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domenica 16 ottobre 2011

Note su Rifondazione comunista



di Costanzo Preve



1. Quelle che seguono sono alcune note non sistematiche di commento al documento congressuale del prossimo congresso 2011 di Rifondazione Comunista. Sebbene abbia letto tre diversi documenti, commenterò solo quello maggioritario, che mi dicono alcuni "interni al giro" essere stato scritto dall'ex-cossuttiano Grassi e dall'ex-bertinottiano Ferrero. Se è così, si tratta di un miracolo della clonazione biologica, perchè ha permesso dopo la loro morte il matrimonio postumo fra Giuseppe Stalin e Rosa Luxemburg.



2. Ci si chiederà a quale titolo faccio questo commento, visto che non sono né un iscritto né un simpatizzante né tantomeno un potenziale votante di Rifondazione. Da almeno quindici anni non faccio neppure più parte dell’estrema sinistra né tantomeno del pittoresco e multicolore "popolo di sinistra". Direi che le ragioni possono essere compendiate in due principali. In primo luogo sono fra l'altro autore di una Storia Critica del Marxismo (Città del Sole, Napoli) che recentemente un autore come Samir Amin ha definito una "superba discussione dei marxismi storici" dopo aver letto la traduzione francese. Questo mi abilita a qualche commento sulla linea politica e culturale di un partito che si definisce pur sempre marxista e comunista. In secondo luogo, non ho bisogno di autodefinirmi, perchè mi definiscono i miei scritti editi ed inediti ed i miei comportamenti privati e pubblici, totalmente trasparenti ( il che non si può dire di tutti). Ma se proprio mi devo definire, mi definirei un comunista indipendente, o ancor meglio un allievo critico indipendente di Hegel e di Marx. Ho scritto di Hegel e di Marx, e non del solo Marx, perchè a mio avviso il pensiero di Marx è un episodio terminale e coerentizzato del grande idealismo classico tedesco, che si è mascherato da materialismo scientifico, troppo spesso di fatto un positivismo di estrema sinistra per classi subalterne ed intellettuali marginali e confusionari. Da circa cinquanta anni ho fondato un partito comunista nella mia coscienza di cui sono sempre rimasto l'unico iscritto, e di cui non ho mai cercato aderenti, o seguaci. Un tempo questo atteggiamento critico ed indipendente, il solo adatto ad un allievo critico di Marx, era diffamato e colpevolizzato come "individualismo piccolo-borghese", cui contrapporre un proletariato inesistente caratterizzato dall’obbedienza gregaria fatta passare per "vero spirito proletario". Ma oggi la piccola borghesia si è sciolta nella galassia dei ceti medi subalterni e chi colpevolizzava il pensiero critico si è riciclato a berciare dalle tribune elettorali del PD in appoggio ai bombardamenti USA e NATO ed ai provvedimenti finanziari di bilancio FMI e BCE. Sono allora queste le mie credenziali.



3. Il documento ammette (sia pure alla fine, dopo una generica pappa sulla attualità del comunismo e la non riformabilità del sistema capitalistico) che “la rifondazione comunista, a vent’anni dalla nostra nascita, non è stata risolta positivamente". A mio avviso non è stata mai neppure vagamente impostata, perchè non poteva farlo sulla base di una linea politica di truppe ausiliarie e subalterne caramellate del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD. In tutto il documento non sono mai neppure menzionati i nomi dei Gramsci e dei Togliatti di questo partito, e cioè Armando Cossutta e Fausto Bertinotti. Eppure costoro non sono nomi qualunque. Il primo ha simboleggiato la linea di "unità", e cioè di fiancheggiamento amministrativo del PCI-PDS-DS-PD ed il secondo una linea di rottura aperta, (tipo cultura del "Manifesto" Ingrao-Rossanda) con la tradizione di tutto il comunismo storico, e non solo dello stalinismo, che ha infine prodotto il poeta pugliese Vendola, che copre il fiancheggiamento cammellato del PD con una vuota ed insopportabile retorica.

Come è possibile fare un bilancio di vent’anni censurando proprio i vent'anni della propria esistenza?

4. Apro una parentesi da riconosciuto studioso di storia del marxismo e del comunismo. Il documento Grassi-Ferrero segue una gloriosa e secolare schizofrenia di documenti di questo tipo, che fanno coesistere affermazioni innocuamente estremistiche (attualità del comunismo, irriformabilità del capitalismo, eccetera) con conclusioni pratiche opportunistiche (le sole che contino praticamente) per farsi caricare a bordo da Vendola e Bersani e non toccare le ferree incompatibilità necessarie per farsi appunto caricare a bordo. La storia è vecchia di almeno un secolo, ed è proprio contro questa storia che si sono mossi più di un secolo fa sia il "partitista” Lenin sia la "movimentista" Rosa Luxemburg. A partire da Kautsky questi documenti identitari della "predica della domenica" (superamento comunista del capitalismo, dato sempre per moribondo) hanno fatto coesistere una "ortodossia dei fini" (il comunismo, appunto) con una tattica opportunistica della manovra elettorale. Questo da parte di persone che illudevano i loro militanti con la famosa marxiana "unità di teoria e di prassi". La storia dura da più di un secolo, e mi chiedo come si possa rifondare sulla schizofrenia. Bertinotti è già stato un maestro della rifondazione schizofrenica, massimalismo irresponsabile a parole e presidenza della Camera nei fatti.


5. La mano di Grassi si vede soprattutto in alcuni stilemi: per uscire dalla crisi, oppure uscita a sinistra dalla crisi. E' così che dicevano lutti i documenti PCI non ancora PDS-DS-PD. Iniziavano dalla situazione internazionale, poi dalle forze reazionarie italiane, poi "dal sovversivismo delle classi dominanti" (prima fasciste, poi democristiane, poi craxiane, poi berlusconiane, domani chissà), ed infine si usciva dalla crisi con il PCI candidato al governo. Ed io pensavo che le crisi fossero dovute a cicli della accumulazione capitalistica, e non al "malgoverno" di alcuni intercambiabili fantoccioni!



6. La storia d'Italia è riscritta ad uso e consumo del manipolatore politico di turno. Il craxismo è definito in termini di espressione della "controffensiva del capitale", confondendo l'effetto con la causa. La controffensiva del capitale, per usare questo termine improprio, è un fatto mondiale che parte intorno al 1978 in America, ed innesca una nuova fase dell'accumulazione capitalistica. Il cosiddetto "malgoverno" craxiano è dovuto al fatto che il PSI non disponeva di quelle due idrovore succhiatrici che erano l'industria di stato (per la DC) e le cooperative rosse (per il PCI, dopo 1a fine del finanziamento sovietico). Craxi dovette costruirsi una sua idrovora artigianale, attraverso le pittoresche "dazioni" alla Chiesa. Il documento, in modo onirico, afferma che "Berlinguer denuncia coraggiosamente la corruzione dilagante ponendo al paese la questione morale". Qui siamo lontanissimi dalla stessa critica marxiana delle ideologie. Berlinguer non poteva denunciare la questione morale perchè il suo stesso partito c'era dentro fino al collo. Sembra che Greganti e Penati vengano da Marte. La questione morale è stata storicamente una forma ideologica di "riciclaggio simbolico” dalla vecchia via italiana eurocomunista al socialismo, incompatibile con l'accettazione dell'ombrello della NATO, alla nuova "superiorità morale" dei comunisti. Un cambio di etichetta, o di brand per dirla in linguaggio USA-NATO.



7. Ogni tanto il documento ha degli sprazzi di inconsapevole e involontaria lucidità, quando afferma che è stato il PCI ( travestito da PDS, ma solo un ingenuo in male fede non vede il travestimento) a determinare la distruzione del sistema proporzionale che reggeva la rappresentanza nella Prima Repubblica (assai migliore della Seconda). Ma se è così, come si può fare un "fronte democratico" con una forza anti-democratica, che ha sostenuto il passaggio dalla democrazia rappresentativa alla governance post-democratica?

