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lunedì 26 settembre 2011

 Fuori dal debito! Fuori dall’Euro!



di Costanzo Preve




1. Un’organizzazione denominata Rivoluzione Democratica (cfr. sollevazione.blogspot.com) ha convocato a Chianciano per il 22 e 23 ottobre 2011 un incontro nazionale con parola d’ordine: Fuori dal debito! Fuori dall’Euro! Voglio qui riportare il mio contributo (sia pure non richiesto), data l’importanza del tema in questione.


2. Le possibilità concrete di ottenere a breve ed a media scadenza questi due obbiettivi (che condivido nell’essenzialità) sono pressoché nulle. E dicendo nulle intendo proprio dire nulle. In una simile situazione, non potendoci aspettare risultati anche solo parziali a scadenza ragionevole, è il come si devono impostare le rivendicazioni che diventa decisivo. Se esse infatti si impostano male o in modo inappropriato, presto o tardi se ne avranno le conseguenze. Farò fra poco il grottesco esempio del Movimento detto No Global, partito un decennio fa con grandi speranze e finito nel nulla e nel ridicolo. Le cause di questo esito poco glorioso devono essere approfondite.


3. Il settembre 2011 l’Unione Sindacale di Base (USB) è sfilata a Roma con rivendicazioni qualitativamente diverse da quelle della CGIL, Di Pietro, di Vendola, di Bersani e della stessa FIOM. E’ stato posto il problema della cancellazione del debito e della uscita dall’eurozona. Si tratta pur sempre di un’organizzazione che rivendica di avere circa 250.000 membri, e quindi di una forza piccola, ma reale. Si tratta di una relativa novità nella scena politica italiana, in cui l’Unione Europea è fino ad oggi rimasta un feticcio intoccabile, dall’estrema destra all’estrema sinistra “visibili”.


4. Nel numero di settembre 2011 di “Le Monde Diplomatique” (edizione italiana) è uscito un fondamentale articolo dell’economista francese Frèdèric Lordon intitolato “La deglobalizzazione ed i suoi nemici”. Questo testo è importante, perché pone con chiarezza i problemi fondamentali. Rimandando ad esso il lettore, ne svolgerò con autonomia un mio commento personale.


5. Così come la imposta Lordon (e la intendo io) la de globalizzazione non ha nulla a che vedere, e non è quindi una ripresa, di ciò che per un decennio è stato chiamato Movimento No Global. La debolezza strategica del Movimento No Global era di non essere affatto no global (al di là dei riti pittoreschi di piazza, dai lamenti pecoreschi ritmati alle simulazioni del black bloc), ma di essere un movimento no global di estrema sinistra, e cioè una caricatura ultra-global. La stragrande maggioranza delle sue rivendicazioni (per non cadere nell’autarchia, nel protezionismo, nello stato nazionale, eccetera, tutte cose viste a priori come di “ultradestra”) erano ricavate da una radicalizzazione di ultra-sinistra del paradigma neoliberale in politica e neoliberista in economia. Estensione in tutto il mondo dei “veri” diritti umani, abolizione delle frontiere, libera immigrazione, “superamento” del meschino orizzonte della sovranità dello stato nazionale, retorica contro i dittatori (distinti in semplicemente corrotti, ed in corrotti ed anche sanguinari), giovanilizzazione e femminilizzazione dei valori sociali, mitologia del progresso, eccetera. Un programma che sembrava stilato dalle stesse oligarchie liberali. In campo “marxista”, Negri e Hardt scrissero una trilogia che propagandava questa concezione liberista rovesciata (ma un dado rovesciato è sempre un dado), e non a caso questa trilogia divenne popolare presso i due estremi sociali apparentemente antitetici ed in realtà complementari del capitalismo, i centri sociali in basso e l’aristocrazia accademico-universitaria di sinistra in alto.


6. In Italia abbiamo vissuto una variante particolarmente pittoresca e provinciale del movimento no global, con il picconatore Bertinotti che sosteneva che con la globalizzazione spariva l’imperialismo. Il fatto che questa colossale sciocchezza potesse essere presa sul serio segnala la desertificazione del pensiero critico per opera degli apparati ideologici post-moderni mediatici ed universitari. Ed il fatto che il successore più astuto e rigoroso di Bertinotti, il poeta barese Vendola, abbia elettoralmente svuotato sia i “merli” di Ferrero sia i “passeri” di Diliberto, mostra come il non avere preso sul serio in tempo le sciocchezze porta poi a conclusioni distruttive. Quali lezioni trarre dagli esiti grotteschi del movimento no global dieci anni dopo?


