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venerdì 13 luglio 2012


L’eterna guerra dell’imperialismo americano contro il diritto di autodeterminazione dei popoli 



   di Stefano Zecchinelli

1.       I fatti dell’11 settembre 2001 non sono altro che il punto di arrivo della politica interna ed estera Usa, per come è stata intesa almeno dalla fine della seconda guerra (imperialistica) mondiale.
Henry Kissinger il 13 febbraio 2002 pubblica un articolo sul Washington Post in cui avanza una triplice ipotesi sulla strategia Usa: (1) considerare la missione punitiva contro i talebani terminata; (2) fare pressione su paesi come la Somalia e lo Yemen; (3) rovesciare il regime di Saddam Hussein che si trovava da diversi decenni nella lista nera degli Stati Uniti.
Gli Stati imperialistici europei si accodano alla strategia americana impegnandosi non solo sul fronte afghano ma anche su altri fronti di guerra.
Insomma, come disse il politologo del Pentagono Brzezinsky tutti condividono il presupposto che l’Eurasia sia il centro del mondo e che chi controlla l’Eurasia controlli il mondo’’, e gli Usa, dal dopoguerra fino ad ora, gestiscono la politica ed il fucile.
Davanti questa schizofrenia è importante rilevare due cose: (1) la teoria dei complotti è sempre appartenuta ai dominanti, ed a loro è servita per giustificare le loro folli politiche espansionistiche (Hitler riteneva che ci fosse un complotto giudaico massonico mondiale, e i neo-conservatori americani ritengono che ci sia un complotto islamico contro l’occidente); (2) di contro tutti coloro che dimostrano, fatti alla mano, le contraddizioni proprie delle versioni ufficiali vengono silenziati dai monopoli mass-mediatici.
Nei paragrafi successivi metterò a fuoco le principali strategie Usa finalizzate alla militarizzazione del mondo.

2.      Nel 1929 Trotsky delinea questo futuro per i maggiori Stati capitalistici nel mondo:

‘’ La fase attuale acquista di nuovo l'aspetto di una "collaborazione" militare tra l'America e l'Inghilterra e anche alcuni giornali francesi temono di veder sorgere una dittatura anglosassone. Evidentemente gli Stati Uniti possono sfruttare e sfrutteranno la "collaborazione" con l'Inghilterra per far marciare alla stessa briglia il Giappone e la Francia. Ma tutto ciò costituirebbe una tappa non verso una dominazione anglosassone, ma verso una dittatura americana destinata a pesare sul mondo, Gran Bretagna compresa’’ (Leon Trotsky, Il disarmo e gli Stati Uniti d’Europa, MIA)

L’analisi di Trotsky è di una lucidità straordinaria. Negli anni ’30 gli Usa strinsero forti rapporti con la Germania nazista (e le grandi multinazionali americane finanziarono anche l’Operazione Barbarossa contro l’Urss) con il comune obiettivo di controllare l’Eurasia.
Non è tutto: nel dopoguerra l’imperialismo americano non si limitò ad impiegare il meglio delle sue forze nella lotta contro l’Unione Sovietica ma spense anche le resistenze interne al campo imperialistico come, ad esempio, il gollismo francese.
L’imperialismo più forte domina imponendo il suo sistema economico e creando delle equipe di tecnici (giornalisti, magistrati, politici) al suo servizio. Come disse il grande teorico marxista Amadeo Bordiga: ‘’ Nell'ultimo colonialismo, i bianchi colonizzano i bianchi’’ (Amadeo Bordiga, Imprese economiche di Pantaleone, 1950).
La riflessione di Bordiga merita di essere approfondita, quindi mi muoverò su un duplice binario: (1) da una parte elencherò le principali strategie della CIA per spaccare il campo socialista; (2) dall’altra parte inquadrerò il progetto degli Usa di ridurre i principali Stati imperialistici europei a degli Stati vassalli.

3.      La lotta contro il comunismo inizia, per l’imperialismo americano, dalla manipolazione del consenso. Ecco le tappe più importanti:

(1)   Edward Bernays scrisse nel 1947 The Engineering of Consent – La costruzione del consenso. Bernays, che era un nipote di Freud, capisce che le masse per avere fiducia nei leader devono credere che tutto ciò che viene detto da questi sia vero.
In questa stessa linea si muovono gli scritti di Renè Girard sull’imitazione che la destra americana userà per acquistare il consenso necessario per la guerra – ad esempio – in Irak (dove attraverso i mass media fecero degli esperimenti di ‘’comportamentismo di massa’’).

(2)   Frances Stonor Saunders, Qui mène la danse ? La CIA et la Guerre froide culturelle – Chi conduce la danza? La CIA e la Guerra fredda culturale.
Gli strateghi del Pentagono si concentrano sui comunisti anti-stalinisti per il semplice motivo che gli oppositori di destra non avevano bisogno di essere indottrinati dalla propaganda anti-comunista.
L’obiettivo degli Usa era quello di dirigere il pensiero degli oppositori di sinistra allo stalinismo; di fare in modo che non diventasse troppo radicale e quindi di manipolarlo (The Vital Center : The Politics of Freedom di Arthur Schlesinger, 1949).
I dominanti sanno che gli intellettuali (inteso come ceto sociale, o meglio sotto-classe dominata della classe dominante) sono bramosi di gloria e potere quindi, anche inconsapevolmente, oscillano fra i due blocchi sociali antagonisti fino – il più delle volte – vendersi ai dominanti.

(3)  La CIA creò un Ufficio di Strategia Psicologica attraverso cui promuoveva nel mondo la cultura anti-comunista. Questo processo si accompagnava al riciclaggio dei tecnici che collaborarono con il regime nazista (Progetto Paperclip) e l’infiltrazione dei movimenti di estrema sinistra ed estrema destra (Operazione Chaos).
Nel 1954 nasce il Gruppo Bilderberg, quasi nello stesso anno in cui viene fondata la Lega Anti-comunista Mondiale, che doveva configurare, in fase embrionale, le basi per un Nuovo Ordine Mondiale.
La linea politica è chiara: chiunque non si allinea agli interessi dell’imperialismo Usa deve essere schiacciato militarmente e questo vale anche per dissidenze interne al campo atlantico come la Francia del generale De Gaulle.
Nel 1963 il generale Lyman L. Lemnitzer (definito dallo stesso Kennedy un anti-comunista isterico) è uno degli organizzatori del complotto walzer che avrebbe dovuto portare all’assassinio di De Gaulle per mano dell’OAS.
Nello stesso anno con l’Operazione Northwoods gli Usa avrebbero dovuto rovesciare il legittimo governo cubano di Fidel Castro.
In entrambi i casi ci fu l’opposizione decisiva di Kennedy che – nonostante fosse un prodotto della mafia italo-americana – aveva capito quanto folli fossero questi progetti.
4.    Il passaggio dall’amministrazione Carter a quella Reagan, negli Usa, deve essere considerata una svolta interessante.
Jane Kirkpatrick, nel 1978, scrisse un articolo, Dictatorships and Double Standards, polemizzando proprio con Brzezinski, in quel momento consigliere di Carter.
Secondo la Kirkpatrick, l’imperialismo americano, doveva sostenere feroci dittature militari in funzione anti-comunista, mentre Brzezinski voleva limitare l’azione Usa ad un cambio di regime pilotato dall’alto.
Questa polemica è interessante perché la Kirkpatrick, all’epoca, non faceva parte dei neo-conservatori ma aderì a questa corrente solo nel 1985. Quindi annoterei questi due punti importanti per inquadrare la questione: (1) la teoria dello scontro di civiltà e del totalitarismo è trasversale ed unisce sia la destra repubblicana (neo-conservatori ed anarco-capitalisti) e sia la ‘’sinistra’’ democratica (i liberal); (2) i massacri di Somoza, Videla, Pinochet (e moltissimi altri) non devono essere affrontati da un punto di vista strettamente umanitario (violazione dei diritti umani, ecc…). Si tratta in realtà di una vera e propria scelta strategica da parte degli Stati Uniti: l’imperialismo americano decide di procedere allo sterminio sistematico di chiunque si oppone al suo progetto di conquista del mondo.
In questo modo si ha una idea chiara di cosa sia l’impero americano che, in quanto a ferocia, possiamo dire che ha superato ampiamente il nazismo.

5.    Gli Usa hanno installato dalle 700 alle 800 basi militari in tutto il mondo.
La Rete mondiale No Bases presenta questo scenario:

- Basi operative situate nel nord America, in alcuni paesi latino-americani, in Europa Occidentale, nel Medio Oriente, in Asia centrale, in Indonesia, nelle Filippine ed in Giappone.
- Basi disattivate
- Nuovi basi selezionate
- Basi di spionaggio
- Basi di spionaggio satellitare
- Paesi con basi statunitensi
- Basi la cui acquisizione è in negoziazione
- I paesi senza basi americane (Fonte:
Global Research)



A conti fatti si tratta di una inedita forma di neo-colonialismo rivolto anche agli Stati Europei. L’Italia ha 114 basi NATO sul suo territorio nazionale, giusto per fare un drammatico esempio.
L’imperialismo Usa mira a sottomettere il mondo intero alla volontà delle sue oligarchie economico-finanziarie, ma questo progetto passa attraverso il controllo militare e – di conseguenza – politico degli Stati occidentali e del Terzo Mondo (commissariati a borghesie compradore).
Chiariti questi aspetti è opportuno che mi soffermi – seppur brevemente – sullo smantellamento del gollismo che è stato il più coerente tentativo (da parte delle borghesie imperialistiche europee) di contrapporre agli yankee un proprio imperialismo autonomo.