Misteri della logica che soltanto il desiderio di essere imbarcati da Vendola e Bersani possono spiegare. Ma il "rientro parlamentare" non può essere fatto passare per "rifondazione comunista", e questo non in nome di Marx, ma del vecchio comune senso del pudore.



8. Il berlusconismo è definito surrealmente come "un vero e proprio inveramento del craxismo". Ora, è vero che la storia non è una scienza esatta come la chimica o la fisica, ma ci sono limiti al delirio storiografico. Il berlusconismo è l'effetto non voluto di Mani Pulite, un colpo di stato giudiziario extraparlamentare che ha sostituito la obbligatorietà dell'azione penale alla rappresentanza “proporzionale”, pur corrotta, della prima repubblica. I giudici di Mani Pulite sono stati gli (involontari) sponsor di Berlusconi, che con il suo denaro ha recuperato l'immenso parco elettorale cui Mani Pulite aveva tolto la rappresentanza (DC e PSI, in primo luogo) . L'unica categoria politica che il documento sembra conoscere è quella del "populismo" . Si tratta proprio della categoria politica usata oggi nel mondo intero dalla classe politica della governance capitalistica. Incredibile che si usino a casaccio categorie politiche coniate per altri scopi. Ma che cosa aspettarsi da gente che aveva abolito la categoria di "imperialismo" e che non fa nessuna autocritica per questa incredibile bestialità del dilettante presenzialista Bertinotti?



9. Un' osservazione solo apparentemente marginale. Al tempo di Stalin per essere comunisti bisognava anche condividere l'ideologia del materialismo dialettico. Ora sembra che per essere comunisti si debba ad ogni costo condividere il femminismo. Ma il femminismo non si identifica affatto con i legittimi interessi collettivi del sesso femminile. I1 femminismo è una ideologia differenzialista di genere di origine universitaria americana, ed è americana come il Rock, il McDonald e Halloween. In quanto ideologia differenzialistica di genere ci sono uomini che la condividono per convinzione o opportunismo politicamente corretto (il sostituto post-moderno del materialismo dialettico) e ci sono donne che si guardano bene dal condividerla.



10. Si parla continuamente di contraddizioni fra il "popolo di sinistra" votante PD e la dirigenza politica del PD. E’ la vecchia solfa del Manifesto e di Lotta Continua, già falsa quando c'era il vecchio PCI. Ma oggi che c'è il nuovo serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD questo è puro delirio. In venti anni il vecchio popolo-PCI si è interamente riconvertito in una amorfa massa giustizialista anti-berlusconiana, che ha scaricato qualsiasi residuo anti-capitalistico, che certo resta ancora per fortuna latente in molta gente, ma non passerà certamente mai più per una "ricostruzione della sinistra" che conosciamo, ma che prenderà altre inedite strade, per il momento non prevedibili. Il PD è del tutto irriformabile, perchè è un partito di governance capitalista (FMI e BCE) ed imperialista (USA e NATO). Non a caso il documento finge che non ci sia un signore chiamato Giorgio Napolitano, che le masse PD applaudono come difensore della costituzione, e che ha addirittura premuto su Berlusconi per la guerra anti-costituzionale in Libia.



11. Già', la Libia. Da gente che ha appoggiato il dilettante Bertinotti che affermava che non esiste più 1'imperialismo non si possono certo aspettare analisi serie sulla Libia e sulla Siria. Bene, io le ho fatte. Discutibili, contestabili, ma le ho fatte. Personalmente, ho appoggiato interamente il governo di Gheddafi in Libia ed ora appoggio interamente il governo di Assad in Siria. Vergogna a chi non riesce neppure a capire che cosa sta capitando in questi paesi.



12. Il documento afferma solennemente che "l'Europa è il terreno sovranazionale indispensabile sul quale realizzare scelte di politica economica finanziaria e sociale alternative alle politiche liberiste". C 'è da trasecolare. In altri contesti il documento afferma il contrario, e cioè che l'Europa è stata proprio la sede principale dell’imposizione del liberismo in tutti i paesi europei. Ma a questo porta la frenesia di farsi prendere a tutti i costi a bordo da Vendola e da Bersani. Non sto sostenendo che sia già all'ordine del giorno l'uscita dall'euro e la ricontrattazione del debito. Ma almeno devono essere politicamente ipotizzate. Qui, invece, per essere presi a bordo da Vendola e Bersani non se ne parla neppure.



13. Il documento dimentica la cauta posizione di Togliatti verso la Chiesa cattolica e dichiara guerra al cattolicesimo italiano organizzato, legando insieme cattolicesimo, omofobia e patriarcato. E' esattamente la linea dei laici di "Repubblica" e della coppia sionista spiritata Bonino-Pannella. Qui di comunista non c'è proprio niente. I comunisti non dividono le masse fra laici e credenti, e non sposano ideologie che dividono il popolo su questioni di coscienza religiosa e filosofica.



14. Alla base di tutto, ovviamente, è la strategia del1'alleanza elettoralistica per cacciare Berlusconi, in un momento in cui Berlusconi sta già per essere cacciato dai gruppi dirigenti delle oligarchie capitalistiche italiane (Marcegaglia, Montezemolo, Draghi, Napolitano, eccetera). Ma per cacciare Berlusconi non c'è nessun bisogno di un corteo urlante di ausiliari cammellati. Bersani ha già la scelta di optare per Casini oppure per Vendola e Di Pietro, e lo farà non certamente perchè l'inesistente popolo PD preme, ma solo sulla base esclusiva della convenienza dei sondaggi elettorali. Far dipendere la rifondazione comunista in Italia dai voleri di Bersani e di Vendola è un fatto talmente vergognoso che lascia addirittura allibiti.

Rifondazione ha molto da farsi perdonare, in primo luogo l'espulsione del deputato Turigliatto per non aver votato i crediti di guerra e l'aver permesso al picconatore Bertinotti di distruggere per anni lo stesso partito in cui era stato chiamato come manager esterno cooptato dai due cinici politicanti Magri e Cossutta. Così com'è, non serve assolutamente a nulla, se non al suo ceto politico professionale. Se invece cambia linea di 180 gradi, magari potrà ancora servire a qualcosa. Ma non lo farà. Conosco troppo bene i miei polli.

lunedì 29 agosto 2011

Ricostruire il Partito Comunista?




di Costanzo Preve

Ho iniziato a scrivere questo modesto testo politico senza pretese il giorno di ferragosto 2011, dopo aver letto alcuni commenti sulla doppia stangata chiamata eufemisticamente “manovra”, e dopo aver letto alcuni testi interessanti, come ad esempio AAVV, Ricostruire il partito comunista, Max XXI – AAVV, Il ruggito del dragone, Ed. Aurora – J. Salem, Lenin e la Rivoluzione, Ed. Nemesis.

Dopo aver letto gli argomenti in favore della ricostruzione di un partito comunista come presupposto “leninista” di una strategia anticapitalista ed in favore di un giudizio sulla natura “socialista” della Cina, e dopo averli presi sul serio senza il solito atteggiamento sprezzante e spregiativo dell’estremismo di sinistra, vorrei rifiutarli educatamente e proporre una prospettiva diversa. So bene che l’abituale ricatto retorico della sinistra è l’eterno “ma tu cosa proponi?”. Bene, risponderò, ma propongo un’altra cosa, e la chiarirò. Il problema preliminare è questo: dove stanno andando le classi dominanti? Credo che sia una domanda integralmente “marxiana”. Prima di dare le risposte giuste bisogna prima fare le domande giuste. Si può rispondere in due modi. Primo: neppure le classi dominanti sanno dove stanno andando, stanno navigando a vista verso la catastrofe (sociale, ecologica, eccetera, a seconda delle opinioni). Secondo: stanno andando in una direzione ben precisa, e bisogna sapere quale. In base alla risposta che darò, ne risulta che l’ipotesi di ricostruire un partito comunista mi sembra una risposta strategicamente errata, in quanto l’analogia storica del futuro possibile e prevedibile ci porta verso un nuovo 1789 (unificazione del nuovo Terzo Stato) piuttosto che verso il 1917 (costruzione del partito comunista del proletariato e dei contadini poveri). Aggiungerò tre Appendici, A, B e C. L’appendice A sarà dedicata ad una mia esperienza personale vissuta nel 1989. L’appendice B sarà dedicata alle due “pesti” della sinistra italiana, il manipulitismo e l’antiberlusconismo. L’appendice C alla riflessione sulle ragioni del fallimento di quell’aborto Ricostruire il Partito Comunistastrategico chiamato Partito della Rifondazione Comunista in Italia.