7. La prima e pressoché unica lezione consiste nel capire che la sacrosanta lotta alla globalizzazione non può e non deve essere ripetuta e riproposta sulla base ideologica del movimento no global. Lordon chiarisce che i cantori del vecchio movimento no global (ad esempio l’organizzazione Attac, che ha definito la deglobalizzazione un concetto semplificato e superficiale) comincino già ad alzare le barricate, paventando poi “contaminazioni” con il protezionismo dell’eterna “destra”. Fa eccezione l’economista francese Jacques Sapir, che a mio avviso ha impostato le cose nel modo più radicale e anche meno estremistico ed avventuristico possibile: si tentino pure tutte le soluzioni possibili dentro l’euro e l’unità europea, ma se per caso fallissero, allora deve diventare “pensabile” anche l’uscita dall’euro.


8. Inutile dire che una simile prospettiva possibile, anche se posta solo come eventualità praticabile nel caso che tutte le altre opzioni “riformatrici” fallissero, viene virtuosamente rifiutata dal centro e dalla destra liberale. Il fatto è che ormai il liberalismo classico non esiste nemmeno più, divorato dal passaggio dalla sovranità politica alla governance economica. Ma anche la sinistra (con quella appendice patetica ed inutile chiamata “estrema sinistra”) la rifiuta, temendo virtuosamente che “un conflitto di classe venga trasformato in un conflitto di nazioni” (Jean Marie Harribey).


Ecco, questo è lo scoglio. Il voler negare il dato nazionale, rimuovendolo virtuosamente, aveva già portato Attac a passare dalla “anti-globalizzazione” al cosiddetto “altermondialismo”. Ma l’altermondialismo per ora non esiste, ed è una utopia futuribile come il comunismo o il comunitarismo universale. Ma il dato nazionale non significa automaticamente razzismo, protezionismo assoluto, autarchia totale o decrescita virtuosa agro-pastorale, anche se viene ovviamente così diffamato dai cantori (interessati) della cosiddetta irreversibilità della globalizzazione.


La globalizzazione è emendabile? Il futuro è ignoto, ma si può già rispondere: per ora, nelle attuali condizioni geopolitiche ed economiche, no. I quattro elementi intrecciati insieme (le sfide della globalizzazione, il giudizio dei mercati, il vincolo dei debiti, la sovranità delle agenzie di rating) ci fanno rispondere di no. E quindi bisognerebbe trarne le conseguenze.


9. Per ragioni che sarebbe lungo e noioso spiegare, mentre mi sono estraniato (e sono stato estraniato) dal dibattito italiano, sono invece attivo e presente nel dibattito greco (articoli, interviste, interventi, eccetera). Ora, tutti conoscono la situazione della Grecia, e di come il problema del debito e dell’eventuale uscita dall’euro sia in Grecia particolarmente acuto ed attuale, molto più che in Italia, dove è ancora per ora largamente “teorico” e virtuale. In Grecia è possibile studiare come in un laboratorio le conseguenze immediate del dibattito sul debito.


Il commissariamento della Grecia, che ha comportato la sua totale perdita di sovranità, ha comportato anche la completa distruzione di tutte le conquiste “socialdemocratiche” conseguite dopo la caduta della giunta dei colonnelli del 1974 (metapolitefsi), svuotando quasi quaranta anni di storia della Grecia moderna. Così come l’Italia dell’agosto 2011 è stata “commissionata” dal duopolio Draghi-Napolitano (un banchiere ed un ex-comunista riciclato), così la Grecia è stata commissionata da una “giunta economica” costituita da tutti partiti (destra, sinistra e centro) favorevoli alla sottomissione ai diktat della banca Centrale Europea e della Germania in primo luogo. A questo punto, come reagire?


