domenica 30 gennaio 2011

 E' attuale parlare di lotta di classe?





 Maurizio Neri

È ancora attuale parlare di lotta di classe? È ancora possibile declinare questo concetto senza sentirsi dei dinosauri storici? Questi interrogativi sono in questo quindicennio all'attenzione di molte riflessioni, proverò a dare qualche spunto di riflessione sull'argomento, seppur parziale.
Incominciamo dalla corrente di pensiero maggioritaria in Occidente che ha visto il passaggio di campo di moltissimi apologeti della lotta di classe, perlopiù intellettuali che negli anni Sessanta e Settanta si sperticavano in "osanna" verso gli operai e il proletariato, alla negazione più totale del fatto che oggi si possa in alcun modo fare riferimento a questo concetto.
Caduto il Muro di Berlino, finito il comunismo, fallito (per loro) il metodo marxista, costoro, in linea con la teoria della presunta fine della storia, non concepiscono in una società democratica e liberale avanzata che possa esistere una lotta tra interessi contrapposti di classe, ma che al massimo vi debba essere una politica redistributiva più equa ed a garanzia delle fasce più deboli della società.
La terziarizzazione dell'economia, il venir meno della centralità della classe operaia in quanto classe più rappresentativa, sia a livello numerico sia sul piano della combattività sociale, le teorie sul lavoro immateriale e le nuove figure flessibili nel lavoro sono, secondo costoro, la prova evidente ed inconfutabile di quanto affermano.
È curioso notare come molti di questi convertiti al liberalismo siano stati in realtà, almeno in Italia e in Francia, gli assertori del più convinto operaismo di 30 anni fa, ma questo non vuol dire molto perché si può e si deve poter cambiare idea nella vita.
L'importante è, però, non stravolgere i fatti. Come questi seppellitori della lotta di classe ne profetizzavano scioccamente negli anni Sessanta e Settanta l'inevitabile affermazione, prendendo come riferimento la centralità della classe operaia, come paradigma di riferimento epocale, così oggi eccedono nella visione opposta, cioè liquidando la questione una volta per tutte. Cambiano idea, ma non l'infantile estremismo intellettuale, a quanto pare.
Come in uno specchio rovesciato, abbiamo anche gli identitari, molto meno numerosi, in realtà, che continuano pedissequamente a riproporre la classe operaia come classe capace di trasformare i rapporti di forza nello scontro Capitale/Lavoro, senza indietreggiare di un centimetro e riproponendo analisi del tutto datate e con esiti fallimentari, scontati sul piano politico.
Quello che manca oggi, credo, è un'onesta disamina, senza paraocchi ideologici, della classe operaia e del proletariato in generale, del suo peso sociale e politico, della lotta di classe nella nostra epoca attuale e dei suoi possibili sbocchi futuri.
Ora, se è attendibile affermare che la forza contrattuale della classe operaia in quanto tale, costituita dalla massa di lavoratori, è oggi del tutto imparagonabile a quella degli anni Settanta (cosa ovvia e scontata), non si riesce a capire come si possa partire da questa constatazione e ricavare l'ulteriore passaggio logico della fine di questa classe né, tantomeno, dell'assoluta fine della lotta di classe in generale.
Un primo dato ci dice che gli operai, dopo un ventennio di ristrutturazioni e riorganizzazioni avvenute nell'ambito della grande industria e che ha visto una sensibile diminuzione della manodopera nelle grandi fabbriche, sono tornati a crescere numericamente, sia per l'ingresso di numerosi lavoratori interinali sia per l'afflusso di immigrati che, ad esempio, nel Nord-Est sono ormai una percentuale non marginale della forza lavoro di fabbrica. Un secondo dato ci dice che il malcontento e la rabbia per la diminuzione costante delle condizioni salariali e di aspettativa per il futuro sono in aumento tra gli operai, come ha ben descritto anche la puntata televisiva della trasmissione di Michele Santoro "Anno Zero", dedicata a questo argomento (www.annozero.rai.it).
