I Rivoluzionari e le masse di Eugenio Orso
II) I Rivoluzionari e le masse.
I
singoli impegnati nella lotta rivoluzionaria rappresentano, perciò, in
ogni contingenza storica possibile e individualmente considerati,
l’unità minima di resistenza e di critica al potere in essere, mentre,
collettivamente considerati ed organizzati nella lotta, diventano quella
forza collettiva che propriamente chiamiamo “I Rivoluzionari”.
Critica
esercitata con l’uso della ragione e “critica delle armi” in certe
condizioni storiche, in determinate congiunture che I Rivoluzionari
devono affrontare, sono per noi la stessa cosa, ambedue accettabili e
necessarie, la seconda rappresentando una prosecuzione della prima con
altri mezzi.
I
Rivoluzionari quali agenti principali del cambiamento,
dell’Emancipazione e della Liberazione, e le classi dominate da
liberare, sono però due forze diverse e distinte, che non devono essere
confuse o sovrapposte, e lo sono in modo particolare nel nostro caso
storico, a questo livello di coscienza di sé e di potenza del Nuovo
Capitalismo.
La
vecchia classe operaia, salariata e proletaria del dopoguerra italiano,
subendo al suo interno l’egemonia di quel PCI, predecessore di PDS, DS,
Pd, che ha avvelenato tutta la vita politica nazionale, fino alla
terminale schizofrenia eurocomunista (secondo l’analisi di Costanzo
Preve), non ha potuto essere in alcun modo soggetto rivoluzionario
trasformativo dell’esistente.
Questo
processo storico, che ha interessato la penisola per decenni, è
iniziato nel 1956 ed è giunto fino alla fine formale del PCI, ma non si è
definitivamente concluso con questa, perché ha assunto nuove forme,
molto più subdole, adattandosi ai mutati scenari politici, geopolitici e
sociali, dopo il crollo dell’URSS e l’avvio della globalizzazione
neoliberista, attraverso la nefasta sequenza PDS-DS-Pd, eredi sempre più
degeneri e totalmente asserviti al Nuovo Capitalismo di “quel” PCI che
li ha preceduti.
Al
fallimento e all’estinzione dei movimenti antagonisti di allora nati
nella fabbrica (come le BR di Renato Curcio e Mario Moretti),
affiancatisi a quelli studenteschi e “borghesi” critici come potenziale
brodo di coltura delle forze rivoluzionarie, ha contribuito in modo
determinante lo stesso PCI, che da un lato esprimeva una politica
rivendicativa di natura socialdemocratica (solo un po’ più spinta di
quella della SPD tedesca uscita dalla Bad Godesberg del 1959, per
intenderci), mantenendo, però, sempre vivo – per scopi elettorali e di
consenso, di potere amministrativo da conservare ed estendere e di
controllo politico di massa – il mito della centralità della classe
operaia (progressivamente svuotato di contenuti rivoluzionari ed
intermodali effettivi), in una struttura di partito che era ancora in
parte leniniana, derivata dalla strutturazione dell’originario partito
dei rivoluzionari, pur mitigata da formule altisonanti come quella,
allora ben nota e fin troppo discussa, del “centralismo democratico”.
Secondo
il filosofo Costanzo Preve, il Partito Comunista Italiano,
socialdemocratico più che comunista, revisionista nei fatti e
rivoluzionario solo a parole, ormai sostanzialmente interno al
capitalismo di allora come tutto l’”Arco costituzionale” del quale lo
stesso PCI era parte integrante, ha preteso di mantenere il controllo
sull’”ebollizione” movimentista, operaista, antagonista, particolarmente
nei fermenti sociali e politici a cavallo degli anni sessanta e
settanta, ma è difficile “controllare l’acqua che bolle nella pentola”,
di per sé imprevedibile e pronta a debordare, e la situazione, pur senza
che si inneschi un vero e proprio processo rivoluzionario, o che si
verifichino sanguinose e generalizzate insurrezioni di massa, gli è in
parte sfuggita di mano.
Un
partito comunista che abbandonata per sempre la via italiana al
socialismo, si trasformava in utile “ruota di scorta” del capitalismo
occidentale a guida statunitense, nel mondo bipolare USA – URSS di
allora.
Su
questa via si sono incamminati, nei decenni post-bellici, il comunista
“liberale” Giorgio Amendola e il suo allievo degenere Napolitano (che
ben conosciamo per i suoi trasformismi e le sue abiure), ma anche lo
stesso, amatissimo, Enrico Berlinguer e il celebre capo sindacale
“rosso” della CGIL Luciano Lama.
La
nascita dei CUB all’interno delle fabbriche (fra i quali il più noto e
aggressivo, a Milano, era quello della Pirelli), che riuscivano ad
imporre le loro decisioni al sindacato, il sorgere dei GAP, delle BR, di
Potere Operaio, di Prima Linea, per citare alcune organizzazioni armate
extrasistemiche dell’epoca, molto note e attive nella lotta armata, ne
costituiscono altrettante prove.
La
classe operaia, salariata e proletaria, nonostante la persistenza del
mito dell’operaio-massa e “l’effervescenza” movimentista (Mario Moretti,
Brigate Rosse. Una storia italiana. Le BR nate e inserite
nell’”effervescenza” della società di allora, oltre che dall’iniziale
radicamento nella fabbrica) ben testimoniata dall’innesco del
sessantotto, dal cosiddetto autunno caldo e dagli sviluppi negli anni
successivi, non poteva dirsi una classe sociale propriamente
rivoluzionaria, ed infatti non lo è stata, grazie alla “conversione”
socialdemocratica del PCI nei decenni postbellici, all’estensione del
welfare e alla seduzione consumistica, e non ci ha condotti per mano in
un Mondo Nuovo postcapitalistico, in cui si stabiliscono nuovi rapporti
di produzione e originali assetti politici.
Valga per tutti la negazione del carattere rivoluzionario della classe operaia, sinteticamente esposta da Costanzo Preve:
«Per
un secolo, finito il tempo delle rivoluzioni borghesi inaugurate a
Parigi nel 1789, la rivoluzione è stata associata strettamente al
soggetto politico operaio, salariato e proletario. Si è trattato sempre e
solo di un mito di mobilitazione di tipo soreliano, perché i proletari
di tutto il mondo non si sono mai uniti [ ... ]»
[Etica comunitaria, progresso e rivoluzione, Costanzo Preve intervistato su questi temi da Luigi Tedeschi]
Ancor
meno la costituenda classe Pauper, crogiolo del vecchio ordine sociale
per quanto riguarda i dominati, dagli operai orfani dell’omonima classe
ai ceti medi impoveriti, passando per le vecchie e le nuove forme di
marginalità sociale ed inglobando in sé qualche milione di immigrati,
potrà rappresentare in futuro un soggetto rivoluzionario autentico, in
grado di garantire il superamento del vigente ordine sociale e politico
neocapitalistico.
Dalla
seconda metà degli anni ’50 agli anni ’80, nella stessa fabbrica, oltre
che nelle scuole, nelle università e nel mondo borghese critico di
allora, sono nati soggetti politici non allineati con il PCI
(extraparlamentari, operaisti, antagonisti, propugnatori della lotta
armata), frutto di quella ”effervescenza” (Moretti) e di quella
“ebollizione” (Preve), nello stesso tempo sociali e politiche, mosse sia
dalla radicale critica allo sfruttamento capitalistico nei recinti
della fabbrica sia (e in certi casi almeno in apparenza) da una
coscienza infelice borghese che di lì a non molto si sarebbe estinta.
