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martedì 27 dicembre 2011

LA DEMENZA GENERALIZZATA DEL POPOLO ITALIANO

Un enigma storico da decifrare



di Costanzo Preve






1. Nell’editoriale della rivista Italicum, dicembre 2011, Luigi Tedeschi fa un primo completo bilancio dei provvedimenti della giunta Monti, e ne rintraccia anche correttamente la genesi economica, storica e politica. Alla fine di queste analisi Tedeschi osserva che tutti i partiti, di destra e di sinistra, “volevano che Monti attuasse quelle manovre impopolari che essi non erano in grado di condurre in porto per motivi elettorali”. Mi sembra evidente. E ancora: “Potrebbero un domani tentare di svincolarsi dalle loro responsabilità addossando a Monti la colpa per misure impopolari approvate, contando sulla demenza generalizzata del popolo italiano, che darebbe loro nuovo consenso, non essendoci alternative”.


A livello di filosofia politica, ci si potrebbe chiedere se il popolo in quanto tale è demente (spiegazione nicciana e delle teorie delle élites) oppure se lo è soltanto quando è ridotto a corpo elettorale (spiegazione che risale a Rousseau e ai teorici della democrazia diretta, fra cui anche Lenin).






2. Quindici anni fa scrissi un manifesto filosofico insieme a Massimo Bontempelli, mancato in questo stesso anno 2011 (cfr. Bontempelli-Preve, Nichilismo Verità Storia, CRT, Pistoia 1997). In un capitolo sulla menzogna del linguaggio economico (pp. 23-24), Bontempelli faceva risalire alla generalizzazione della forma di merce la scomparsa della verità delle relazioni sociali. Diagnosi a mio avviso esattissima. E poi elencava una serie incredibile di menzogne del linguaggio economico. Fra di esse si notava che “alcuni decenni orsono, quando la tecnologia e la produzione di merci erano meno sviluppate di oggi, non c’erano difficoltà a finanziare le pensioni e l’assistenza sanitaria dei lavoratori, mentre oggi, dopo tanto sviluppo, gli economisti ci dicono che il sistema economico non può sopportare questo finanziamento”.


Sembrano righe scritte nel dicembre 2011, e invece risalgono ai primi mesi del 1997. Partiamo quindi da questo rilievo.






3. Come tutti gli studiosi di storia e di filosofia, sono attirato dai due estremi complementari della coscienza sociale, la genialità e l’idiozia. E tuttavia l’idiozia è sempre più interessante, anche perché è più divertente. I mezzi di comunicazione di massa ci offrono ogni giorno quantità industriali di idiozia, e con l’arrivo della televisione e dei giornali non c’è neppure bisogno di mescolarsi agli idioti, perché l’idiozia ci viene portata a domicilio in modo semigratuito.


Mi ha colpito una manifestazione di “donne” (una delle maggiori idiozie del nostro tempo è la separazione femminista di donne e di uomini, dopo che c’è voluta tanta fatica per promuoverne la giusta e sacrosanta eguaglianza), in cui una nota regista concionava sostenendo che il nuovo governo Monti almeno “rispettava le donne”, mentre il precedente puttaniere evidentemente non lo faceva. Ora, il precedente puttaniere non era riuscito ad aumentare in un colpo solo l’età pensionabile, mentre Monti, l’uomo che rispetta le donne, lo ha fatto.


Siamo quindi di fronte ad un esempio quasi da manuale di demenza generalizzata. La sua genesi deve essere ancora indagata. A un livello superficiale, per sua natura insoddisfacente, ci si può riferire alla necessità del PD di babbionizzare il suo elettorato, oppure alle conseguenze di vent’anni di antiberlusconismo di “Repubblica”, rinforzato da dosi massicce di Floris e Gad Lerner. E’ senz’altro così. Nello stesso tempo, fermarsi a questo livello è assolutamente insoddisfacente.






4. Partiamo da un dato apparentemente secondario. Scrive il giornalista Stefano Lepri (cfr. “La Stampa”, 14 dicembre 2011): “Colpisce nel Paese, almeno a giudicare dai sondaggi, il contrasto fra gli elevati consensi di cui gode uil governo Monti e il diffuso rigetto della sua manovra di austerità. Non sembra esistere nessuna forza capace di convincere i cittadini che quello che gli viene richiesto è uno sforzo solidale”.