Un'altra considerazione è che la classe operaia non si percepisce più come tale ed è incapace di progettare un'alternativa alle politiche sindacali di questi ultimi anni che hanno sicuramente intaccato le condizioni di vita dei lavoratori, in nome delle solite emergenze economiche e di sistema.
Ma l’errore di fondo compiuto dai denigratori della lotta di classe e dagli apologeti fuori tempo massimo, dicevamo, è il medesimo: sovrapporre ed identificare nella sola classe operaia la classe motrice della lotta; quindi, finita l'una deve finire anche l'altra. Non è mai stato così, nella realtà. L'aver fatto coincidere classe operaia e la lotta tra dominati e dominanti è stato un errore allora e lo è ancora di più oggi se si vuole usare questa sovrapposizione per buttare il bambino con l'acqua sporca. L'operaismo italiano ed europeo è il grande responsabile di questo gigantesco equivoco che perdura ancor oggi e che consente ai teorici del liberalismo economico e sociale di cantare vittoria e di liquidare ogni possibilità di lotta di classe.
Quindi il problema, oggi come ieri, è definire la classe dominata, alla luce dei mutamenti intercorsi in questi ultimi 30 anni e capire che le nuove forme di lavoro, l'impoverimento del ceto medio, o la sua proletarizzazione, la concentrazione del potere economico e della ricchezza in fasce sempre più ristrette della popolazione, non fanno che aumentare anziché diminuire l'importanza degli interessi contrapposti. Certo, ci si obietterà che non c'è assolutamente nessuna coscienza di classe in questo nuovo agglomerato sociale (è vero!), che non c'è nessuna autocoscienza di sé in quanto soggetto sociale (è verissimo...), che la disgregazione atomistica imposta dal consumismo e dall'edonismo hanno distrutto ogni vincolo solidaristico tra chi è nelle stesse condizioni di dominato (è altrettanto vero!!!). Ma ci chiediamo se questo basti ad eliminare del tutto la lotta tra dominati e dominanti, quando le ragioni di questa lotta sono sempre più evidenti ogni giorno che passa. Ci chiediamo anche se si sia dato troppo credito e ascolto a chi ha voluto fortemente liquidare insieme al socialismo reale anche le ragioni degli oppressi, come se le due cose non fossero attualmente diverse e non necessariamente correlate. Noi pensiamo che non si possa né si debba concedere questo favore a chi detiene culturalmente, politicamente e socialmente le leve del comando e che sia ora di ricominciare a riflettere nuovamente su questi temi, ma con strumenti culturali nuovi e linguaggi adeguati ai tempi, evitando, ben inteso, ogni superficiale analisi autoconsolatoria. Ed è per questo che da tempo stiamo tentando di rielaborare il concetto di proletariato, che tenga conto delle trasformazioni avvenute negli ultimi 30 anni e che ruoti attorno al perno delle Comunità proletarie (come punto di riferimento) e di Resistenza all'omologazione culturale e politica che, in nome dell'americanismo imperante, cerca di annacquare le differenze nel calderone della classe unica e indistinta. Conosciamo bene le difficoltà di un discorso del genere, che deve procedere, secondo noi, da una riappropriazione identitaria della classe, di un suo stile, di una sua coscienza, di una sua cultura e di una sua dimensione storico-politica che oggi non ha, frammentata, atomizzata e dispersa com'è. Nelle Comunità proletarie resistenti cosi come le immaginiamo, entrano il nuovo ceto medio impoverito e privo di riferimenti per il futuro, i precari e i disoccupati, così come le categorie tradizionali di riferimento, che insieme devono trovare l'amalgama di una nuova sintesi politica che ne raccolga le aspirazioni. Ma non si può esaurire il discorso senza parlare di liberazione nazionalitaria connessa alle esigenze di liberazione sociale del proletariato in un'epoca in cui le due questioni ancora una volta si intrecciano in modo simbiotico, senza fare riferimento anche all'importanza di contrapporre alla religione del profitto della classe dominante nazionale ed internazionale una nuova idea-forza che sia insieme un messaggio di riscatto sociale, nazionalitaria, antimperialista, anticapitalista, comunitaria e innervata da una forte tensione etica e spirituale, comunista.

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