La
compresenza della duplice contraddizione che ha animato il capitalismo
nello stadio dialettico, quella fra Borghesia e Proletariato e quella,
parallela, sviluppatasi all’interno della Borghesia stessa (la coscienza
infelice e critica borghese), in quegli anni hanno agito rendendo il
movimento operai-studenti ipercritico nei confronti dello stesso PCI,
che partecipava sempre più attivamente alla difesa del sistema e alla
gestione del potere (amministrazione delle regioni “rosse”, internità
all’“Arco costituzionale”, adesione al consociativismo, “compromesso
storico”, condanna del “terrorismo rosso” venduto come nero,
collaborazione con i nuclei di carabinieri del generale Alberto Dalla
Chiesa, eccetera).
All’”ebollizione”
sociale e all’”effervescenza” movimentista, manifestatesi in quegli
anni, ha dato il suo fondamentale contributo lo stesso PCI, dopo
l’iniziale fase della ricostruzione, mantenendo in vita
schizofrenicamente il cosiddetto mito operaio, assieme a quello della
rivoluzione anticapitalista, a fronte di una politica
socialdemocratica-rivendicativa di sostanziale internità al capitalismo.
Oggi non assistiamo ad alcuna “effervescenza” sociale, né dentro né fuori le fabbriche superstiti.
Non
c’è più alcuna traccia di quel solidarismo di classe (classe operaia
vera e propria, tecnici, altri lavoratori dipendenti ed altre figure
professionali create dalla divisione del lavoro capitalistica) che
pretendeva di modificare dal basso le stesse relazioni industriali, le
turnazioni e le condizioni di lavoro, acquisendo con una lotta dura, che
non escludeva a priori l’uso della violenza, spazi di libertà sempre
maggiori sottratti ai “padroni”.
Il
fatto che non c’è più solidarietà di classe e unione fra i dominati per
avviare le lotte anticapitaliste del presente, non è tanto la
conseguenza della “ristrutturazione” del capitale che ha ridotto le
grandi concentrazioni operaie, ma della circostanza che la nuova classe
dominata non è ancora formata, e al più si può parlare (al momento
presente ed ancora per qualche tempo) di masse di dominati-pauper,
preludio della nuova Pauper class neocapitalistica.
I
sindacati devono soltanto fingere di rappresentare le istanze dei
lavoratori, in quanto si sono trasformati in ruote di scorta delle
direzioni aziendali, in CAF per l’assistenza fiscale ai tesserati e
abbassano la testa ovunque davanti alle politiche neoliberiste, pur di
mantenere i loro centri di sub-potere.
Il
sindacato ascaro di quest’epoca, mero centro di servizi per i
tesserati, truffa i lavoratori con scioperi e forme di lotta puramente
testimoniali, graditi al potere, per poi approvare accordi-capestro
fingendo di aver strappato qualche sostanziale miglioramento al governo o
alla controparte (come nel caso della libertà di licenziamento per
motivi economici o disciplinari, temperata dalla decisione del giudice) e
di contare ancora qualcosa nel punto più basso della catena di comando
neocapitalistica.
Fuori
delle fabbriche, quelle finora non delocalizzate, sopravvissute alla
crisi strutturale, alla concorrenza globale, alla contrazione del
credito bancario e alle manovre governative, ugualmente non c’è traccia
di “effervescenza” o di “ebollizione”, perché l’atomizzazione sociale ha
agito in profondità, è scomparsa la coscienza infelice borghese (che
produceva rivoluzionari e soggetti critici) assieme al solidarismo
operaio (sorgente di antagonismo sociale e politico), e nessuno riesce
più ad immaginare alternative al Nuovo Capitalismo globale, in questa
apparente “End of History” e delle speranze.
In fondo, qualche buona ragione l’ha Mario Moretti, quando – nel
libro-intervista Brigate Rosse. Una storia italiana, ricordando il
primo avvio della epocale trasformazione capitalistica, giunti allo
scadere dei “trenta gloriosi” anni postbellici di compromesso fra Stato e
Mercato – afferma con parole semplici e chiare «Il padrone
ristruttura e lo stato reprime. Il movimento viene battuto da tutti e
due. Il padrone gli toglie di sotto i piedi il terreno che conosce.
Prendete la Pirelli che ho citato più volte, c’è il movimento più forte,
più nuovo, più fluido; se il Cub vuole, il sindacato deve indire lo
sciopero. E là ci sono le prime azioni di guerriglia. Eppure la Brigata
della Pirelli muore presto. Muore quando la Pirelli si ristruttura. La
prima ristrutturazione fu clamorosa per il senso di sconfitta che
lasciò. Proprio mentre era più grande la nostra forza …»
Molti
decenni sono passati da allora, e la “ristrutturazione” dei padroni
alla quale ha accennato Moretti è ormai quasi completata, anzi, sono
cambiati persino i padroni, quelli veri che decidono, non più borghesi
culturalmente e legati alla dimensione nazionale, ma globalisti
“deterritorializzati”, e la grande trasformazione ha portato ad un nuovo
modo storico di produzione sociale, che fra i suoi elementi strutturali
annovera la fondamentale manipolazione antropologico-culturale dei
dominati, volta ad evitare che si ripetano antagonismi, movimentismi ed
insubordinazioni diffuse, come è accaduto negli anni sessanta-settanta
ai quali Moretti si riferisce.
Oggi
non c’è più l’humus dal quale può nascere un vero movimento
antagonista, seppur composito al suo interno, dagli intellettuali e
dagli studenti agli operai ed ai precari, mancano le condizioni e le
leve perché si costituisca un vero collettivo politico metropolitano,
perché si sviluppi una resistenza generalizzata di fabbrica che ricorre
al sabotaggio, o all’intimidazione delle spie, dei sindacalisti gialli e
dei servi, e tanto meno sono riproducibili le Brigate Rosse della
“propaganda armata”, o simili organizzazioni che praticavano la critica
al sistema con l’uso delle armi.
Ma
attenzione: ciò non significa che la lotta armata non è più la via per
sconfiggere questo capitalismo, o almeno, più ragionevolmente, per
provocarne ed accelerarne la crisi, perché l’esito al quale si deve
puntare, partendo dagli spazi nazionali e unificando le lotte
frammentate, è l’innesco della Guerra Sociale di Liberazione, nonostante
una diffusa passività delle masse, che paiono (e in buona misura
purtroppo sono) ampiamente inerti e prostrate.
Anche
allora – negli anni delle BR – come oggi, in cui la situazione è a dir
poco drammatica, la classe dominata, per quanto ancora cosciente di sé,
unificata dalla solidarietà e disposta alla lotta, non si è palesata
come classe rivoluzionaria, capace di guidare il resto della società
fuori dei recinti storici del capitalismo.
Moretti
è indubbiamente un rivoluzionario, un rivoluzionario che è stato
sconfitto per quanto generosamente si sia speso nella lotta, la classe
alla quale ha fatto riferimento, per la quale ha condotto la lotta
armata, in funzione della quale ha dovuto prendere decisioni
drammatiche, non era rivoluzionaria (o almeno non lo era più), ma non è
questo il vero motivo della sua sconfitta.
I
Rivoluzionari e la classe dominata (nel nostro caso, la Pauper class
che si sta rapidamente formando) sono due forze ben distinte, due
“curve” che provengono da direzioni diverse, e il “punto di tangenza”
decisivo fra i due può verificarsi soltanto in particolari condizioni
storiche, quando l’azione dei Rivoluzionari è coronata da successo, il
potere si indebolisce, e i tempi diventano maturi per tentare l’assalto
ai palazzi in cui si annida.
Mario
Moretti e le Brigate Rosse questo fatidico “punto di tangenza”,
preludio di una svolta storica, non lo hanno mai incontrato nel loro
sanguinoso e lungo percorso.