1. RIFLESSIONI COMPARATIVE SULL’ATTUALE CRISI INIZIATA NEL 2008



Ho letto molte riflessioni sulle ragioni dell’attuale crisi, da David Harvey a Vladimiro Giacché, da Luciano Gallino a Bernard Conte, eccetera, laddove il chiacchiericcio pettegolo antiberlusconiano non mi ha mai fatto né caldo né freddo. Il solo modo per orientarmi (essendo un filosofo e uno storico, e non un economista) è stato quello analogico, con un esame comparativo con le due grandi crisi precedenti (grande depressione 1873-1896 e grande crisi del 1929). So bene che l’analogia storica è ingannatrice, perché tipico della storia è il produrre novità qualitative, che rendono di fatto impossibile la previsione, sia pure tendenziale. Sono d’accordo con Hegel, per cui la civetta della conoscenza filosofica della totalità giunge solo al crepuscolo. A differenza di Marx (di cui peraltro continuo a considerarmi un allievo critico) non credo che si possa prevedere il futuro del capitalismo, neppure in modo tendenziale. In breve, penso si tratti di una illusione positivistica, per cui la storia è trattata come se fosse simile ad una scienza della natura, tipo la fisica, che in effetti rende possibile la previsione, sia pure solo probabilistica (meccanica quantistica, eccetera). Credo anche che questa illusione positivistica derivi paradossalmente da un presupposto messianico-escatologico, che pretende di conoscere e di anticipare l’esito finale della storia. E qui mi fermo, perché so che troppa filosofia annoia il lettore medio.

Non conosco storie soddisfacenti del capitalismo. Non mi convince la teoria di Ernest Mandel sulle “onde lunghe”. Stimo molto Giovanni Arrighi, ma non mi convince la sua teoria della periodizzazione del capitalismo (fase genovese, fase olandese, fase inglese, fase americana, ed infine Adam Smith a Pechino). Tutte le teorie delle “fasi” non mi convincono. La storia non procede mediante fasi. Non ho mai neppure creduto alla teoria staliniana dei cinque stadi (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, ed infine comunismo mondiale a base proletaria). Il capitalismo non è nato per ragioni di fasi, ma è nato per una finestra storica congiunturale (Inghilterra del Settecento), che avrebbe potuto anche non presentarsi. Eccetera, eccetera. Credo però ad una unità dialettica trascendentale di una “storia ideale eterna”, nel senso di Vico, Fichte, Hegel e Marx. Risparmio al lettore i dettagli, che richiederebbero mille pagine, e che i miei affezionati lettori già conoscono. Con Vico, credo all’equazione verum ipsum factum, che tradotta in linguaggio comune significa che la sola verità filosofica possibile consiste in un bilancio del presente storico inteso come progressiva autocoscienza della libertà di un soggetto, laddove il resto è certezza (fisica, chimica e biologia), esattezza (matematica e veridicità artistica). Di conseguenza, la verità non può mai essere “certificabile” (e con questo, per farla corta, respingo cortesemente Cartesio e Kant). La verità è frutto di prassi storica trasformatrice (Fichte), di allargamento della lotta per il riconoscimento (Hegel) e di perseguimento dell’obiettivo possibile di una società comunitaria senza classi (Marx). Ancora una volta, mi scuso per l’intermezzo filosofico, ma come il Menico dei Promessi Sposi che giocava a rimbalzello perché era bravo nel fare volare le pietre sull’acqua, ognuno fa sempre quello che sa fare meglio. Ma passiamo ad un esame analogico delle tre grandi crisi.

La prima grande crisi, chiamata Grande Depressione, fece ammutolire Marx, mentre Engels scrisse che stava crollando sotto i nostri occhi la produzione capitalistica (prefazione alla Miseria della Filosofia di Marx, salvo errore, cito a memoria). Ovviamente non era così. Essa fu “superata” con l’imperialismo colonialistico, la spartizione dell’Africa, il riarmo navale, la corsa al petrolio, le innovazioni di processo (taylorismo e fordismo) e di prodotto (chimica, elettricità, automobili, eccetera). Essa produsse anche come “danno collaterale” la formazione dei partiti socialisti e dei sindacati operai. Il “marxismo”, formazione ideologica a base positivistica elaborata nel ventennio 1875-1895 congiuntamente da Engels e da Kautsky sulla base di una compresenza fra “ortodossia e fini” (Matthyas) e progressiva integrazione nel capitalismo, nacque su committenza pressoché diretta della socialdemocrazia tedesca. La compresenza di ortodossia dei fini (le prediche della domenica) e progressiva integrazione burocratica (Michels, eccetera) creò un piano inclinato che portò poi al 1914, il grande macello. Parentesi. La proposta di Diliberto delle tre unità (unità dei comunisti, unità della sinistra, ed infine unità democratica, contro Berlusconi, ovviamente) è un esempio di ortodossia dei fini (teniamo fermo il comunismo) e di integrazione nel sistema politico (ci uniamo con Bersani, Veltroni e Napolitano perché è il solo modo elettorale di rientrare in parlamento). Ma su questo dirò dopo. Per il momento torniamo alle cose serie.

La grande crisi del 1929 fu superata soltanto dalla seconda guerra mondiale e dalla grande corsa agli armamenti. Sottoprodotto sociale di questa soluzione bellica furono i “trenta anni gloriosi” 1945-1975 di cui ha parlato Hobsbawm. Appare oggi chiaro che il periodo storico del welfare non è per nulla stato un “avvicinamento riformistico” al socialismo, ma un momento del tutto congiunturale, ed in quanto congiunturale revocabile (ed infatti oggi revocato). Ho insegnato per 35 anni storia su manuali menzogneri che sostenevano che la crisi del 1929 era stata “superata” dal New Deal di Roosevelt e dal “compromesso” keynesiano-fordista. Non c’è maggior stupido di chi si fa ingannare, per pigrizia intellettuale o per conformismo identitario di “sinistra”.

Infine, venne la dissoluzione dell’esperimento sociale (sotto cupola geodesica protetta, per usare l’espressione di Jameson) del comunismo storico novecentesco (1917-1991). In vent’anni, il chiacchiericcio di sinistra non ha mai cercato di darne una spiegazione “strutturale” (vedi Marx), ma si è accontentato di versioni postmoderne della teoria del “totalitarismo” di Hannah Arendt. A modo mio, ho fatto l’ipotesi (cfr. C. Preve, La quarta guerra mondiale) di una grande e maestosa controrivoluzione sociale dei ceti medi sovietici (e cinesi) contro un dispotismo sociale operaio e proletario nel frattempo esauritosi come base sociale ed ideologica. Nessuno ha mai neppure battuto un colpo, in quanto erano tutti impegnati a prendere sul serio Negri, Bertinotti, Vendola, Ingrao e la signora Rossanda. E così abbiamo sbattuto il muso contro la crisi apertasi nel 2008, senza che nessuno provasse neppure lontanamente a fare ipotesi su verso dove stiano andando le oligarchie finanziarie che ci governano. Proviamo a fare qualche ipotesi.