Partiamo da questa apparente schizofrenia. Elogi a Monti e al suo burattinaio politico Napolitano, ex comunista riciclato in uomo della NATO e degli USA in Italia, e considerato dalla massa babbiona PD il grande garante e difensore della Costituzione. E nello stesso tempo brontolio contro la manovra sul fatto che “pagano sempre i soliti noti”, “la casta non è abbastanza colpita”, eccetera. Spiegare questa schizofrenia è relativamente facile, ma richiede ugualmente uno sforzo culturale. Facciamolo, tenendo conto che mi limiterò all’Italia, e solo all’Italia, perché altrove i dati culturali egemonici possono essere e sono diversi.






5. Quando al tempo di Pio XII la chiesa cattolica “scomunicò i comunisti” siamo stati in presenza di un episodio, forse l’ultimo, di una strategia controriformistica. La chiesa non aveva mai avuto paura di quella forma di paganesimo estetizzante che era stato un certo Rinascimento, ma aveva avuto veramente paura di una possibile riforma protestante in Italia. La riforma protestante, infatti, non parlava soltanto ai dotti e agli intellettuali del tempo, ma al popolo. Nello stesso modo la chiesa cattolica, pur avendo messo debitamente all’indice le opere filosofiche di Croce e di Gentile, nonostante il loro continuo proclamarsi di “non potersi non dirsi cristiani”, non aveva mai avuto molta paura né della variante liberale del laicismo, né di quella azionista. Sia il liberalismo che l’azionismo erano infatti palesemente fenomeni ristretti di certi intellettuali. Ma con l’arrivo del “comunismo” in Italia (arrivo non precedente la guerra civile 1943-45, almeno nella sua dimensione di massa) le cose cambiavano. Il comunismo italiano, nella versione togliattiano-gramsciana, sfidava invece la chiesa cattolica sul suo stesso terreno, che era l’egemonia culturale sulle classi popolari.


Il segretario di sezione comunista iniziava sempre la sua relazione dalla cosiddetta “situazione internazionale”. Si trattava spesso di una raffigurazione assolutamente mitico-fantasmatica della realtà sociale, basata sulla metafisica storicistica del progresso, su di una immagine antropomorfica del capitalismo come società dei privilegi di mangioni e “forchettoni”, sull’elaborazione dell’invidia sociale dei subalterni, sul presupposto della supposta incapacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, e su altre sciocchezze positivistiche di questo tipo fatte indebitamente risalire a Marx, eccetera. Sarebbe estremamente facile correggere con una matita rossa e blu le ingenuità populistiche di questo messaggio. Sta di fatto che questo messaggio dava pur sempre della realtà un’immagine razionale e coerente, in grado di spiegare con un certo grado di semplificata approssimazione la storia contemporanea, anzi “il presente come storia” per usare una bella espressione di Paul Sweezy.






6. Tutto questo venne progressivamente meno in Italia nel ventennio 1968-1988. Non intendo scendere in una periodizzazione più precisa e analitica perché mi interessa connotare un processo nella sua interezza temporale evolutiva. In questo ventennio le classi popolari italiane restarono semplicemente senza gruppi intellettuali nel senso egemonico gramsciano del termine, e restarono così politicamente mute. Le facili accuse di populismo, leghismo, razzismo, eccetera, con cui vengono ingiuriate da circa un ventennio, nascondono un maestoso processo di spossessamento e di deprivazione culturale complessiva.


In termini sintetici, il comunismo italiano fra il 1968 e il 1988 si è trasformato culturalmente in una sorta di “azionismo di massa”, ma trasformandosi in azionismo di massa non poteva che cambiare radicalmente codice comunicativo ed egemonico. L’azionismo di massa, combinato con il sessantottismo dei costumi di cui il femminismo è certamente stato una componente particolarmente degenerativa in senso sociale, ha infine preparato il clima dell’ultimo ventennio, un occidentalismo di massa esplicito (antiberlusconismo moralistico ed estetico, diritti umani a bombardamento imperialistico legittimato, eccetera). Una tragedia, e soprattutto una tragedia rimasta in larga parte incomprensibile alle sue stesse vittime, oggetto di una babbionizzazione pianificata dall’alto cui era praticamente impossibile resistere.






7. Possiamo sommariamente connotare la cultura popolare promossa dal PCI, e subordinatamente anche dal PSI, fra il 1948 e il 1968 come una forma di populismo di massa. Del resto, questo era chiaro a tutti gli studiosi del tempo, basti pensare all’Asor Rosa di Scrittori e Popolo. Soltanto negli ultimi vent’anni il “populismo” è diventato un insulto applicato non solo a Berlusconi, ma anche a Chavez. Ma non si tratta che di un mascheramento linguistico del ceto intellettuale integrato e politicamente corretto, e anzi integrato perché politicamente corretto, o se si vuole politicamente corretto perché integrato.