Ma
oggi la situazione è ben più grave per I Rivoluzionari di quanto era ai
tempi di Moretti e delle BR, perché il terreno sotto i piedi manca
completamente, non è neppure possibile, come lo è stato a quei tempi,
immaginare un insediamento sia pure temporaneo nelle unità produttive
superstiti, o nei quartieri metropolitani, in cui ci sono, al più, le
vecchie e tollerate “riserve indiane” dei centri sociali, e c’è
un’esplosione (in molti casi silenziosa) di situazioni di marginalità e
di impoverimento che non generano antagonismo e non producono
espressioni politiche alternative.
Il
“riflusso nel privato” della montante disperazione sociale, priva di
effettivi sbocchi politici, che si estrinseca, al più, attraverso
suicidi ed esplosioni incontrollate di violenza individuale, è la prova
più drammatica e tangibile, verificabile ormai quotidianamente, che le
masse-pauper quale preludio della futura Pauper class non costituiscono
in alcun modo l’”intelletto attivo” della trasformazione storica, e che
da loro, perciò, non ci si deve aspettare la fatidica “scintilla” che dà
inizio all’incendio rivoluzionario.
La
situazione è così grave che non sembra rimediabile nel breve, e può
rappresentare, semmai, il terreno di coltura di istanze puramente
insurrezionali, in una saldatura fra la “vecchia” marginalità superstite
e le nuove povertà, economiche e culturali, destinate ad estendersi
lambendo fasce sempre più ampie del cosiddetto ceto medio, fino ad
estinguerlo.
«Tutto il potere al popolo armato»
è uno slogan brigatista, e se poteva avere qualche senso quaranta anni
fa, dato il panorama sociale di allora, oggi suonerebbe come una
bizzarria da avanspettacolo, una battuta, non del tutto comprensibile,
di qualche comico televisivo che vuole strafare (e che magari, come il
celebre e ben pagato Crozza, ha la tessera del Pd in tasca).
In
questo senso e solo in questo, il neocapitalismo sta realizzando una
“società senza classi”, o più precisamente, “senza coscienza di classe”,
senza alcuna solidarietà fra gli uomini, priva di vere tradizioni da
tramandarsi, composta di moltitudini-masse impoverite completamente
prigioniere dei suoi immaginari, passivizzate per neutralizzarle ed
incapaci persino di pensare che può esistere un’alternativa al mercato,
al signoreggiare della “finanza creativa”, all’ordine economico e
sociale che gli Investitori impongono.
Abbiamo
capito che I Rivoluzionari e le masse-pauper sono due cose distinte e
ben diverse, come già chiarito in precedenza, due forze destinate ad
incontrarsi soltanto in una particolare congiuntura storica, resa
possibile dall’azione rivoluzionaria e dall’indebolimento del sistema.
Sappiamo
bene che tracciare un preciso profilo del rivoluzionario impegnato
nella futura Guerra Sociale di Liberazione è molto arduo, dopo la morte
delle classi novecentesche e l’estinzione della coscienza critica
borghese, che il dominio neocapitalistico è assoluto ed impone il suo
ordine sociale ed economico, la sua cultura egemone subordinata agli
scambi commerciali e alla creazione del valore, mentre il suo alfabeto e
la sua lingua spengono qualsiasi critica e penetrano ovunque, ma pur
sinteticamente e con qualche imprecisione si può tentare di farlo, anche
se i tratti che attribuirò alla figura del rivoluzionario potranno
sembrare a qualcuno puramente “ideali”, e a molti (per ciò che scriverò
alla fine) addirittura criminali.
L’origine
sociale dei rivoluzionari sarà negli strati più alti della Pauper
class, e durante il periodo di transizione nei ceti medi impoveriti
(principalmente quelli legati al lavoro intellettuale) e nei sub-strati
più alti della vecchia classe operaia, ma elementi borghesi, non
entranti a far parte della nuova classe dominante globale, potranno
costituire altrettante leve potenziali per le forze rivoluzionarie.
Come
è evidente, si tratterà di una vera e propria élite, dalle origini
piuttosto eterogenee, opposta a quella neocapitalistica, ed in parte,
com’è inevitabile, ancora legata al vecchio ordine sociale, ai suoi
mondi culturali, alle sue tenaci sopravvivenze.
Un'élite
che non proporrà quale scopo finale della Rivoluzione, dopo una
possibile vittoria nella Guerra Sociale di Liberazione, il definitivo
ritorno al passato, all’irripetibile esperienza storica del comunismo
sovietico, da un lato, o all’ultimo capitalismo del secondo millennio
(dirigista, keynesiano, “nazionale”, moderatamente emancipativo)
dall’altro lato.
Ancor
meno l’élite rivoluzionaria potrà proporre la sostituzione della
globalizzazione neoliberista con una “globalizzazione buona”, centrata
sull’integrazione culturale delle popolazioni a livello mondiale e su
una generica ed ambigua democratizzazione di singoli processi di
integrazione sopranazionali (ad esempio, un’illusoria Europa dei popoli,
che nasce dal basso, in sostituzione dell’Unione Europea Monetaria
imposta a suon di trattati), questo perché la globalizzazione è
interamente un prodotto neocapitalistico, così come oggi la conosciamo, e
quindi, o si accetta in blocco, per quel che è, per le sue rilevanti
implicazioni culturali e sociali, o si respinge in blocco e si combatte
senza quartiere.
L’unica
vera integrazione sopranazionale (e penso in primo luogo all’Europa)
potrà aversi se e quando ci sarà il superamento della frantumazione
delle lotte rivoluzionarie e la loro unificazione in aree geopolitiche
vaste.
Per
gestire una difficile transizione, per difendere e consolidare il
potere rivoluzionario, centralizzandolo una prima volta a livello
nazionale, si dovrà ricorre a “vecchi strumenti” di politica economica,
fiscale e industriale, disponibili ed immediatamente utilizzabili, ed
aspetti come quello della riacquisizione della sovranità politica e
monetaria, delle nazionalizzazioni (a costo zero) di strutture
produttive strategiche, delle pesanti limitazioni imposte al mercato e
alla libera iniziativa economica privata (escrescenze
crematistico-tumorali esaltate dal neocapitalismo), potranno sembrare –
ma soltanto sembrare – un ritorno al passato, al ventesimo secolo, al
sovietismo e alla sua esperienza collettivista con tratti
capitalistico-classisti, oppure al keynesismo assitenzial-militare e
all’”economia mista” caratterizzata dallo stato-imprenditore.
Lo
stato e le sue istituzioni, una volta conquistate dai rivoluzionari che
si muoveranno anzitutto, nelle fasi iniziali del conflitto, in una
dimensione nazionale, dovranno per forza di cose essere mantenute e
utilizzate, al netto di collaborazionisti, rinnegati e neoliberali, per
scongiurare il collasso e il caos, ma con la prospettiva di trasformale
(o in certi casi di sopprimerle senza rimpianti) in un futuro più
lontano.
Decisiva
sarà, inizialmente, la superiorità riattribuita alla Politica rispetto
all’economia, a quella infezione crematistica rappresentata
dall’ultraliberismo, dal mercato egemone, dalla proprietà e
dall’iniziativa privata intangibili.
Finanza
“creativa” e pubblicità saranno destinate ad un rapido
ridimensionamento e alla scomparsa, per l’elevata nocività
socio-ambientale e per la funzione che hanno avuto di importanti e
irrinunciabili strumenti di dominazione neocapitalistica.
I
“servizi”, particolarmente quelli di natura finanziaria moltiplicatisi
più dei pani e dei pesci, e le “merci” saranno progressivamente
sottomessi ai Beni, da intendersi, in modo proprio, come produzioni
necessarie per la riproduzione delle basi materiali della vita
associata.
Il
debito pubblico, riappropriandosi il controllo della moneta, si
rivelerà per quel che è: il presupposto di un ricatto espropriativo,
operato dall’Aristocrazia globale sul piano finanziario, nei confronti
degli stati e delle popolazioni.