Da quanto ho potuto capire partecipando al dibattito, ci sono stati fondamentalmente due modi. In primo luogo la rivendicazione di una autonomia nazionale è stato subito incorporata nel ribellismo ultra-comunista di estrema sinistra, che invita all’abbattimento del capitalismo. In secondo luogo, un modo più patriottico e nazionale, incarnato dal grande musicista Mikis Theodorakis e dal suo movimento, che non porta in piazza bandiere rosse ma soltanto bandiere azzurre greche, e lo fa per non dividere ideologicamente il popolo, che al di fuori di una ristretta oligarchia soffre indipendentemente dalle sue opinioni politiche, filosofiche o religiose.


Nonostante abbia amici soprattutto fra i “sinistri” greci, devo dire che a mio avviso la linea giusta è quella di Theodorakis. Il popolo non deve essere diviso ideologicamente, ma unito in nome della sovranità nazionale e di quella che Lordon e Sapir chiamerebbero deglobalizzazione. Cerchiamo di tirarne la conseguenze “italiane”. Anche in Grecia Theodorakis è stato accusato di essere “rosso-bruno”, di lasciare spazio alla destra, di essere ambiguo, eccetera. Accuse completamente false. Theodorakis ha le carte in regola, sia per la Resistenza (1941-1944), sia per la guerra civile (1946-1949), sia per il “lungo inverno” dell’autoritarismo successivo (1949-1967), sia per l’opposizione alla dittatura dei colonnelli (1967-1974). E’ solo la stupidità settaria che non ha le carte in regola, né in Grecia né in Italia.


10. Passiamo ora all’Italia. Se le considerazione fatte fino ad ora sul fallimento dei no global e degli altermondialisti, sulla deglobalizzazione (Lordon, Sapir), sulla corretta impostazione “nazionale” (non nazionalistica) di Theodorakis in Grecia, eccetera, sono corrette, che cosa fare in Italia?


In primo luogo, non lasciare spazio ai deliranti che dicono che “bisogna fare come in Tunisia”. Gli italiano se ne guarderebbero bene. Dalla Tunisia si scappa e si scapperà ancora a lungo, perché non c’è pane e non c’è lavoro (il che non significa che non fosse ovviamente sacrosanta la rivolta contro Ben Alì!). In questo momento una (non auspicabile) rivolta di tipo tunisino porterebbe soltanto alla fuga del puttaniere Berlusconi ed ad un governo degli “onesti”, e cioè dei funzionari del FMI e della BCE, che porterebbero a termine i programmi di liberalizzazione totale.


In secondo luogo, non bisogna in nessun modo attaccare al programma della deglobalizzazione (perché è ovvio che lo sarebbe sia l’uscita dall’euro che dal debito) i tradizionali (e deliranti) programmi di estrema sinistra, attraverso massimalistiche adunate di refrattari. Mi spiace scendere sui nominativi e sul personale, perché non sarebbe stata questa la mia intenzione. Ma che cosa ci fanno Rizzo, Ferrando e Babini dei CARC? I CARC vogliono la dittatura del proletariato. Ferrando vuole fare come in Tunisia, e lasciamo stare per carità di patria le sua posizioni sulla Libia e sulla Siria, in cui uno scontro tra masse divise da una guerra civile è stato magicamente trasformato in scontro tra le masse unite ed i dittatori burocratico-capitalisti. E Badiale? A mia conoscenza Badiale vuole la decrescita, programma del tutto legittimo, ma che è una fuga in avanti attaccare alla deglobalizzazione. Trattandosi di una sorta di “intergruppi” di estrema sinistra, il solo modo in cui molti vedono l’anticapitalismo, a mio avviso il fallimento è inevitabile. A breve scadenza, fallirebbe anche se ci fossero Gesù, Maometto, Marx e Lenin. Ma almeno porrebbe le basi per una lotta di lunga durata. Così avremo il solito intergruppi estremistico urlante.


A dire queste cose, si passa necessariamente per rompiscatole e guastafeste, ma in definitiva è meglio parlare che tacere.





Torino, settembre 2011

sabato 12 marzo 2011

Acéphale




I miti moderni sono fascisti per natura?

