti regna in nome della limitazione dello spread, e la “cassetta delle menzogne” (idest la televisione) ha trasformato i sionisti in campioni della democrazia, l’esemplare Siria di Assad in regno hitleriano di un feroce dittatore, e non è un caso che il fenomeno di Beppe Grillo, battezzato sfrontatamente come “populismo”, sia in realtà sintomo evidente di disperazione politica. Piuttosto di questi politici e di questi economisti, meglio un attore, ma sarebbero ancora meglio degli scimpanzè e degli oranghi. E’ infatti assolutamente insensato pensare che una società possa riprodursi sulla base del mercato, con i suoi rialzi ed i suoi ribassi, eretto ad unico criterio della sensatezza globale. A chi rivolgersi? Ratzinger predica bene, fa riferimento alla filosofia aristotelica della natura umana (la migliore mai prodotta), ma continua a prendersela con lo spettro del comunismo, nel frattempo defunto da almeno un ventennio, ed a avallare il peggio del politicamente corretto in circolazione. Il Dalai Lama, erroneamente spacciato per “guida spirituale”, agisce scopertamente come un agente USA anti-cinese, e tutti fingono che sia soltanto l’eterna incarnazione della saggezza orientale. Il giornale “La Repubblica” ed il suo laicismo azionista al servizio delle oligarchie bancarie ha sciaguratamente forgiato un’intera generazione di semicolti subalterni, maggioritari in quella patetica nicchia sociale dei laureati recenti, dei prof di scuola secondaria e dei ceti universitari autoreferenziali, di fronte a cui le plebi di Padre Pio appaiano per contrasto un gruppo di pensosi intellettuali illuministi.  Ma, evidentemente, il discorso è appena incominciato.

(Tedeschi) Il mercato globale si è affermato attraverso il dominio del mercato finanziario sulla economia produttiva: la crescita economica non è la sua ragion d’essere né tantomeno il suo fine ultimo. In tale contesto, lo sviluppo produttivo si manifesta nei tempi e nei luoghi determinati dalle strategie della speculazione finanziaria. Quindi esso è di per sé un fenomeno indotto, momentaneo e precario, a cui poi fanno riscontro crisi e sottosviluppo non risolvibili secondo i canoni delle dottrine economiche novecentesche. Le stesse crisi, non hanno la loro causa nei cicli economici ricorrenti, ma semmai nelle bolle finanziarie ricorrenti, in eventi cioè estranei alle dinamiche della produzione. La globalizzazione ha prodotto insieme ai mercati globali, anche problemi e crisi globali, data l’interconnessione tra le economie e i mercati di tutto il mondo. La attuale crisi sistemica ha generato decrementi di produzione e di consumo assai rilevanti, decrescita degli investimenti e rarefazione della liquidità. Certo è che la fine del welfare, il lavoro precario, le delocalizzazioni produttive, hanno profondamente inciso sulle capacità di consumo e di risparmio delle masse. Pertanto, nel prossimo futuro sarà di attualità il problema della esistenza di masse non più utilizzabili nella produzione e non più dotate di capacità di consumo. La condizione di inutilità degli individui si va estendendo alle masse globali di lavoratori - consumatori obsoleti e destinati alla rottamazione. Tale problematica è esposta nel libro di M. Della Luna “Oligarchia per popoli superflui, Koiné Nuove Edizioni 2010”. Infatti, mentre nei secoli passati l’incremento della popolazione era incentivato dai sovrani di stati che necessitavano di soldati, agricoltori e cittadini produttori che pagassero imposte, oggi, l’aumento della popolazione mondiale, unito alla recessione produttiva e al decremento delle risorse naturali, ha creato una nuova categoria antropologica: quella dei popoli superflui. Superflui perché non integrabili nel sistema economico e bisognosi di mezzi di sostentamento, in tempi di destrutturazione dello stato sociale. Al di là delle ipotesi catastrofiste (per fortuna poco praticabili), quali quelle di guerre nucleari o epidemie provocate allo scopo di decrementare la popolazione mondiale, altre soluzioni mi sembrano credibili. E’ infatti ipotizzabile l’erogazione pubblica di sussidi minimi di sostentamento per assicurare, assieme alla sopravvivenza materiale delle masse, anche quella del mercato, garantendogli un adeguato livello di consumi. In tale tragico scenario, gran parte dell’umanità vivrebbe in una condizione di dipendenze economico - esistenziale assimilabile alla schiavitù. Ma la situazione descritta sarebbe possibile qualora si prestasse fede al dogma liberista della autoreferenza totalitaria della economia capitalista. Masse asservite e ridotte alla condizione di perpetua, emergenziale sopravvivenza, sono incapaci di rivoluzioni, qualora le cause dei fenomeni rivoluzionari fossero solo di ordine economico. Al contrario, i motivi del mancato riconoscimento sociale, e della ribellione verso un ordine costituito perché moralmente ingiusto, sono di ordine politico - sociale, perché nascono dalla volontà comune di partecipazione politica e dalla visione (magari utopica), di una diversa strutturazione della società che sia in grado di sviluppare risorse, onde creare una più equa e diffusa ripartizione della ricchezza. La crisi della attuale liberaldemocrazia di ispirazione anglosassone è quella di un ordine che non può e non vuole sviluppare risorse, perché il suo scopo ultimo è quello si preservare un sistema finanziario di per sé condannato al fallimento. 



(Preve)Tu ti poni una domanda inquietante: la gente oggi è diventata incapace di rivoluzioni? Fai anche l’ipotesi, da prendere certamente in considerazione, che questa radicale incapacità trasformatrice (non importa se riformista o rivoluzionaria) possa essere dovuta non certo ad una salarializzazione spinta della società, ma proprio al suo contrario, la generalizzazione di sussidi minimi di sopravvivenza per mantenere da un lato la pace sociale, dall’altro livelli sufficienti di consumo, sia pure parassitario. Lo storico Eric Hobsbawm, nato nel 1917, ha ormai 95 anni. Intervistato da un miliardario sionista italiano, giornalista per snobismo e per diletto, che gli chiede con una punta di malignità se sia ancora “comunista”, Hobsbawn risponde: “Il comunismo non esiste più. Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se non credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista, io sono marxista perchè penso che non ci sarà stabilità finchè il capitalismo non si trasformerà in qualcosa di irriconoscibile dal capitalismo che conosciamo oggi. E sono leale alla memoria in quello che ho creduto e che fu un grande movimento anche in Italia” (cfr. La Stampa, 1/7/12). A proposito del fatto che il comunismo non esiste più mi permetto una serie di brevi considerazioni. Il modello politico-sociale del comunismo storico novecentesco realmente esistito (il cosiddetto “socialismo reale”) non esiste veramente più, ed è crollato per ragioni assolutamente endogene (un pò come il regime signorile feudale in Europa), demolito da una maestosa e feroce controrivoluzione occidentalistica dei nuovi ceti medi “socialisti”, che hanno però finito con il consegnare l’intero potere economico ad una casta di baroni-ladri. Il comunismo storico novecentesco è stato l’espressione di una sorta di democrazia plebeo-totalitaria (l’ossimoro è voluto, perchè indica una contraddizione oggettiva) di operai di fabbrica e di contadini poveri, due gruppi sociali ad egemonia complessiva a scadenza breve, come gli yoghurt. I gruppetti politici comunisti residuali negli attuali paesi capitalistici, senza praticamente alcuna eccezione, non sono più gruppi rivoluzionari a legittimazione marxista, ma sono residui sociologici inseriti nella dicotomia Sinistra/Destra, e per ciò stesso del tutto incapaci di affrontare una fase storica nuova in cui la dicotomia Sinistra/Destra ha perso ogni significato. Il “comunismo ideale eterno”, per usare un termine di Giambattista Vico, non è finito perchè esprime una ricerca comunitaria di verità e di giustizia sociale di tipo non storico ma metastorico. Non era questo ovviamente che pensava Marx, che avrebbe respinto con disprezzo ed irrisione questa formulazione, in quanto Marx pensava che il comunismo fosse un prodotto processuale immanente allo stesso sviluppo del modo di produzione capitalistico. In termini popperiani, questa legittima e ragionevolissima ipotesi scientifica è stata smentita nell’ultimo secolo e mezzo, e mi sembra disonesto non riconoscerlo apertamente. L’espressione di Hobsbawn, “essere leali alla speranza di una rivoluzione” mi sembra affascinante, ed io la adotto interamente. A differenza di Hobsbawn, io penso invece che avverrà, ma probabilmente non in tempi storici vicini, in quanto devono maturare delle condizioni globali ancora largamente immature. Esiste un blog in Italia denominato “sollevazione”, critico dell’euro e del governo Monti, che incita ad una sollevazione popolare sulla base della rivendicazione di un profilo commista di estrema sinistra. Nonostante le ottime intenzioni soggettive di costoro, molto migliori dei semplici fiancheggiatori del sistema politico, resta dura a morire l’idea della sollevazione di estrema sinistra, un’idea ricalcata sulla base dell’analogia con un periodo storico trascorso. La difficoltà nel “pensare” la rivoluzione anticapitalistica che pur sarebbe necessaria sta nel fatto che la globalizzazione per ora consente solo fenomeni storici “locali”, che possono anche abbattere governi dispotici precedenti, ma che poi restano inseriti, incastrati ed ingabbiati nel sistema economico internazionale, che agisce in funzione di ricatto permanente. E’ questa impensabilità che fa da sottofondo allo scetticismo di Hobsbawrn. L’utopia si concretizza soltanto attraverso una prospettiva, ed è appunto l’impensabilità della prospettiva il principale fattore del senso di inutilità così diffuso. Predicare astrattamente contro l’inutilità diventerà così inutile come l’inutilità stessa fino a quando non saranno finalmente visibili socialmente passi in avanti nella limitazione di questo capitalismo cannibale.