Istruzione
e sanità dovranno tornare in mani pubbliche, e i pochi spazi residui
rimasti nella disponibilità dei “privati” (penso in modo particolare,
qui, in Italia, alla storica “lobby” della chiesa cattolica, alle sue
scuole e ai suoi ospedali), ma destinati ridursi e a sparire nel medio
periodo, dovranno essere costantemente monitorati.
Il
settore immobiliare, oggetto di pingui estrazioni di valore e fonte di
crisi pilotate ad arte dai globalisti, in grado di far collassare interi
stati, quando speculativamente gonfiato, dovrà essere posto sotto il
controllo centralizzato rivoluzionario, attraverso massicce
statalizzazioni e la ripresa su vasta scala della cosiddetta edilizia
popolare, con conseguente assegnazione di alloggi a basso costo che
resteranno di proprietà pubblica.
Tutto
questo non vorrà dire, però, che una nuova élite rivoluzionaria – la
quale agirà in nome e per conto delle masse-pauper, con o senza
attribuzione formale del mandato – avrà lo sguardo rivolto al passato
capitalistico, o a quello sovietico, e vorrà riattivare, in futuro, così
com’erano, formazioni sociali novecentesche che il corso storico ha
inesorabilmente superato.
Avendo
fatto la frittata ed impedito il ritorno delle uova, attraverso i
trattati internazionali, le valute sopranazionali, le organizzazioni
mondialiste private anteposte agli stati, avendo sapientemente attivato
il complesso di politiche e di prassi noto come “globalizzazione”,
esprimendo ormai d’autorità la governance globale che vale il governo
del mondo e il controllo di tutte le sue risorse, forse l’Aristocrazia
globale si illude che non ci sia più alcuna possibilità di tornare alla
proprietà pubblica, o a quella collettiva preludio di una totale
socializzazione, alla superiorità della Politica sull’economia, al
controllo nazionale della moneta e delle politiche economiche.
La
stessa interdipendenza delle economie nazionali e l’ampiezza della
speculazione finanziaria negli spazi globalizzati, che sembra non
incontrare ostacoli, dovrebbero rendere inapplicabili, da parte di
singoli stati ribelli, il modello collettivista o i modelli
capitalistici novecenteschi alternativi a quello liberista.
Ma
i decisori dell’élite globalista, facendo abilmente la frittata che
impedisce il ritorno alle uova, non hanno considerato un particolare
decisivo: pur non essendoci la possibilità di resuscitare integralmente
le vecchie formazioni sociali novecentesche, esistono ancora, “in
sonno”, i vecchi strumenti d’ostacolato all’ultralibersimo, al libero
mercato globale, alla formazione della famigerata Open Society di
Mercato, ed esiste la possibilità di usarli con efficacia in un contesto
rivoluzionario e trasformativo.
Nazionalizzazioni,
espropri del “privato” che colpiscono il grande capitale finanziario, e
requisizioni di proprietà nelle mani di dominanti e sub-dominati, per
l’estensione massima della proprietà pubblica, mantengono la loro
efficacia, in un contesto di cambiamento rivoluzionario, anche se non è
in alcun modo possibile resuscitare, così com’era nel novecento, la
formazione sociale dispotico-collettivista rappresentata dall’Unione
Sovietica, o l’”economia mista” italiana, con forti iniezioni di
capitale pubblico nel produttivo, dei tempi postbellici dell’IRI e del
boom economico.
Con
molta moderazione, e pur non essendo autenticamente rivoluzionario (o
almeno rivoluzionario fino alle estreme conseguenze), il cosiddetto
socialismo bolivariano del latinoamerica, a partire dal tanto esecrato
Chavez in Venezuela, ha dato una prima, coraggiosa dimostrazione di
quanto affermo.
In
mancanza del nuovo si utilizza quello che c’è in cantiere, ma si può
utilizzare, pur essendo vecchio e già usato (in qualche caso abusato),
seguendo nuove logiche d’impiego e perseguendo nuovi scopi.
Riappropriare
la sovranità monetaria, ad esempio, può non avere soltanto la funzione,
già ampiamente sperimentata nel secolo precedente, di rendere
competitive le produzioni nazionali all’estero svalutando la moneta e di
riuscire, così, a sostenere occupazione e consumi interni attraverso
maggiori esportazioni, ma potrà consentire di conseguire un obiettivo
nuovo e più ambizioso, cioè quello di interrompere i venefici flussi
della globalizzazione economico-finanziaria, scardinando l’ordine
neocapitalstico.
I
Rivoluzionari non punteranno a riattivare il profilo
produttore-consumatore così come si è affermato nel novecento,
sostituendolo all’attuale binomio ultraliberista precario-escluso, ma
semplicemente ad interrompere i flussi finanziari globalizzanti, i
meccanismi riproduttivi neocapitalistici, il dispiegarsi del progetto
demiurgico-dispotico che si nasconde dietro la globalizzazione
neolibersita, e a tale scopo saranno costretti dalle circostanze ad
utilizzare strumenti di politica economica e sociale, oggi all’apparenza
del tutto superati e inapplicabili, presenti nelle “cassette degli
attrezzi” sovietico-marxista e/o dirigista-keynesiana.
Le
stesse rilocalizzazioni di attività produttive manifatturiere, se il
know-how non è ancora completamente “evaporato”, non sono una cosa
impossibile da realizzare, e il tanto esecrato protezionismo, principale
lascito dell’epoca mercantilista, oltre a garantire posti di lavoro e
reddito, nel breve periodo, alle masse pauperizzate, riassorbendo la
disoccupazione gonfiata dalle dinamiche neocapitalistiche, potrà
contribuire ad interrompere i flussi della globalizzazione.
Vi
è certo una differenza rilevante, fra la nazionalizzazione di alcune
industrie strategiche, oggi svendute ai privati, o in procinto di finire
nelle mani al grande capitale finanziario, e la collettivizzazione di
tutte le strutture produttive (che implica riappropriarsi integralmente i
mezzi di produzione in essere), ma in determinate condizioni è
necessario accontentarsi, nel breve, di questo primo ed insufficiente
passo.
Nel
caso dell’Italia, in cui la struttura produttiva industriale, per
imposizione esterna e “scelte strategiche” palesemente suicide,
antinazionali nella sostanza, è per molta parte frammentata, fragile,
divisa in centinaia di migliaia di piccole e medie industrie, molte
delle quali con meno di dieci o quindici dipendenti (o addirittura sotto
i cinque), una collettivizzazione forzata di tutte le imprese e gli
stabilimenti, nel breve periodo, non rappresenterà purtroppo una
soluzione praticabile e concretamente gestibile.
Allora
ci si dovrà accontentare, all’inizio del processo trasformativo della
struttura economico-produttiva, di una gestione diretta della dimensione
medio-grande – nazionalizzando in prima battuta soltanto l’industria di
medie e grandi dimensioni, dal settore energetico a quello
automobilistico, e naturalmente il sistema bancario nella sua totalità a
supporto della produzione e dell’occupazione – ma ponendo sotto uno
stretto controllo pubblico la gestione privata, frammentata, caotica,
inefficiente, della PMI.
Per
quanto riguarda il settore commerciale e distributivo, il passaggio dal
privato al pubblico dovrà riguardare in prima battuta la grande
distribuzione, sottratta al capitale finanziario e consegnata
all’iniziativa statale, mantenendo provvisoriamente il piccolo commercio
privato per l’impossibilità, nel breve – data la sua estrema
frammentazione, all’origine della “pesantezza” e dell’”irrazionalità
economica” della rete distributiva nazionale – di sopprimerlo e di
riconsegnare alla collettività il controllo totale di questo settore.
E’
anche evidente che con la progressiva scomparsa del libero mercato,
imposta dal governo rivoluzionario, i prezzi e le tariffe, dai prodotti
alimentari all’energia e ai trasporti, saranno determinati per via
politica, e non potranno più essere lasciati in balia della fantomatica
“legge della domanda e dell’offerta”.