6.    In questo paragrafo inquadrerò il tema ‘’fine del gollismo’’ elencando le tappe salienti che hanno portato all’Eliseo Nicolas Sarcozy. Inutile, per ragioni di spazio, ritornare alla figura di De Gaulle che – come è chiaro – non si è dimostrato la pedina voluta dagli Usa (soprattutto dopo il golpe interno del 1958), quindi, dato che questo movimento politico ha avuto un lungo seguito, inquadrerò solo la sua fine (pianificata da forze esterne).
La CIA, prima della crisi irakena, pianificò l’ascesa di Sarcozy secondo queste tre tappe (ben spiegate da Thierry Meyssan): (1) controllo delle burocrazie golliste; (2) eliminazione del principale rivale di destra (di Sarcozy); (3) fare fuori ogni sfidante di sinistra per vincere con certezza le elezioni (e qui la CIA utilizzò i massoni lambertisti entrati nel Partito socialista).
Meyssan ci dà un breve elenco della equipe governativa poi formata da Sarcozy:


- Claude Guéant, segretario generale del palazzo dell’Eliseo. È l’ex braccio destro di Charles Pasqua. 
- François Pérol, segretario generale aggiunto dell’Eliseo. È un associato-gestore della Banca Rothschild.
- Jean-David Lévitte, consigliere diplomatico. Figlio dell’ex direttore dell’Agenzia ebraica. Ambasciatore di Francia all’ONU, era stato sollevato dall’incarico da Chirac che lo giudicava troppo vicino a George Bush.
- Alain Bauer, l’uomo-ombra. Il suo nome non compariva negli annuari. Incaricato dei servizi segreti. Ex Gran Maestro del Grande Oriente di Francia (la principale obbedienza massonica francese) ed ex n°2 della NSA, National Security Agency statunitense in Europa (Thierry Meyssan, Operazione Sarcozy, Rete Voltaire)

In questo modo gli interessi nazionali della Francia vennero vincolati al volere dei Rothschild, della mafia francese e delle oligarchie anglo-americane.

7.    L’azione degli Usa segue, in  modo prevalente, queste due ‘’varianti tattiche’’: (1) colpire i punti nevralgici dei blocchi egemonici antagonisti per indebolirli; (2) limitare la sovranità di uno Stato facendo leva su delle equipe di tecnici filo-americani.
Sul secondo punto sopra esposto mi sono già soffermato, quindi farò qualche esempio per chiarire il primo (colpire i punti nevralgici dei blocchi egemonici antagonisti, per indebolirli) che non è di minore importanza.

8.    Con i bombardamenti contro la Serbia, gli Usa hanno colpito la Comunità Europea in un punto sicuramente strategico: la Serbia era molto vicina politicamente alla Russia, ed aveva un sistema economico misto incompatibile con il neo-liberismo economico.
Le considerazione da fare, anche in questo caso, sono due:

(1)  Gli Usa hanno volutamente vincolato le popolazioni della ex Jugoslavia all’industria tedesca (la Germania è la maggiore potenza d’area europea) per impedire un suo avvicinamento (dei popoli della ex Jugoslavia, per l’appunto!) alla Russia. Quindi l’imperialismo americano ha spinto le oligarchie europee verso un maggiore euro-atlantismo ridando prova, oltretutto, della sua forza militare.
(2) I sistemi ad economia mista devono scomparire. Gli Stati Uniti vogliono distruggere il capitalismo renano ed imporre il modello economico neo-liberista. Secondo i tecnici dell’impero devono coesistere (e vedremo fino a che punto) solo due modelli capitalistici: quello neo-liberale Usa ed il capitalismo di stato cinese.

Ovviamente un marxista sa che è impossibile un ritorno al passato, quindi la crisi del capitalismo si supera solo con la lotta di classe ed il passaggio ad un modo di produzione superiore basato sulla socializzazione dei mezzi di produzione.
9.    A questo punto penso che il progetto Usa di militarizzazione del mondo sia chiaro, od almeno spero di averlo spiegato in modo eloquente.
Penso che il capitalismo occidentale presenti questi rapporti interni fra Stati imperialistici:

Principali potenze imperialistiche: Stati Uniti d’America, Israele.
Sub-imperialismi: Inghilterra, Germania e Turchia.
Stati vassalli: Francia, Spagna, Portogallo, Italia.

Dopo di che abbiamo una lunghissima serie di Stati satellite che si muovono, solo ed esclusivamente su mandato degli Usa.
Questa classificazione, comunque, è molto soggettiva e può essere sottoposta ad ampie discussioni.

10. Come se ne esce ? La domanda richiederebbe uno studio appropriato sul soggetto rivoluzionario cosa impossibile da fare in questa sede.
Vorrei però dare dei validi riferimenti teorici, quindi riporto due brevi estratti dagli scritti teorici di Ernesto Guevara, per poi argomentare:

La storia di questa situazione è ben nota a tutti: governi fantoccio, governi indeboliti da una lunga lotta di liberazione o dallo sviluppo delle leggi del mercato capitalistico hanno permesso la firma di accordi che minacciano la nostra stabilità interna e compromettono il nostro futuro. E’ ora di scuoterci il giogo di dosso, di imporre la ricontrattazione degli ingenti debiti esteri e di costringere gli imperialisti ad abbandonare le loro basi di aggressione. (Ernesto Guevara, Discorso al II seminario economico di solidarietà afroasiatica, Algeri 1965)

In un mondo polarizzato tra due forze di estrema disparità e con interessi assolutamente contrapposti, la presa del potere non si può limitare nel quadro di un’entità geografica o sociale. Essa è un obiettivo mondiale delle forze rivoluzionarie.
Conquistare l’avvenire è l’elemento strategico della rivoluzione, mentre congelare il presente è la contropartita strategica che muove, nel mondo attuale, le forze della reazione, dal momento che si trovano sulla difensiva. (Ernesto Guevara, Tattica e strategia della rivoluzione latino-americana, 1962)



Le forze della reazione imperialistica adesso non sono sulla difensiva ma stanno massacrando il proletariato occidentale ed i popoli coloniali (o post-coloniali), però, nonostante questo, le parole di Guevara restano attualissime.
Rivolgerei l’attenzione del lettore su questi tre punti:

(1)  Le borghesie nazionali (usando un termine antico che ora andrebbe aggiornato) non possono risolvere il problema dell’autonomia nazionale. Non è possibile nessun ritorno a quello che Marx chiamava la vecchia merda del regime precedente.
(2)  Il problema del debito pubblico deve essere ricollegato al folle progetto degli Usa e del sionismo di militarizzare il mondo. Quindi è necessario respingere i dettati della nuova global class e prendere di mira le postazioni strategiche dell’imperialismo: ad esempio rivendicare, anche con azione di forza mirate, lo smantellamento delle basi NATO sul territorio nazionale.
(3)  La lotta fra la nuova pauper class e il neo-imperialismo si svolge su un piano puramente internazionale. Quindi è necessario un coordinamento europeo dei movimenti anti-capitalistici che si formano su scala nazionale.
Questi sono i presupposti minimi per ricominciare a fare paura all’imperialismo creando, per dirla con Marx, il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Adesso, sia da un punto di vista analitico che di prassi politica, siamo appena agli inizi.

Altri testi consultati:

1)    Thierry Meyssan, L’incredibile mensogna, Ed. Fantango
2)    In difesa della Jugoslavia, Ed. Zambon
3)    Ernesto Guevara, Scritti scelti, Ed. Massari




lunedì 24 ottobre 2011

Brevi considerazioni dopo la morte di Muammar Gheddafi



  Costanzo Preve

Il coro mediatico di oscena gioia dopo la morte di Gheddafi (ucciso come un topo nascosto in una fogna, eccetera) deve essere per noi motivo di insegnamento. Fra pochi giorni il circo mediatico se ne dimenticherà, come è sua consolidata abitudine, ma è bene fissare subito sulla carta alcuni elementi di riflessione.

1. Prima di tutto, onore ad un leader politico che, al di là delle sue stranezze poco rilevanti, è caduto combattendo con onore contro l’aggressione colonialista ed imperialista e contro i suoi fantocci locali.

Il bilancio storico complessivo di Gheddafi è positivo, perché si iscrive nel ciclo di lotte nazionaliste panarabe, a fianco di personaggi altrettanto positivi come Nasser, ed aggiungerei anche Saddam, se non avesse intrapreso l’ingiustificato attacco all’Iran. Comunque, anche Saddam si è riscattato con la sua resistenza contro l’aggressione americana del 2003.

2. Deve essere chiaro che sono stati i criminali della NATO, e solo la NATO, ad uccidere Gheddafi, e non i miserabili straccioni tribali in festa, che hanno dato solo il colpo di grazia. E’ stata la NATO a bombardare la colonna militare di Gheddafi in uscita da Sirte, bloccarla e distruggerla. In caso contrario, gli straccioni miserabili non sarebbero riusciti a fare quello che hanno fatto, e cioè il vergognoso linciaggio. Questo è stato un salto di qualità storico ed epocale. La NATO è sempre stata una strumento dell’egemonia USA e dell’asservimento dell’Europa (non a caso il solo grande patriota europeo del dopoguerra, Charles De Gaulle, ne era uscito appena ha potuto), ma ora c’è stato un salto strategico. La NATO è direttamente uno strumento dell’egemonia mondiale USA contro la Russia in Europa Orientale e nel Caucaso, e contro la Cina in Asia Centrale ed in Africa.