(Tedeschi) La crisi avanza, incombe sulla nostra vita quotidiana, svuotando di senso le nostre certezze. La progressiva espropriazione della vita comunitaria, familiare, intimo - personale, provocata dal dominio del mercatismo, che invade la società e la coinvolge nella sua crisi sistemica, è esplicativa di una condizione esistenziale sempre più instabile e precaria, perché subordinata alla sopravvivenza economica. Il fenomeno dell’accentuarsi quotidiano della recessione economica, della disoccupazione, dello spread, della pressione fiscale, è sintomatico di una crisi più profonda, che coinvolge totalmente la nostra vita, in quanto è essa stessa ad essere dipendente da un sistema economico e politico in progressivo disfacimento. Tuttavia, la stagnazione della situazione politica, il dirigismo burocratico e cinico della UE (assieme al governo tecnico di Monti), perché fenomeni di ribellione e dissenso al sistema sono quasi inesistenti, se si eccettuano i movimenti minoritari e velleitari quali il grillismo e altri similari europei. Lo stesso astensionismo massificato assume più il significato di una estraneazione collettiva dalla politica, assai più vicina alla resa senza condizioni, più che quello di un dissenso di massa. Costatiamo quindi che nella società è assente una presa di coscienza comune di una situazione di emergenza sia economica che politico - sociale, dovuta ad una società in crisi sistemica, che può solo produrre altre crisi, quando alla destrutturazione di un sistema non fa riscontro alcuna alternativa, magari futuribile, ma possibile. Si manifesta nella odierna società una coscienza collettiva di tipo adattativo alla situazione di precarietà materiale ed esistenziale, ad uno stato di crisi sedimentato nelle coscienze come una condizione di perenne instabilità in cui si possa solo sopravvivere. Questa estraneazione dalla sfera sociale, comporta il rifugio in un egoismo collettivo in cui, da una parte le classi più elevate tentano di integrarsi in un processo di trasformazione da cui vengono progressivamente escluse, dall’altra, quelle più deboli si affannano a sopravvivere alla crisi. Tutti tentano di “imbucasi” ad un simposio a cui non sono stati invitati dalla global class. La società è prigioniera dell’eterno presente. Si eternizzano in una sfera astorica e asociale le condizioni individuali del nostro presente. Il lavoro, l’avvenire dei giovani, gli affetti personali, i rapporti sociali, vengono vissuti come se questa condizione di crisi fosse una condizione perenne, in trasformabile, data l’impossibilità di sviluppi e mutamenti rispetto alla quotidianità ottusa di questo granitico, eterno presente. Tale fenomeno è spiegabile alla luce dell’etica individualista su cui si è costruita la psicologia collettiva del mondo contemporaneo. Il culto dell’individualità odierna, è il risultato di un atteggiamento narcisistico collettivo, più o meno inconscio, di personalità che hanno coscienza di sé nella misura in cui ottengono riconoscimento, in primis in base alla loro funzione svolta nel sistema economico, e dalla condizione sociale che ne deriva. Solo nell’eterno presente ci si può illudere di avere riconoscimento, e di preservare le proprie meschine ed egoistiche certezze, in un mondo diverso chissà? Non si considera che l’eterno presente è conseguenza della mancanza di senso della storia. L’economia attraversa fasi di stagnazione e recessione, ciclica. La storia, al contrario non ammette periodi di stagnazione, né tanto meno è concepibile una sua recessione al passato. L’eterno presente è una falsa coscienza della storia imposta da un ordine capitalista ormai fuori della storia. La storia invece continua a produrre mutamenti, a generare nuove situazioni di cui occorre prendere coscienza. Interpretare l’avvenire alla luce dell’eterno presente è un non senso. La storia non ha altri fini che quelli che l’uomo si propone di realizzare e pertanto sarà proprio la coscienza insopprimibile dell’uomo come essere storico a determinare il superamento della attuale crisi, quale alienazione dell’uomo nell’eterno presente. Da quanto precede, si comprende anche la necessità storica della presente crisi, quale momento di superamento di un presente che è “eterno” perché non è storico.

(Preve)Non sono un esperto di politologia o di sociologia elettorale, ma personalmente assimilo i due fenomeni dell’astensionismo e del grillismo. Con questo non intendo unirmi a1 coro gracchiante dei “responsabili” aderenti ai vecchi partiti. Dovendo scegliere, con la pistola alla testa, fra Grillo da un lato, e Bersani, Vendola, Di Pietro, Casini ed Alfano dall’altro, voterei certamente Grillo, che è certamente un guitto, ma almeno non ha dirette responsabilità per lo svuotamento della decisione democratica. Tuttavia sono rimasto molto colpito dal fatto che nelle recenti elezioni del giugno 2012 in Grecia, dove pure si prendevano decisioni strategiche sul futuro del paese l’astensione sia arrivata al quaranta per cento. In Italia non si decide più nulla da un pezzo, perchè esiste una sorta di giunta militarizzata di economisti con garante un ex-comunista disilluso del comunismo, che in una recente intervista su “Repubblica” rimprovera post mortem a Berlinguer di avere ancora creduto che ci potesse essere una società “alternativa” al mercato capitalistico. Ma in Grecia si decideva effettivamente qualcosa di strategico, ed a mio avviso il fronte di sinistra di Syriza vi giocava esattamente lo stesso ruolo anti-euro del partito di Marine Le Pen in Francia, anche se questa ovvia verità è nascosta da mille sigilli per chi si ostina ad orientarsi sul mercato politico in nome della dicotomia obsoleta Destra-Sinistra. Ho letto recentemente in una bellissima intervista autobiografica di Alain de Benoist una frase di Bergson del 1936 che non conoscevo: “Su dieci errori politici, nove consistono semplicemente nel continuare ancora nel credere vero ciò che ha cessato di esserlo”. Bisognerebbe ricordarlo ai politologi. E’ quindi inutile condannare moralisticamente gli astensionisti oppure coloro che si rifugiano nel grillismo. Essi prendono semplicemente atto della radicale inutilità della tensione politica. Il vero problema, tuttavia, sta nell’immaginare come possa continuare nel tempo e riprodursi una società tenuta insieme soltanto dal legame del mercato, in cui la decisione politica comunitaria ha di fatto cessato di esistere. Per il momento questa è una relativa novità storico-politica, che deve ancora stabilizzarsi. Una società del genere è la prima società umana completamente priva di “grande narrazione”, e cioè di racconto identitario. Già Hegel, a proposito dell’Inghilterra, si era meravigliato che potesse esistere una “nazione civile senza metafisica”. Benchè abbia insegnato storia e filosofia nei licei per trentacinque anni, solo recentemente mi è parso di capire il significato della sentenza di Hegel. Infatti la mescolanza tipicamente inglese di empirismo, scetticismo ed utilitarismo non è una filosofia come le altre, ma è una anti-filosofia radicale, che ha effettivamente anticipato la concezione attuale delle oligarchie anglosassoni, cui l’Europa si è interamente allineata negli ultimi venti anni. Siamo effettivamente arrivati ad essere, ed a vantarci di essere, “un popolo civile senza metafisica”. L’attuale globalizzazione senza metafisica è comunque intrecciata al messianesimo americano vetero testamentario, che appunto non è una filosofia di tipo greco, ma una secolarizzazione religiosa di origine calvinista. Questo fa anche venir meno la vecchia mobilità sociale ascendente e discendente, sostituita da una mobilità individualistica senza alto né basso, al di fuori della capacità di consumo. Ma la mobilità non è più la vecchia mobilità ascendente, che era stata per più di un secolo la grande ideologia di legittimazione della borghesia classica. Gli atomi sradicati si muovono in uno spazio mercantile senza alto né basso, in cui il vecchio significato comunitario della vita è integralmente sostituito dalla capacità di acquisto e di vendita delle proprie capacità lavorative. Come ho già fatto notare in precedenza, il vero problema non sta nel constatare questo processo, che è sotto gli occhi di tutti anche se per ora oscurato dai meccanismi mediatici, editoriali ed universitari, ma nel prospettare lo scenario allargato di questa situazione. L’accesso al consumo dei giganteschi strati medio-bassi in India, Cina, Brasile, eccetera può certamente rinviare di decenni una crisi generalizzata di senso storico e politico. Un mondo globalizzato senza metafisica, si accompagna ovviamente a sempre più virulente identità religiose, in cui la cosiddetta arretratezza e la cosiddetta intolleranza sono semplicemente il risvolto pseudo-comunitario della completa mancanza di senso. Le facoltà di filosofia sono già nel loro complesso interamente “normalizzate” in una koinè che può essere definita, in termini di scetticismo sofisticato, di relativismo multicolore e di nichilismo tranquillizzante. Ma quanto questo possa durare nessuno può veramente saperlo.



(Tedeschi) La coscienza dell’inutilità sociale ed esistenziale dell’uomo contemporaneo non è che la proiezione massificata di un mondo economico e politico virtuale che rivela nella crisi il vuoto di senso, cioè la sua incontestabile inutilità. Così come inutile si è dimostrata la classe politica,  acquiescente e complice delle manovre perpetrate dalla UE a danno degli stati. Si consideri l’euro. Che cosa è l’euro? E’ una moneta virtuale, che non rispecchia le condizioni economiche e politiche dei paesi della UE, una valuta imposta da una BCE senza uno stato che ne garantisca la solvibilità e la sussistenza, da una BCE composta da organismi tecnici non elettivi, non rappresentativi della volontà popolare. L’euro è stato definito da alcuni non una moneta unica, ma un  sistema di cambi fissi, dato che  nell’Eurozona, la valuta è comune, mentre il debito pubblico grava sulle finanze degli stati. A cosa serve l’euro? Con l’euro si è fermato lo sviluppo economico, si sono dimezzati il potere d’acquisto e i risparmi dei cittadini, si è imposta una politica di austerity che ha distrutto lo stato sociale e ha diffuso la precarietà del lavoro. Sono state distrutte le conquiste sociali, le certezze, mentre l’unificazione monetaria ha incrementato la speculazione finanziaria che sta determinando il fallimento degli stati. L’euro, anziché integrare i popoli, li ha condannati ad una competizione sfrenata che ha condotto ad enormi sperequazioni economiche tra popoli del nord e del sud europeo. Liberarci dall’euro significherebbe liberarci dalla schiavitù del debito imposta dalla speculazione finanziaria, utile ai propri profitti, ma inutile e dannosa ai popoli. Gli stati sono stati incoraggiati ad indebitarsi, anziché a sviluppare ala propria economia, e classi politiche corrotte hanno goduto del consenso di masse anestetizzate da un benessere virtuale e precario. Farla finita con l’euro però comporterebbe riforme sistemiche negli stati e nell’ambito europeo. Ma gli stati europei non dispongono di classi politiche adeguate a tali eventi di emergenza rivoluzionaria, Tali concetti sono tuttora impensabili per la stragrande maggioranza degli europei.