Sugli stessi problemi che ora riguardano la crisi della sinistra e le attrattive acquisite dalla macchina del fascismo si erano interrogati sia Furio Jesi, che, quarant'anni prima, Bataille, Caillois e gli altri «congiurati» raccolti intorno alla rivista «Acéphale» La crisi della capacità comunicativa della sinistra non si limita alla sola incomprensione della realtà e delle sue modificazioni, ma investe, ben più gravemente, il piano simbolico. Infatti, ad essersi inceppata è la «macchina mitologica», la capacità di produrre un senso mitologico

di Rocco Ronchi

In una intervista pubblicata alla vigilia delle elezioni che avrebbero segnato l'azzeramento della sinistra radicale e il trionfo della peggiore reazione, Fausto Bertinotti lamentava una grave crisi nella capacità comunicativa della sinistra italiana. Le proporzioni della disfatta, l'onda lunga e nera che ha generato, costringono a una riflessione radicale sulla natura di questa crisi che, a differenza di quanto credono gli operatori del marketing elettorale, non è riducibile alla ben nota difficoltà di far arrivare alla base un «messaggio» convincente e chiaro da parte di gruppi dirigenti sempre più distaccati dalla realtà. Comunicare, infatti, non è trasmettere. Nel suo senso proprio, significa creare un luogo comune in grado di «legare» una comunità, anche minoritaria, dando ad essa identità e riconoscibilità. Comunicazione è questa produzione di un senso comune, il quale, come una stella cometa, deve poter orientare in modo quasi irriflesso la concreta prassi politica, fungendo da tacito e indiscutibile presupposto.

Quel che scrisse Sartre

Il «comunismo» (che è altra cosa dal «marxismo») nella storia italiana del dopoguerra è stato soprattutto la lenta sedimentazione nelle coscienze di milioni di persone dell'immagine condivisa di una comunità: una comunità alternativa a quella data, della quale i «comunisti» denunciavano proprio la carenza di legame, la dispersione atomica degli individui e la loro trasformazione in elementi sostituibili al servizio del capitale. Bene lo spiegava Sartre, nel primo tomo della Critica della ragion dialettica, un libro che apparve all'indomani della catastrofe ungherese e che si rivolgeva «da sinistra» ai marxisti. L'analisi sartriana della pratica rivoluzionaria era imperniata sulla opposizione tra due tipi di «insiemi pratici»: il «collettivo», che è caratterizzato da serialità e fungibilità, nel quale ognuno è anonimamente come gli altri, e il «gruppo in fusione» rivoluzionario, che è invece alimentato dal calore bianco di un fuoco comunitario. A differenza del collettivo, che è in una «relazione di esteriorità» con i suoi elementi, il gruppo, al pari della sostanza di Spinoza che per esistere non ha bisogno di nulla all'infuori di sé, insiste invece come un tutto in ognuno dei suoi «modi».