3. Lo sporco lavoro non è finito. Non a caso il giornalista embedded dei servizi segreti americani Maurizio Molinari (cfr. “La Stampa”, 21 ottobre 2011) scrive “Prossima Tappa Damasco” in un editoriale del giornale a mezzadria fra sionismo, FIAT e nuova classe dirigente torinese (Novelli, Castellani, Chiamparino, Fassino). E veramente nel piano strategico americano i prossimi obbiettivi sono Damasco e Teheran (si veda l’incredibile provocazione del narcotrafficante iraniano in Texas). Questo dovrebbe far riflettere gli “anti-imperialisti” che hanno appoggiato i ribelli anti-Gheddafi ed appoggiano ora i ribelli anti-Assad, ed hanno sempre visto con favore i giovani “anti-Ahmadinejad” (che Allah lo protegga!) in Iran. Ma è impossibile far riflettere chi si muove in base a schemi astratti invecchiati o addirittura sulla base degli input del circo mediatico corrotto.

4 . Coloro che fanno l’apologia della “democrazia” dovrebbero ricordare che per mesi il governo libico di Gheddafi ha proposto elezioni libere in tutta la Libia sotto supervisione ONU o Unione Africana, con la proposte di mediazione dello stesso Sudafrica. Queste proposte sono sempre state respinte da USA e NATO, che ovviamente miravano ad una vittoria geopolitica globale, e non certo ad un “ristabilimento” delle procedure democratiche. Sono sicuro che questo sarà nel prossimo futuro uno degli elementi su cui si stenderà un velo di oblio.

5. La guerra civile in Libia è durata otto mesi, e l’intervento NATO sette mesi. Non si è mai trattato di una “sollevazione unanime” dell’intero popolo contro un dittatore. Si è trattato di un conflitto civile che Gheddafi avrebbe vinto in due mesi senza 1′intervento NATO. E’ passato il principio dell’intervento della Santa Alleanza del 1815 (Spagna 1820, Italia 1821, eccetera). Il circolo mediatico si è distinto per servilismo e corruzione. Elezioni sotto controllo internazionale, come quelle proposte dall’Unione Africana, avrebbero probabilmente portato ad una vittoria di Gheddafi, ed in ogni caso erano inservibili per una occupazione geopolitica USA-NATO della Libia.

6. L’Italia si è distinta per opportunismo, viltà e servilismo, in tutti i suoi schieramenti (destra, centro, sinistra). Il commissariamento geopolitico è passato soprattutto attraverso la persona di Giorgio Napolitano, che il popolo-babbione PD considera “garante della costituzione”. L’abolizione della categoria di imperialismo, sostituita da succedanei impotenti come il pacifismo generico e l’altermondialismo moralistico, e favorita dal mainstream culturale egemone a sinistra (“Manifesto”, Bertinotti, Vendola, Casarini, chiacchere sulle “moltitudini” negriane, eccetera) ha dato l’ultimo colpo di grazia ad una identità culturale già debolissima ed in via di accelerata corruzione.

7. Il mito di Obama si è rivelato essere appunto soltanto un mito per dominati politici, militari e culturali. La sua politica estera è persino riuscita a superare “da destra” quella di Bush. Il compromesso politico che ha portato alla sua elezione all’interno del partito democratico USA ha appaltato la politica estera al gruppo sionista-imperialista Clinton-Brzezinski , verificando così ampiamente le ipotesi di chi non ha mai avuto illusioni su di una “evoluzione” pacifica della politica americana. Gli USA sono un impero mondiale, e si muovono in base a pure considerazioni geopolitiche. Se ci fosse ancora un briciolo di onestà, si dovrebbe ammettere a proposito di Libia e Siria la vittoria tennistica di “Eurasia” e del blog di La Grassa-Petrosillo sulla cultura del “Manifesto”, dei trotzkisti, dei gruppi alla Pasquinelli e di tutta la banda colorata rosa, viola, a pois, eccetera.

8. La prima pagina della “Stampa” 21/10/2011 ci dà preziose indicazioni sul profilo culturale del nuovo colonialismo imperialistico. Un titolo dice: “Le tane dei dittatori”, e sotto scrive: “Rintanato come Saddam ed irriducibile come Hitler”. Come si vede, 1′ immaginario antifascista del 1945 si è riciclato al di fuori del contesto storico che lo aveva prodotto. Ormai, persino la menzogna dei “diritti umani” è sempre meno impiegata. Se si fosse prestato attenzione ai “diritti umani”, si sarebbe favorita una soluzione pacifica di compromesso con elezioni garantite dall’Unione Africana. Ma non la si è voluta, perché si è voluta la vittoria geopolitica completa.

9. Gheddafi, con tutti i suoi errori precedenti, è morto eroicamente come un grande combattente anti-imperialista. Egli deve essere onorato come onoriamo il Che Guevara, anche se non avrà la sua fortuna come icona pop nelle magliette. In questo modo andiamo contro-corrente nel senso comune di “sinistra”. Viviamo in tempi di paradossi surreali. Il 21/10/2011 i soli giornali che hanno condannato apertamente l’osceno spettacolo del massacro di Gheddafi sono stati il “Giornale” e “Libero”, cioè berlusconiani puri. Naturalmente, lo hanno fatto perché, del tutto interni al mondo dei cannibali imperialisti, sanno bene che si tratta di una vittoria delle ditte americane e francesi contro quelle italiane. E’ ovvio che il nostro punto di vista non può essere questo. Il problema è allora quello di maturare un vero punto di vista alternativo.

venerdì 21 ottobre 2011

Gheddafi, capo di Stato resistente




Siamo così giunti all’epilogo simbolico della più recente vergogna colonialistica targata occidente: la conquista armata della Libia camuffata dalle consuete scuse umanitarie. Il copione era scritto, i protagonisti noti ed è tanto lo sdegno e la vergogna di appartenere a questo angolo prepotente e nichilista di mondo, che quasi si fa fatica a commentare la morte di Muammar Gheddafi. Verrebbe infatti da starsene in silenzio e tacere decorosamente, perché i fatti, per chi li vuole comprendere, e la verità, per chi la vuole vedere, parlano da sé. Il silenzio, però, è assieme alla confusione, il migliore alleato della menzogna e della barbarie. Pertanto, è doveroso parlare, ricostruire il filo della verità, smascherare la menzogna ed esprimere sdegno. Sdegno e distanza dalla misera compiacenza degli agenti politici del capitalismo occidentale che agiscono per conto terzi e per conto terzi si addolorano, si compiacciono, parlano di diritti umani, democrazia e libertà e gioiscono per la morte di Gheddafi, per la morte cioé di uno dei tanti e fragili ostacoli posti al dominio assoluto (e grazie al cielo in via di lenta, ma inesorabile decadenza) dominio dell’occidente.

Muore Muammar Gheddafi trucidato dalle bombe Usa-Nato e poi finito dagli ascari in servizio (i cosiddetti ribelli). Muore nella città più fedele al governo, nella sua Sirte, ultimo baluardo della resistenza contro l’occupazione straniera. Muore da capo di Stato fiero che ha deciso di non lasciare la propria patria pur avendo avuto numerose occasioni per farlo uscendo silenziosamente di scena e lasciando che il proprio paese fosse spartito dagli avvoltoi.

Non ci interessa parlare di Gheddafi, della sua linea politica perseguita negli ultimi anni, delle sue storiche glorie di anticolonialista, delle sue politiche attive recenti per l’unità panafricana, per l’indipendenza del terzo mondo e per la sovranità del popolo libico e la sua relativa prosperità, nonché naturalmente dei suoi errori, dei suoi eccessi, delle sue recenti capitolazioni (parziali) all’imperialismo e al capitalismo. Non ci interessa parlarne adesso.

Farlo significherebbe cadere nel tranello imposto dalla dittatura dei diritti umani per cui i cattivi della favola meritano la morte e la distruzione del proprio paese (non importa se con lo sterminio di centinaia di migliaia di persone e l’abbattimento di una nazione, e non importa se con l’ausilio alternato di tagliagole fondamentalisti islamici o di giovani ribelli libertari).

Ci interessa parlare del Capo di Stato che muore resistendo fino all’ultimo all’invasore. Ci interessa puntualizzare per l’ennessima volta i ruoli. Chi è l’aggredito e chi l’aggressore. Chi è il resistente e chi l’impostore. Chi è il capo legittimo (che piaccia o no e indipendentemente dai suoi pregi e difetti) e chi il fantoccio manipolato e usato per conto terzi.

L’occidente capitalistico e imperialista mostra ogni giorno il proprio volto di giustiziere sterminatore, posto al di là della legge positiva e naturale. Un giustiziere travestito da buon padre di famiglia che dispensa buoni consigli e buone pratiche in giro per il mondo spiegando ai poveracci della terra come si conquista la civiltà liberal-capitalistica di mercato, come si annullano gli ostacoli per realizzarla, come si debbano annichilire le culture devianti, le politiche sovrane e il dominio della politica sull’economia. Che lo faccia con la carota o con il bastone il risultato non cambia ed è l’omologazione e la sottomissione del pianeta terra alla volontà di dominio della civiltà Euro-americana contemporanea (con all’interno i noti rapporti gerarchici tra gli stessi dominatori).

Alla Libia è toccato il bastone. Un bastone pesante costato la vita a migliaia di civili, costato la distruzione delle principali infrastrutture di un paese prospero e indipendente, costato la sovranità di un popolo non del tutto piegato alle direttive imperiali…e costato infine la morte fisica e simbolico del capo. Milosevic lasciato morire nelle carceri dei padroni del mondo; Saddam impiccato dal tribunale dei fantocci dell’impero; Gheddafi bombardato dal cielo e giustiziato da un manipolo di servi.