(Preve) Con questa quarta ed ultima domanda mi solleciti a parlare dell’euro, cosa però che faccio malvolentieri perché, detto in linguaggio popolare, “non ci capisco niente”. Altre volte nelle nostre conversazioni ne abbiamo già parlato, in genere molto negativamente. Continuare testardamente con l’euro oppure farla finita con l’euro è infatti una sorta di atto di fede per tutti coloro che non sono specialisti di economia. Personalmente, pur non dominando la materia, mi riconosco nelle opinioni di economisti come Bagnai e Brancaccio, che sono critici radicali dell’euro, e nello stesso tempo non voglio nascondere di essere spaventato dalle campagne di terrore indotte quotidianamente dalla televisione e dai giornali, che annunciano apocalissi in caso di crollo dell’euro. Fanno sul serio o minacciano soltanto? Siamo nel 2012. Nonostante gli apparenti mutamenti, politici, le classi politiche oligarchiche italiane sono le stesse del 1915, e del 1940. Sarebbe troppo lungo scendere nei dettagli di questi elementi di continuità che vanno molto al di là delle differenze superficiali fra il regime liberale, il regime fascista ed il regime democratico. In proposito, i manuali di storia contemporanea sono ingannatori, perchè ad esempio non informano sulla continuità della geopolitica di espansione nei Balcani nel 1915 e nel 1940, in modo che lo studente medio è in generale convinto che la guerra del 1915 sia stata fatta per Trento e Trieste, città la cui “italianità” non era messa in dubbio da nessuno, ed anzi era fiorente sul piano culturale e letterario. Dico questo perchè gli italiani hanno già dovuto pagare due volte, nel 1915 e nel 1940, per un azzardo pokeristico (del tutto secondario se da parte di Salandra o di Mussolini), e questa mi pare la terza volta. Di fronte alla sempre maggiore evidenza che l’euro non è stata una buona idea, ma è anzi stato un errore storico e strategico, molti si rifugiano in una vera e propria “fuga in avanti”: l’Europa non ha una sovranità politica unitaria, ha solo una moneta comune senza stato, adesso bisogna andare verso uno stato europeo unitario. A mio avviso sarebbe non solo un errore, ma un vero e proprio crimine, e cercherò brevemente di spiegare il perché. Uno stato presuppone una nazione, una nazione europea non esiste e non esisterà mai, al massimo l’Europa sarà una “macroregione”, del tipo del Friuli e della Slovenia. Parlare di “unità nella diversità” è pura retorica per borsisti Erasmus. Non ci può essere una vera unità politica senza nazione. Possibile che i casi lampanti della Cecoslovacchia e della Jugoslavia (per non parlare dell’Unione Sovietica) non insegnino proprio nulla? Se mi pagassero un tanto a pagina (come facevano con Alessandro Dumas) per scrivere un saggio sulla presunta eredità culturale unitaria dell’Europa (che a mio avviso non esiste, e non potrebbe esistere comunque dopo lo tsunami della globalizzazione finanziaria) non avrei alcuna difficoltà a partorire un migliaio di pagine ipocrite ed artificiali. Ma quando si sventolano le bandiere, sia pure per ragioni soltanto sportive, si sventolano solo le bandiere nazionali. Vi immaginate dei tifosi che sventolano la bandiera europea? E poi la Russia fa parte dell’Europa oppure no? Se sì, l’Europa finisce a Vladivostok, ed è dunque un’unità geograficamente eurasiatica. Se invece no, bisogna artificialmente estendere l’Europa a Tallinn e Kiev, ed escluderne Mosca, accettando invece l’integrazione europea ideale con gli USA, il Canada ed Israele. Le contraddizioni potrebbero continuare. L’euro è stata quindi una cattiva idea, e pensare di salvarlo con la fuga in avanti di un unico stato-nazione europeo inesistente è un’idea ancora peggiore, sulla quale sembrano unirsi sia l’ex-destra sia l’ex-sinistra, in assenza di identità culturali e politiche. I rapporti culturali fra nazioni europee erano migliori quando non si era ancora creata l’isteria delle nazioni cicale o spendaccione e delle nazioni virtuose. E’ già difficile far passare l’idea della solidarietà sul debito sovrano all’interno di una sola nazione (il caso della Lega Nord insegna, e non può essere ridotto al folklore snobistico con cui la analizza il giornale “Repubblica”), e chi pensa che questo sia possibile in futuro per una evidente non-nazione come l’Europa mente a sé ed agli altri. Quello che ha prodotto l’Euro è sotto gli occhi di tutti, e cioè la svalutazione del lavoro salariato e lo smantellamento progressivo degli elementi di welfare. Pensare che nel prossimo futuro la tempesta passerà è da mentitori o da incoscienti. Dall’euro bisognerà uscire, ed il modo di uscirne sarà il principale indicatore storico-politico del prossimo futuro. Sarà un vero dopoguerra, cui nessuno di noi potrà sottrarsi.

sabato 16 giugno 2012

Stato Versus Mercato L’Italia stretta fra globalizzazione, Europa unionista e deficit di sovranità nazionale

 

Inseriamo questo contributo di Eugenio Orso sul problema della fine sostanziale della sovranità politica degli Stati nel contesto dell’UE e della globalizzazione capitalstica



di Eugenio Orso

Premessa
Come si evidenzia nel sottotitolo di questo breve saggio politico, l’Italia è finita nella morsa globalizzante neoliberista, stretta com’è fra i processi di globalizzazione, mai interrotti dalla crisi strutturale neocapitalistica, un’Europa aliena e unionista che la sta stritolando imponendo con brutalità i suoi programmi economici, e il drammatico deficit di sovranità nazionale che non consente al paese di decidere, autonomamente, del proprio futuro.
Il presente scritto si articola in due capitoli. Il primo capitolo è introduttivo, ed attraverso un esercizio di storia comparata si tenta di evidenziare la gravità e le potenzialità distruttive della crisi neocapitalistica in Italia. Il secondo capitolo, che costituisce il cuore del saggio, è relativo al rapporto, ormai fin troppo chiaro, fra l’avvento dell’Europa dell’Unione, la riorganizzazione delle sue istituzioni sopranazionali, la creazione della BCE, l’introduzione dell’euro e la perdita di sovranità politica e monetaria degli stati succubi, fra i quali lo stato nazionale italiano. Lo scontro fra il sopranazionale e il nazionale che si sta verificando nel vecchio continente, cioè fra l’Unione europea globalista ed alcuni Stati da “normalizzare” economicamente e socialmente (per ora, l’Italia ela Greciamesse di recente “sotto tutela”), nasce dalla rottura dello storico patto fra il vecchio Stato nazionale dotato di sovranità politica ed il Mercato, da intendersi qui come il grande Capitale in mani private. Il “conflitto” fra i due è iniziato nella seconda metà degli anni settanta del novecento, dopo lo scadere dei cosiddetti trenta gloriosi anni di compromesso, di relativo equilibrio e di moderata emancipazione delle classi subalterne. Tale confronto riflette il tentativo, che sta per riuscire, di anteporre sempre e comunque l’economia ultraliberista, dominata dalle ragioni della finanza, alla decisione politica nazionale sovrana, e di demolire le ultime barriere, in Europa e in occidente, che ancora ostacolano la libera circolazione dei capitali. Si tratta, in sostanza, della continuazione in nuove forme, per molti versi inedite, dell’antico scontro fra la crematistica da un lato, intesa come creazione illimitata di valore monetario e finanziario, e l’etica dall’altro lato, che per sussistere può ammettere soltanto la “buona” economia, subordinata alla decisione politica della comunità. Uno scontro vivo fin dai tempi di Aristotele, che ha attraversato i secoli ed oggi potrebbe risolversi con la vittoria della nuova crematistica. Gli effetti sociali e politici, pesantemente negativi, dell’attuale crisi neocapitalistica e la ricerca di possibili vie d’uscita, per l’Italia riorganizzata in chiave neoliberista e globalista dall’esecutivo Monti, non potranno che portare all’avvio di un processo rivoluzionario, alimentato da un chiaro disegno politico, economico e sociale alternativo, pena l’implosione definitiva della sua società ed il completamento della colonizzazione neoliberista. Al di fuori di una futura via rivoluzionaria per la salvezza, non sembra che esserci un ritorno incruento, peraltro improbabile (se non impossibile), alle politiche neokeynesiane del dopoguerra, che sollecitavano un forte interventismo statale in campo economico, ammettevano la protezione dell’industria nazionale e richiedevano il controllo della moneta, come accadeva nella precedente fase storica, in cui lo stato‐nazione non era nelle attuali condizioni di subordinazione, ed era ancora dotato di un certo grado di autonomia e sovranità. Nel caso di disordini insidiosi e troppo estesi tendenti al caos permanente, di guerra civile e/o di una frantumazione regionalista del paese con il rischio di un contagio destabilizzante del cosiddetto ordine mondiale, l’occupazione globalista effettiva del paese, manu militari utilizzando lo strumento NATO, potrà diventare una drammatica realtà.