Uno
degli scopi sarà quello di creare occupazione effettiva, di distribuire
mezzi di sussistenza alla popolazione senza vincoli mercatistici o
efficientistici (mascheramenti della creazione del valore
neocapitalistica), per integrare i dominati nel processo trasformativo
rivoluzionario e rompere gli schemi di natura crematistica imposti nel
precedente ordine.
Considerando
che il mercato non è un meccanismo autoregolantesi, che può soppiantare
lo stato e la politica e vivere di vita propria “gestendo” l’intera
società umana – come hanno fatto credere per decenni i pubblicisti
mediatici ed accademici del neoliberismo selvaggio – ma soltanto un
sistema di razionamento, esproprio ed esclusione utilizzato come un’arma
dall’Aristocrazia globale, I Rivoluzionari procederanno alla
demolizione progressiva di questo “tempio dell’iniquità sociale e del
nichilismo valoriale” a partire dagli spazi nazionali, ponendo gli
aspetti economici dell’esistenza (tutti, nessuno escluso, ed in
particolare quelli che hanno assunto una natura
crematistico-finanziaria) sotto lo stretto controllo centralizzato dei
loro governi.
Tutte
le misure accennate sommariamente fino ad ora – non essendo questo un
trattato di economia politica e non essendo mia intenzione di
“spulciare” nei documenti statistici e macroeconomici appesantendo lo
scritto, inutilmente, con copiosi flussi di dati – riportano alla
necessità impellente, che soltanto la Rivoluzione potrà soddisfare, di
porre una volta e per tutte l’economia sotto il controllo della
Politica, epurandola dei tratti nuovo-crematistici ipostatizzati
nell’universalità del mercato.
Al
di là di queste mie parziali e brevi note – propedeutiche per tracciare
un primo profilo degli agenti futuri della Rivoluzione – è chiaro che
un programma politico articolato potrà nascere soltanto dalla prassi
rivoluzionaria, sul “campo di battaglia”, ed è altrettanto chiaro che
per costruire il nuovo bisogna prima distruggere, demolire, annichilire
le fonti del potere nemico, ma non sempre si potrà farlo in tempi brevi e
in modo drastico, dovendo evitare i rischi di implosione e il caos, o i
subdoli tentativi di “restaurazione” di nemici sopravvissuti e
mascherati, realizzati manovrando una parte delle masse pauperizzate
ancora sotto il controllo del vecchio sistema.
Una
certa “decrescita” sarà imposta, inevitabilmente, dalle circostanze,
perché la rottura dell’ordine globale, che si è affermato attraverso le
crisi economiche, finanziarie, commerciali e geopolitiche, non potrà che
generare nuove crisi attraverso i suoi ultimi “colpi di coda”, che si
sostanzieranno nei cali dei flussi commerciali a livello mondiale, in
riduzioni generalizzate dei volumi di produzione, in ulteriori riduzioni
dei redditi e dei consumi di massa, in Europa, ma non soltanto nel
vecchio continente.
La
conseguente situazione di instabilità e di “decrescita forzata ed
infelice”, contestuale alla frantumazione dell’ordine globale – e, per
quanto ci riguarda direttamente, al superamento dell’Europa unionista
depositaria di una moneta unica “privata” – dovrà essere gestita dai
Rivoluzionari garantendo a tutti il “relativamente poco, ma sicuro”,
riducendo con trasferimenti di risorse decisi in modo autoritario e
centralizzato, in situazioni di contrazione dei consumi e della
produzione, quella forbice dei redditi, aperta dal Nuovo Capitalismo,
che oggi sta raggiungendo la sua massima ampiezza.
E’
auspicabile che nel tempo I Rivoluzionari, quale guida della società
dopo la sconfitta dei globalisti, favoriscano con le loro politiche una
trasformazione culturale – ed inevitabilmente, anzi, auspicabilmente
antropologica – che renda impossibile, per le generazioni future, anche
soltanto poter concepire l’idea dell’iniziativa economica
crematistico-individuale e della proprietà privata, che per
sopravvivere, in attesa di tempi migliori, potranno celarsi
furbescamente dietro lo schermo della piccola “proprietà individuale”.
Se
nella nuova società si arriverà, dopo qualche decennio – uscendo dal
tunnel della “decrescita forzata” e delle crisi generate dal collasso
dell’ordine globale – a considerare naturale persino la socializzazione
degli abiti che ciascuno indossa, oltre che degli immobili e dei mezzi
di produzione, degli strumenti finanziari e monetari soggetti ad uno
stringente controllo collettivo, la trasformazione culturale ed
antropologica, indotta dall’azione dei Rivoluzionari, avrà avuto pieno
successo e un rilievo storico destinato a riverberarsi sulle epoche
successive.
Se
gli unici diritti intangibili, e riconosciuti alla sola classe
dominante, nel progetto demiurgico neocapitalistico sono l’iniziativa
economica dei singoli e la proprietà privata, imposti con una tale forza
(e una tale violenza) da pregiudicare lo stesso diritto alla vita del
resto dell’umanità, il progetto demiurgico opposizionale ed alternativo
dei Rivoluzionari, altrettanto forte e “radicale”, dovrà necessariamente
attaccare ed estinguere questi capisaldi del nemico.
Ed
ora proviamo a delineare alcuni tratti caratteristici, di fondo, della
figura del rivoluzionario futuro, che per ora si possono definire
soltanto “ideali”.
Come
si è già accennato in precedenza, l’origine sociale degli agenti della
Rivoluzione non potrà che essere nel lavoro intellettuale,
“contemplativo” dei ceti medi declassati, in quello operaio qualificato,
ma sempre più mortificato economicamente e svalutato culturalmente,
nella precarietà intellettuale e nella vecchia classe dominante
borghese, per la parte della stessa che non è stata assorbita dalle
stratificazioni della Global class.
Ciò
non escluderà una componente immigrata, quale avanguardia,
culturalmente più evoluta e più consapevole, del lavoro immigrato ed in
non pochi casi semischiavo.
Per
quanto il mix di culture contraddittorio, caratterizzato da una certa
“separatezza” dei gruppi, dalla persistenza di tradizioni eterogenee e
di insofferenze reciproche, prodotto dall’immigrazione neocapitalistica
forzata abbia investito in pieno, ormai, molti paesi europei, e fra
questi da un paio di decenni l’Italia, trasformandoli rispetto a ciò che
erano mezzo secolo fa, i fondamenti della nostra cultura sono e
resteranno europei, e rimanderanno, seppur sempre più remotamente, ai
greci ed ai romani, alle radici della filosofia, della politica e del
diritto.
Queste
caratteristiche culturali peculiari, che rendono unica l’Europa, non
potranno restare totalmente estranee al mondo eterogeneo degli
immigrati, con il trascorrere delle generazioni, ma la maggior garanzia
per una vera integrazione degli stessi non potrà che avvenire dalla
condivisione delle lotte di liberazione, e dalla partecipazione delle
loro avanguardie a queste lotte, accettando ed assimilando
progressivamente i fondamenti della cultura europea, in buona misura
estranei all’occidente neocapitalistico immerso nella globalizzazione.
Per
questa via, si potrà sventare il tentativo di affermazione definitiva
della cosiddetta Open Society, che non significa integrazione, ma
de-emancipazione per tutti ed atomizzazione per i gruppi (autoctoni e
immigrati), non significa progressivo miglioramento delle condizioni
economiche e di lavoro, ma, al contrario, “cinesizzazione” del
fattore-lavoro, accelerata dalla concorrenza interna di popolazioni più
povere costrette a spostarsi nel mondo per sopravvivere, non significa
maggiore libertà, se non in termini puramente astratti e formali, ma,
all’opposto, maggiore paura e isolamento per tutti, immigrati compresi.