Come ha affermato il nostro goffo e squallido presidente del consiglio: “sic transit gloria mundi”. Sì, passerà come il vento, cancellata dall’inesorabile scorrere del tempo, la vanagloria meschina degli oppressori che ordinano di lanciare missili contro le città esotiche dei “barbari”. Ma il tempo non cancellerà, invece, il coraggio e le idee di chi alla vera barbarie resiste.

Maurizio Neri

domenica 16 ottobre 2011

Note su Rifondazione comunista



di Costanzo Preve



1. Quelle che seguono sono alcune note non sistematiche di commento al documento congressuale del prossimo congresso 2011 di Rifondazione Comunista. Sebbene abbia letto tre diversi documenti, commenterò solo quello maggioritario, che mi dicono alcuni "interni al giro" essere stato scritto dall'ex-cossuttiano Grassi e dall'ex-bertinottiano Ferrero. Se è così, si tratta di un miracolo della clonazione biologica, perchè ha permesso dopo la loro morte il matrimonio postumo fra Giuseppe Stalin e Rosa Luxemburg.



2. Ci si chiederà a quale titolo faccio questo commento, visto che non sono né un iscritto né un simpatizzante né tantomeno un potenziale votante di Rifondazione. Da almeno quindici anni non faccio neppure più parte dell’estrema sinistra né tantomeno del pittoresco e multicolore "popolo di sinistra". Direi che le ragioni possono essere compendiate in due principali. In primo luogo sono fra l'altro autore di una Storia Critica del Marxismo (Città del Sole, Napoli) che recentemente un autore come Samir Amin ha definito una "superba discussione dei marxismi storici" dopo aver letto la traduzione francese. Questo mi abilita a qualche commento sulla linea politica e culturale di un partito che si definisce pur sempre marxista e comunista. In secondo luogo, non ho bisogno di autodefinirmi, perchè mi definiscono i miei scritti editi ed inediti ed i miei comportamenti privati e pubblici, totalmente trasparenti ( il che non si può dire di tutti). Ma se proprio mi devo definire, mi definirei un comunista indipendente, o ancor meglio un allievo critico indipendente di Hegel e di Marx. Ho scritto di Hegel e di Marx, e non del solo Marx, perchè a mio avviso il pensiero di Marx è un episodio terminale e coerentizzato del grande idealismo classico tedesco, che si è mascherato da materialismo scientifico, troppo spesso di fatto un positivismo di estrema sinistra per classi subalterne ed intellettuali marginali e confusionari. Da circa cinquanta anni ho fondato un partito comunista nella mia coscienza di cui sono sempre rimasto l'unico iscritto, e di cui non ho mai cercato aderenti, o seguaci. Un tempo questo atteggiamento critico ed indipendente, il solo adatto ad un allievo critico di Marx, era diffamato e colpevolizzato come "individualismo piccolo-borghese", cui contrapporre un proletariato inesistente caratterizzato dall’obbedienza gregaria fatta passare per "vero spirito proletario". Ma oggi la piccola borghesia si è sciolta nella galassia dei ceti medi subalterni e chi colpevolizzava il pensiero critico si è riciclato a berciare dalle tribune elettorali del PD in appoggio ai bombardamenti USA e NATO ed ai provvedimenti finanziari di bilancio FMI e BCE. Sono allora queste le mie credenziali.



3. Il documento ammette (sia pure alla fine, dopo una generica pappa sulla attualità del comunismo e la non riformabilità del sistema capitalistico) che “la rifondazione comunista, a vent’anni dalla nostra nascita, non è stata risolta positivamente". A mio avviso non è stata mai neppure vagamente impostata, perchè non poteva farlo sulla base di una linea politica di truppe ausiliarie e subalterne caramellate del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD. In tutto il documento non sono mai neppure menzionati i nomi dei Gramsci e dei Togliatti di questo partito, e cioè Armando Cossutta e Fausto Bertinotti. Eppure costoro non sono nomi qualunque. Il primo ha simboleggiato la linea di "unità", e cioè di fiancheggiamento amministrativo del PCI-PDS-DS-PD ed il secondo una linea di rottura aperta, (tipo cultura del "Manifesto" Ingrao-Rossanda) con la tradizione di tutto il comunismo storico, e non solo dello stalinismo, che ha infine prodotto il poeta pugliese Vendola, che copre il fiancheggiamento cammellato del PD con una vuota ed insopportabile retorica.

Come è possibile fare un bilancio di vent’anni censurando proprio i vent'anni della propria esistenza?

4. Apro una parentesi da riconosciuto studioso di storia del marxismo e del comunismo. Il documento Grassi-Ferrero segue una gloriosa e secolare schizofrenia di documenti di questo tipo, che fanno coesistere affermazioni innocuamente estremistiche (attualità del comunismo, irriformabilità del capitalismo, eccetera) con conclusioni pratiche opportunistiche (le sole che contino praticamente) per farsi caricare a bordo da Vendola e Bersani e non toccare le ferree incompatibilità necessarie per farsi appunto caricare a bordo. La storia è vecchia di almeno un secolo, ed è proprio contro questa storia che si sono mossi più di un secolo fa sia il "partitista” Lenin sia la "movimentista" Rosa Luxemburg. A partire da Kautsky questi documenti identitari della "predica della domenica" (superamento comunista del capitalismo, dato sempre per moribondo) hanno fatto coesistere una "ortodossia dei fini" (il comunismo, appunto) con una tattica opportunistica della manovra elettorale. Questo da parte di persone che illudevano i loro militanti con la famosa marxiana "unità di teoria e di prassi". La storia dura da più di un secolo, e mi chiedo come si possa rifondare sulla schizofrenia. Bertinotti è già stato un maestro della rifondazione schizofrenica, massimalismo irresponsabile a parole e presidenza della Camera nei fatti.


5. La mano di Grassi si vede soprattutto in alcuni stilemi: per uscire dalla crisi, oppure uscita a sinistra dalla crisi. E' così che dicevano lutti i documenti PCI non ancora PDS-DS-PD. Iniziavano dalla situazione internazionale, poi dalle forze reazionarie italiane, poi "dal sovversivismo delle classi dominanti" (prima fasciste, poi democristiane, poi craxiane, poi berlusconiane, domani chissà), ed infine si usciva dalla crisi con il PCI candidato al governo. Ed io pensavo che le crisi fossero dovute a cicli della accumulazione capitalistica, e non al "malgoverno" di alcuni intercambiabili fantoccioni!



6. La storia d'Italia è riscritta ad uso e consumo del manipolatore politico di turno. Il craxismo è definito in termini di espressione della "controffensiva del capitale", confondendo l'effetto con la causa. La controffensiva del capitale, per usare questo termine improprio, è un fatto mondiale che parte intorno al 1978 in America, ed innesca una nuova fase dell'accumulazione capitalistica. Il cosiddetto "malgoverno" craxiano è dovuto al fatto che il PSI non disponeva di quelle due idrovore succhiatrici che erano l'industria di stato (per la DC) e le cooperative rosse (per il PCI, dopo 1a fine del finanziamento sovietico). Craxi dovette costruirsi una sua idrovora artigianale, attraverso le pittoresche "dazioni" alla Chiesa. Il documento, in modo onirico, afferma che "Berlinguer denuncia coraggiosamente la corruzione dilagante ponendo al paese la questione morale". Qui siamo lontanissimi dalla stessa critica marxiana delle ideologie. Berlinguer non poteva denunciare la questione morale perchè il suo stesso partito c'era dentro fino al collo. Sembra che Greganti e Penati vengano da Marte. La questione morale è stata storicamente una forma ideologica di "riciclaggio simbolico” dalla vecchia via italiana eurocomunista al socialismo, incompatibile con l'accettazione dell'ombrello della NATO, alla nuova "superiorità morale" dei comunisti. Un cambio di etichetta, o di brand per dirla in linguaggio USA-NATO.



7. Ogni tanto il documento ha degli sprazzi di inconsapevole e involontaria lucidità, quando afferma che è stato il PCI ( travestito da PDS, ma solo un ingenuo in male fede non vede il travestimento) a determinare la distruzione del sistema proporzionale che reggeva la rappresentanza nella Prima Repubblica (assai migliore della Seconda). Ma se è così, come si può fare un "fronte democratico" con una forza anti-democratica, che ha sostenuto il passaggio dalla democrazia rappresentativa alla governance post-democratica?

Misteri della logica che soltanto il desiderio di essere imbarcati da Vendola e Bersani possono spiegare. Ma il "rientro parlamentare" non può essere fatto passare per "rifondazione comunista", e questo non in nome di Marx, ma del vecchio comune senso del pudore.



8. Il berlusconismo è definito surrealmente come "un vero e proprio inveramento del craxismo". Ora, è vero che la storia non è una scienza esatta come la chimica o la fisica, ma ci sono limiti al delirio storiografico. Il berlusconismo è l'effetto non voluto di Mani Pulite, un colpo di stato giudiziario extraparlamentare che ha sostituito la obbligatorietà dell'azione penale alla rappresentanza “proporzionale”, pur corrotta, della prima repubblica. I giudici di Mani Pulite sono stati gli (involontari) sponsor di Berlusconi, che con il suo denaro ha recuperato l'immenso parco elettorale cui Mani Pulite aveva tolto la rappresentanza (DC e PSI, in primo luogo) . L'unica categoria politica che il documento sembra conoscere è quella del "populismo" . Si tratta proprio della categoria politica usata oggi nel mondo intero dalla classe politica della governance capitalistica. Incredibile che si usino a casaccio categorie politiche coniate per altri scopi. Ma che cosa aspettarsi da gente che aveva abolito la categoria di "imperialismo" e che non fa nessuna autocritica per questa incredibile bestialità del dilettante presenzialista Bertinotti?