2. DOVE VANNO LE OLIGARCHIE FINANZIARIE CHE CI GOVERNANO



A questa domanda si può rispondere in due modi. Primo: non lo sanno neppure loro, vivono giorno per giorno senza prospettive, come la famosa nave Titanic. Le facoltà di economia hanno smesso da tempo di produrre una scienza sociale, e fanno soltanto estrapolazioni matematiche. Le facoltà di filosofia vivono di odio verso i geci e Hegel, e raccontano ai futuri disoccupati che il mondo è privo di senso, bisogna accettarlo così com’è, ogni utopia finirebbe necessariamente in terrore, e l’unica ontologia che si può fare è quella del telefonino e dei social network. In definitiva, la diagnosi è quella di Rosa Luxemburg: in mancanza di socialismo, avremo la barbarie, e la rovina comune delle classi in lotta. Non ci credo. Si tratterebbe sempre di una teoria della fine della storia, soltanto pessimistica e non ottimistica (i domani che cantano).

Secondo, ed è la mia risposta, possiamo almeno ipotizzare dove stiano andando le oligarchie finanziarie. Ovviamente, esse non devono essere antropomorfizzate inventandoci un inesistente complotto coordinato alla Spectre (James Bond). E’ evidente che la globalizzazione finanziaria si fonda sulla fine della sovranità monetaria degli Stati nazionali. E’ evidente che la Costituzione italiana non esiste più, da quando l’agente americano Giorgio Napolitano ha spinto il riluttante e ricattabile puttaniere Berlusconi all’aggressione contro la Libia di Gheddafi (travestita da garanzia di una no fly zone, in cui invece a fly sono i bombardieri NATO), alla faccia del fatto che l’Italia ripudia le guerre. E’ evidente che il cosiddetto “giudizio dei mercati” è una foglia di fico per lo smantellamento di ciò che restava del welfare della prima repubblica (1946-1992). Molte cose sono evidenti, e mi sembrerebbe un retorico spreco di carta soffermarmici sopra. Andiamo invece al dunque. Ed il dunque è: dove stiamo andando?

Stiamo andando verso una polarizzazione estrema verso un polo oligarchico, da un lato, ed un immenso e politicamente espropriato “terzo stato”, dall’altro. E tuttavia, le oligarchie sanno bene che è necessario un “cuscinetto di grasso” sociale fra i due poli, per evitare che possa verificarsi uno scontro diretto fra i pochissimi, ed i moltissimi abbandonati alla insicurezza della vita e al lavoro sottopagato, flessibile e precario. Fra le oligarchie e questo nuovo immenso “terzo stato” (che sarebbe improprio definire in termini di imborghesimento del proletariato o proletarizzazione della piccola borghesia, categorie sociologiche a mio avviso sorpassate) bisogna favorire la costituzione di un gruppo sociale che, sulla scorta della proposta linguistica di Eugenio Orso, definirei new global middle class (uso l’inglese perché è la nuova lingua dei padroni, come avvenne prima per il greco, poi per il latino ed infine per il francese). A questo nuovo gruppo sociale bisognerà pur sempre dare qualche privilegio, in modo che non si rivolti contro l’oligarchia. Su questo non ho le idee chiare. Se ci fossero ancora dei sociologi, io chiederei a loro, ma so bene che ormai Wright Mills e Christopher Lasch sono morti, e restano soltanto animali accademici tronfi ed autoreferenziali. Ma adesso è giunta l’ora di chiarire perché a mio avviso la parola d’ordine non può essere quella di rifare il partito comunista.

3. FUNZIONE STORICA DEL PARTITO COMUNISTA



Laddove oggi c’è la tendenza a valorizzare Marx come “profeta della globalizzazione” e di sputare su Lenin, io non seguo questa tendenza, e sono d’accordo con il libro di Salem. Oggi demonizzare Lenin, con la scusa che dopo è venuto Stalin (che non demonizzo, ma neppure rivaluto seguendo le orme di Domenico Losurdo, di Ludo Martens e del partito comunista greco) significa in realtà demonizzare lo stesso concetto di prassi rivoluzionaria. Altra cosa, invece, è condividere tutto quello che Lenin ha detto e scritto. Ad esempio, io non condivido la riduzione della filosofia ad ideologia ed il cosiddetto “materialismo dialettico”. Dio me ne scampi e liberi! Condivido invece la piena legittimità della rivoluzione del 1917. Ma il lettore non sarà tanto interessato a sapere che cosa pensa il signor Preve della storia del Novecento, quanto arrivare al cuore della questione. Arriviamoci.

Il partito comunista, in tutte le sue versioni (qui staliniani, trotzkisti e maoisti concordano, pur bastonandosi e piccozzandosi ferocemente fra loro) è stato concepito per la rivoluzione proletaria sia pure “allargata” ad alleanze varie (contadini, piccola borghesia, persino “borghesia nazionale”, eccetera). E’ impensabile un partito comunista senza centralità della classe operaia, salariata e proletaria, di cui si nega peraltro la “rivoluzionarietà diretta”, priva di un coordinamento partitico. Qui non c’è differenza “teorica” fra Diliberto, Ferrando e Lotta Comunista. Mi scuso per la semplificazione, ma a volte facilita la discussione. Le attuali oligarchie finanziarie al potere non si limitano infatti a “proletarizzare” i ceti medi. Se li proletarizzassero, si potrebbe dire che ci vuole un partito comunista. Ma il processo che si svolge sotto i nostri occhi e ben più complesso e maestoso. In Cina, in India ed in Brasile (ed ora anche nei paesi arabi, con la cosiddetta “primavera araba”, che solo un inguaribile ingenuo potrebbe pensare abbia una natura rivoluzionaria, laddove si tratta della semplice presa del potere di una borghesia sunnita occidentalista) si sta formando finalmente una classe media globale, la cui parte superiore, alleata con le oligarchie finanziarie, eserciterà una funzione controrivoluzionaria di fronte alla quale i codini nobiliari del 1789 sembreranno tutti dei Thomas Munzer. La parte inferiore dei ceti medi, numericamente di gran lunga prevalente, cadrà in questo nuovo “terzo stato”. Essa non ha bisogno di un partito comunista, e soprattutto non ha bisogno di portarsi dietro il sanguinoso contenzioso sul bilancio storico del comunismo novecentesco. Su questo Diliberto e Ferrero non saranno mai d’accordo, perché per il primo il più grande rivoluzionario è stato Lenin, e per il secondo Raniero Panzieri. Si pensa forse di poter “assemblare” Mauro Gemma e Marco Ferrando?

Ma non sta neppure qui il punto essenziale. E qui, pur sapendo che è come bestemmiare in chiesa, sono costretto a porre il problema del superamento della dicotomia Destra/Sinistra, anche se per le orecchie pie e politicamente corrette del “sinistro” medio, questo può dare luogo al sospetto di “infiltrazione fascista”.

4. NOTE SULLA DICOTOMIA SINISTRA/DESTRA



Non riprenderò qui per ragioni di spazio le argomentazioni da me sviluppate in un quindicennio (e quale quindicennio!) sul superamento della dicotomia Destra/Sinistra. Lascerò perdere la filosofia e la storia che stanno alla base di questa dicotomia, e svilupperò un solo argomento, di tipo politico. Seguendo il noto “rasoio di Occam”, credo che un solo argomento basterà, se è convincente.

Chi si situa all’interno della dicotomia Sinistra/Destra, concluderà necessariamente non tanto che il comunismo è “l’estrema sinistra” o la “vera sinistra”, ma che il comunismo è la parte più coerente, rigorosa ed organizzata della sinistra stessa. A questo punto, ne discenderà ‘gravitazionalmente (uso questo avverbio volutamente) che bisognerà’ allearsi con la “sinistra moderata” (ed addirittura con il centro-sinistra) contro la Destra, come se si fosse ancora al tempo dei fronti popolari contro il fascismo (1934-36). E’ questa la ragione simbolica del mantenimento ideologico dell’antifascismo in assenza totale, palese e manifesta di fascismo. Ci deve essere sempre un “fascista”, o almeno un suo succedaneo simbolico (prima Fanfani, poi Craxi, infine Berlusconi). Ricordo ancora i cialtroni di Lotta Continua che parlavano di “fanfascismo”.