Al ventennio del populismo di massa 1948-1968, seguì il ventennio dell’0azionismo di massa 1968-1988. Non a caso, Norberto Bobbio diventò il principale autore di riferimento dell’ex PCI spodestando completamente Gramsci, diventato autore di cult per i cultural studies delle università anglosassoni. Per comprendere il passaggio dal populismo di massa all’azionismo di massa è utile “rinfrescare” la nostra conoscenza delle fasi di sviluppo del capitalismo.






8. Il principale errore della metafisica di “sinistra” consiste nell’identificazione del capitalismo con la borghesia. In termini spinoziani, questo dà luogo a una antropomorfizzazione del capitalismo, cui sono attribuite di volta in volta caratteristiche antropomorfiche, come la conservazione o il progressismo. In termini hegeliani, questo dà luogo a una esaltazione di tipo weberiano del razionalismo astratto, per cui la razionalizzazione progressiva delle sfere sociali e il loro adattamento al consumo delle merci viene chiamato “modernizzazione”. In termini marxiani, questo significa scambiare la falsa coscienza necessaria dei gruppi intellettuali “modernizzatori” per il fronte scientifico avanzato della coscienza sociale, cui sottomettere con l’educazione i plebei invidiosi rimasti invischiati nel razzismo, nel populismo e nel leghismo.


Secondo la corretta analisi dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, la “sinistra” che conosciamo si è costituita in un ben preciso periodo e in una ormai sorpassata fase dello sviluppo capitalistico. Si è costituita fra il 1870 e il 1968 circa, sulla base di un’alleanza fra la critica sociale alle ingiustizie distributive del capitalismo di cui erano titolari le classi popolari, operaie, salariate e proletarie, e una critica artistico-culturale all’ipocrisia conservatrice della borghesia di cui erano titolari i cosiddetti “intellettuali d’avanguardia”. Questo schema corrisponde abbastanza bene, per quanto concerne l’Italia, al ventennio 1948-1968 e trova ad esempio in Pier Paolo Pasolini un rappresentante significativo.


Con il Sessantotto, una delle date più controrivoluzionarie della storia mondiale comparata, questa alleanza viene meno perché è il capitalismo stesso a liberalizzare i costumi sociali e sessuali in direzione non solo post-borghese , ma addirittura anti-borghese (e ancora una volta il femminismo dei ceti ricchi è solo la punta dell’iceberg).


L’azionismo di massa del ventennio 1968-1988 progressivamente dominante in Italia non è altro che la versione italiana di un fenomeno europeo e mondiale, ma soprattutto europeo, perché Cina, India, Brasile, eccetera, continuano a essere Stati sovrani e non occupati da basi militari USA dotate di armamenti atomici.


Un popolo privato di ogni profilo culturale autonomo è quindi preda di un processo che si può definire sommariamente come “sindrome di demenza generalizzata”. Mi spiace che possa sembrare sprezzante ed offensivo, ma non riesco a trovare altro termine per connotare la perdita totale di un “centro di gravità permanente”, per rifarci all’espressione di un noto compositore.






9. La sindrome di demenza generalizzata insorge quando vengono meno tutti gli schemi dialettici di interpretazione sociale e riguarda tutti, ma assolutamente tutti gli ambiti sociali, in alto e in basso, a destra e a sinistra, anche se ovviamente in forme diverse.


A “destra” la sindrome di demenza generalizzata assume le consuete forme paranoiche. Las paranoia è infatti una malattia soprattutto di “destra”, mentre la schizofrenia è invece una malattia soprattutto di “sinistra”. Prestiamo attenzione a fenomeni degenerativi come il pogrom di gruppi di plebei torinesi delle Vallette (non uso infatti mai la nobile parola di “popolo” per plebi decerebrate e imbarbarite) contro un insediamento di nomadi, o addirittura l’uccisione a freddo di due senegalesi a Firenze da parte di un allucinato paranoico. E’ assolutamente evidente che fatti come questi non devono essere giustificati in alcun modo con contorti argomenti sociologici da bar. E tuttavia essi sono soltanto la punte dell’iceberg di una perdita totale di comprensione del mondo, cui si supplisce con la scorciatoia della paranoia. Naturalmente il concerto politicamente corretto non è in grado di spiegare questi fenomeni di alienazione paranoica, perché si culla con i rassicuranti stereotipi del fascismo, nazismo, populismo, leghismo, revisionismo, negazionismo, eccetera. Ma la cura di queste sindromi di demenza generalizzata non può consistere in geremiadi moralistiche.