9. Un' osservazione solo apparentemente marginale. Al tempo di Stalin per essere comunisti bisognava anche condividere l'ideologia del materialismo dialettico. Ora sembra che per essere comunisti si debba ad ogni costo condividere il femminismo. Ma il femminismo non si identifica affatto con i legittimi interessi collettivi del sesso femminile. I1 femminismo è una ideologia differenzialista di genere di origine universitaria americana, ed è americana come il Rock, il McDonald e Halloween. In quanto ideologia differenzialistica di genere ci sono uomini che la condividono per convinzione o opportunismo politicamente corretto (il sostituto post-moderno del materialismo dialettico) e ci sono donne che si guardano bene dal condividerla.



10. Si parla continuamente di contraddizioni fra il "popolo di sinistra" votante PD e la dirigenza politica del PD. E’ la vecchia solfa del Manifesto e di Lotta Continua, già falsa quando c'era il vecchio PCI. Ma oggi che c'è il nuovo serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD questo è puro delirio. In venti anni il vecchio popolo-PCI si è interamente riconvertito in una amorfa massa giustizialista anti-berlusconiana, che ha scaricato qualsiasi residuo anti-capitalistico, che certo resta ancora per fortuna latente in molta gente, ma non passerà certamente mai più per una "ricostruzione della sinistra" che conosciamo, ma che prenderà altre inedite strade, per il momento non prevedibili. Il PD è del tutto irriformabile, perchè è un partito di governance capitalista (FMI e BCE) ed imperialista (USA e NATO). Non a caso il documento finge che non ci sia un signore chiamato Giorgio Napolitano, che le masse PD applaudono come difensore della costituzione, e che ha addirittura premuto su Berlusconi per la guerra anti-costituzionale in Libia.



11. Già', la Libia. Da gente che ha appoggiato il dilettante Bertinotti che affermava che non esiste più 1'imperialismo non si possono certo aspettare analisi serie sulla Libia e sulla Siria. Bene, io le ho fatte. Discutibili, contestabili, ma le ho fatte. Personalmente, ho appoggiato interamente il governo di Gheddafi in Libia ed ora appoggio interamente il governo di Assad in Siria. Vergogna a chi non riesce neppure a capire che cosa sta capitando in questi paesi.



12. Il documento afferma solennemente che "l'Europa è il terreno sovranazionale indispensabile sul quale realizzare scelte di politica economica finanziaria e sociale alternative alle politiche liberiste". C 'è da trasecolare. In altri contesti il documento afferma il contrario, e cioè che l'Europa è stata proprio la sede principale dell’imposizione del liberismo in tutti i paesi europei. Ma a questo porta la frenesia di farsi prendere a tutti i costi a bordo da Vendola e da Bersani. Non sto sostenendo che sia già all'ordine del giorno l'uscita dall'euro e la ricontrattazione del debito. Ma almeno devono essere politicamente ipotizzate. Qui, invece, per essere presi a bordo da Vendola e Bersani non se ne parla neppure.



13. Il documento dimentica la cauta posizione di Togliatti verso la Chiesa cattolica e dichiara guerra al cattolicesimo italiano organizzato, legando insieme cattolicesimo, omofobia e patriarcato. E' esattamente la linea dei laici di "Repubblica" e della coppia sionista spiritata Bonino-Pannella. Qui di comunista non c'è proprio niente. I comunisti non dividono le masse fra laici e credenti, e non sposano ideologie che dividono il popolo su questioni di coscienza religiosa e filosofica.



14. Alla base di tutto, ovviamente, è la strategia del1'alleanza elettoralistica per cacciare Berlusconi, in un momento in cui Berlusconi sta già per essere cacciato dai gruppi dirigenti delle oligarchie capitalistiche italiane (Marcegaglia, Montezemolo, Draghi, Napolitano, eccetera). Ma per cacciare Berlusconi non c'è nessun bisogno di un corteo urlante di ausiliari cammellati. Bersani ha già la scelta di optare per Casini oppure per Vendola e Di Pietro, e lo farà non certamente perchè l'inesistente popolo PD preme, ma solo sulla base esclusiva della convenienza dei sondaggi elettorali. Far dipendere la rifondazione comunista in Italia dai voleri di Bersani e di Vendola è un fatto talmente vergognoso che lascia addirittura allibiti.

Rifondazione ha molto da farsi perdonare, in primo luogo l'espulsione del deputato Turigliatto per non aver votato i crediti di guerra e l'aver permesso al picconatore Bertinotti di distruggere per anni lo stesso partito in cui era stato chiamato come manager esterno cooptato dai due cinici politicanti Magri e Cossutta. Così com'è, non serve assolutamente a nulla, se non al suo ceto politico professionale. Se invece cambia linea di 180 gradi, magari potrà ancora servire a qualcosa. Ma non lo farà. Conosco troppo bene i miei polli.

mercoledì 7 settembre 2011

CONSIDERAZIONI SULLA GUERRA DI LIBIA
E SULLA COSIDDETTA “PRIMAVERA ARABA”




di Costanzo Preve

1. Ho recentemente aderito ad una manifestazione e ho firmato un appello per la richiesta di dimissioni di Napolitano, Berlusconi, La Russa e Frattini per violazione della Costituzione a causa del nostro intervento in Libia. So perfettamente che si tratta di un atto simbolico perfettamente inutile. Come ha scritto Brecht, “anche l’ira contro l’ingiustizia rende roca la voce”. Sarebbe facile insolentire l’unanimità guerresca che ha unito sinistra e destra, estrema sinistra ed estrema destra, ex comunisti ed ex fascisti (qui la coppia Napolitano/La Russa è assolutamente impagabile, per chi studiasse il cosiddetto “trasformismo” fuori dai libri di scuola). Cerco di non farmi sopraffare dall’indignazione e mi limito ad offrire qualche spunto per la riflessione.

2. Troppe cose non sono ancora note e si sapranno forse solo nei prossimi anni. Quanto è durata e quando è cominciata la preparazione dei servizi segreti francesi e inglesi in Cirenaica e nella zona berbera della Tripolitania? Quanto è contata la collaborazione fra la strega sionista Hillary Clinton ed il seppellitore del gaullismo Nicolas Sarkozy per spingere il (forse) riluttante Obama a dare il semaforo verde all’intervento armato? Come è stato possibile ingannare Russia e Cina all’ONU per dare via libera all’ipocrita no fly-zone, o quanto invece c’è stata sporca connivenza? Che nel caso ci fosse veramente stata, farebbe cadere tutte le speranze sul BRICS e sulla politica eurasiatista? Vorrei saperne di più, ed invece non lo so.

3. Dal momento che sono uno studioso esperto di storia della filosofia, non cesso di stupirmi per la facilità con cui la legittimazione della guerra è passata dalla dottrina della “guerra giusta” alla dottrina del cosiddetto “intervento umanitario”. Risparmio al lettore possibili dotte ricostruzioni di questa storia. Inizialmente, la guerra giusta era la guerra giustificata dalla necessità di esportare il cristianesimo, ed era pertanto una guerra di “crociata”. Poi la guerra giusta diventò la guerra in difesa della patria invasa (in latino pro aris et focis), ma è chiaro che in questo modo l’attacco preventivo può essere fatto ipocritamente passare per guerra di difesa.
L’apparente successo del pacifismo nell’ultimo cinquantennio non deve trarre in inganno. Esso è sempre stato una protesta contro lo “sterminismo nucleare”, per cui, se si poteva fare una guerra senza l’uso di bombe nucleari, la guerra era rilegittimata (Norberto Bobbio per Iraq 1991 e Jugoslavia 1999). I riti pecoreschi e ipocriti delle cosiddette Marce della Pace di Assisi sono sempre e solo stati cerimonie istituzionali, in cui al belare rituale si accompagnava sempre l’esecrazione per i dittatori e la possibilità di esportare i diritti umani.
Nella storia dell’umanità, è raro che si siano condotte guerre sulla base delle carte fornite dallo stato maggiore nemico. Invece gli ultimi trent’anni ci hanno fatto assistere a questo kafkiano paradosso. I pacifisti belavano richieste ritmate di sostituire alle armi i diritti umani, proprio quando gli stessi produttori di armi scrivevano sui loro missili “peace is our profession”, e i contingenti di invasori venivano ribattezzati “contingenti di pace”.
Tutto questo, ovviamente, è ampiamente noto. Bisogna però chiedersi, al di fuori di tutti gli identitarismi di partito o di schieramento, come sia stato possibile nell’arco di pochi decenni il passaggio della Grande Menzogna, dalla guerra giusta all’intervento umanitario, reso più facile anche dal passaggio dalla leva militare obbligatoria (che richiedeva motivazioni di manipolazione ideologica allargata) al mestiere di professionista delle armi (con donne comprese), che è compatibile con strategie ideologiche meno sofisticate (si pensi alla trasmissione di Sky-tv denominata Herat-Italia, senza dimenticare chi è Murdoch, il miliardario sionista padrone di Sky).