Dato
il generale movimento a ribasso di redditi e condizioni di vita,
dissolutivo dell’ordine sociale precedente, mettere fin d’ora fianco a
fianco, spalla a spalla nella lotta, ceti medi, operai specializzati e
tecnici, il precariato intellettuale, elementi della vecchia borghesia
proprietaria spodestata e i migliori fra gli immigrati, non dovrebbe
sembrare un’ipotesi troppo ardita, e infatti non lo è, perchè per tutti
questi soggetti il nemico principale è comune, e lo è anche il nemico
secondario, quello sub-dominante nazionale, nelle sue varie
specializzazioni non esaurite dalla politica.
Naturalmente
una vera élite, e a questa regola non sfugge l’élite rivoluzionaria,
dovrebbe essere composta soltanto dagli elementi migliori, più coscienti
e più combattivi presenti nei gruppi sociali che la esprimono, e quindi
sarà composta da minoranze, non di rado sparute, che per le loro
caratteristiche e le loro scelte si staccano dalla massa.
Ma
sarà proprio l’élite rivoluzionaria che rappresenterà la massa Pauper,
affermando i suoi stessi interessi vitali, pur senza averne formalmente
il mandato ed all’inizio anche contro la sua apparente volontà.
Compito
dei Rivoluzionari sarà quello di elaborare, nelle varie fasi della
lotta, fin dalla prima fase ed ancor prima dell’innesco della Guerra
Sociale di Liberazione, un programma politico per poter gestire la
dimensione nazionale attraverso le strutture di potere e le istituzioni
esistenti, un programma suscettibile di cambiamenti e di aggiustamenti
“in corso d’opera”, che servirà (come già accennato in precedenza) per
orientare la trasformazione rivoluzionaria della società.
Non
è possibile anticipare con precisione i punti di questo programma,
determinato dalle contingenze del momento, dal mutare repentino della
situazione, dalle emergenze che si presenteranno durante l’azione
rivoluzionaria, dalla connessione con i bisogni effettivi della massa, e
quindi, pur avendo tentato di prevederne qualche linea generale di
sviluppo, con molta moderazione, è bene non scadere nella profezia, e
non volendo in alcun modo mettere in campo arti divinatorie, passare
oltre dopo un ultimo, breve chiarimento.
Nel
lungo periodo, che approssima i tempi storici, sarà forse possibile
passare da una gestione centralizzata e sicuramente autoritaria del
potere – necessaria per non far fallire la rivoluzione e per evitare che
nascano ibridi in cui si cela il DNA liberista – ad un nuovo modo di
produzione dai lineamenti comunistico-comunitari, che implicherà una
profonda revisione dei meccanismi di potere nella società, ed un
passaggio da una gestione verticistica, volta ad eliminare nel tempo
qualsiasi traccia della libera iniziativa economica e della proprietà
privata, ad una gestione autenticamente socializzante, che redistribuirà
il potere su un piano orizzontale.
Per
passare da un prolungato “stato di eccezione rivoluzionario”, gestibile
soltanto da governi direttoriali e autoritari (la Dittatura),
all’affermazione piena di un modo di produzione comunistico-comunitario
postrivoluzionario e postcapitalistico, oltre al consolidamento delle
conquiste rivoluzionarie e all’interruzione definitiva dei flussi di
globalizzazione e di potere neocapitalistici, dovrà verificarsi un
cambiamento generazionale talmente rilevante (difficilmente realizzabile
in una sola generazione), che riporterà alla nascita dell’”uomo nuovo” e
alla comparsa, per la prima volta, di quel lavoratore cooperativo
collettivo associato, preconizzata una prima volta nell’ottocento da
Karl Marx ed auspicata, oggi, dal suo libero allievo e interprete
Costanzo Preve.
Ma
questa trasformazione riguarderà, come detto, tempi ancora lontani dal
nostro, e perciò in qualche misura imperscrutabili, mentre per gli anni a
venire, pensando ad un arco temporale dell’ampiezza di almeno un
trentennio (corrispondente ad una generazione), lo “stato di eccezione
rivoluzionario”, sostituendosi allo “stato di eccezione
liberaldemocratico” che oggi riguarda l’Italia (direttorio globalista
affidato a Monti) ed ha riguardato la Grecia (direttorio di Papademos),
imporrà un governo direttoriale saldamente nelle mani dei Rivoluzionari.
La
controdemiurgia rivoluzionaria non potrà che tradursi, sul piano
politico, in caso di vittoria negli spazi nazionali sulle
sub-oligarchie, in una forma dittatoriale di governo destinata a
governare la transizione.
La
dittatura è stata demonizzata dai neoliberali fino al parossismo e
usata come minaccia, come autentico “spauracchio”, manipolando la storia
dei secoli pregressi, con il solo scopo di evitare critiche sostanziali
all’impianto di potere liberaldemocratico, ma è stata poi subdolamente
adottata, sotto parvenza di “legalità democratica e costituzionale”,
dall’Aristocrazia globalista per governare indirettamente l’Italia e la
Grecia attraverso Monti e Papademos.
Si
può dire che i decisori globali, valendosi dell’opera mistificatoria
degli apparati ideologico-massmediatici ed accademici, hanno buttato
fuori dalla porta la Dittatura, ma con la piena complicità dei
sub-dominanti politici nazionali, italiani e greci, l’hanno fatta
rientrare furbescamente dalla finestra, resa irriconoscibile, ibridata
con una liberaldemocrazia in putrefazione che mantiene i suoi riti, per
governare due paesi (per ora soltanto due) dell’area europea
mediterranea.
Ma
la Dittatura, al di là dalla demonizzazione strumentale alla quale è
stata sottoposta negli ultimi decenni, è l’unica forma di governo che
consente di gestire in modo ottimale l’emergenza, di fronteggiare con
decisione pericoli interni ed esterni, di affrontare con strumenti
adeguati uno stato di eccezione, o addirittura d’assedio (si veda il
caso storico di Cuba), che può prolungarsi nel tempo, coprendo lo spazio
di interi decenni.
Ciò che è stato vero fin dai tempi della Roma repubblicana e consolare sarà vero anche per I Rivoluzionari.
Nel
lunghissimo periodo, invece, esaurita l’emergenza, consolidate le
conquiste rivoluzionarie essenziali, educata almeno una generazione alla
socialità, al lavoro collettivo per la produzione di beni, in quanto
tali, e più non di merci “sensibilmente sovrasensibili” (in quanto
tali), pronti per l’abbandono definitivo di quel valore di scambio che
crea valore astratto, astrattizzando un mondo interamente valorizzato, e
per il ritorno alla dimensione etica del valore d’uso, una
redistribuzione democratica e capillare del potere nella nuova società,
in quelle forme comunistico-comuniatarie auspicate anche da chi scrive,
non solo sarà possibile, ma diventerà necessaria.
Tornando
ad un futuro più prossimo a noi, riconsegnando alle nebbie della storia
più lontana i tempi storici che è molto arduo e rischioso esplorare,
possiamo continuare nella difficile opera di tracciare alcuni lineamenti
della figura del rivoluzionario di domani, pur con qualche
comprensibile imprecisione ed approssimazione.
Le
caratteristiche degli agenti della Rivoluzione dipenderanno in buona
misura dall’asprezza e dall’intensità del conflitto sociale e politico
con la classe dominante globale, e in prima battuta con le
concentrazioni di potere sub-dominanti negli spazi nazionali.
I
Rivoluzionari, per affrontare un nemico spietato e privo di etica,
totalmente insensibile davanti alle questioni sociali, sempre più
separato dal resto dell’umanità, dovranno combattere in una situazione
di “sospensione dell’umanità” ed in una pre-Westafalia in cui lo scontro
sarà totalizzante e mortale, in cui non si faranno prigionieri.