La grande crisi e le antiche crisi

In seguito agli effetti economico‐sociali negativi delle misure imposte da governi fantoccio che operano per conto terzi, scopertamente al di fuori di un supposto quadro di legalità democratica, si sente affermare sempre più spesso che l’attuale crisi italiana (a causa dell’ingente debito “sovrano”, dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico che lievitano con lo spread, della caduta del prodotto, dei segnali economici marcatamente depressivi) è la più grave dal dopoguerra, ma spesso si omette di dire che questa crisi è ampiamente indotta dalla dinamiche neocapitalistiche, e serve per l’omologazione dell’Italia al modello di capitalismo ultraliberista anglo‐americano, “evolutosi” nell’ultimo ventennio senza incontrare ostacoli di rilievo, fino a diventare il nuovo capitalismo finanziarizzato del terzo millennio.
Pur sapendo che gli esercizi di storia comparata sono insidiosi, perché talvolta rischiano di portare fuori strada nell’analisi, non possiamo non riconoscere che la penisola, anticamente, ha già vissuto almeno una situazione simile, foriera di gravi rischi e di innumerevoli lutti, e precisamente durante la cosiddetta crisi del terzo secolo (dopo Cristo) che ha investito l’impero romano, e dalla quale l’impero – fino ad allora sufficientemente saldo ed in espansione, soprattutto nel periodo che andava da Ottaviano Augusto a Traiano, o al più a Marco Aurelio – non si è mai più ripreso. Quando scoppiò la crisi del terzo secolo, la penisola era ancora fiorente e rappresentava il cuore del sistema imperiale, ma quando la crisi finì, in termini economici, demografici e sociali le province italiane ne uscirono malconce ed esauste, pronte per entrare nel lungo tunnel della decadenza dell’occidente, durata circa due secoli, e del conseguente trapasso al “nuovo mondo” feudale. La crisi neocapitalistica che oggi investe soprattutto l’Italia e l’Europa, è nel contempo elemento strutturale del Nuovo Capitalismo, senza il quale questo modo storico di produzione non potrebbe reggersi a lungo, e manifestazione del definitivo tramonto, in quanto potenza economica e produttiva, del vecchio continente a rischio di marginalizzazione, con i paesi dell’Europa mediterranea e la stessa Italia che sembrano essere diventati, in quest’ultimo periodo, l’epicentro della crisi stessa, un’area del mondo in cui la “distruzione creatrice” in atto è più evidente e rischia di diventare sanguinosa.
Anche la crisi romana del terzo secolo fu una “distruzione creatrice”, naturalmente rapportata al sistema schiavistico e al sistema (politico) imperiale dell’epoca, e lo fu su vari piani: quello economico e sociale, quello militare, e quello dell’organizzazione dell’impero. Ma dalla crisi del terzo secolo non uscì nulla di buono, perché non sempre ciò che si crea dopo aver distrutto è positivo per le società umane e per gli equilibri sociali, per la stessa tenuta delle istituzioni che si vorrebbero preservare.
Grazie al cinquantennio ricordato come il periodo dell’anarchia militare (dal 235 al 284 dopo Cristo), si passò dal principato augusteo, che rappresentava una forma politica di dominio relativamente “soft”, in grado di mediare fra i poteri (fra i quali il senato aristocratico d’età repubblicana) e le classi sociali (patrizi e plebei, o meglio, honestiores e humiliores), ad una sorta di dominato, o di dispotismo non asiatico fortemente centralizzato, non di rado retto da figure di militari‐avventurieri emergenti (il primo fu Massimino il Trace). L’avvento del dominato imperiale riduceva i già angusti spazi di libertà concessi alla popolazione, mentre l’accresciuta pressione fiscale per affrontare le ingenti spese di guerra (contro i barbari ed i persiani), nel tentativo di rafforzare l’apparato militare e potenziare quello statale, riduceva sul lastrico ampie fasce di popolazione, risparmiando soltanto i grandi latifondisti.
Un po’ come oggi, in Italia, in cui la crescente pressione fiscale colpisce sempre più duramente i redditi da lavoro dipendente e le pensioni (in un paese in cui ci sono undici milioni di poveri, fra i quali moltissimi lavoratori e pensionati, rapidamente cresciuti di numero grazie alla crisi ed alle misure governativo‐europeiste), risparmiando soprattutto i grandi evasori fiscali, i quali nel concreto sono intoccabili perché appartengono alla classe dominante, o rappresentano potentati dell’economia formalmente criminale, che si sviluppa
parallelamente a quella neocapitalistica. L’intangibilità del sistema bancario, che deve essere finanziato e sostenuto a tutti i costi, se del caso sottraendo risorse agli impieghi di natura sociale e produttiva, completa il quadro.
Se la crisi romana del terzo secolo accrebbe la conflittualità sociale, suscitò le rivolte dei dominanti e modificò l’ordine sociale, in Italia ed altrove entro i confini dell’impero, l’attuale crisi neocapitalistica e l’avvento di un governo collaborazionista dell’occupatore del paese, quale è quello di Monti, suscita fuori degli schemi sistemici e del “politicamente corretto” (semi‐)rivolte sociali fino a ieri imprevedibili (Sicilia, trasportatori, tassinari, pescatori, ed in futuro molti altri), mentre la violenza della crisi e delle controriforme montiane accelerano la trasformazione dell’ordine sociale, che procederà, se non incontrerà ostacoli di rilievo, fino alla sua estrema “semplificazione” sociologica in classe globale dominante e classe povera dominata. Per evitare opposizioni di rilievo nel tessuto politico e sociale italiano, e per far procedere speditamente le controriforme pianificate, la classe globale che sostiene Monti ha “comprato” i cartelli elettorali che contano, i sindacati, i vertici delle lobby importanti, assicurandosi il loro appoggio contro gli interessi del popolo italiano (e non di rado dei loro stessi militanti, iscritti ed associati).
La prima e più profonda ragione della spaventosa crisi romana del terzo secolo, la quale ha rimodellato brutalmente la società italica peggiorando le condizioni di vita della massa, risiede nello svuotamento progressivo dei “giacimenti” di braccia per il lavoro schiavo, e più in generale per appropriare risorse, come effetto del raggiungimento della massima espansione militare, territoriale e demografica dell’impero. A ciò corrisponde nel nostro tempo storico, in cui la penisola è nuovamente funestata da una profonda crisi economica, politica e sociale, il progressivo e rapido svuotamento di sovranità dello stato nazionale, che dopo aver raggiunto l’apice della sua autonomia con il fascismo, nel periodo prebellico, ha visto progressivamente ridursi le sue competenze, ed ha perso la prerogativa della decisione politica su molte materie strategiche (moneta, debito pubblico, industria, eccetera), fino a scivolare nelle attuali condizioni di subalternità nei confronti dell’esterno. Questa perdita di sovranità, forse irreversibile, è indotta e accelerata dalle dinamiche neocapitalistiche che hanno influenzato la stessa “costruzione” europea, i parametri di Maastricht, il dominio della BCE e del FMI, ed imposto l’euro ai maggiori paesi dell’Europa occidentale. La rapacità del dominato imperial‐militare romano, che ha impoverito le popolazioni italiche fin dall’età del ferro dei Severi, trova unʹinquietante corrispondenza, oggi, nella rapacità dei globalisti dominanti, i quali, assumendo il controllo degli stati‐nazione privati della loro autonomia, saccheggiano le risorse collettive e de‐emancipano le masse, riducendole a neoplebi. Dovrebbe esser chiara anche al cosiddetto uomo della strada, giunti a questo punto, la vera funzione della UE, della BCE e dell’euro.
Come l’impero che in quegli anni lontani ha mostrato il suo vero volto, riorganizzandosi in dominato dispotico e impoverendo la popolazione, per scaricare sulle classi inferiori l’ingente costo della crisi, economica, sociale e militare del terzo secolo, cosi, oggi, la liberaldemocrazia ci mostra il suo vero volto, autoritario, dispotico, oligarchico, di totale subordinazione alle ragioni della classe dominate globale, e contribuisce ad imporre quelle controriforme, economiche e sociali, che scaricano sui più deboli l’onere della crisi e rimodellano in senso neocapitalistico la società.
Gli italici e le altre popolazioni non sono riusciti, nonostante l’insorgente conflittualità fra i gruppi sociali e le numerose rivolte, ad impedire quella trasformazione dell’ordine costituito che alla fine hanno dovuto subire, fino all’estinzione formale, avvenuta due secoli dopo, dell’impero romano d’occidente. Riusciranno nel prossimo futuro gli italiani, e gli altri popoli dell’Europa mediterranea, ad interrompere il processo in atto, sottraendosi alla morsa del nuovo potere globalista, senza dover attenderne l’estinzione? Al momento attuale, in cui gli eventi sono in pieno corso, si moltiplicano le proteste fuori degli schemi, si attiva la repressione sistemica e la “distruzione creatrice” neocapitalistica subisce un’accelerazione, il futuro è sommamente incerto e la domanda non può ancora trovare una chiara risposta.

Sovranità nazionale e dominio del sopranazionale

L’opposizione, o meglio l’incompatibilità, fra l’affermazione e il mantenimento di una sovranità assoluta degli stati nazionali e la trasmigrazione del potere in entità sopranazionali sempre più potenti e onninvasive, nell’Europa del dopoguerra sembra essersi risolta a favore queste ultime. Non si può ancora sapere se il trionfo del globale sul nazionale, del mondiale sul locale, e soprattutto del Capitale sul Lavoro, sia definitivo, fino all’irreversibilità dei processi in atto, ma è certo che le oligarchie globaliste, supportate dallo strumento militare americano‐NATO e dalla finanza di rapina, hanno vinto un’importante battaglia, sottomettendo in buona misura gli stati, i popoli e le nazioni. La stessa, dissennata tensione, diffusa ad arte, per la “difesa dell’euro” che spiana la strada alle controriforme sociali, e che si giustifica minacciando sciagure inenarrabili in caso di collasso della moneta europea, o semplicemente dell’uscita di uno stato dall’Unione monetaria, costituisce una prova di quanto qui si afferma. Infatti, all’euro si può sacrificare tutto, anche le pensioni, anche la sanità o la scuola pubblica, persino il posto di lavoro fisso e tutelato (unica fonte di sostentamento per la maggioranza), e di questo purtroppo si mostrano convinte, in Italia e altrove, moltissime vittime delle dinamiche neocapitalistiche. Disinformazione mediatica, propaganda ultraliberista e neoliberale, idiotizzazione sociale, “snazionalizzazione” delle coscienze, svalutazione del ruolo dello stato, delle comunità di appartenenza, della socialità e diffusione dell’individualismo anomico, hanno proceduto di pari passo con l’affermazione dei “precetti” economico‐finanziari di questo capitalismo, consentendogli, fino ad ora, di spianare ogni ostacolo sul suo percorso. La grande disputa politica, come dovrebbe essere chiaro a tutti, attualmente è quella fra i sostenitori della sovranità assoluta dello stato nazionale, da un lato, e le oligarchie globaliste che istituiscono nuove forme di governo sopranazionale, dall’altro, in accordo con i loro interessi vitali. La classe dominante globale è oggi sul punto di stravincere il confronto, come provano i casi della Grecia e dell’Italia (ma non soltanto questi), e ciò equivarrebbe anche ad uno storico trionfo (irreversibile?) del Capitale sul Lavoro, perché le politiche sociali, assistenziali, di emancipazione dei lavoratori e di tutela del lavoro sono possibili, come la storia ha ampiamente dimostrato, soltanto in un quadro di ampia autonomia, politica e monetaria, degli stati nazionali. Quello che appare scontato è che non c’è più alcuna possibilità di compromesso fra Stato e Mercato (e la condizione dell’Europa lo testimonia), cioè fra la sovranità nazionale, sul piano politico, monetario ed economico, e il grande Capitale finanziario nelle mani della classe neodominante globale. Gli esecutivi di Monti, in Italia, e di Papademos, in Grecia, sono altrettanti “cani da guardia” del capitale finanziario, ed agiscono scopertamente contro i popoli e gli stati nazionali. Di recente, nella Grecia affidata a quel Papademos di cui Monti è un replicante, il maggior sindacato di polizia ellenico, che agisce nel quadro dello stato‐nazione, ha minacciato di arrestare i funzionari del FMI ed europei presenti sul territorio greco, dichiarando di schierarsi con il popolo contro l’Europa finanziaria dei dominanti e la globalizzazione.
La grande disputa politica fra i sostenitori della sovranità nazionale e i “globalizzatori”, equivale sul piano economico al confronto fra i sostenitori del “compromesso” fra politica ed economia, regolamentando i mercati (o addirittura sopprimendoli, nel caso si assumano posizioni non riformiste) e gli ultraliberisti che teorizzano, e mettono in pratica con successo, la piena autonomia e la superiorità del Mercato.
Ciò che è importante capire, e ribadire una volta di più, è che le due battaglie, quella adifesa dell’autonomia degli stati‐nazione e quella sociale in difesa del welfare, non solo non sono incompatibili – una “di destra” e l’altra “di sinistra”, secondo i vecchi schemi ormai inattuali, ma, al contrario, sono complementari, perché ambedue costituiscono presupposti indispensabili per la libertà, l’autodeterminazione e la giustizia sociale realizzata.
Difendendo l’autonomia dello stato nazionale contro i globalisti e contro quel loro strumento di dominio che è l’Europa dell’Unione, si difendono anche il Lavoro, i diritti dei subalterni (quelli concreti, economici, non quelli astratti e posticci liberaldemocratici), le conquiste economico‐sociali della seconda metà del novecento, i meccanismi redistributivi del reddito a vantaggio dei subordinati. Possiamo perciò affermare che lo stato nazione pienamente sovrano, nelle attuali condizioni storiche, rappresenta l’ultimo baluardo della socialità, dell’etica, dell’equità contro il saccheggio operato dai mercati e l’imposizione di una globalizzazione economica che conviene soltanto ai dominanti.
L’attacco alla sovranità politica e monetaria dello stato‐nazione ha richiesto, per poter essere sferrato con successo, l’avvio di rilevanti trasformazioni culturali, economico‐sociali e politiche che si possono sintetizzare come segue.
[a] Traformazioni antropologicoculturali e dell’ordine sociale.
E’ bene evidenziare che l’attacco allo stato‐nazione, chiarissimo nell’Europa mediterranea, in cui alcune entità statuali sono occupate dagli emissari delle élite globaliste e svuotate di contenuti politici effettivi, è stato reso possibile dallo sconvolgimento dell’ordine sociale precedente e dal grandioso esperimento di manipolazione culturale ed antropologica per la creazione sociale dell’uomo precario, per la flessibilizzazione di massa a partire dal lavoro, per la diffusione della stupidità sociale organizzata. In luogo dell’inclusione domina l’esclusione, dal lavoro e dalla decisione politica, i cittadini consapevoli tendono ad essere sostituiti da “idiotai”, confinati nella dimensione privata dell’esistenza ed espropriati della dimensione politico‐sociale, all’emancipazione si è sostituita la riplebeizzazione di massa, che investe tanto gli operai quanto i ceti medi figli del welfare novecentesco. Senza questi indispensabili presupposti, l’esproprio di sovranità e di socialità in atto avrebbe trovato fortissime resistenze, e probabilmente non potrebbe esser portato a compimento con indubbio successo, come accade di questi tempi. Conditio sine qua non dell’attacco finale alla sovranità nazionale, condotto proprio in questi mesi in Italia e in Grecia, è stato quel processo manipolatorio di massa che ha distrutto le classi del vecchio ordine (espressione del capitalismo del secondo millennio) e neutralizzato l’opposizione sociale, un processo che è in corso da circa un trentennio ed ha ottenuto indiscutibili “successi”. Il mondo culturale borghese, la solidarietà e l’identità della classe operaia, salariata e proletaria, le sicurezze e le “aspettative crescenti” dei ceti medi postbellici stanno scomparendo, anzi, possiamo affermare che in assenza di contrasti fra qualche anno saranno un mero ricordo, materia per gli storici e per una retrospettiva sociologica imbevuta di nostalgismi.
[b] Trasformazioni economiche dopo la rottura definitiva del patto fra Stato e Mercato.