4. Secondo il modello mediatico pubblicitario americano, oggi le guerre vengono “vendute” alla cosiddetta “opinione pubblica” in forma personalizzata, attraverso la personalizzazione diabolica e demonizzante del “Sanguinario Dittatore”. Qui il copione si ripete. Nel 1999 il sanguinario dittatore era il serbo Milosevic (ribattezzato Hitlerovic in una oscena copertina de “l’Espresso”, la nave ammiraglia del gruppo Scalfari-De Benedetti), nel 2003 Saddam Hussein, ed ora nel 2011 il sanguinario dittatore è Gheddafi. Questo ritorno personalizzato del sanguinario dittatore deve far riflettere. Tutto questo è certamente legato al medium televisivo che richiede icone facilmente riconoscibili, ma non basta.
Il dittatore sanguinario è anche un’estrema metamorfosi degenerativa dell’immaginario antifascista della seconda guerra mondiale. L’immaginario antifascista partiva bensì dalla triade diabolica personalizzata dei tre grandi dittatori (nell’ordine di malvagità, Hitler, Mussolini e Franco), ma non si limitava certamente a quest’ultima, perché si aggiungeva il socialismo, il comunismo, la lotta al colonialismo, al razzismo, all’imperialismo, eccetera. Dopo la catastrofe del triennio 1989-1991 e la vittoria tennistica nei circoli universitari del paradigma del Totalitarismo di Hannah Arendt, tutti questi elementi sono stati spazzati via, ed è rimasto soltanto lo stereotipo del sanguinario dittatore, se possibile con le sue ville con i rubinetti d’oro e le vasche Jacuzzi rivestite di pelle umana.
Questo potrebbe in parte spiegare la totale resa della cultura di “sinistra” al modello del sanguinario dittatore. Perfino Samir Amin (Cfr. “il manifesto”, 31 agosto 2011), pur condannando l’intervento NATO e diagnosticando con precisione le ragioni “imperialistiche” della guerra di Libia, sente il bisogno di infierire sullo sconfitto qualificando Gheddafi come “buffone”. Sono contrario a infierire sul vinto, magari con motivazioni pseudo-marxiste. Non mi interessa correggere con la matita blu le ingenuità del Libro Verde o sanzionare gli indubbi elementi kitsch del suo comportamento. Gheddafi è stato ed è un grande patriota ed un combattente antimperialista, panarabo e panafricanista, mille volte superiore ai cani e ai porci che linciano i neri e che hanno vinto esclusivamente per i bombardamenti NATO.

5. La vergogna della cultura di sinistra a proposito della guerra di Libia è stata tale da essere quasi difficile da descrivere. Tutti si sono fatti babbionare dalla retorica sulla “primavera araba” sponsorizzata dall’emiro del Qatar e da Al Jazeera. Il fatto è che questa “cultura di sinistra” (esemplare è il giornale “il manifesto”, di cui “Liberazione” è soltanto una variante sindacalistica) è ormai soltanto una variante radicale dell’individualismo di sinistra post-sessantottino, indubbiamente post-borghese, ma anche e soprattutto ultra-capitalistica.
In questa vergogna si è particolarmente distinto il trotzkismo, in tutte le sue varianti, da Sinistra Critica al Partito Comunista dei Lavoratori (Ferrando) al Partito di Alternativa Comunista (Ricci). Tutti costoro hanno inneggiato alla stupenda rivolta delle masse libiche, che essendo però prive di un buon partito rivoluzionario trotzkista, hanno visto “scippata” la loro magnifica vittoria dall’intervento NATO.
Qui la coglionaggine dottrinaria ha celebrato in solitudine il suo massimo trionfo. I residui dogmatici del trotzkismo vogliono sempre una rivoluzione “pura”, anzi purissima, perché se non è pura è sempre bonapartista, burocratica, “campista” (Castro, Chavez, eccetera). Questi sventurati mi ricordano un frustrato che, non potendo sposare la donna più bella del mondo, la sola che avrebbe voluto sposare, si rinchiude in bagno a masturbarsi sognando questa Venere ideale. Miserabili! La NATO, i sionisti e gli USA massacrano un combattente antimperialista, e questi sciocchi inneggiano alla caduta del dittatore sanguinario!

6. Non ce l’ho assolutamente con Napolitano e gli ex PCI. Si sono riciclati bene, nel 1956 erano con l’URSS ed oggi nel 2011 sono con gli USA. Dal momento che non li ho mai stimati in precedenza, non mi hanno neppure deluso. I soli che hanno mantenuto un atteggiamento onesto sono stati i collaboratori de “l’Ernesto” (oggi Marx XXI), ma costoro sono gli stessi che per anti-berlusconismo vogliono allearsi con Bersani e Napolitano, cioè con i bombardatori della Libia. Lo spieghino ai loro militanti, e se riescono a farlo bisogna concludere che i loro militanti non sono militanti, ma militonti.
Il vero problema è quello di fare ipotesi sulle cosiddette “primavere arabe”. Come ha detto argutamente Zygmunt Bauman in una intervista a La Stampa, la cosa interessante sarà l’estate araba, perché la primavera è già passata. Per ora siamo nel campo delle ipotesi. Credo che in un certo senso il 2011 arabo sia, venti anni dopo, il corrispondente del 1991 sovietico. Il 1991 sovietico chiudeva il ciclo delle rivoluzioni comuniste novecentesche nel loro aspetto di rivoluzioni operaie e proletarie (burocraticamente degenerate o meno, questa è un’altra storia), attraverso una maestosa controrivoluzione restauratrice delle nuove classi medie cresciute all’interno dello stesso apparato formalmente “comunista”. Il 2011 arabo chiude il ciclo delle rivoluzioni nazionaliste arabe a partire dal 1945 (nasserismo egiziano, gheddafismo libico, baathismo iracheno e siriano, eccetera), in cui le nuove classi borghesi favorite dallo stesso dispotismo partitico-militare precedente si sono ora autonomizzate, e cercano un rapporto diretto e non militarmente mediato con la grande globalizzazione finanziaria capitalistica.
Mi sbaglio? Sono troppo pessimista? Il futuro ce lo dirà presto.

Torino, 3 settembre 2011

venerdì 15 luglio 2011

Dall’insurrezione all’anti-rivoluzione 
(libere riflessioni sulla “primavera araba” del 2011)



di Costanzo Preve

Ha scritto Romano Prodi (cfr. “La Stampa”, 18-4-11): “Io vedo nelle rivolte arabe lo scoppio di società fatte di giovani, disoccupati e colti incompatibili con governi tirannici”. Si tratta di un modello. neoliberale di spiegazione assolutamente maggioritario veicolato sia dai giornalisti che dai cosiddetti “esperti” di politica e geopolitica, in cui domina il modello della dicotomia Libertà/Dittatura. La tesi che vorrei proporre al lettore (ovviamente con mille cautele e dispostissimo a ritirarla se non dovesse reggere alle critiche serie) è che – se questo fosse vero ma non è detto che lo sia – non si tratterebbe tanto di rivoluzioni, e neppure di controrivoluzioni, ma di vere è proprie anti-rivoluzioni. Converrà però spiegarsi meglio, per non lasciare adito a pittoreschi equivoci.

Personalmente, tendo a definire i movimenti politici e sociali che hanno portato alla dissoluzione dei paesi socialisti europei e dell’URSS fra il 1988 ed il 1992 (simili in questo al mutamento strutturale della Cina dopo il 1976) delle vere e proprie contro-rivoluzioni nel senso classico della teoria politica moderna. So bene che esiste una resistenza, quando non una vera e propria riluttanza, nell’accettare questa connotazione, che non implica affatto (è bene ribadirlo subito contro ogni possibile pittoresco equivoco) un giudizio positivo di approvazione per lo stalinismo evoluto poi dopo il 1956 in “socialismo reale”.

Niente di tutto questo. Si tratta invece di una connotazione storico-politica relativamente “neutrale”, che si oppone educatamente ad altre connotazioni possibili. Esaminiamone quindi alcune in modo “contrastivo”.

In primo luogo, considero impropria per gli eventi del 1988-1992 la connotazione di “rivoluzioni liberali”. Questa connotazione indica un insieme di fenomeni. storici ben precisi, che hanno caratterizzato l’Ottocento europeo, in cui il liberalismo (unito o meno con il liberalismo economico, ma non coincidente con esso, secondo la lezione di Croce in polemica con Einaudi) si è contrapposto in modo rivoluzionario all’ancien régime ed al bonapartismo, in un’alleanza instabile con la democrazia (suffragio universale, eccetera), destinata a rompersi a fine Ottocento. Sono state queste, e solo queste, le “rivoluzioni liberali”. Il capitalismo selvaggio imposto sulle macerie del socialismo reale dopo il 1992 non ha mai avuto niente di “liberale’’, al di fuori dell’ideologia della Fondazione Soros, ed è un insulto retroattivo per i liberali dell’Ottocento usare per questi corrotti mafiosi questo nobile appellativo.

In secondo luogo, considero impropria per gli eventi del 1988-1992 (si tratta di un processo quinquennale e non solo di un “evento magico” tipo caduta del muro di Berlino) la connotazione di “restaurazione”, o per, così dire di restaurazione borghese-capitalistica. È assolutamente sicuro che il capitalismo è stato restaurato, ma non si è trattato di restaurazione di un capitalismo vetero-borghese (che avrebbe implicato la formazione organizzata di un polo opposto, popolare-proletario), ma di un capitalismo di tipo nuovo ed inedito, di un capitalismo selvaggio di tipo americano del tutto post-borghese (e quindi post-proletario). La riconversione di gran parte della struttura burocratico-partitica excomunista in nuova classe oligarchica selvaggia non ha infatti “restaurato” la precedente “borghesia” di tipo europeo, sostanzialmente distrutta nel ventennio 1920-1940 in URSS e nel ventennio 1945-1965 nell’Est europeo ed in Cina, ma ha “instaurato” una nuova classe dominante sostanzialmente criminale, e del tutto post-borghese. Si studino sociologicamente i comportamenti dei “nuovi russi” in vacanza a Rimini ed in Versilia, e quanto dico apparirà meno surrealistico.