Da Kéreny a Furio Jesi 

Il «militante» insomma non è mai solo: l'assoluto della Storia, del Partito, della comunità a venire, è sempre con lui. Anzi è lui, pervade ogni fibra del suo essere, non essendo il militante altro che una «incarnazione» del gruppo: un individuo comune. Gli stessi orrori del comunismo erano spiegabili, secondo Sartre, alla luce di questa dialettica: il terrore rosso era da intendersi come feroce «totalizzazione» delle differenze individuali che minacciano di incrinare l'unità mistica del gruppo. La crisi della capacità comunicativa della sinistra italiana è allora qualcosa di ben più grave di una semplice incomprensione della realtà e delle sue modificazioni. È una crisi che investe il piano simbolico. Ad essersi inceppata, in modo forse definitivo, è la «macchina mitologica» della sinistra, la sua capacità di produrre un luogo comune e del senso condiviso. E tanto non funziona più a sinistra quanto «marcia» perfettamente sul fronte opposto. Un fatto, questo, in grado di spiegare meglio di qualsiasi analisi socio-economica il travaso di voti da uno schieramento all'altro. Il desiderio di comunità - un desiderio al quale si è disposti a sacrificare perfino il proprio interesse personale (gli operai che votano Lega...) - resta infatti una grandezza invariante che può essere soltanto diversamente distribuita tra le forze in campo.
Per trovare una ragione che rendesse conto della fascinazione fascista Furio Jesi, il germanista studioso del mito e della cultura di destra, aveva coniato l'espressione «macchina mitologica» e quando la utilizzò, nel 1977, erano ormai passati quarant'anni dai problemi che avevano tormentato il gruppo di dissidenti comunisti e surrealisti raccolto dal 1936 al 1939 intorno alla rivista «Acéphale». Collegata alle attività del Collegio di sociologia, fondato nel '37 da Georges Bataille, Roger Caillois e Michel Leiris, la rivista si poneva gli stessi obiettivi, sebbene proiettandoli su un piano più speculativo: non si trattava solo di spiegare l'origine del contagio che, partendo dall'Italia, attraversava la civile Europa, ma anche di preparare le armi più efficaci per combatterlo. La «sociologia sacra» non era, insomma, il nome di una nuova disciplina, bensì una professione di antifascismo militante.
Dal suo maestro Károly Kéreny, Furio Jesi aveva ripreso la nozione di «mito tecnicizzato», vale a dire di mito imbastardito escogitato per mobilitare quelle masse che, come il loro stesso nome indica, sono caratterizzate da una inerzia costitutiva. I fascisti italiani avevano compreso che la tendenza all'immobilismo delle masse poteva essere vinta solo riaccendendo il più inattuale dei fuochi, quello che due secoli di critica illuminista avrebbe dovuto da tempo spegnere. La ragione era infatti impotente a muoverle e a commuoverle. Non solo il Thomas Mann del Doctor Faustus ma anche la più avveduta storiografia contemporanea - da Zeev Sternhell a Emilio Gentile fino al recente Avant-garde FASCISM di Mike Antliff - è ormai concorde nell'individuare il battesimo del fascismo europeo nella rivalutazione del mito da parte di Georges Sorel. Il mito - secondo la diagnosi fatta dal filosofo francese in Riflessioni sulla violenza - era infatti il solo fondamento capace di indurre alla mobilitazione, e siccome il mito è fondato sul rapporto con l'arcaico, la sola mobilitazione effettiva si riduce, di fatto, alla mobilitazione reazionaria. Di certo, quel che veniva chiamato in causa non era il mito autentico che, traducendosi in sublime poesia, estasiava colti umanisti come Kérenyi. Se ne rese ben conto, peraltro, anche lo stesso Jesi, in saggi che segnarono il suo violento distacco dal maestro, riflettendo sul fatto per cui una macchina mitologica non ha affatto bisogno, per funzionare, che al suo interno si celi una immagine del dio. Funziona benissimo anche senza quella immagine. Funziona anche se dio è morto o è assente. Secolarizzazione, desacralizzazione e demitizzazione, il «moderno», insomma, non scalfiscono la macchina mitologica.

L'eredità dei congiurati di sinistra

L'importante, scrive Jesi in pagine memorabili, è che dalla macchina fuoriesca una musica «che faccia danzare», che trascini cioè piedi stanchi in un ritmo che, come il sogno, non presuppone coscienza, distanza, critica. La macchina mitologica è una macchina onirica che, mobilitando le anime, crea un «luogo comune» condiviso.
Ed è una macchina enunciativa: la sua musica è, come ogni musica, fatta di «frasi» che sono come ritornelli capaci di catturare la mente costringendo a una ripetizione ottusa: basta, per verificarlo, che si sfogli la nostra stampa e si ascoltino i nostri telegiornali. Prima di tutto la comunicazione è questa danza che celebra l'esserci della comunità. Ogni etnologo che abbia lavorato sul campo lo può confermare.
In Spartakus. Simbologia delle rivolta (Bollati Boringhieri), ragionando sulla insurrezione berlinese del 1919, Jesi si interrogò anche su un possibile funzionamento alternativo della «macchina». Quei rivoluzionari comunisti che volevano sospendere l'ordine del tempo, identificato con quello dell'oppressione, attingevano anch'essi ad un mito «tecnicizzato». La rivoluzione, insomma, incrocia la storia, ma non le appartiene interamente. A differenza del fascismo, tuttavia, il «luogo comune» che sogna - il comunismo come «sogno di una cosa» - è una comunità di uomini liberi e la dea che onora è la ragione.
Quarant'anni prima, in qualità di testimoni dell'epidemia fascista, Bataille e gli altri «congiurati» di sinistra raccolti intorno a «Acéphale» si erano interrogati su questi problemi che sono ancora i nostri. Data la crisi comunicativa della sinistra (che per loro era evidente nella torsione sostanzialmente fascista del comunismo staliniano e nell'impotenza della sinistra parlamentare) e data la necessità della comunità, senza la quale resta solo quella caricatura di uomo che è l'individuo astratto dal legame sociale, come inceppare la macchina mitologica fascista?
È possibile un altro mito, alternativo a quello fascista, oppure il mito, nella modernità, è fascista per natura? È possibile una «comunicazione» che sia emancipazione oppure la comunicazione è soltanto produzione di un legame, di un «fascio», di una «lega», di una identità posticcia e violenta?