Questa forza ideologica gravitazionale impedirà di comprendere l’omologazione strutturale del quadro politico nell’epoca della terza grande crisi capitalistica. Bisognerà trovare sempre argomenti per dire che Bersani, Veltroni e Fassino sono “meglio” (o “meno peggio”) di Tremonti, Bossi e Berlusconi. Il menopeggismo sostituisce l’analisi gramsciana delle classi, per obsoleta che in parte possa essere. Ma il menopeggismo è un lento veleno mitridatico. Il cittadino diventa un “consumatore” di offerte politiche, ed è esattamente il modello inglese ed americano, cui sin tratta di omologarci.

Se la dicotomia Destra/Sinistra facesse soltanto acqua sul piano storico e filosofico, la lascerei stare per ragioni di quieto vivere. In fondo, non è divertente farsi dare del “fascista” da una marmaglia fanatizzata. Ma si tratta di un vero “ostacolo epistemologico” (mi scuso per il termine supercolto). Se siamo di sinistra, bisognerà allearsi con Bersani contro Berlusconi, e con la Marcegaglia e Montezemolo contro Bossi e Tremonti. Bisognerà sempre trovare dei “fascisti” da qualche parte, come se fossimo al tempo del film di Ugo Tognazzi “Vogliamo i colonnelli”. In questo modo il terzo stato non potrà mai essere politicamente ricomposto, perché lo si scinderà ideologicamente in una falsa contrapposizione simbolica, che ricorda i guelfi ed i ghibellini, e soprattutto non si comprenderà mai l’omologazione strutturale dei ceti politici professionali di “sinistra” in Europa all’interno del nuovo capitalismo finanziario e del neoliberalismo. Tutte le chiacchiere di Diliberto e Ferrero, sfrondate dei riferimenti simbolici identitari, si riducono a tirare per la giacca Bersani, la Bindi e la Camusso.

Sarei molto dispiaciuto se quanto sto dicendo venisse catalogato sprezzantemente sotto la voce “estremismo” o “minoritarismo”. Sono stato estremista in gioventù, ma non lo sono più da almeno vent’anni. Ho gusti “conservatori” nelle arti figurative, in filosofia, in letteratura ed in musica. Il succo del mio discorso è un altro. Se andassimo verso un nuovo 1917, sarei per ricostruire un partito comunista, anche perché da allievo di Marx mantengo un anticapitalismo radicale. Ma in base al ragionamento fatto sulla base analogico-comparativa delle tre grandi crisi del capitalismo (1873, 1929 e 2008) mi sembra che andiamo invece più probabilmente verso un nuovo 1789, e si tratta piuttosto di unificare il nuovo “terzo stato” contro le oligarchie ed il loro clero (il clero regolare, accademico-universitario, ed il clero secolare, mediatico-televisivo). Questa unificazione non può avvenire riproponendogli tutti i vecchi contenziosi “marxisti”.

                                                                 APPENDICE A

RICORDO PERSONALE DI UNA TRAGICOMICA ESPERIENZA DEL 1989



In filosofia io sono un Signor Qualcuno, e non mi interessa se questo viene riconosciuto o no dagli oi polloi (traduzione consigliata dal greco: i polli, nel senso di galline). Ma in politica io sono un Signor Nessuno, lo so perfettamente, e tanto basta. Ma voglio qui ricordare una tragicomica esperienza dell’ormai lontano 1989. Negli anni Ottanta mi avvicinai prima ad una rivista politica intitolata Unità Proletaria, diretta da Attilio Mangano e da Luigi Cortesi, e poi ad un piccolo centro culturale dipendente da Democrazia Proletaria denominato “Punto Rosso”, tuttora esistente. Si trattava di un matrimonio di interesse reciproco: essi mi offrivano la possibilità di pubblicare e di far conoscere le mie elucubrazioni filosofiche “marxiste” (Althusser, Bloch, Lukacs, eccetera), ed io offrivo loro una collaborazione gratuita, disinteressata e non pagata. Poi un dirigente di Democrazia Proletaria (inutile il nome, si dice il peccato, non il peccatore) mi propose di cooptarmi nella Direzione Nazionale di questo partito, perché potessi fare interventi “colti” considerati “marxisti”. Avrei dovuto rifiutare, ma ero ancora nella fase “militante” della mia vita. I dirigenti politici, in genere, amano gli intellettuali-pagliacci in veste non tanto di commissari politici quanto di cappellani, cioè di “clero teorico”, purché non osino mettere le zampe sulla “linea politica”, che considerano loro monopolio assoluto, un po’ come il denaro per i capitalisti. Cooptato nella Direzione Nazionale, rifiutai subito il ruolo di intellettuale-pagliaccio ornamentale, e mi indirizzai verso il problema proibito della linea politica. Democrazia Proletaria era una vera Armata Brancaleone (nel senso del film di Gassman), con al vertice un pagliaccio mediatico (Mario Capanna, precursore di Fausto Bertinotti e di Nichi Vendola) ed alla base un carnevale di femministe, ecologisti e pacifisti. Dal momento che il PCI di Occhetto stava liquidando il comunismo, mi sembrò opportuno proporre una linea politica tendente a ricostruire un piccolo partito comunista esplicito.

Non l’avessi mai fatto! Da intellettuale-pagliaccio supercolto diventai immediatamente un fastidioso rompiballe, che rompeva i delicati equilibri interni fra “movimentisti” e “partitisti”. E tuttavia, proposi delle tesi politiche che furono costretti a pubblicare nel Bollettino di Democrazia Proletaria. In esse sostenevo che l’individuazione in Craxi del nemico principale (il grassone, il corrottone, il mangione, eccetera) era una sciocchezza, e che la ricomposizione delle oligarchie italiane avveniva diversamente. Certo, non potevo prevedere Mani Pulite, ma mi si dovrebbe dare atto di una mia politica preveggenza. Da qualche parte, in qualche emeroteca, queste tesi potrebbero ancora trovarsi. Nello stesso tempo, mi misi a collaborare con il gruppo cossuttiano “Marxismo Oggi”, perché intuivo che da lì sarebbe nato qualcosa. Poi, per fortuna, mi ammalai gravemente, ma sopravvissi. In questo modo potei evitare di fare l’esperienza mefitica e grottesca di Rifondazione Comunista, perché, essendo assente per malattia, non fui “cooptato” nella sua ridicola Direzione. E’ proprio il caso di dire che non tutto il male viene per nuocere. Diventai così uno studioso indipendente, senza alcun legame partitico, precondizione assoluta per poter pensare liberamente, senza dover commisurare quanto si pensa alle compatibilità ferree della linea politica stabilita dai babbioni del ceto politico professionale di “sinistra”.

Allora (1989) pensavo sinceramente che fosse necessario ricostruire un partito comunista. Oggi, ventidue anni dopo (2011) non lo penso invece più, per le ragioni esposte precedentemente. Ma ringrazio l’esperienza fatta, perché ci ho sicuramente imparato molto.