Altro elemento che ha creato i presupposti, quantomeno nell’Europa mediterranea “spendacciona” e vulnerabile, per la perdita di sovranità degli stati è la crisi neocapitalistica permanente come elemento strutturale del Nuovo Capitalismo e come strumento di dominio globalista, opportunamente combinata con i vincoli di Maastricht e dell’euro. La bolla del debito pubblico e la sopravvivenza dell’euro rappresentano altrettanti cavalli di troia per l’assoggettamento degli stati, e per la loro occupazione (permanente? Sine die?) senza l’uso di strumenti bellici. L’esperimento greco e la vicenda italiana sono a tali propositi paradigmatici. Gli esecutivi imposti ai due paesi rispondono nel concreto soltanto ad interessi esterni e al comando neocapitalistico della classe globale. Il tutto “insaporito” con slogan neoliberisti, da accettare acriticamente e privi di effetti economico‐sociali positivi: l’indispensabilità della crescita, perniciosa anche dal punto di vista ambientale, la competitività in uno scenario globale di libero movimento dei capitali, l’apertura definitiva al mercato, la “monotonia” del posto fisso e l’inevitabilità della flessibilizzazione del lavoro, eccetera, eccetera. I sistemi che FMI e Banca Mondiale usavano per assoggettare al libero mercato i paesi del terzo mondo (piani di aggiustamento strutturale, ricatto del debito, apertura forzata dei paesi ai capitali finanziari internazionali) sono simili, per certi versi, a quelli che FMI, UE e BCE utilizzano oggi contro i paesi dell’Europa mediterranea, chiamati con disprezzo PIIGS. Si pensi al vero significato del Cresci‐Italia di Monti che accompagna, come un’illusoria carota agitata dal Quisling globalista, le misure più feroci e impoverenti. I veri obbiettivi delle manovre montiane in Italia, e di quelle del suo omologo Papademos in Grecia, sono essenzialmente i seguenti: (1) imporre il modello capitalistico ultraliberista, portato alle estreme conseguenze, che identifica un nuovo modo di produzione sociale, (2) ridurre all’osso l’area dell’intervento statale, compromettendo persino i cosiddetti beni pubblici puri, che solo lo stato può offrire a condizioni ragionevoli (non di mercato), rendendoli accessibili a tutta la popolazione, (3) rischiavizzare il lavoro per ridurlo a mero fattore produttivo (nello specifico italiano, la scomparsa del contratto collettivo nazionale, l’attacco all’art. 18, la probabile “riforma” della CIG, eccetera), (4) accelerare latrasformazione sociale in senso neocapitalistico, riplebeizzando una parte rilevante dei cet medi (in questo senso la “liberalizzazione” delle professioni), fino allo stabilirsi della dicotomia Global class/Pauper class.
[c] Trasformazioni politiche, svuotamento di contenuti effettivi delle istituzioni statuali e assimilazione completa dei cartelli elettorali liberaldemocratici nell’unico Partito della Riproduzione Neocapitalistica.
L’ultimo supporto che si è rivelato indispensabile per “piegare” gli stati nazionali ai voleri della classe globale neodominate è la piena omologazione della cosiddetta classe politica al neoliberalismo ultraliberista, con particolare biasimo per la sinistra, che si sta rivelando in diversi paesi il miglior servo dei globalisti. In Italia, ad esempio, il cosiddetto centro‐destra (con l’esclusione della Lega che agisce per puro calcolo elettoralistico) ha piegato la testa, a partire dallo spaventato ed isolato Berlusconi, ed ha accettato Monti a denti stretti, cedendogli l’esecutivo e garantendogli un appoggio incondizionato. Ma è il Pd, assieme ai centristi che si mostrano entusiasti delle riforme montiane, il sostenitore/servitore più affidabile di questo governo fantoccio, insediato a tempo di record dagli occupatori del paese, dopo le dimissioni di Berlusconi, con la decisiva complicità di Napolitano. Pur appoggiando servilmente l’esecutivo globalista (PdL, Pd, centristi), o contrastandolo fintamente in parlamento senza esiti concreti (Lega, IdV), espropriati dall’alto del controllo del governo del paese e della possibilità di fare una vera opposizione, i cartelli elettorali marginalizzati continuano nella finzione liberaldemocratica e simulano un confronto politico, ormai senza consistenza alcuna. Si va dalle accuse incrociate, quando scoppiano scandali che investono esponenti dell’uno o dell’altro cartello (il caso Penati, l’ex tesoriere della Margherita Lusi, i processi ancora in corso in cui è coinvolto Berlusconi), alle proposte di entente cordiale per la tanto attesa riforma elettorale, la quale, però, potrà trovare concreto riscontro soltanto quando e se i globalisti consentiranno di tornare alle urne.
La finzione, finalmente scoperta e trasformatasi in un’indecorosa recita, è dura a morire. Mai come oggi la situazione italiana offre la prova della fine della dicotomia politica destra/ sinistra, che non ha più alcun senso se la politica è completamente soggetta all’economia finanziaria, e supporta un “governo tecnico” incaricato di imporre il modello capitalistico ultraliberista, approvando pedissequa le sue controriforme.
In conclusione, possiamo affermare che la vittoria del globale sul nazionale, dell’economico sul politico, della finanza sulla socialità, del Capitale sul Lavoro, altro non sono che scontati riflessi della vittoria complessiva del Mercato sullo Stato, una vittoria epocale (ma forse non definitiva, per tutto il secolo) che ha instaurato il dominio sopranazionale della Global class, espropriando le entità statuali della sovranità politica e monetaria e sottomettendole al comando neocapitalistico.
 

giovedì 22 dicembre 2011

Fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo? 



di Eugenio Orso

Il passaggio da un vecchio modo storico di produzione dominante al nuovo ha richiesto per compiersi, nel corso della storia umana, tempi plurisecolari nonché trasformazioni culturali, economiche e sociali rilevanti.


La storia ha traghettato attraverso i secoli le popolazioni europee nel lungo passaggio dal feudalesimo al capitalismo, così come questione di secoli è stato l’avvento del feudalesimo che ha fatto seguito al modo di produzione schiavistico.


In questi ultimi decenni, però, le trasformazioni si sono progressivamente velocizzate, grazie all’azione congiunta della tecnoscienza e del cosiddetto sviluppo economico.


Così, dopo circa un trentennio di rapide e profonde trasformazioni culturali, politiche, ed economiche, che hanno inciso in profondità sul dato antropologico e su quello sociale, si sta realizzando il passaggio dal capitalismo del secondo millennio al Nuovo Capitalismo finanziarizzato, destinato a diventare il modo di produzione dominante.


Nel nostro presente storico non stiamo vivendo un semplice cambiamento di fase capitalistica, per quanto travagliato e gravido di eventi negativi, ma possiamo osservare l’inizio di una nuova era.


Eppure, complice la crisi globale che ha investito come un onda d’urto le vecchie strutture sociali sopravviventi, c’è qualcuno che in relazione a questo capitalismo in via d’affermazione già parla di collasso e di conseguente cambiamento epocale.


Le dinamiche finanziarie innescate dai meccanismi riproduttivi neocapitalistici, in effetti, sembrano portare al disastro, sia dal punto di vista economico e sociale sia da quello ambientale, e nessun governo, a partire dall’amministrazione federale americana, ha provveduto sinora ad imbrigliarle, per tentare di metterle sotto controllo.


Il che implicherebbe sicuramente il ritorno alle logiche del capitalismo del secondo millennio, alla “cura” keynesiana, all’interruzione, o quantomeno al rallentamento, dei processi di globalizzazione economica e finanziaria, che sono di esiziale importanza per l’affermazione del nuovo modo storico di produzione e per la sua riproduzione allargata.


Ma un ritorno al capitalismo postbellico novecentesco – oltre a non sembrare possibile, giunti a questo punto, richiederebbe un esteso consenso fra i membri della classe dominante, e la nuova Global class capitalistica, nata e cresciuta nella progressiva affermazione del neoliberismo e della globalizzazione dei mercati, non potrebbe mai accettarlo.


Al contrario, la classe globale ha voluto l’invasione e l’occupazione dell’Italia, con l’imposizione di un governo fantoccio, per preservare i meccanismi riproduttivi del Nuovo Capitalismo ed eliminare le resistenze all’avanzata neoliberista, che ormai è travolgente.


Non potranno più esistere “isole”, nel mondo occidentale, in cui sopravvivono consistenti tracce del vecchio capitalismo, ed in cui sono ancora possibili significative deviazioni dal modello neoliberista dominante.


Gli scopi dei governi liberaldemocratici soggetti al potere globalista sono di distruggere le sopravvivenze keynesiane, i residui di stato sociale e i diritti dei lavoratori, di soffiare sul fuoco dello scontro generazionale fra giovani precari e anziani tutelati, togliendo le tutele agli stabilizzati senza dare nulla ai precari, di distruggere il sistema pensionistico, di costringere i subordinati a lavorare fino alla morte con l’inganno dell’elevarsi della vita media (mentre quella massima, cruciale a tale riguardo, resta immutata), di privatizzare anche laddove non è necessario, di mantenere la precarietà e di creare disoccupazione per sostituire al profilo produttore/ consumatore quello del precario/ escluso, di mettere in liquidazione il patrimonio pubblico e di indebolire lo stato, come accade in queste settimane in Italia con l’osceno governo fantoccio di Monti (e Napolitano).


Paesi come l’Italia, che hanno già perduto la sovranità monetaria, perdono completamente anche quella politica e subiscono nell’inerzia di massa (almeno per ora) la tirannide liberista della classe globale.


Dovrebbe essere ormai chiaro anche ai più distratti che un governo come quello di Papademos, o come quello di Monti, non rappresenta il popolo (greco, italiano) o comunque una parte significativa anche se minoritaria di esso, ed anzi agisce contro il popolo, contro lo stato, contro le vecchie istituzioni.


La cosa più lontana dall’interesse collettivo, se mai questo è esistito, è il programma di un simile governo, che si regge sulla minaccia, sulla paura, sul ricatto e sull’inganno.


Agli italiani, quindi, Monti dovrebbe apparire come il peggiore fra i distruttori, in questo confortato dai suoi sodali Draghi e Napolitano.


Ma la sua, in fondo, è pur sempre “distruzione creatrice”, in quanto portatore del nuovo per conto degli unici veri referenti che ha e ai quali deve rispondere: i membri della classe globale.


Ed il nuovo può pur essere terribile, ma rappresenta la realizzazione concreta, con costi sociali che presto si riveleranno insopportabili, del modello di capitalismo vincente.


