Capitalismo utopistico e contraddizione tra individuo
e comunità
Maurizio Neri
Il paradosso del capitalismo come sistema sociale, in
effetti, è nelle sue premesse utopistiche di automatismo del movimento degli
individui, i quali esprimono la simpatia tra persone ( Adam Smith è ben chiaro
in proposito) attraverso l'esplicarsi di continui atti egoistici di
accumulazione illimitata di beni, e di miglioramento illimitato della propria
condizione materiale. Il fatto che si attribuisca a tali atti sintetizzati in
un unico atto collettivo anonimo ( il mercato) un segno ed una manifestazione
della simpatia tra uomini, rappresenta la contraddizione principale di cui
parlo.
Tacciare il capitalismo e la sua ideologia ( il liberalismo)
di essere frutto di una volontà egoistica prevalente sulla volontà solidale,
non farebbe comprendere il punto nodale del problema, cioè il carattere utopico
della riflessione sul benessere possibile all'insegna della società di libero
mercato dove viene soppresso il momento politico riflessivo comunitario.
Non valutare tale aspetto significherebbe proporre uno
schema dicotomico dove da una parte vi è la massa di individui egoisti che
gioiscono della lotta fratricida, sostenitori dell'ordine attuale, e dall'altra
un gruppo di romantici altruisti in lotta per il cambiamento.
Se cosi' fosse, dovremmo abbandonare ogni velleità politica
e limitare la nostra azione alla conversione etica della “massa corrotta”
dall'odio e dall'egoismo.
Ebbene, pur credendo fortemente nel fattore
educativo-esemplare anche a proposito delle singole individualità, ritengo
parallelamente essenziale svelare l'elemento utopico di simpatia universale
insito nell'ideologia liberale e nel sistema che ne è il figlio naturale ( il
capitalismo senza politica); tanti
sostenitori, attivi o passivi, dell'attuale ordine costituito, non sono affatto
belve egoiste impazzite, ma uomini che si ingannano e che assorbono una falsa
ideologia consolante.
Svelato tale elemento utopico, se ne potrà in seguito
smontare pezzo per pezzo la falsa solidità, mostrarne l'assurda e nefasta
contraddittorietà, e sostenere con ottime ragioni la necessità esistenziale di
un ordine comunitario dove gli uomini possano coscientemente essere parte della
totalità, senza ridursi schiavi di essa.
L'atto di produzione anarchica e casuale produce conseguenze
immediate anche se non sempre visibili nel suo intorno.
L'aumento di vendite di un produttore, nell'anarchia
produttiva, può comportare il fallimento di un altro produttore, la sua
scomparsa nel mercato, la fine del suo lavoro, e dunque della sua specifica forma
di espressione sociale. Se il gesto sociale ( e non comunitario) di produrre,
vendere e comprare a proprio piacimento viene autonomamente considerato come
libera scelta che, se condivisa da tutti gli individui, diverrà occasione di
simpatia universale, si cade in un artificio del pensiero privo di qualunque
senso se non quello dell'idolatria del progresso materiale come unica forma
riconoscibile di risultato dell'interazione collettiva tra uomini.
Non è possibile infatti considerare a posteriori l'insieme
degli atti individuali che ogni uomo compie nella libertà slegata dalla
comunità, cioè la libertà dall'altro, un compiuto atto generale di simpatia e
unità, senza cadere nell'erronea considerazione dell'uomo come ente naturale
qualsiasi simile ad un albero o ad una formica.
Il funzionamento della natura agli occhi dell'uomo, si
presenta, in effetti, come lo svolgersi casuale di eventi slegati che trovano
una propria armonia a posteriori. La natura è ammirevole e compiuta in sé
stessa per il fatto di manifestare un equilibrio a posteriori percepito come
tale dall'uomo.