La connotazione meno peggiore (in attesa di una connotazione migliore, che forse esiste già, ma di cui non sono a conoscenza) degli eventi 1988-1992 è quella di maestosa controrivoluzione sociale dei nuovi ceti medi sovietici (e cinesi), con la presa del potere finale di una nuova classe di capitalisti criminali del tutto post-borghesi. Esiste una riluttanza psicologica ad accettare questa connotazione, perché si pensa che per definizione una controrivoluzione debba essere un fatto elitario e minoritario, e non possa avere una base di massa. Si tratta di un vecchio pregiudizio di “sinistra”, che rende impossibile la comprensione di tutti gli eventi storici che non si conformino a pigri modelli consueti. In realtà sia le rivoluzioni che le controrivoluzioni possono entrambe avere consistenti basi di massa. Gli eventi che hanno portato al seppellimento del comunismo storico novecentesco in URSS, in Cina e nei paesi dell’Est europei sono stati indubbiamente controrivoluzionari, perché hanno distrutto le basi economiche e sociali delle precedenti rivoluzioni (oggi ribattezzate dagli intellettuali servi del circo accademico deliri totalitari), ma hanno avuto certamente basi di massa. Nell’assenza politica più totale e grottesca della classe operaia di fabbrica propriamente detta, e nella smentita del mito

sociologico proletario secolare, i nuovi ceti medi si sono messi in movimento dando vita ad una maestosa controrivoluzione.

È del tutto chiaro che questo approccio, giusto o sbagliato che sia, non può essere applicato alla cosiddetta “primavera araba” del 2011. Qui non c’era nessun capitalismo da “restaurare” o se vogliamo da “instaurare”, e neppure nessuna rivoluzione liberale da compiere perché la globalizzazione capitalistica e l’impero militare interventista USA hanno già da tempo distrutto e metabolizzato ogni forma di “liberalismo” precedente. Bisogna quindi andare in cerca – e non sarà facile – di un approccio diverso.

Scrivendo fra la fine di aprile e l’inizio di maggio 2011, e quindi in “tempo reale”, é difficile fare un bilancio serio e credibile di quello che le emittenti televisive CNN ed Al Jazira hanno battezzato “risveglio arabo” (arab awakening). Il pericolo di dire affrettate sciocchezze non può essere facilmente scongiurato. Dopo quattro mesi (gennaio-aprile 2011), e con mille cautele, mi sembra di poter dire che questo ciclo di insurrezioni non sta dando luogo in alcun modo (per ora, almeno) ad una prospettiva rivoluzionaria, termine che limiterei ferreamente e rigorosamente non certo ad una poco rilevante “circolazione delle élites”, quanto ad una modificazione radicale dei rapporti di classe e soprattutto ad una diversa e meno ingiusta e diseguale distribuzione della ricchezza. Queste insurrezioni (perché di insurrezioni certamente si è trattato, ed in Libia di una vera e propria guerra civile organizzata) danno purtroppo luogo non a rivoluzioni, ma a vere e proprie antirivoluzioni, tendenti ad impedire o a rendere più difficili se non impossibili eventuali vere rivoluzioni future. Chi trova eccessivo, ingiusto ed ingeneroso questo giudizio ha l’onere della spiegazione del perché queste insurrezioni sembrano tanto facilmente “recuperabili” dal modello oligarchico-occidentale di democrazia elettorale, dall’asfissiante retorica “arancione” dei blog e di twitter e soprattutto dal patronato della signora Hilary Clinton e del suo interventismo umanitario. E’ legittimo il sospetto che insurrezioni sponsorizzate da Cameron, Sarkozy, la NATO ed il Dipartimento di Stato non siano poi così “rivoluzionarie” come potevano sembrare. Per questo, trascurando casi interessanti ma marginali come lo Yemen o il Bahrein, mi limiterò prima ad alcune considerazioni sociologico-politiche generali, poi ad un rapido esame dedicato a quattro casi (Tunisia, Egitto, Libia e Siria), ed infine al bandolo della matassa geopolitica di tutto questo, che individuo in un saggio dell’apologeta dell’impero americano Parag Khanna, autore di un libro significativamente intitolato “come governare il mondo” (How to run the world).

Non c’è dubbio che l’intero mondo arabo nell’ultimo mezzo secolo sia stato caratterizzato non solo da una dinamica demografica imponente, tipica delle società tradizionali ad altissima natalità e non ancora colpite dal malthussianesimo

occidentalistico, ma anche da una intensa scolarizzazione giovanile di massa. La scolarizzazione giovanile di massa non connota soltanto modelli economici “sviluppisti” (il giovane arabo e turco studia da ingegnere in percentuale incomparabilmente superiore alla media dei suoi coetanei europei o americani) ma anche una fisiologica e benemerita

domanda di promozione sociale individuale. Le conseguenze però sono esattamente le stesse che ci sono da noi, ovviamente ingigantite e moltiplicate dal basso livello di sviluppo e del consumo interno: una gigantesca disoccupazione giovanile di massa. Da noi però ci sono i redditi dei genitori e dei nonni che attutiscono il disagio della disoccupazione giovanile e la relativa tenuta (per ora) del welfare, due elementi assenti nei paesi arabi (non parlo qui degli emirati petroliferi o dell’Arabia Saudita). Sono questi gli elementi esplosivi della società araba, e non certo generici “dittatori” (Ben Ali, Mubarak, Gheddafi, Assad„ eccetera), come sembra suggerire il pacioso ciclista emiliano Romano Prodi. Il fatto che il modello del capitalismo finanziario globalizzato costruito sulle macerie del comunismo storico novecentesco non produce occupazione, ma solo speculazione finanziarie. Non è certamente permettendo che la plebe tunisina possa ballare sui letti d’oro della moglie cleptocrate di Ben Alì che il problema strutturale può essere risolto. Ma questo ci porta alla necessità di fare almeno un tentativo di analisi differenziata paese per paese.

L’’insurrezione tunisina è stata una cosa seria, ed è costata centinaia di morti. Si è trattato di un’insurrezione popolare, al principio combattuta non solo dagli apparati di repressione, ma anche dai ceti medi della capitale Tunisi. Nonostante il circo mediatico abbia propalato l’idea che la sua “causa” debba essere cercata nelle ruberie cleptocratiche della famiglia mafiosa allargata di Ben Ali, tutti gli analisti seri sono stati concordi nel fare risalire le vere cause nelle misure economiche del Fondo Monetario Internazionale.

Questa insurrezione ha conseguito il risultato, che mi guardo bene dal disprezzare, di ottenere una ferma costituzionale di tipo democratico e liberale, in cui si possono e si potranno costituire partiti di ogni tipo, da quello islamico a quello trotzkista.

Ma questa forma liberal-democratica non può ovviamente risolvere nessuno dei problemi strutturali della società tunisina. La grande fuga in massa verso la Francia via Lampedusa lo dimostra ampiamente. I disoccupati sanno perfettamente che resteranno disoccupati, e che non saranno i processi al capro espiatorio Ben Alì ed alla sua famiglia mafiosa allargata a dare loro pane e lavoro. Bisogna allora studiare la situazione tunisina da vicino nei prossimi mesi ed anni, per poter verificare se le forme politiche liberal-democratiche possono facilitare una riaggregazione politica comunitaria del popolo tunisino che non si identifichi con l’Islam politico, tradizionalmente debole in Tunisia. Mi sia permesso educatamente di dubitarne, ma chi vivrà vedrà.

Secondo cifre ufficiali, la repressione del regime di Mubarak in Egitto ha fatto 846 morti. È una cifra imponente, tenuto conto del fatto che l’Egitto è un paese moderno, sviluppato e socialmente articolato. Dal momento che la mia conoscenza dell’Egitto passa anche attraverso i romanzi del Premio Nobel Naguib Mahfuz, ricordo i suoi personaggi che tornano a casa storpiati dalla polizia segreta sia nel caso in cui fossero comunisti sia nel caso che fossero islamisti. Qui il ciclista Romano Prodi ha ragione. Un simile sistema non può durare all’infinito in presenza di una società per nulla tribale (come in Libia o nello Yemen), ma colta ed articolata. E tuttavia in Egitto, così come in Tunisia, i problemi strutturali della povertà e della disoccupazione non possono essere risolti con le chiacchiere della signora Clinton.

I Fratelli Musulmani egiziani non sono certo simili ad Al Qaeda di Bin Laden, ma sono una sorta di Democrazia Cristiana seriamente assistenziale, e pertanto non assimilabili con il modello puramente volontaristico del “capitalismo compassionevole” USA, foglia di fico oscena per il rifiuto di finanziare un welfare state di tipo europeo. Non conosco El Baradei, ma il fuoco unanime di sbarramento contro di lui aperto congiuntamente dagli USA e dai vertici dell’esercito egiziano mi fa pensare che sarebbe la soluzione migliore per il popolo egiziano. Il popolo egiziano è un grande popolo, colto e civile, e non credo proprio che sarà facile nei prossimi mesi ed anni prenderlo in giro con riforme cosmetiche di facciata o con semplici processi contro la famiglia allargata di Mubarak. Staremo a vedere.