                                                                  APPENDICE B

LE DUE GRANDI PESTI DELLA SINISTRA ITALIANA: MANIPULITISMO E ANTIBERLUSCONISMO



Il codice teorico identitario del picismo italiano (termine con cui cerco di connotare la continuità del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD) si basava su una sorta di storicismo progressistico, convinto di “navigare con il vento della storia”. Trascuro le critiche alla Walter Benjamin di questa pappa positivistica. Togliatti mantenne “l’ortodossia dei fini” in termine di ideologia identitaria di partito “comunista”, facilitando l’inserimento del partito nella società italiana e nel suo miracolo economico (evidente dopo il 1958). Ammetto apertamente che fino al 1974 circa (dopo non più) il PCI continuò ad esercitare un ruolo sociale e culturale complessivamente positivo, e non voglio che mi si confonda con i nostalgici della rivoluzione mancata nel 1945 o nel 1948 o con ogni tipo di estremismo operaista e/o bordighista (con tutto il rispetto per Bordiga, che si mangiava in insalata il gregge conformista e pecoresco degli “intellettuali organici” PCI). Ma qui non c’è tempo di approfondire la questione. Credo che colui che ci capì di più fu il cattolico integralista Augusto Del Noce, che fece la diagnosi più esatta di tutte, ed anche la più dialettica (anzi, l’unica dialettica), quella della trasformazione progressiva dello storicismo (a base relativistica e nichilistica, se gli si toglie la base ontologica presente in Hegel ed abbozzata, ma solo abbozzata, nella mirabile Ontologia dell’ultimo Lukacs) in adesione alla società postmoderna radicale dei consumi. In ogni caso, arriviamo subito per brevità al 1989-91. Con il crollo della Casa Madre il vecchio personale picista dovette riconvertirsi in fretta e furia. Se prima erano il sacerdozio della via italiana al socialismo e dell’eurocomunismo, ora dovevano diventare il personale politico di mediazione “politica” del capitale finanziario e dell’impero militare americano (D’Alema con il Kosovo 1999, Napolitano con la Libia 2011). Data la pittoresca ignoranza degli italiani non fu neppure necessario “gestire” una riconversione ideologica esplicita (tipo Bad Godesberg tedesca 1959). Il popolo di Beppe Grillo, Nanni Moretti e Nichi Vendola non è popolo di teorici, basta lo sghignazzo di “Linus” e del “Manifesto”. La riconversione fu progressivamente compiuta prima con il Manipulitismo e poi con l’Antiberlusconismo. Trattiamoli separatamente.

Alcuni anni fa mi trovai a Milano in un dibattito pubblico con Gherardo Colombo, uno dei più noti magistrati del pool di Mani Pulite. Un interlocutore cortese, educato e colto. In sua presenza esposi in forma cortese e non polemica la mia tesi storico-politica di fondo, per cui a mio avviso Mani Pulite, pur formalmente legale e costituzionale (a differenza della guerra di D’Alema in Kosovo 1999 e di Napolitano in Libia 2011), era di fatto stato un colpo di Stato giudiziario extraparlamentare che aveva distrutto una prima repubblica italiana certamente corrotta, ma anche assistenziale e proporzionalistica, la cui conseguenza era stata paradossalmente quella di facilitare l’avvento di Berlusconi, che grazie al suo denaro aveva potuto “ereditare” gran parte dell’elettorato DC ed anche PSI. Avrei anche potuto parlare turco. Il cortese Colombo non contrappose una sua lettura storica alternativa alla mia, ma parlò di “obbligatorietà dell’azione penale”, che l’aveva costretto a colpire Chiesa, Craxi e tutti i mangioni. Ora, io non mettevo assolutamente in discussione che i reati di corruzione e di concussione richiedono l’obbligatorietà dell’azione penale, e lo ammettevo apertamente. Soltanto, desideravo che il tema non venisse soltanto discusso in modo giudiziario, ma storico. Ma fu come passare dal turco al mongolo parlato e stretto. A distanza di quasi vent’anni, non esiste ancora un bilancio storico di Mani Pulite (fanno parziale eccezione due saggi di Filippo Fiandrotti e di Giovanni Di Martino, sconosciuti agli oi polloi). Resta invece il fuoco di diversione mediatica sulle ruberie della casta, sui prezzi politici dei ristoranti parlamentari e su tutte le pittoresche miserie degli straccioni del ceto politico professionale, che essendo al servizio delle oligarchie al potere, vogliono anche loro poter raccogliere le briciole dei loro banchetti in termini di barche a vela o di culi di adolescenti ambiziose, come già avveniva per gli schiavi ed i liberti delle oligarchie schiavistiche romane. In ogni caso, la riduzione giudiziaria della storia italiana è un fenomeno grottesco che richiederebbe Swift e Rabelais, ed ammetto di non esserne all’altezza.

E passiamo ora al berlusconismo, anzi all’antiberlusconismo. Un tempo si diceva che il nazionalismo era l’ultimo rifugio delle canaglie. Ma il nazionalismo era Freud, Darwin e Einstein in confronto con il concerto antiberlusconiano dell’ultimo ventennio. Spieghiamoci meglio. Il nano di Arcore si prestava meravigliosamente a diventare il bersaglio satirico privilegiato di una “sinistra” decerebrata ed ormai del tutto incapace di analisi strutturale. Il puttaniere di Arcore, amico di Emilio Fede, era un personaggio da commedia dell’arte postmoderna che faceva sentire superiori tutti i coglioncelli di sinistra che a suo tempo Stefano Benni aveva definito Gente di una certa Kual Kultura (con il kappa). Lui è ricco, è vero, ma noi siamo più intelligenti, perché abbiamo letto Proust in tedesco con sottotitoli in polacco. Una banda di contemporaneisti sacerdoti della perennità dell’antifascismo in conclamata e palese assenza di fascismo usò termini come “telefascismo”, riesumando il “popolo delle scimmie” di gobettiana memoria. Per dirla con uno spaghetti-western, Dio perdona, ma io no! Per venti anni, il popolo di sinistra e il suo ceto politico giudiziario-giornalistico cercò di far fuori Berlusconi con il conflitto di interessi, le puttane, le minorenni, i soldi di Veronica e di De Benedetti, eccetera. Alla severa analisi di Gramsci si sostituì la pochade delle operette pecorecce degli anni Cinquanta. Il giornale-partito di “Repubblica” fu in questo all’avanguardia, perché doveva riconvertire ideologicamente gli ex babbioni picisti in neobabbioni scalfariani. Ma se Berlusconi cadrà (e probabilmente cadrà) non sarà certamente per gli scandali pecorecci di un vecchio maniaco dotato di Viagra, ma per le bastonate della manovra commissionata dai “mercati finanziari” dell’estate 2011. Certo, i pagliacci di sinistra rivendicheranno il merito di averlo fatto cadere, ma potranno ingannare soltanto i loro militanti-babbioni, Sarà il massacro dei ceti medi a far tramontare il nano di Arcore, non certo la signora Boccassini. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Ma come scrisse Spinoza, non bisogna né ridere né piangere, ma capire.

Detto in linguaggio medioevale, continuare a non capire il manipulitismo e l’antiberlusconismo non è più un peccato dell’intelletto, ma della volontà. Non si vuole capire. E si continui a non capire, se vi fa piacere. E’ impossibile raddrizzare le gambe ai cani.

                                                                    APPENDICE C

BILANCIO DELLA TRISTE STORIA DI RIFONDAZIONE COMUNISTA




Dopo la grande dissoluzione del triennio 1989-91 neppure Marx e Lenin sarebbero riusciti a “rifondare” politicamente il comunismo (si parla qui di rifondazione politica, perché quella teorica è più facile, basta contrastare il capitalismo). Figuriamoci se potevano riuscirci pagliacci politici mediocri come il cinico familista Armando Cossutta o il narcisista dilettante Fausto Bertinotti. Il teatro greco ci ha offerto tre tipi di azione scenica, la tragedia, la commedia ed il dramma satiresco. Rifondazione fu sempre e solo un dramma satiresco.