Per l'uomo è possibile esprimere un simile giudizio sulla
natura poiché egli percepisce la sofferenza degli enti naturali come qualcosa
di strettamente legato ad accidenti materiali, dunque non meglio gestibile che
attraverso la legge della giungla. Se non v' è sofferenza spirituale, infatti,
non vi è neanche tensione spirituale all'unità, e dunque, non v' è alcuna
necessità di un ordine che non sia quello della legge del più forte. Tale legge,
infatti, manifesta a posteriori dei risultati che, visti dagli occhi dello
scienziato e dello statistico, sono risultati straordinari in termini di
conservazione di equilibri biologici, salvaguardia della vita intesa come vita
generica, e riproduzione dello stato presente in stati futuri.
L'economia capitalistica e l'ideologia a-politica che la
sostiene e difende, pur non riconoscendolo a parole ( se non nelle sue versioni
forti e forse più coerenti) si fonda ( al di là del correttivo contingente) sul
riconoscimento di un'unica legge ferrea accettata da tutti: la legge della
libera concorrenza, ovvero del libero prevalere del più forte sul più piccolo,
ovvero del libero distruggersi, ovvero la legge della giungla.
L'ideologia posta a difesa di questa legge presenta un
aspetto peculiare: mentre animali e piante non teorizzano la legge del più
forte, ma la vivono già in atto, gli esegeti del capitalismo e della libera
concorrenza costruiscono una teoria ( con tanto di giganteschi e raffinati
supporti matematici e statistici) sulla presunta superiorità etica della legge
dell'annientamento dell'uomo contro l'uomo ( la libera concorrenza, appunto)
come forza di efficienza e progresso per la totalità considerata a posteriori
secondo parametri di benessere materiale accresciuto, al di là cioè delle reali
conseguenze sulla vita di ogni uomo intesa come luogo di conseguimento della
felicità.
E' evidente il fatto che l'organizzazione capitalistica
poggia su basi del tutto innaturali ( nel senso di natura umana razionale e
sociale), che vengono fatte passare per naturali attraverso un artificio
teorico a posteriori che muove da un errore fondamentale: l'utopia
contraddittoria secondo cui atti finalizzati alla massima espansione dell'io e
cui è strutturalmente estraneo il senso del limite ( limite che si intende come
forma di controllo di sé nella reale simpatia universale ), potrebbero portare
inconsciamente ad un'armonia collettiva.
La società capitalistica reale deve essere, prima di tutto,
criticata nel profondo non per i suoi esiti tragici, presunti da alcuni come
deviazioni da una possibile armonia tradita da eccessi monopolistici
contingenti; non deve essere cioè criticata come tradimento dell'utopia
smithiana della libera concorrenza liberatrice ( trasmutata, solo un secolo più
tardi e attraverso una pura ideologizzazione, in espediente tecnocratico
tramite la teoria neoclassica onirica della concorrenza perfetta).
Essa deve essere radicalmente criticata per il suo stesso
presupposto utopico contraddittorio generatore della scissione spirituale (
definitiva nel capitalismo assoluto odierno, spogliato dalla politica) tra
individuo e comunità.
Questo scritto non vuole scendere nel dettaglio della
critica del modo di produzione capitalistico in tutte le sue specificazioni. La
premessa della critica radicale del presupposto utopico e contraddittorio
dell'ideologia che sorregge ( dall'intellettualismo organico fino alla
mentalità popolare spicciola) il capitalismo odierno nella sua fase assoluta, mi è necessaria per affermare la volontà di
cambiamento, la cui finalità più generale è proprio il recupero dell'unità (
nella distinzione) tra individuo e comunità; unità che la società capitalistica
esclude già a partire dal suo presupposto utopico ed umanista teorico professato.
Un utopia ed un umanismo, dunque, cattivo e da respingere come generatore (
anche se alla radice inconsapevole ) di pericolosissimi ed amari frutti.
Bisogna adesso, discutere riguardo a come il comunismo possa
essere il movimento reale di superamento della divisione arbitraria e forzata
tra individuo e società e della trasformazione della società in comunità.
Segue (1)
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