Le
guerre culturali sono sempre le peggiori, in quanto guerre di sterminio
di culture avverse e di intere popolazioni, e la Guerra Sociale di
Liberazione, che avrà significativi aspetti culturali, non farà
eccezione alla regola.
Combattere
in “sospensione dell’umanità” significa combattere, con ogni arma
disponibile, contro un nemico considerato “non umano”, e come il nostro
attuale nemico ha disumanizzato il resto dell’umanità, riducendolo a
semplice risorsa a sua disposizione (fattore-lavoro in luogo di
lavoratori, neoschiavitù in luogo di diritti), così I Rivoluzionari
procederanno a disumanizzare il nemico, come necessario punto di
non-ritorno nella lotta che gli consentirà di compiere – e di
giustificare in primo luogo davanti a sé stessi – gli attacchi
“biologici” selettivi individuali che in una situazione non bellica, in
tempo di pace, farebbero inorridire persino coloro che li compiranno.
Se
fin d’ora è fuor di dubbio l’intrinseca sostanza “criminale” di tali
attacchi, oggetto della parte operativo-militare del presente scritto,
così sarà fuori discussione la necessità di sferrarli sistematicamente,
in un contesto bellico, per indebolire progressivamente l’”anello
debole” nazionale della catena di potere globalista.
Perciò
I Rivoluzionari non avranno alternative e dovranno, in tal senso,
sacrificarsi, pianificando e portando a compimento simili azioni.
Per
poterlo fare è necessaria la preventiva disumanizzazione del nemico, in
primo luogo per la stessa determinazione e la “saldezza interiore” dei
militanti rivoluzionari impegnati nello scontro, ma ciò può non
risultare troppo arduo, visti i crimini fino ad ora commessi
scientemente dal nemico stesso, e quelli, ancor più grandi, che potrà
commettere in futuro.
Un
nemico disumano fin nella sua più intima sostanza, sempre più arrogante
ed impudente nel pianificare e portare a compimento, alla luce del
sole, azioni socialmente criminali che colpiscono indiscriminatamente
milioni di individui (riduzione delle pensioni, contratti di lavoro
precari-capestro, sfruttamento schiavistico del lavoro dei paesi “non in
sviluppo”, neoschiavitù precaria in occidente, eccetera), o vere e
proprie stragi di massa (provocando i suicidi degli “incapienti”,
partecipando alle guerre di sterminio in difesa della democrazia e dei
“diritti umani”, come quella irakena o quella afgana, o nel caso della
Libia) si disumanizza perciò con molta maggiore facilità.
Tenuto
conto che le azioni di lotta qui descritte si concretizzeranno in
lesioni permanenti e vere e proprie mutilazioni, inferte a soggetti dei
due sessi e di ogni fascia d’età, ed in certi casi comporteranno la
soppressione di chi subisce l’attacco, ciò potrà creare non pochi
problemi (di coscienza, di ordine psicologico) ai militanti che le
porteranno a compimento, e quindi, la disumanizzazione del nemico, la
diffusione dell’odio sociale e della necessità di vendetta sociale
costituiranno, in riferimento agli stessi militanti, altrettanti,
indispensabili, “rinforzi psicologici”.
Da
un punto di vista etico, la condanna senza appello accomuna sin d’ora
Aristocrazia globale e gruppi sub-dominanti, perché la prima decide e i
secondi traducono in politiche concrete tali decisioni, scendendo nei
dettagli ed integrandole, rendendosi in tal modo pienamente
corresponsabili delle stragi di massa, sociali ed effettive, pianificate
dalla prima.
Il
combattente del futuro dovrà essere molto motivato e disposto al
sacrificio di sé, dovendo compiere simili azioni, ed allora non possiamo
non fare riferimento ai metodi di lotta, alla disciplina, alla
disposizione al sacrificio individuale ed alla spietatezza nel
compimento delle azioni di guerra dei Taliban afgani, gli studenti
armati delle scuole coraniche.
Certo,
l’ideale sarebbe poter disporre sul campo di simili formidabili
combattenti, in grado di esprimere un elevato potenziale di lotta (e di
necessaria ferocia), una motivazione ed un coraggio notevoli, una grande
determinazione e un notevole spirito di sacrificio nel compiere atti
violenti estremi (cavare gli occhi, decapitare, tagliare orecchie e
naso, non è cosa semplice e indolore per chi la fa), al netto, però, di
ogni residuo teologico oscurantista islamico.
Queste
caratteristiche non sono innate, perché sono il frutto di un certo
ambiente culturale, della durezza della vita in un paese che è fra i più
poveri del mondo, ma soprattutto di un conflitto inestinguibile, di una
lotta incessante contro nemici potenti e tecnologicamente superiori,
iniziata con l’invasione sovietica del dicembre del 1979 (occupazione
russa di Kabul), proseguita con la guerra civile dopo il ritiro
sovietico e la temporanea affermazione dei Taliban (dal 1996 al 2001),
seguita dall’invasione statunitense (dell’ottobre 2001) e ad oggi non
ancora conclusasi.
Quando
la lotta è dura e senza quartiere, protraendosi nel tempo e causando
lutti e distruzioni, quando il confronto si sostanzia in un conflitto
culturale, che è il più sanguinoso e si risolve soltanto con la completa
sconfitta di una delle due parti (implicando la ferocia della guerra di
sterminio, non di rado biologico), o i combattenti acquisiscono
caratteristiche simili a quelle dei Taliban, per contrastare un nemico
potente e senza scrupoli, e si “sospende l’umanità” per poter combattere
con la dovuta durezza rispondendo colpo su colpo, o si va
inevitabilmente verso la sconfitta e l’estinzione.
Ciò
potrà valere anche per I Rivoluzionari del futuro, nonostante il grado
d’istruzione più elevato, una diversa origine culturale e una vita meno
dura di quella dei miliziani Taliban.
Del
resto, lo sterminio ordinato dall’Aristocrazia globale, è iniziato da
qualche tempo anche in Europa, spostandosi rapidamente da un piano
squisitamente socioeconomico (rimozione delle garanzie per il lavoro,
controriforme del welfare e delle pensioni, interdizione assoluta per le
politiche socialmente riequilibratici e di redistribuzione dei
redditi), ad un piano effettivo, con la condanna alla morte fisica,
all’autosopressione di coloro che sono diventati “inutili”, dei più
poveri, dei vecchi e nuovi marginali, dei disoccupati cronici e dei
falliti economicamente (proliferazione dei casi di suicidio, esplosioni
di follia individuale con uccisione dei familiari, dei vicini, dei
passanti, eccetera).
Risulta
evidente la necessità neocapitalistica di ridurre il numero delle unità
potenziali di forza-lavoro, in quanto eccessivo, sovrabbondante per il
nuovo ruolo assegnato all’Europa e all’Italia nel mondo globalizzato, un
ruolo di secondo piano che renderà non più sostenibili alti livelli di
vita e di consumo diffusi a livello di massa, come accadeva nel passato,
e che richiederà, in molti casi, forza-lavoro dequalificata in luogo
delle pregresse “risorse ad alto potenziale” e ad alto reddito.
A
cosa servono professionalità ed esperienza, elevata scolarizzazione, se
quando va bene, e il lavoro si trova, si devono pulire marciapiedi
sbrecciati con la ramazza (vecchia occupazione di ripiego, dequalificata
e “socialmente utile”), portare a domicilio cibo-spazzatura a basso
costo (cattering e simili), o lavare le scale di un condominio degli
anni sessanta (in qualità di precari in una falsa cooperativa)?