Nel libro sopraindicato Ricostruire il partito comunista gli autori (Diliberto, Giacché, Sorini e Catone) citano in proposito un certo Tortorella, che giustificò nel 1991 la sua non adesione a Rifondazione con la scusa che era “eclettica”. Fausto BertinottiCominciare dalla sovrastruttura (il presunto eclettismo di Rifondazione) e non dalla struttura (il suo ruolo ventennale nel sistema politico italiano dopo Mani Pulite) è una vergogna. Se si vuole discutere di Rifondazione non si può cominciare dal suo (innegabile) eclettismo, ma dal suo ruolo politico strutturale oggettivo. In nessun momento Rifondazione fu mai una “rifondazione comunista”. Essa fu sempre una “decompressione comunista”, il cui ruolo fu sempre quello di gestire la “decompressione” di ex comunisti orfani del togliattismo e del berlinguerismo. Il suo ruolo fu sempre quello di gestire ferreamente dall’alto un confusionario massimalismo in basso, tenendolo sempre ben stretto alla Casa Madre PCI-PDS-DS-PD. Tenendolo ben stretto attraverso le “risorse ideologiche” del manipolitismo e dell’antiberlusconismo. Altro che eclettismo! La storia ridicola ed irrilevante di questo partitino finì idealmente con l’espulsione dell’onesto senatore Turigliatto per avere votato contro i “crediti di guerra” (ricordiamo Liebknecht nel 1914!). Le contorsioni ideologiche del narcisista Bertinotti non sono rilevanti, ma solo pittoresche.

Il fallimento di Rifondazione ci consegna intatta l’esigenza di costruzione di una forza politica anticapitalistica. Ne sono perfettamente consapevole. Ma chi non ha ancora capito la funzione di Vendola come “copertura poetica” del PD è al di fuori di ogni possibile discussione storica e politica.

martedì 15 febbraio 2011

Berlusconismo: "nuova strategia della tensione"



Emanuele Maggio

Berlusconismo. Cos’è? In sintesi: è la principale connotazione politico-culturale che la Repubblica Italiana ha assunto negli ultimi 17 anni, ovvero è la specifica conformazione politica di quella che è stata chiamata “Seconda Repubblica”.

Vorrei però tentare di offrire un’analisi più dettagliata. Innanzitutto, oserei affermare che il berlusconismo è una forma di “fascismo”. Ora, qui dobbiamo essere molto cauti. L’intellighenzia liberale e di sinistra da tempo dibatte il problema. Le posizioni sono soprattutto due: c’è chi crede che il berlusconismo sia un vero e proprio “regime” fascista, basato sulla costruzione propagandistica del consenso, sul rapporto diretto capo-massa e su alleanze parlamentari razziste e nostalgiche del duce, un regime fortunatamente limitato dalle garanzie costituzionali ma costantemente minaccioso verso di esse (questa è l’opinione dominante); c’è poi invece chi ridimensiona drasticamente il fenomeno, distinguendo chiaramente il presunto “regime” berlusconiano dal regime fascista che l’Italia ha conosciuto nel ventennio, escludendo categoricamente qualsiasi pericolo di “svolta autoritaria” e negando l’esistenza stessa del berlusconismo, relegandolo magari a semplice fenomeno di degrado culturale, demagogico e populistico.

Io vorrei qui assumere una posizione intermedia. Credo fermamente che il berlusconismo sia una forma di fascismo, ma non nel senso dell’opinione pseudosinistroide dominante. Anzi, credo che quell’opinione vada ribaltata, o quantomeno bilanciata, e il sinistroide che leggerà quanto scrivo probabilmente storcerà il naso.

Prima di tutto, chiariamo un poco il termine “fascismo”. Esso, come si sa, non gode di una definizione esaustiva e precisa. Esistono i fascismi, storicamente determinati, ma non “il fascismo”. Il regime mussoliniano fu diverso da quello hitleriano, ed entrambi, comunque molto simili, furono diversi da quello franchista o da quello peronista. In ogni caso, alcuni elementi ricorrono con costanza: il culto del capo, la costruzione del consenso, la repressione del dissenso, la militarizzazione della società. Il fascismo italiano si è caratterizzato per l’aggiunta di altri elementi specifici: il “rivoluzionarismo verbale” unito al “conservatorismo sostanziale” (è l’interpretazione classica), una certa vocazione totalitaria (ovvero l’ideale di un’uniformazione ideologico-culturale della società), la funzione anticomunista, una politica economica di stampo “sociale”. Il regime hitleriano ha aggiunto a tutti questi elementi soprattutto il razzismo, il nazionalismo e un certo ritualismo di massa. Dal quadro sopra descritto capiamo bene che il berlusconismo, qualora lo considerassimo una forma di fascismo, andrebbe necessariamente declinato come fascismo “moderno”, precisamente differenziato.

Innanzitutto, esso si innesta su un’altra forma di “fascismo” (così definito da Pasolini), quest’ultima di vecchia data. Ovvero l’omologazione consumistica presente nelle società industriali avanzate, che impone come modelli dominanti il successo e la ricchezza. Sono i francofortesi a farci notare che, senza bisogno di golpe militari, il capitalismo ha imposto un “totalitarismo perfetto” che si distingue dal “totalitarismo imperfetto” dei regimi autoritari, che mai sono riusciti a raggiungere quel grado di omologazione culturale che le liberaldemocrazie capitalistiche hanno raggiunto senza problemi. Questa forma di “fascismo”, naturalmente, prescinde da Silvio Berlusconi e cronologicamente lo precede. Ci stiamo avvicinando alla definizione di “berlusconismo”, ma ancora non l’abbiamo delimitata nel suo significato precipuo.

Il berlusconismo si innesta anche su di un altro sistema politico oggi dominante: la poliarchia mediatica bipolare. Il termine “poliarchia” è stato introdotto da Robert Dahl per dare il giusto nome a quella che gli occidentali si ostinano a chiamare “democrazia”. La poliarchia, come già si auspicava nel 1975 l’americano Samuel Huntington, è il governo di molti, non di tutti. Il popolo deve autodeterminarsi, senza dubbio, ma esso può solo decidere tra una gamma di opzioni selezionate dall’alto. Non è che può decidere liberamente su qualsiasi cosa! (sul sistema economico, per esempio). Attualmente, in tutto l’Occidente, la poliarchia viene garantita dalla partitocrazia mediatica, ovvero dal privilegio mediatico di determinate forze politiche (di solito riunite in due grandi “poli”, centrodestra e centrosinistra, “non uguali ma simili”, come ebbe a dire una volta, in un raro sprazzo di sincerità, Fausto Bertinotti), che egemonizzano il dibattito pubblico e dettano l’agenda delle priorità politiche (vedere il fenomeno dell’agenda setting). In Italia disponiamo addirittura di una prova documentale di questo progetto: il Piano di Rinascita Democratica della Loggia P2 che, semplicemente in conformità con i dettami atlantici, auspicava la formazione di due forze centripete tese ad escludere le “frange estreme”. Quali sono le caratteristiche della poliarchia mediatica bipolare? Queste le principali: spettacolarizzazione della politica, leaderismo plebiscitario, costruzione competitiva del consenso (cioè i competitori elettorali – i partiti – pubblicizzano i propri prodotti simbolici – programmi “politici” – che verranno poi “liberamente” scelti dai consumatori – elettori -), comunicazione emotiva nell’arena politica (che si sostituisce all’argomentazione razionale). Curiosamente, la stragrande maggioranza dell’intellighenzia di sinistra, amplificata da una consistente propaganda, ritiene soprattutto imputabili a Berlusconi tutti questi fattori. In realtà, a Berlusconi non siamo ancora arrivati. Il berlusconismo, per quanto ci stiamo avvicinando sempre di più, non lo abbiamo ancora definito. Il sistema sopra descritto vige attualmente in tutto il mondo occidentale e occidentalizzato, con o senza Silvio Berlusconi.

Arriviamo adesso al caso dell’Italia. Agli albori della Seconda Repubblica, un insistente bombardamento mediatico ha convinto gli italiani che essi avevano bisogno di un sistema elettorale che comportasse il bipolarismo. Un referendum popolare ha ufficialmente legittimato questa tesi. Pian piano, nel corso di questi anni, il bipolarismo è diventato una specie di istituzione ufficiosa, una realtà da cui ormai non si può più prescindere (non lo consentono i sistemi elettorali). L’ago della bilancia di questo meccanismo è l’uomo nuovo della politica italiana: l’imprenditore Silvio Berlusconi. Ecco che comincia a delinearsi una prima definizione di “berlusconismo”: il berlusconismo è la “via italiana” alla poliarchia mediatica bipolare. In che senso?