L'impossibile comunità

Bataille esitò a lungo tra queste ipotesi. Tra i suoi compagni di strada, Roger Caillois fu quello che si mostrò più ottimista e anche più ingenuo. Per lui era insomma possibile rifare «da sinistra» quello che era stato fatto dalla destra fascista (e, prima di tutti, dai seguaci di Sorel) e cioè mobilitare con il mito masse rivoluzionarie. Lo battezzò un «sublime socialmente imperativo», ma le sue raffinatissime analisi delle pulsioni mitologiche che attraverserebbero le masse metropolitane, rendendole permeabili a un contagio del sublime, altro non erano che una brillante fenomenologia del fascismo incipiente. La macchina mitologica, sposandosi con i nuovi media della comunicazione di massa, continuerebbe di fatto a funzionare in una sola direzione.
Tutt'altra era la consapevolezza della situazione che Bataille andava maturando. Proprio lui, che aveva dato il via all'impresa del Collegio e di «Acéphale», sembrava persuaso che, sul piano pubblico, il fascismo nella modernità avesse sempre l'ultima parola. L'aggettivo che più spesso ritornava nella sua prosa per qualificare la natura di una comunità finalmente libera è infatti «impossibile». Negli ultimi trenta anni brillanti filosofi hanno versato fiumi di inchiostro a proposito di questo aggettivo. Il senso di quella impossibilità è tuttavia chiaro ed è un senso tragico: non si dà nessuna libera comunità che sia effettuale, non si dà luogo comune che possa aspirare a farsi in senso lato «stato». Appena esso si dà è già immancabilmente perduto (i membri del Collegio rifletterono a lungo sul senso mitologico dell'imbalsamazione di Lenin nel 1924).

Sotto il segno dell'Acefalo 

Non resta allora che la comunità «inoperosa» (e vagamente aristocratica) di chi si sa irrimediabilmente sconfitto sul piano della storia effettuale? La comunità degli amanti o dei letterati? Molti tra quelli che oggi spengono sprezzanti la televisione lo pensano, ma non è stata questa la risposta di Bataille, il quale, nel 1937, individuava il proprio modello di comunità in Numanzia, l'eroica città che resiste fino alla morte all'assedio fascista di Scipione.
L'indicazione è precisa e suona assai inattuale alle nostre orecchie bipartisan: solo l'antifascismo può costituire il cuore di una comunità in divenire, solo l'antifascismo - un antifascismo vissuto fino allo spasmo nella sua dimensione metapolitica e «impossibile» - può essere il mito che fonda il luogo comune di uomini liberi. L'Acefalo disegnato da Masson sul frontespizio della rivista ne fu l'immagine convulsa.

Sullo scaffale
Qualche indicazione su «Acéphale» e i titoli di Furio Jesi

La rivista «Acéphale» venne fondata da Georges Bataille, Pierre Klossowski e André Masson, e uscì in quattro numeri tra il giugno del 1936 e il giugno del 1939. Nel primo numero apparve, con il titolo «La congiura sacra», il suo manifesto, a firma di Bataille, nel quale si rivendicava il carattere «ferocemente religioso» e metapolitico dell'impresa. I due numeri del 1937 presentano, tra l'altro, la fondamentale lettura batailleana di Nietzsche con la quale il filosofo tedesco veniva sottratto all'uso ideologico che ne avevano fatto i nazisti. La grafica della rivista era affidata a Masson che disegnò a più riprese l'Acefalo simbolo del movimento. Ma «Acéphale» è anche il nome della società segreta che raccoglieva attorno a Bataille alcuni dei suoi amici e collaboratori. Di questa avventura intellettuale e umana tratta il volume titolato «Georges Bataille, La congiura sacra» (a cura di Marina Galletti con una introduzione di Roberto Esposito), Boringhieri, Torino 2008 (ristampa). Tra i titoli di Furio Jesi reperibili: per Bollati Boringhieri, «L'accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita», «Bachofen» e «Spartakus. Simbologia della rivolta»; per Quodlibet «Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke», e «Letteratura e mito», per Einaudi, «Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea»