La “distruzione creatrice” di Monti e del suo esecutivo sta proprio nella disintegrazione del welfare e nella proliferazione dell’iniquità sociale (nuovo ordine sociale fondato sulla dicotomia Global class/ Pauper class), come nel porre interamente al servizio di Mercati e Investitori l’Italia e l’intero apparato produttivo nazionale, sottomettendo la sua popolazione, privata della possibilità di disporre delle risorse nazionali, alla nuova classe dominante neocapitalistica.


In tal senso, l’euro ha rappresentato il cavallo di troia globalista per depotenziare e poi ridurre a completa impotenza (o quasi) gli stati nazionali, ma il Quisling Monti, spalleggiato dal tristo Napolitano aduso alla menzogna e al tradimento (anzitutto quello dell’ideale comunista), opera ufficialmente per far restare l’Italia nell’Europa fasulla dell’Unione e per la difesa a spada tratta dell’euro maligno.


La “crescita”, tanto santificata anche da questo governo, è un mero pretesto per scardinare l’ordine sociale attraverso le contro-riforme globaliste e per “aprire” l’Italia ancor di più al mercato, riducendo gli spazi di intervento pubblico nell’economia (e le iniziative a difesa dell’industria e dei prodotti nazionali), fino a completa estinzione.


Questi passaggi, che avranno effetti terribili su almeno tre quarti della popolazione italiana, sono indispensabili per l’adozione senza riserve del modello capitalistico neoliberista estremo.


Perciò Mario Monti, in un certo senso, “sta facendo soltanto il suo dovere” – così come lo facevano i comandanti dei campi di Treblinka e Dachau nello scorso secolo, e quanto più massacrerà gli italiani (anziché ebrei, zingari, armeni, disabili, dissidenti ariani, eccetera), riducendoli all’impotenza per gli anni a venire, quanto più sottrarrà risorse al collettivo rendendole disponibili per la creazione del valore finanziario, azionario e borsistico, tanto più la sua azione di governo avrà avuto successo.


Dopo Monti e dopo il completamento della sua opera, fatta la frittata senza una concreta possibilità di tornare alle uova, si concederanno “finalmente” le elezioni, perché questo rito, ad alto contenuto simbolico, è ancora importante per sostenere il sistema politico liberaldemocratico e per ingannare le masse, purché non interferisca – sia ben chiaro, con le decisioni politico-strategiche che veramente contano (moneta, finanza, spesa pubblica, welfare), rallentandole o vanificandole.


Se questo è il contesto in cui siamo costretti a muoverci, e in cui ci muoveremo nel prossimo futuro, le speranze di rapida estinzione dell’euro o addirittura di collasso del capitalismo finanziario mondiale che affiorano negli ambienti alternativi, sembrano non avere troppa consistenza, almeno per quanto riguarda il breve-medio periodo, ed anzi è probabile che vicende come quella italiana possano chiudersi con un successo globalista e neoliberista,


Inoltre, potrebbero non esserci improvvise precipitazioni degli eventi – una guerra non convenzionale contro l’Iran, ad esempio, con il coinvolgimento di Russia e Cina, tali da compromettere la riproduzione sistemica.


L’Italia è ormai un paese occupato, l’esperimento greco si è concluso con successo ed è probabile che seguiranno altre occupazioni senza l’uso dello strumento militare, per “normalizzare” quanto meno l’Europa e l’occidente.


Perciò, possibilità concrete di fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non se ne vedono ancora all’orizzonte, ma le strade future da seguire a tale scopo, nel medio-lungo periodo quando si arriverà ad un ennesimo bivio storico, saranno almeno due, l’una alternativa all’altra:


1) Quella rivoluzionaria anticapitalista e anti(liberal)democratica, oggi impensabile e per la quale è necessario che la situazione sociale precipiti ancora e l'impoverimento vero morda alle chiappe gran parte del cosiddetto ceto medio, che oggi è il vero obbiettivo delle controriforme neocapitalistiche.


2) Quella rappresentata dal ritorno al keynesismo assistenziale, con accentuati lineamenti antiliberisti, caratterizzata da un’economia dal lato della domanda, dall’esaltazione del ruolo della spesa pubblica destinata a sostenere consumi e investimenti, dalla ridistribuzione dei redditi, dall’interventismo statale nell'economia, dalla nazionalizzazione non più ostracizzata delle banche e della grande industria, dalla distruzione dei potentati finanziari privati, dall’"eutanasia del redditiero" che si ingrassa fidando sul valore della scarsità del capitale, come scrisse con intima soddisfazione J.M. Keynes nella General Theory, e da altri elementi ancora. Questa ultima possibilità – ossia il ritorno a Keynes, non sarebbe altro che un tentativo di “ritorno al passato”, e cioè all’età dell’oro (i trenta gloriosi anni) dello storico ebreo di formazione marxista Eric Hobsbawm (all'incirca il trentennio 1945-1975), e non implica come quella rivoluzionaria la fuoriuscita dal capitalismo verso il nuovo e l’ignoto, in quanto si tratta dell'unico riformismo mostratosi efficace, in grado di produrre effetti sociali moderatamente emancipativi e nel contempo di mantenere in piedi il capitalismo. Ma questo “ritorno al passato” sembra quanto mai improbabile, soprattutto nel breve, perché la maggioranza degli economisti, degli intellettuali e degli accademici – valletti ideologici della classe globale ed untori ultraliberisti, è schierata dall'altra parte, mentre i veri keynesiani, come i marxisti novecenteschi, gli sraffiani ed altri, rappresentano una minoranza destinata all'estinzione. Inoltre, una riproposizione della riforma keynesiana non incontrerebbe alcun gradimento, nei centri di potere che veramente contano (oggi controllati dalla classe globale), e gli economisti arditamente riformisti non troverebbero alcun referente di alto profilo disposto ad appoggiarli e ad accogliere le loro tesi.


Dovrebbe apparire a tutti fin troppo chiaro, non soltanto in Italia, ma in buona parte dell’Europa e dell’occidente, che “la Rivoluzione può attendere” ancora a lungo e che la fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non è certo dietro l’angolo.

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giovedì 15 dicembre 2011

MOVIMENTO POPOLARE DI LIBERAZIONE
PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE
LA VIA MAESTRA E' IL SOCIALISMO



(Bozza di Manifesto del M.P.L.)




Rompendo gli indugi

L’Assemblea di Chianciano Terme del 22-23 ottobre “Fuori dal debito! Fuori dall’Euro” adottò per acclamazione una mozione che istituiva un «Comitato di coordinamento nazionale provvisorio con l’incarico di preparare una seconda assemblea entro la fine di gennaio 2012», e di stilare, in vista di quest’ultima, «una bozza di Manifesto».


Alla nostra prima riunione, svoltasi il 5 novembre, oltre a confermare l’impegno a scrivere e proporre alla prossima assemblea il Manifesto, abbiamo anche indicato la necessità di andare verso la costituzione di un nuovo soggetto politico, il Movimento Popolare di Liberazione.


Il 17 novembre, mentre ci apprestavamo a scrivere il Manifesto, la crisi economica e politica subiva l’accelerazione che sfociò nelle dimissioni del governo Berlusconi e nell’insediamento di quello Monti. Ci sembrò doveroso indicare che si trattava «una congiura ordita dal grande capitalismo finanziario internazionale», e che il paese passava «dalla padella alla brace». Per questo diffondemmo un «Appello al popolo lavoratore», segnalando come urgente il compito di formare un ampio Fronte di resistenza. In quell’Appello indicammo i sette punti di un «programma d’emergenza» per fermare Monti, per «dare uno sbocco all’opposizione sociale diffusa ma ancora incerta e frammentata... affinché si candidasse a guidare il paese per portarlo fuori dall’abisso».


Centinaia sono stati i cittadini che, sottoscrivendo quell’Appello, hanno sottolineato la volontà di aderire.


I fatti hanno superato i più foschi timori. La manovra economica del nuovo governo, giustificata con l’obbligo di “onorare il debito”, non solo è senza precedenti, è concepita come una puntata di un massacro sociale senza fine.


Gli eventi recenti se ci dicono che è urgente costruire un ampio Fronte di resistenza per contrastare Monti e fermare l’offensiva antipopolare, ci confermano che è necessario dare vita ad un nuovo movimento politico. Non ci saremmo decisi a compiere questo passo se fossimo vissuti in tempi ordinari, e se fosse esistita una forza solida e coerente capace di interpretare la fase politica attuale e che avesse ideee e proposte all’altezza della gravissima situazione che viviamo.


Che ci sia bisogno di un nuovo movimento politico, ciò è avvertito da larghi settori del popolo lavoratore che ormai da troppo tempo si trova senza un soggetto di riferimento credibile e certo.


Rompiamo così gli indugi e, tenendo fede alla promessa, proponiamo questo Manifesto [che alleghiamo affinché ognuno possa farlo circolare e stamparselo per leggerlo con la dovuta attenzione].


Fronte ampio di resistenza e movimento politico, com'è ovvio, non sono la stessa cosa.


Un’allenza sociale per far fronte all’emergenza è tanto più forte e ha tante più possibilità di vincere, quanto più è ampia, e per questo essa deve fondarsi su pochi e semplici obbiettivi.


Un Movimento politico degno di questo nome deve invece avere un programma di più ampio respiro, una visione d’insieme, un progetto di alternativa di società, che noi indichiamo appunto nel socialismo.


Speriamo di esserci riusciti con questo Manifesto .
Lo sottoponiamo dunque alla attenzione di coloro i quali, dopo l’Assemblea di Chianciano Terme, sono stati solidali con le nostre battaglie ed hanno espresso interesse a partecipare alla prossima Assemblea del 4-5 febbraio 2012.


Assemblea costituente, non costitutiva, ad indicare il suo carattere aperto a chiunque, condivise le linee generali del Manifesto, volesse unirsi a noi per dare vita, nei tempi e nei modi che comunemente verranno decisi, al MPL.*


Per il Comitato di Coordinamento dell’Assemblea di Chianciano Terme
Massimo De Santi, Leonardo Mazzei, Moreno Pasquinelli.
15 dicembre 2011


* Avremmo voluto svolgere l’Assemblea del 4-5 febbraio a Roma. I costi esorbitanti che ognuno avrebbe dovuto affrontare ci costringono a tornare a Chianciano Terme. Il costo approssimativo del soggiorno per sabato e domenica è di 60 € cadauno. Invitiamo fin da ora chi deve e vuole partecipare a segnalarcelo. La sua richiesta sarà considerata valida come prenotazione.



PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE
LA VIA MAESTRA E' IL SOCIALISMO
(Bozza di Manifesto)


Il capitalismo è come una trottola, può tenersi in equilibrio solo se gira vorticosamente attorno al proprio asse. Per ruotare ha bisogno di due fattori: una spinta che gli imprima movimento e una superficie perfettamente piana. Se viene a mancare anche solo uno di questi due fattori essa smette di ruotare, si accascia al suolo e si arresta.
La trottola del capitalismo occidentale sta schiantando perché la sua forza di spinta è venuta a mancare proprio mentre avrebbe dovuto accrescere a causa della superficie diventata accidentata, essendo la spinta il profitto e la superficie il mercato mondiale.




Il gioco vale la candela?