E’ molto semplice. Il centrosinistra ha sbandierato e continua a sbandierare programmaticamente, tramite i suoi canali mediatici privilegiati, il “pericolo Berlusconi” e la retorica del “voto utile”; in questo modo attrae da ben 17 anni verso un polo antiberlusconiano l’elettorato socialdemocratico e perfino parte dell’elettorato anticapitalista, potendo anche permettersi di operare una graduale svolta centrista e padronale in cui intrappolare tale elettorato, ormai costantemente “deluso” dai suoi dirigenti, ma rassegnato pur di non veder concretizzarsi il fantomatico “pericolo Berlusconi”. In questo modo, semplice ma geniale, la sinistra è stata finalmente esclusa dal Parlamento. Dobbiamo postulare necessariamente un disegno consapevole orientato a tale obiettivo, un disegno che coinvolge in ugual modo il centrodestra e il centrosinistra. Crediamo davvero che gli esponenti di punta del centrosinistra siano stati “ingenui” (nelle alleanze elettorali, nelle pallide competizioni propagandistiche, nella mancata legge sul conflitto di interessi ecc..) e non abbiano invece volutamente favorito in numerosi casi l’alternanza di governo con il centrodestra, in modo da perpetuare il più a lungo possibile il “pericolo Berlusconi”?

E poi che cos’è questo “pericolo Berlusconi”? Essenzialmente, è una sorta di eventualità senza nome, indefinibile, che riguarda presumibilmente l’equilibrio delle istituzioni democratiche, la salvaguardia della costituzione e il bilanciamento dei poteri dello Stato, tutte cose che Berlusconi metterebbe seriamente a rischio. Come è stato possibile inculcare in gran parte della popolazione un simile allarmismo, peraltro privo di fondamenti? Ciò avviene ininterrottamente da 17 anni, in due atti: vi è una fonte primaria consapevole (l’agenda dei media dominanti) e una moltiplicazione secondaria inconsapevole (media secondari – stampa, radio, web.. – blogger, comici, opinionisti, intellettuali di grido ecc..). La mobilitazione degli ultimi tempi, coadiuvata da presenze illustri (Umberto Eco, Paolo Flores d’Arcais e affini) fa davvero pensare. Nessuno sembra accorgersi del fatto che il “pericolo Berlusconi” è rimasto allo stato di “pericolo” per 17 anni. Mussolini era un pericolo nel 1922, ma 17 anni dopo stava già per completare la sua parabola. Invece Berlusconi no. Egli si trova nello stato di pericolo permanente. Ha più di 70 anni, tra poco muore, ma è sempre un pericolo per le istituzioni repubblicane. Il pericolo, ovviamente, non si concretizza mai. Ma è sempre dietro l’angolo, a livello di possibilità e prospettiva. E’ un po’ come il terrorismo islamico: non lo vedi perchè è dappertutto. Non lo vedi ma c’è, fidati che c’è, e da un momento all’altro può farsi sentire.

Occorre a questo punto tranquillizzare il lettore più sprovveduto. Le svolte autoritarie, i fascismi vecchia maniera, non sono possibili nell’attuale congiuntura internazionale, almeno in Occidente. I fascismi sono stati storicamente utili alle élites transnazionali solo quando si sono presentate minacce comuniste organizzate, minacce che oggi non si vedono, nemmeno all’orizzonte. L’Occidente ha bisogno della poliarchia (“la democrazia”, scrive Canfora, “è rimandata ad altre epoche”…), ovvero di una democratica competizione tra élites imprenditoriali, che si contendono l’egemonia del “mercato elettorale”. I dittatori sono pericolosi, possono essere scheggie impazzite, ad esempio possono operare svolte protezionistiche non autorizzate, danneggiando i mercati comuni, o possono nazionalizzare importanti risorse, eccetera eccetera. E’ in questo senso che vanno lette l’esportazione occidentale della “democrazia” (cioè della poliarchia) e le varie “rivoluzioni colorate” aizzate dagli Stati Uniti contro dittatori poco “collaborativi” (di cui l’italiano “popolo viola” non è che un’inconsapevole, grottesca appendice).

Questo inquietante, sotteso progetto allarmistico possiamo riassumerlo in un sol modo: il berlusconismo (in cui è compreso l’antiberlusconismo) è una “nuova strategia della tensione” finalizzata a marginalizzare la sinistra italiana. La si marginalizza inglobandone la forza elettorale nel moderatismo, in (ir)realtà politiche fluttuanti e amorfe, fortemente colluse con ambienti confindustriali, bancari e filoamericani, e tutto ciò sempre in nome dell’antiberlusconismo. Per fare solo un piccolo esempio, basti ricordare un sondaggio del 2009 del Ministero degli Interni: il 50% della popolazione italiana è contraria alle missioni militari in Afghanistan e in Iraq. Dunque, dov’è rappresentato questo 50% in Parlamento? Non parliamo di un 5%, che può anche succedere non venga rappresentato (dipende dal sistema elettorale). Parliamo del 50%! Ebbene, in Parlamento il voto per i finanziamenti alla guerra è unanime. Quel 50% di italiani è magicamente scomparso, nonostante essi abbiano eletto circa il 50% del Parlamento (il centrosinistra che qui incriminiamo, appunto). La poliarchia è infatti questo: ci sono questioni, dicono lorsignori (ratifica del Trattato di Lisbona, introduzione del precariato, guerre ecc…), che dobbiamo decidere tra di noi, e su cui nemmeno il 50% di voi ha diritto di parola. Voi potete esprimere le vostre preferenze su faccende più superficiali, non certo su questioni “sistemiche”. E per garantire questo Silvio Berlusconi è stato fondamentale, come “ago della bilancia”, perno centrale su cui ha ruotato tutto il meccanismo, “specchietto per le allodole”.

Ora che il quadro generale è completo, non resta che spiegare in che senso il berlusconismo (“la via italiana alla poliarchia”, “la nuova strategia della tensione”) è una forma di fascismo. Esso è una forma tutta nuova di fascismo, che definirei fascismo bipolare (da leggersi sempre all’interno dell’omologazione consumistica e della poliarchia mediatica bipolare). Ovvero: il polo berlusconiano ha davvero tentato di riproporre forme di ducismo all’antica, e Berlusconi stesso, tramite la costruzione del consenso, ha probabilmente davvero coltivato velleità autoritarie; i suoi seguaci lo hanno subito ipostatizzato come “colui che risolve i problemi”, il salvatore della patria. Viceversa, il polo antiberlusconiano ha costruito il proprio potere dipingendo Berlusconi come “pericolo pubblico n.1”. Si è assistito cioè, da parte antiberlusconiana, ad una vera e propria costruzione del dissenso, un fascismo al contrario, una sorta di culto negativo del capo. Riassumendo: un’intera classe dirigente ha giustificato per un ventennio il proprio potere e i propri privilegi intorno alla figura di Silvio Berlusconi, chi idolatrandolo, chi demonizzandolo. Questo è un fenomeno, che io sappia, senza precedenti, e la storia lo ricorderà come “berlusconismo”, variante comica del fascismo. Sembra riecheggiare quella vecchia battuta del buon Karl Marx: “i grandi avvenimenti si ripetono due volte nella storia, la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”. Prima il ventennio fascista, poi il ventennio berlusconista, l’alternanza di governi berlusconiani e antiberlusconiani, entrambi berlusconisti.

Ora, quale dei due poli, dei due fascismi, è il più pericoloso? Il 30% “che ama”, i seguaci di Silvio Berlusconi, o il 70% di “persone per bene” (come le ha chiamate Bersani), che ci tengono a precisare che sono antropologicamente diverse e moralmente superiori rispetto a Silvio Berlusconi?

L’istinto mi suggerisce di diffidare soprattutto del conformismo più diffuso…