venerdì 21 gennaio 2011

La Scuola di Marx. Il problema dei rapporti fra Comunismo e Comunitarismo

 di Costanzo Preve

1. Riferirsi congiuntamente al comunismo ed al comunitarismo è una relativa novità nel panorama culturale e politico italiano ed europeo-occidentale. Sono esistiti in passato i cosiddetti nazionalcomunisti e nazionalbolscevichi, ma noi non abbiamo letteralmente nulla a che fare con loro, perché non ci collochiamo sul terreno delle rivendicazioni di una nazione contro altre nazioni. Sono esistiti ed esistono i cosiddetti eurasiatisti, ma il nostro profilo culturale e politico prescinde interamente dalla geopolitica, comunque concepita, in quanto si fonda su di un profilo economico, politico e culturale del tutto estraneo alla geopolitica, di difesa o di offesa che sia.

La ragione per cui fino ad oggi non siamo ancora stati fatti oggetto di attacchi diffamatori sistematici (prescindo dal contingente spurgo di fogna dei frenetici diffamatori di professione della rete, ad un tempo fastidiosi e irrilevanti) sta unicamente nel fatto che per ora siamo talmente piccoli da essere quasi invisibili per il circo dello spettacolo ideologico. Nel caso crescessimo, possiamo aspettarci che una muta di cani feroci ci salterebbe alla gola. Questi cani feroci si possono dividere in tre “razze canine” diverse.

In primo luogo, ci salterebbe alla gola la cosiddetta “estrema destra”, e questo per una ragione semplicissima. La tradizione dell’estrema destra, infatti, vede di buon occhio certe forme di comunitarismo ideologico del passato, in variante razzista, nazionalista, tradizionalista, organicistica, cavalleresca-neofeudale, eccetera, ma non vuole ovviamente avere nulla a che fare con il “comunismo”, che ha combattuto per un secolo, e di cui per principio rifiuta il “salvataggio” attraverso la distinzione fra Marx ed il comunismo storico successivo, in base al presupposto tetragono per cui Marx sarebbe stato il “fondatore” del comunismo che aborriscono.

In secondo luogo, ci salterebbe alla gola la cosiddetta “estrema sinistra”, e questo per una ragione semplicissima. La tradizione dell’estrema sinistra, infatti, il cui presupposto metafisico indiscutibile è l’eternità dell’antifascismo in assenza palese e conclamata di fascismo, è disposta ad accettare la pittoresca varietà delle tradizioni comuniste, o presunte tali (anarchismo, comunismo consiliare, togliattismo, mito dell’onesto Berlinguer, nobile sardo dalle mani pulite, bordighismo, trotzkismo nelle sue quattrocento varianti, stalinismo più o meno giustificazionistico, marxismo onirico-utopistico, maoismo filocinese, guevarismo eroico, castrismo esotico, eccetera), ma non vuole ovviamente avere nulla a che fare con il “comunitarismo”, in cui vede, grazie soprattutto alla paranoia che costituisce l’elemento fondante del suo profilo umano e antropologico, una perfida infiltrazione ed una orrenda contaminazione del Fascismo Eterno.

In terzo luogo, infine, ci salteranno alla gola tutti gli appartenenti al grande centro neoliberale politicamente corretto, che in Italia va da Fini a D’Alema e da Bertinotti a Berlusconi, i quali odiano ecumenicamente sia il comunismo, dichiarato “indicibile”, sia il comunitarismo, dichiarato “fascista”. Le pallottole-ismi che ci rovesceranno addosso sono già tutte nei loro depositi, e sono già tutte collaudate dal circo universitario politicamente corretto (anti-americanismo, anti-semitismo, nazionalismo, populismo, totalitarismo, passatismo, organicismo, eccetera).

Insomma, possiamo aspettarci il peggio, e se crescessimo (cosa niente affatto sicura, perché non possiamo offrire nulla, né posti politici, né cattedre universitarie, né intrallazzi ben pagati, né leccamenti mediatici, eccetera), i cani rabbiosi ci salteranno certamente alla gola.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2065