La forza motrice che muove lo sviluppo capitalistico non è il bene comune ma il profitto, il bene privato di chi detiene il capitale. Quando non può accrescere il profitto il capitale arresta la sua corsa, smette di investire, blocca la produzione, smantella impianti e dunque licenzia, crea disoccupazione, getta nella miseria anzitutto chi non ha altre risorse se non quella di vendere al miglior offerente la propria capacità lavorativa.
Queste recessioni cicliche, connaturate al capitalismo, vengono chiamate “crisi”. Ogni fase di espansione è seguita da una inevitabile contrazione. Alcune di queste crisi sono però più profonde, sono sistemiche, investono la gran parte dei settori economici e possono sfociare in depressioni di lungo periodo. Le conseguenze sociali e geopolitiche possono essere devastanti: pauperismo di massa, inasprimento dei conflitti sociali, caduta di governi e regimi, guerra aperta tra gli stati.
Con simili sconquassi vanno al tappeto i due dogmi che sorreggono l’ideologia dominante: quello per cui il capitale, facendo i propri interessi, realizza quelli di tutti, e quello per cui il “libero” mercato è il luogo che meglio assicura e distribuisce il benessere. La società è quindi costretta, quando il capitalismo mette in luce i suoi limiti congeniti, a considerare il rapporto tra i costi e i benefici del sistema, e ove decidesse che il gioco non vale la candela, a cercare una via d’uscita e a sperimentare nuovi modelli sociali e di vita.


Il boomerang


Di portata epocale fu la crisi che il capitalismo occidentale conobbe negli anni ’70 del secolo scorso. La tenace resistenza proletaria all’interno, l’avanzata delle lotte di liberazione dei popoli oppressi e l’esistenza del “blocco socialista” non consentirono al capitalismo di ricorrere alle vecchie terapie. La risposta alla crisi fu la globalizzazione.
All’interno: smantellamento delle protezioni sociali, privatizzazioni delle aziende e dei servizi pubblici, frantumazione delle grandi roccaforti industriali, precarizzazione del lavoro, agevolazione dei flussi migratori, lento abbassamento dei salari e dei redditi, boom del credito per sorreggere il consumismo di massa.
All’esterno, in classico stile coloniale, rapina sistematica delle risorse dei paesi poveri (non solo di materie prime, appunto, ma pure di forza-lavoro, manuale e intellettuale) e, grazie al ruolo guida imperiale degli Stati Uniti, aggressioni, guerre e pressioni di ogni tipo per soggiogare interi paesi e spazzare via i regimi considerati ostili. L’imperialismo, al prezzo di prosciugare le sue casse, ha vinto la “guerra fredda” e rovesciato regimi nazionali considerati “canaglia”, ma ciò ha prodotto nuovi esplosivi squilibri regionali e mondiali.
Il tutto nel quadro di una deregolamentazione sistematica dei mercati, dell’abbattimento di ogni barriera ai movimenti di capitale, della competizione selvaggia tra multinazionali e aziende, paesi e aree economiche. Questa globalizzazione dei mercati, che le potenze occidentali hanno tenacemente perseguito fino a spazzare via ogni ostacolo, si è rivelato un boomerang. L’ampia superficie piana per far girare la trottola si è trasformata in un terreno minato.


Il fallimento


La globalizzazione ha infatti prodotto alcuni effetti macroscopici.
Essa ha fatto emergere nuove potenze economiche, Cina in primis, che sfidano oramai apertamente quella supremazia che l'occidente - nel disperato tentativo di evitare un inesorabile declino - cerca di difendere in ogni modo, anche a rischio di nuove gravissime tensioni geopolitiche.
Al contempo la globalizzazione ha sprofondato nella recessione una serie di paesi poveri privi di materie prime, portando centinaia di milioni di persone alla fame, di qui grandi rivolte sociali, come quelle che hanno portato alla caduta di regimi totalitari nei paesi arabi.
Ma una delle conseguenze è che anche l’Occidente si è impoverito. I capitali occidentali, privi di freni, sono fuggiti via per fare razzie nei nuovi territori di caccia. In virtù dei bassi salari, dei regimi neoschiavistici di sfruttamento e repressione, dei sistemi fiscali di vantaggio dei paesi presi di mira, le imprese occidentali hanno accumulato enormi guadagni.
Questi tornavano sì in Occidente ma per finire nella grande bisca del capitalismo casinò, per essere gettati nel gioco d’azzardo di una speculazione finanziaria fondata sul debito. Somme colossali venivano offerte in prestito ai cittadini per sorreggere domanda interna e consumi in calo a causa della caduta del potere d’acquisto dei salari, e agli stati per puntellare i loro bilanci falcidiati da scellerate politiche privatizzatrici. In questo tritacarne sono quindi finiti gli Stati e le banche centrali. I primi accettando di gettare i debiti sovrani nei mercati finanziari internazionali, le seconde o stampando a tutto spiano carta moneta per sorreggere banche fallite o in procinto di fallire. Questo sollazzo non poteva durare all’infinito: moneta, obbligazioni e titoli per quanto simboli astratti sono pur sempre espressione di valori reali, sempre tenendo conto che il lavoro e la natura sono le due sole fonti da cui sgorga la ricchezza di una società.


Mutamenti epocali


La finanziarizzazione liberista dell’economia ha agito come una droga. Per sopravvivere il capitale aveva bisogno di dosi sempre più massicce di liquidità, acquistando dalle banche centrali denaro a basso costo per poi lucrare rivendendolo a tassi usurai. Ma nella bisca, il gioco è sempre a somma zero: a fronte di chi vince, c’è sempre qualcun altro che perde. Chi ci ha rimesso le penne è stato anzitutto il lavoro salariato, che in tre decenni si è visto scippato di buona parte delle sue conquiste ed ha subito una drastica riduzione della quota di reddito sociale a sua disposizione; scippo compensato dall’elargizione di crediti che hanno trasformato buona parte dei lavoratori in debitori permanentemente sotto ricatto.
La globalizzazione ha quindi indotto profonde trasformazioni nel corpo stesso delle società occidentali, sia in alto che in basso.
In alto: la rendita, ovvero il capitale finanziario speculativo (denaro che si accresce senza passare per il ciclo produttivo di merci) ha preso il sopravvento su quello industriale; e in esso il vero dominus è diventato il settore bancario predatorio (banche d’affari); in seno alla classe capitalista sono diventati prevalenti i ceti parassitari che vivono di rendita; gli stati nazionali sono stati privati della loro sovranità politica; parlamenti e governi, espropriati delle loro prerogative, sono diventati passacarte; i partiti si sono trasformati in meri comitati d’affari, selettori dei funzionari al servizio dell’oligarchia.
In basso i mutamenti non sono stati meno profondi. Il dato fondamentale è che al crollo del lavoro produttivo è corrisposta la crescita di quello improduttivo o direttamente parassitario. Il processo di deindustrializzazione e di smantellamento dei settori statali ha causato un vero e proprio sfaldamento del tessuto sociale. Scomparsi o quasi i grandi poli industriali, gran parte del lavoro è stato appaltato a piccole e medie aziende, dove i salari sono più bassi ed è molto più difficile per i lavoratori tutelare i propri interessi. Allo smembramento della vecchia classe operaia industriale è corrisposta la crescita dei settori impiegatizi, di mestieri del tutto nuovi, di lavori socialmente necessari ma spesso improduttivi. Il posto fisso ormai è stato in gran parte rimpiazzato dal lavoro precario e flessibile. Le conseguenze sono state devastanti: un disgregazione sociale senza precedenti causa prima dell’implosione dei tradizionali vincoli comunitari e dei tessuti aggregativi, e il sopravvento di un’ideologia individualistica pervasiva, refrattaria ad ogni istanza solidale e collettiva.


La crisi italiana


Nella crisi globale dell’Occidente imperialistico c’è la specifica crisi dell’Unione europea e dentro quest’ultima la crisi italiana. Essa si presenta come un processo che vede coinvolti simultaneamente l’economia, le istituzioni repubblicane, la società civile. All’evidente incapacità della classe dominante di governare il paese (il cui sfascio è emblematico), fa da contraltare la totale inadeguatezza delle classi subalterne a conformare un’alternativa. L’ingresso nell’Unione europea e l’adozione dell’euro, che le classi dominanti avevano pervicacemente perorato come la maniera per porre fine alle strutturali distorsioni italiane, si sono rivelati invece un fiasco totale. La sostanziale cessione di sovranità, monetaria, politica e istituzionale —accettata fideisticamente dalla classe dirigente italiana ma non da quelle tedesche e francesi, né tanto meno dai paesi che come il Regno Unito hanno rifiutato di accettare l’euro— ha finito per aggravare tutti gli squilibri, all’esterno come all'interno.
In questo contesto, l’inevitabile crollo dell’Unione e dell’euro rischiano di essere un evento catastrofico, le cui conseguenze più pesanti verranno fatte pagare al popolo lavoratore, privato oramai di ogni autodifesa.
L’alternativa secca è tra il subire questa catastrofe sociale —che non è un singolo evento fatidico, ma un processo già in atto— o sollevarsi per un vero e proprio cambio di sistema. Se questo rivolgimento non ci sarà presto, il paese sarà ridotto in macerie, col rischio che la miseria generale possa causare un devastante conflitto tra poveri ed infine lasciare spazio ad avventure populiste e reazionarie, animate da una borghesia che tiene sempre in serbo primigenie pulsioni reazionarie, senza nemmeno escludere l’eventualità di uno sgretolamento dello Stato-nazione. Conflitti aspri saranno inevitabili, così come una polarizzazione di forze contrapposte.
Di sicuro la crisi sprigionerà grandi energie sociali, energie che questo sistema politico marcio sarà incapace di ammansire e rappresentare. Queste forze sono la sola leva su cui si possa fare affidamento per cambiare radicalmente questo paese. Vanno quindi alimentate, aiutate ad emergere. Bisogna dare loro una consistenza politica, uno sbocco, una prospettiva. Per farlo non è sufficiente affermare dei no, occorre anche indicare quale possa essere l’alternativa, il nuovo modello sociale.
Questo è esattamente il compito che ci proponiamo come Movimento Popolare di Liberazione (MPL). Esso non consiste anzitutto nell’accendere fuochi di conflitto sociale, poiché essi già esistono come risultato di una resistenza diffusa che scaturisce da condizioni oggettive. Il compito nostro è quello di risvegliare le coscienze sopite, di chiamare a raccolta le migliori intelligenze, di raggruppare e dunque di far scendere in campo centinaia e migliaia di cittadini che di fronte alla miseria sociale e politica generale, sono decisi a prendersi ognuno la propria responsabilità, fino a quella di battersi per rovesciare lo stato di cose esistenti.

Fronte ampio e governo popolare


Parallelamente alla fondazione di una nuova forza politica, il MPL, noi ci battiamo per unire tutte le forze che avvertono la minaccia incombente e che non solo si limitano ad opporre dei no, ma che vogliono sfidare le classi dominanti avanzando soluzioni efficaci e realistiche per portare il paese fuori dal marasma. Si tratta quindi di attivare un Fronte ampio che sappia candidarsi alla guida del paese per dar vita a un governo popolare di emergenza. Tanti sono i problemi, numerose le trasformazioni sociali necessarie, ma esse fanno capo a poche misure sostanziali.