Tutto
ciò non è un inevitabile esito di trasformazioni economiche, sociali e
geopolitiche che si sono “autoprodotte” sfuggendo al controllo umano,
ma, al contrario, l’effetto dei desiderata della classe dominante, che
opera al massimo livello della decisione politico-stragegica per
estendere il proprio potere ed assicurare la riproducibilità allargata
neocapitalistica.
Lo
sterminio sistematico del sociale e della popolazione, iniziato in
Grecia e in Italia, ma destinato all’”esportazione” in molti altri paesi
d’Europa che subiscono il giogo eurounionista, e che già oggi sono in
aperta difficoltà, posti sotto ricatto, con la disoccupazione a due
cifre per effetto di tali politiche, è la via scelta dai nuovi dominanti
per plasmare d’autorità il mondo (e riplasmare il vecchio continente)
“a loro immagine e somiglianza”.
Arrestare
(o almeno rallentare) questo sterminio generalizzato, da non intendersi
esclusivamente in termini sociali, sarà cura della controviolenza
rivoluzionaria, estrema nello forme ipotizzate, ma selettiva e non di
massa come quella elitista, e che avrà ben poche alternative
praticabili, o addirittura nessuna alternativa, come sarà più chiaro nel
prossimo futuro.
Disponibilità
al sacrificio personale e autodisciplina, caratteristiche non più
facilmente riscontrabili nella popolazione italiana ed
europeo-occidentale di oggi, saranno dunque fondamentali per poter
affrontare i rigori della lotta rivoluzionaria e della Guerra Sociale di
Liberazione.
Decenni
di diffusione degli “stili di vita” consumistici e neocapitalistici
hanno fiaccato ampi strati della popolazione, favorendo un rapido
mutamento antropologico che dovrebbe vanificare qualsiasi velleità di
lotta contro il sistema e all’esterno del sistema stesso.
Questo
mutamento antropologico e culturale, accelerato negli ultimi mesi dalle
politiche espropriative del direttorio di Monti, indubbiamente sembra
“togliere l’acqua al pesce”, rendendo problematici il reclutamento e la
formazione delle forze rivoluzionarie.
Un
simile mutamento, nella società comporta quello che io definisco “il
riflusso nel privato della disperazione sociale”, senza possibilità di
sbocchi politici, un fenomeno oggi ben visibile – provocato dall’azione
congiunta delle politiche neocapitaliste ed ultraliberiste e dall’uso
ultradecennale degli strumenti di dominazione non economici – che si
estrinseca nella proliferazione dei suicidi per motivi economici e nelle
esplosioni improvvise di follia individuale.
Si tratta di un problema grave, del quale per ora non si vede la soluzione.
Sembra
che questo mutamento dell’uomo (dominato economicamente e
psicologicamente) in una sorta di neoschiavo precario, in fattore-lavoro
compresso economicamente e svalutato culturalmente, in neopauper che
ricorderà sempre meno una perduta opulenza, in escluso perché inutile
nei processi di creazione finanziaria del valore, costituisce un grande
successo (forse il maggiore in assoluto) dell’azione dei globalisti e
dei loro apparati di potere.
Non
solo le possibilità di aggregare ed unificare in aree vaste una vera
lotta antisistemica sembrano ridursi al lumicino, ma anche lo stesso
nascere di una protesta anticapitalistica cosciente e politicamente
organizzata, per quanto frammentata sul territorio o per
categoria-gruppo di dominati-pauper, sembra che sia un evento sempre più
raro.
A
fronte di masse completamente disintegrate dal punto di vista
culturale, ed inerti sul piano politico, nella nuova classe inferiore in
formazione e nei residui delle vecchie classi sociali che stanno
perdendo d’importanza e si stanno assottigliando (classe operaia, ceto
medio, borghesia) vi sono sempre meno individui coscienti, critici,
motivati e disposti a lottare con la dovuta durezza.
Sembra
che non vi siano spazi per la formazione di una futura élite
rivoluzionaria, né per la nascita di un’area di consenso e di supporto
(all’élite stessa) in questa società frammentata e pauperizzata che al
più potrà implodere, crollare su se stessa come un edificio minato, come
da tempo alcuni prospettano.
Allora,
in relazione alle forze rivoluzionarie inesistenti, o che esistono
soltanto in embrione, con numeri molto limitati, e non sono al momento
visibili, ci si può chiedere «Che fare?», riproponendo dopo più di un secolo il vecchio quesito leniniano.
In
sintesi e in conclusione, i principali problemi che abbiamo di fronte,
per quanto riguarda la possibilità rivoluzionaria in una società
completamente dominata dall’Aristocrazia globale e dai processi di
accumulazione neocapitalistici, sono i seguenti:
(1) L’alternativa politica (e più in profondità la necessaria trasformazione culturale).
(2) Le forme di lotta da adottare.
(3) Le forze rivoluzionarie che metteranno in atto le forme di lotta e costruiranno l’alternativa politica.
Il
primo, cioè l’alternativa politica che esprime un programma, si
chiarirà “sul campo di battaglia”, durante la lotta, in un'elaborazione
dinamica dei punti principali del programma stesso.
Il
secondo, riguardante le forme delle azioni rivoluzionarie future, è
l’oggetto del presente saggio ed il problema qui trova una prima (per
quanto non ancora sufficiente) sistemazione, prospettando soluzioni che
attendono di essere messe in pratica.
Ma
il terzo elemento – le forze rivoluzionarie che dovranno mettere in
pratica le forme di lotta prospettate – è un problema che per ora (e per
chissà quanto tempo ancora) è destinato a restare aperto, un problema
la cui risoluzione è decisamente superiore alle forze dello scrivente.
E’
chiaro che la questione, sia dal punto di vista delle forze
rivoluzionarie sia da quello del nemico globalista, non riguarda puri
automi che nei processi soggiacciono interamente al «realismo
dell’autoregolazione sistemica» (come scrisse furbescamente Lyotard
nella celebre Condizione postomoderna, del 1979, per legittimare le
trasformazioni capitalistiche), ma ci riporta con prepotenza alla
“spaccatura” della società in classe dominante e classe dominata, mai
come ora aventi interessi contrapposti e inconciliabili (nonostante la
passività delle masse-pauper), e quindi richiama con prepotenza il
conflitto verticale, la lotta di classe (oggi monopolizzata dai
dominanti), il Polemos più che l’”agonistica” che informa la teoria dei
giochi, o in altri termini, una contraddizione insanabile di natura
dialettica che in futuro potrà esplodere con estrema violenza.
Nonostante
tutto, il discorso, più in profondità, riporta sempre alla natura umana
e alla capacità di reazione dell’uomo, alla possibilità concessagli di
pensare un futuro diverso e di modificare il corso storico.
L’oggetto
limitato del presente saggio, che si conclude qui, mi solleva
dall’incombenza di continuare questo discorso, ma è chiaro che è proprio
l’elemento umano, al di là delle “spersonalizzazioni sistemiche” e
delle credenze diffuse che mettono il nostro destino nelle mani del
sovraindividuale, ad essere determinante nella futura lotta contro il
neocapitalismo e perciò, ben al di là delle forme che dovranno assumere
le azioni rivoluzionarie future, saranno gli uomini che decideranno
l’esito dello scontro, e non gli algoritmi informatico-finanziari, gli
indicatori economici, i sistemi d’arma convenzionali o i droni militari.
Si
può sempre sperare, anche contro ogni speranza, che la storia ci
riservi qualche sorpresa positiva, mutando repentinamente il suo corso.
E’ già accaduto e potrà accadere ancora.
Al
fatalismo indotto dalla propaganda sistemica, alla credenza diffusa che
dalla prigione neocapitalistica globalizzata non si può uscire,
all’inerzia delle vittime sistemiche, opponiamo un motto antico:
«Spes contra spem».
http://pauperclass.myblog.it/archive/2012/06/28/i-rivoluzionari-e-le-masse-di-eugenio-orso.html
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