A proposito della Siria, non vorrei dare adito ad equivoci. Sono completamente a favore del mantenimento al potere del partito Baath, anche se ovviamente non entro nel merito sulle riforme politiche che dovrà fare. I suoi oppositori, fondamentalisti musulmani o blogger occidentalisti, non sono in alcun modo un’alternativa migliore, ma peggiore. Non a caso gli USA e Sarkozy li appoggiano, insieme con l’Arabia Saudita ed Al Jazira, mentre forze politiche serie di cui mi fido (il palestinese Hamas, il libanese Hezbollah, il benemerito governo iraniano di Ahmadinejad) appoggiano il governo del Baath. Non si può sapere tutto, ed essere esperti di tutto. Io non sono un arabista, ma uno storico ed un filosofo. Non credo a cause buone sostenute dai cattivi. Il futuro ci dirà di più.

Ma è della Libia che bisogna soprattutto parlare perchè la Libia è anche un nostro problema. Avevamo firmato un patto di amicizia con il governo libico di Gheddafi, e lo abbiamo vergognosamente stracciato, mostrando ancora una volta agli occhi del mondo la nostra patetica e vergognosa inaffidabilità.

Il giornalista italiano Fulvio Grimaldi, uomo dal cattivo carattere e dal lessico inutilmente provocatorio ed estremista, con cui ho avuto a suo tempo una pittoresca polemica, ha avuto il coraggio giornalistico, umano e civile, di andare in Libia e di raccontare gli eventi “dalla parte di Gheddafi”, a differenza dei cronisti arruolati (embedded), pronti subito a correre trafelati dagli insorti di Bengasi ed a paragonare Misurata a Serajevo, anticamera simbolica sicura per un interventismo ancora più “muscolare” dei bombardamenti NATO. Non posso che lodarlo incondizionatamente e solidarizzare con lui. Il corretto atteggiamento di Grimaldi si contrappone alla posizione dell’ex-comunista Giorgio Napolitano, passato dall’obbedienza geopolitica sovietica all’obbedienza geopolitica USA, e che ha addirittura “premuto” su Berlusconi, indebolito dai suoi senili scandali puttaneschi perchè intervenisse ancora più decisamente a fianco della NATO, che ha sostituito il vecchio “sol dell’avvenire”. E Grimaldi si contrappone anche alla posizione di confusionari estremisti, come il trotzkista Marco Ferrando o l’anti-imperialista Moreno Pasquinelli, che si sono arrampicati grottescamente sugli specchi per conciliare l’appoggio agli insorti libici, dichiarati a priori “rivoluzionari”, ed il fatto che questi ultimi invocano a gran voce i bombardamenti NATO ed USA. Per carità di patria non approfondisco l’osceno “‘tifare” per gli insorti libici del “Manifesto”, del “Punto Rosso”, della signora Rossanda, dei signori Dario Fo e Franca Rame, eccetera. Il problema è infatti ampio, e coincide con la decadenza irreversibile di una intera teoria politica, che ha sostituito la lotta di classe ed il mito sociologico proletario con l’antiberlusconismo giudiziario urlato e con la lotta contro gli eterni dittatori totalitari. Il fatto è che questa gente, pur essendo spiritualmente morti, non sono stati seppelliti, e possono fare come gli zombies, che escono di notte per terrorizzare i viventi. Costoro sono egemonici nell’apparato mediatico detto impropriamente di “sinistra”, ed in questo modo possono silenziare i loro oppositori e confinarli nella galassia sotterranea dei blog. Meno male, comunque, che questi blog esistono, ma non possono che essere una soluzione provvisoria. Prima o poi, bisognerà riuscire a passare ai quotidiani, ai settimanali, alle case editrici. Il vergognoso monopolio di fogli come il “Manifesto” dovrà essere infranto.

Non intendo certo fare qui l’apologia di Gheddafi. Il suo governo quarantennale, indubbiamente carismatico-paternalistitco-dispotico, ha avuto luci ed ombre, come del resto qualsiasi governo quarantennale. Ma ha sviluppato economicamente e socialmente la Libia, e non ha mai ceduto su questioni essenziali di sovranità nazionale. L’occidente ha sempre saputo che Gheddafi non era dei ‘“suoi”, ed infatti lo ha colpito alla prima occasione. Colgo l’occasione per affermare pubblicamente di solidarizzare totalmente con il legittimo governo di Gheddafi, del tutto indipendentemente da come finiranno le cose, che non posso certo prevedere. Ho appoggiato l’onesta proposta di mediazione del benemerito presidente venezuelano Chávez. Ho appoggiato l’onesta proposta di mediazione dell’Unità Africana, organo indubbiamente più legittimo della NATO e degli USA, cui l’Europa vile si è subito accodata. Ma chi vivrà vedrà.

Gli avvenimenti arabi devono però essere l’occasione per un inquadramento più generale nella situazione geopolitica mondiale. Il recante Forum svizzero di Davos (cfr. Federico Rampini in “Repubblica”, 27-1-11) ha verificato sulla base di corredi statistici amplissimi che “in ciascuna nazione del mondo si allarga il baratro fra ricchi e poveri”. È questa la logica inesorabile del neoliberismo, dal reaganismo americano al New Labour di Tony Blair al mercatismo di Deng Hsiao Ping e dei suoi successori. Il sistema politico ha il ruolo di avallare l’approfondimento di queste diseguaglianze. In termini di allargamento delle diseguaglianze, le società occidentali si sono omologate ad India, Cina e Indonesia.

Si tratta del fenomeno che l’economista francese di Bordeaux Bernard Conte ha definito “terzomondizzazione del pianeta”. È interessante che i paperoni oligarchi di Davos circondati da giornalisti servi e da professori universitari corrivi, constatino questi dati che un tempo erano appannaggio dei contestatori più estremisti, nel frattempo approdati al disincanto post-moderno, alla teologia dei diritti umani, ai bombardamenti umanitari ed al canto rituale di “Bella Ciao”.

Come governare un simile sistema irrazionale ed impazzito? Ma il semplice ricorso alla cosiddetta “esportazione del modello occidentalistico” non basta, e non coglie a mio avviso il cuore del problema. Il modello occidentalistico è basato sul privilegio, ed in quanto tale non è esportabile. Non c’’è abbastanza grasso che cola per tutti. Come abbiamo visto, la dinamica della globalizzazione capitalistica finanziaria non è tanto l’occidentalizzazione del mondo, quanto la terzomondizzazione del pianeta. Un mondo del genere può essere governato soltanto “organizzando il Caos”.

Ma come organizzare il Caos? Ce lo spiega il politologo americano Parag Khanna, recensito entusiasticamente dal giornalista neo-conservatore Maurizio Molinari (cfr. “La Stampa”, 27-3-11), in un suo libro intitolato “Come Governare il mondo” (How to run the world). Il mondo si governa organizzando sapientemente il caos, ed il caos si organizza trasformando gli attuali cento stati mondiali, usciti dalla storia degli ultimi tre secoli e dal colonialismo europeo dell’Ottocento, in duemila o tremila a base etnica e tribale. In effetti è l’Uovo di Colombo. Più sono deboli e numerosi gli stati, più gli USA potranno governarli meglio. Gli esempi che fa Khanna sono numerosi. La Libia dovrebbe essere divisa nelle tre precedenti provincie ottomane, la Tripolitania, la Cirenaica ed il Fezzan. L’Afganistan non è che un pezzo della vecchia Persia multietnica , e potrebbe essere diviso fra Pashtun, Tagiki ed Uzbeki. Il Sudan è già stato diviso fra Nord e Sud, ma si può fare ancora di più (Darfur, eccetera). L’Etiopia è già stata divisa fra Etiopia ed Eritrea, ma si può ancora fare di più (amarici ed oromo galla, eccetera). La Nigeria è divisibile fra un Sud cristiano ed un Nord musulmano, erede dell’impero Hausa. I’Irak è divisibile fra arabi e curdi, sunniti e sciiti. Ed in prospettiva, si possono dividere a pezzi ancora molti stati, la Cina (Tibet. e Sinkiang), la Birmania-Myanmar, eccetera.

Parag Khanna ha perfettamente ragione. Se fossi un ben pagato consulente del Dipartimento di Stato USA, scriverei esattamente le cose che scrive lui. Occorre organizzare il Caos, perchè solo organizzando il caos si può continuare a governare, soprattutto in assenza di un credibile modello politico universalistico e comunitario. Uomini come Khanna sono facilitati dal fatto che coloro che dovrebbero opporsi ai loro piani sono come gattini ciechi e come uccellini implumi, invischiati nelle ideologie impotenti del politicamente corretto e dell’interventismo umanitario. Con avversari come Dario Fo e Rossana Rossanda Khanna ha vinto prima ancora di sedersi al tavolo da gioco. Ci vuole infatti un pensiero che recuperi il concetto strategico di “nemico principale”, applicato alla politica, all’economia ed alla geopolitica. Ho scritto in proposito un testo, allegato al numero 2 della rivista torinese “Socialismo XXI”, una rivista che si situa apertamente al di là della dicotomia Destra/Sinistra. Ad esso rimando il rettore interessato. Certo, non si tratta di una chiave universale che apre tutte le porte, e che esenti dall’analisi concreta della situazione concreta. Ma si tratta di una proposta di orientamento di fondo. In caso contrario, continueremo a pasticciare nel fango di chi appoggia contemporaneamente i ribelli arabi ed i bombardamenti NATO, violando non solo il principio aristotelico di contraddizione, ma anche il buon vecchio e sempre vivo buon senso.