- Abbandonare l’euro per riprenderci la sovranità monetaria.
L’euro ci fu presentato come una panacea per curare i mali strutturali dell’economia italiana (tra cui l’alto debito pubblico e una competitività fondata solo sui bassi salari) e risolvere gli squilibri tra gli Stati comunitari. A dieci anni di distanza non solo il debito pubblico è aumentato, ma l’economia è in stagnazione e la competitività è diminuita. Le politiche antipopolari di austerità perseguite da tutti i governi, presentate come necessarie per restare nell’Unione e difendere l’euro si sono dimostrate del tutto inutili, se non nel fare dell’Italia un paese più povero. L’euro e i principi di Maastricht hanno accresciuto gli squilibri in seno all’Unione europea, determinando uno spostamento di risorse dall’Italia verso i paesi più “virtuosi”, la Germania anzitutto, che non hai mai messo i suoi propri interessi nazionali dietro a quelli comunitari.
La ricchezza di un paese non dipende certo dalla moneta, ma dal lavoro che la crea, e poi da come essa viene distribuita. La moneta è tuttavia una leva per agire sul ciclo economico, un mezzo per decidere come viene distribuita la ricchezza sociale. Un paese che non disponga della sovranità monetaria, tanto più se alle prese con la speculazione finanziaria globalizzata, è come una città assediata priva di mura di cinta. Occorre ritornare alla lira, ponendo la Banca d’Italia sotto stretto controllo pubblico, affinché l’emissione di moneta sia funzionale all’economia e al benessere collettivo e non alle speculazioni dei biscazzieri dell’alta finanza.


-Nazionalizzare il sistema bancario e i gruppi industriali strategici.
Agli inizi degli anni ’80 venne permesso alle banche italiane, in ossequio ai dettami neoliberisti, di diventare banche d’affari, di utilizzare i risparmi dei cittadini per investirli e scommetterli nella bisca del capitalismo-casinò. Prese avvio una politica di privatizzazione delle banche e di concentrazione, che ha coinvolto anche gli enti assicurativi, gettatisi voraci sul malloppo dei fondi pensione. Banche e assicurazioni sono oggi le casseforti che custodiscono gran parte della ricchezza nazionale. Esse debbono essere nazionalizzate, affinché questa ricchezza, invece di partecipare al gioco d’azzardo finanziario, sia utilizzata per il bene del paese. Debbono poi ritornare in mano pubblica le aziende di rilevanza strategica, sottraendole agli artigli dei mercati finanziari e borsistici come dalla logica perversa del profitto d’impresa.
Contestualmente andrà rafforzata la gestione pubblica dei beni comuni come l’ambiente, l’acqua, l’energia, l’istruzione, la salute.


- Per una moratoria sul debito pubblico e la cancellazione di quello estero
Il debito pubblico accumulato dallo Stato è usato da un decennio come la Spada di Damocle per tagliare le spese sociali, giustificare le misure d’austerità ed una tra le più alte imposizioni fiscali del mondo. Esso è diventato fattore distruttivo da quando, agli inizi degli anni ’90, i governi hanno immesso i titoli di debito nella giostra delle borse e dei mercati finanziari internazionali. Da allora i creditori divennero i fondi speculativi, le grandi banche d’affari estere e italiane. Il debito pubblico, gravato di interessi crescenti, non è niente altro che un drenaggio di risorse dall’Italia verso la finanza speculativa, banche italiane comprese.
Per questo riteniamo ingiusto, antipopolare e suicida per il futuro del paese fare del pagamento del debito un dogma. La rinascita dell’Italia richiede la protezione dell’economia nazionale dal saccheggio dei predoni della finanza imperialista. Ciò implica impedire ogni fuga di capitali verso l’estero, incluso il pagamento del debito estero perché esso non è altro che una forma di espatrio legalizzato, di rapina autoinflitta. Non rimborsare gli strozzini della finanza globale non è una opzione, ma una necessità.
Non solo è ingiusto, ma in base al rapporto costi/benefici è economicamente irrazionale tentare di rispettare la clausola del Trattato di Maastricht che impone un rapporto debito/Pil non superiore al 60%. Ciò implica ripetere per ben 25 anni, e non è detto che sia sufficiente a causa della depressione economica, manovre d’austerità da 30 miliardi all’anno.
Sbaglia dunque chi si fa spaventare dagli strozzini che evocano lo spauracchio del “default”. Il male minore per l’Italia è un default programmato e pianificato, una moratoria e dunque una rinegoziazione del debito, che i creditori dovranno accettare, pena il ripudio vero e proprio. Per quanto riguarda il debito con le banche e le assicurazioni italiane, dal momento che saranno nazionalizzate, esso sarà de facto cancellato. Il solo debito pubblico che lo Stato rimborserà, a tassi e scadenze compatibili con le esigenze della rinascita economica e sociale del paese, sarà quello posseduto dalle famiglie italiane.


- Debellare la disoccupazione con un piano nazionale per il lavoro
La natura e il lavoro sono le sole fonti da cui sgorgano il benessere e la ricchezza sociale. Proteggere l’ambiente e assicurare a tutti i cittadini un lavoro sono le due priorità di un governo popolare. Ciò implica che esso, liberatosi dal feticcio della cosiddetta “crescita economica” misurata in Pil, dovrà sottomettere l’economia, pubblica e privata, alla politica, ovvero ad una visione coerente della società, in cui al centro ci siano l’uomo e la sua qualità della vita. Non si vive per lavorare ma si deve lavorare per vivere. Si produrrà il giusto per consumare il necessario. Solo così si potrà uscire dalla trappola produzione-consumo per affermare un nuovo paradigma produzione-benessere.


- Uscire dalla NATO e dall’Unione europea, scegliere la neutralità.
Attraverso la NATO l’Italia è incatenata ad un patto strategico che oltre a farla vassalla dell’Impero americano, la obbliga a seguire una politica estera aggressiva, neocolonialista e guerrafondaia. Uscire dalla NATO e chiudere le basi e i centri strategici militari americani in Italia è necessario per riacquisire la piena sovranità nazionale, scegliere una posizione di neutralità attiva e una politica di pace. L’uscita dall’Unione europea, inevitabile se si ripudiano, come occorre fare, i Trattati di Maastricht e di Lisbona, non vuol dire chiudere l’Italia in un guscio autarchico, al contrario, vuol dire puntare a diversi orizzonti geopolitici, aprendosi alla cooperazione più stretta con l’area Mediterranea, stringendo rapporti di collaborazione con l’America latina, l’Africa e l’Asia.


- Rafforzare la Costituzione repubblicana per un’effettiva sovranità popolare
La cosiddetta “Seconda repubblica” si è fatta avanti calpestando i dettami della carta costituzionale. L’abolizione delle legge elettorale proporzionale, il bipolarismo coatto, i poteri crescenti dell’Esecutivo, la trasformazione del Parlamento in un parlatoio per replicanti spesso corrotti, erano misure necessarie per assecondare i torbidi affari di banchieri e pescecani del grande capitale, nonché per sottomettere il paese e la politica ai diktat e agli interessi della finanza globale. La Costituzione va difesa contro i suoi rottamatori, se necessario dando vita ad una Assemblea costituente incaricata di rafforzarne i dispositivi democratici a tutela della piena ed effettiva sovranità popolare.

Sovranità nazionale e socialismo


Non vediamo oggi, in seno alle classi dominanti italiane componenti disposte a battersi sul serio per uscire dall’Unione europea, sganciare l’Italia dalla morsa della globalizzazione liberista per ricollocarla dentro nuovi scenari geopolitici. Ove domani si manifestassero il popolo lavoratore non dovrebbe esitare a costituire un’alleanza comune.
Compito pressante dell’oggi è costruire un fronte ampio del popolo lavoratore, un'alleanza solida tra il proletariato e parti consistenti delle classi medie. Dentro questa alleanza il proletariato non dovrà stare a rimorchio ma agire da forza motrice. E per questo serve un soggetto politico rivoluzionario, che aiuti la classe degli sfruttati a diventare classe dirigente nazionale. Solo un fronte popolare con al centro i lavoratori può avere la forza e la determinazione per un cambio di sistema capace di portare l’Italia fuori dal marasma. E' da questo contesto che discendono i compiti, le funzioni e il profilo del Movimento Popolare di Liberazione.
Ma essi dipendono anche dalla nostre finalità, dai nostri scopi ultimi.
Vi è ancora chi considera l’uscita dall’Unione europea e l’abbandono dell’euro come idee velleitarie ed estremistiche. E’ vero esattamente il contrario. Il disfacimento dell’Unione europea e la fine dell’euro sono processi oggettivi, oramai irreversibili. Velleitari sono coloro che si illudono di fermare queste tendenze facendo gli esorcismi, mettendo toppe che sono peggiori del buco. Estremisti psicotici sono gli oligarchi di Francoforte e Bruxelles, disposti a dissanguare intere nazioni pur di tenere in vita una moneta moribonda e ingrassare la rendita parassitaria. Il problema non è se abbandonare l’euro o meno, il problema è chi guiderà questo processo. Se al potere resteranno i servi politici del capitalismo finanziario ne faranno pagare le salate conseguenze alle masse lavoratrici. Se sarà un governo popolare a pilotare l’uscita, i sacrifici, certo inevitabili, saranno anzitutto addossati ai parassiti, e i frutti di questi sacrifici saranno utilizzati per il bene comune della maggioranza e la rinascita del paese.
E’ in questo quadro che il MPL considera la riconquista della sovranità nazionale una stella polare. Senza sovranità nazionale non c’è quella popolare, non c’è democrazia. Solo riconquistando questa sovranità politica, economica e monetaria il paese può risorgere su nuove basi, sgangiandosi dalla soffocante morsa dei mercati finanziari internazionali per proiettarsi verso altri orizzonti regionali e mondiali. Se Un’Europa dei popoli vedrà un giorno luce essa nascerà sulle macerie di quella di Maastricht.
Siccome è sotto gli occhi di tutti che non siamo alle prese con una recessione ciclica ma con una crisi storico-sistemica di un modello di produzione e di vita, dovere di chi guarda al futuro è immaginare un’alternativa di società e agire per realizzarla. Sarebbe assurdo fare grandi sacrifici per poi ritrovarci alle prese con una società esposta a crisi cicliche devastanti, incapace di assicurare un reale benessere collettivo, generatrice di diseguaglianze e squilibri, lacerata dai conflitti sociali.


Il MPL scende in campo per contrastare questa crisi e soprattutto per uscire dal sistema neoliberista globalizzato che ha fatto del capitalismo un dogma. Per liberare il paese dalla corruzione, dalle ingiustizie, dalla dittatura delle banche e della finanza internazionale. Per liberarci dalla dittatura del mercato. Scende in campo per non accettare supinamente la distruzione sistematica della natura, della nostra vita e del futuro delle nuove generazioni; per affermare che l'alternativa è una società socialista che metta l'economia al servizio della collettività e della difesa di tutti i beni comuni.
Sappiamo che questo approdo è ancora lontano, che occorrono tempi lunghi affinché lavoratori e cittadini possano riuscire a prendere in mano i loro destini. Solo allora la società sarà matura per fare a meno del mercato, per togliere ai mezzi di produzione e di scambio la loro forma capitalistica e ai beni la loro forma di merce.
Fino ad allora coesisteranno forme diverse di proprietà, quelle capitalistiche e quelle statali, quelle pubbliche e quelle autogestite. Fermo restando che il governo popolare dovrà aiutare il nuovo a crescere e il vecchio a perire.
L’alternativa di oggi è lottare o soccombere. Quella di domani sarà la liberazione o il ritorno a forme più brutali di oppressione