Ho già notato come la sindrome di demenza assuma a “sinistra” aspetti più simpatici e politicamente corretti perché solo schizofrenici e non paranoici (Monti è buono, ma la manovra è cattiva; Monti è buono perché rispetta le donne a differenza del laido puttaniere, eccetera). Certo, le scemenze non violente sono pur sempre meglio delle scemenze violente, ma scemenze restano e resta il problema della opacità sociale, cioè di un sistema di cui si è completamente perduta la chiave d’interpretazione. Ma non c’è nessuna chiave, dicono gli intellettuali pagliacci di regime alla Umberto Eco, e bisogna abituarsi a vivere gaiamente senza più nessuna chiave. Ma le grandi masse popolari, appunto, non possono vivere a lungo senza alcuna chiave interpretativa della riproduzione sociale, pena la caduta in sindromi di demenza generalizzata. E di questa bisogna quindi parlare.






10. Vi è un interessante passo, credo di John Reed, che può aiutarci a impostare la questione della demenza sociale generalizzata. Reed parla con un “soldato rosso” dopo il 1917 che gli dice: “I bolscevichi sono buoni perché ci hanno dato la terra. Sono invece i cattivi comunisti che ce la vogliono togliere”. Ora, è inutile assumere la spocchia della persona colta che sa che bolscevichi e comunisti sono in realtà le stesse persone. Ciò che invece conta è il modo in cui erano percepite da chi aveva tutto il diritto di non conoscere le teorie di Marx e del conflitto fra tattica bolscevica e strategia comunista.


Monti piace, mentre le sue manovre no, perché si pensa che esse colpiscano sempre i “soliti noti”. Errore. Colpiscono anche le libere professioni “borghesi” consolidate e organizzate da almerno due secoli di civiltà borghese. Naturalmente, Berlusconi si era fatto votare per “fare la rivoluzione liberale”, ma questa rivoluzione liberale, oggi come oggi, colpisce il 95% delle persone e ne salva invece solo il 5%. I vari Giavazzi e Alesina non sono affatto “liberali”, come opinano i lettori ingenui del Corrierone, ma sono solo “maschere di carattere” (le marxiane charaktermasken) di un processo anonimo e impersonale di globalizzazione liberista. Questo processo non può presentarsi apertamente nella sua concreta natura che chiamare “nazista” è dire poco. Si tratta di una società del lavoro flessibile, precario e temporaneo generalizzato, della fine di ogni democrazia e di ogni sovranità nazionale, di un interventismo imperiale continuo fatto in nome di generici “diritti umani” ad arbitrio assoluto, e della stessa fine dell’Europa come centro autonomo di civiltà non ancora del tutto “occidentalizzato”.


In un simile quadro la demenza sociale riflette l’opacità della riproduzione sociale, e assume toni schizofrenici a sinistra e paranoici a destra, anche se di diverso grado di pericolosità criminale. A sinistra, un antifascismo paranoico in totale assenza di fascismo. A destra, l’ennesima stucchevole tendenza a prendersela con i soliti capri espiatori, i nomadi, i negri, gli immigrati, eccetera. Questa demenza non verrà meno fino a che una nuova credibile interpretazione della natura degli avvenimenti in corso, e cioè del “presente come storia”, sostituirà gli spettacoli schizofrenici e paranoici in corso. I pazzi di Oslo e di Firenze non possono essere previsti. Il casuale in quanto tale è necessario, scrisse Hegel. Ma la reintroduzione della razionalità storica nella politica, questa sì, sarebbe possibile.


Torino, 17 dicembre 2011

domenica 13 novembre 2011

Ratzinger o Fra Dolcino?


Prefazione

Gesù di Nazareth, il “primo socialista”.

Le comunità politico-religiose degli esseni e di Qumran, basate entrambe su un modo di vita e produzione collettivistico.

Amos e Isaia, profeti “rossi” dell’Antico Testamento.


Fra Dolcino e T. Muntzer, rivoluzionari comunisti e cristiani.


Le organizzazioni “eretiche” cristiane, dagli eroici marcioniti agli anabattisti rivoluzionari della Comune di Munster, con la loro scelta di campo allo stesso tempo comunista e religiosa.
I cristiani per il socialismo, il cristiano-marxista Chavez. Boff e la teologia della liberazione, il socialismo indigeno di Evo Morales, ecc.


Pratiche plurimillenarie e proteiformi, concrete ed innegabili, su cui il materialismo storico “classico” si è confrontato e rapportato solo di sfuggita e con un certo imbarazzo, mentre invece richiedono sia un processo accurato di analisi che un criterio generale d’interpretazione e di comprensione, in grado di spiegare perché – a determinate condizioni – la religione si sia potuta e si possa tuttora trasformare in positiva, liberatoria e sovversiva “anfetamina dei popoli”.
Anche Engels, nella sua notevole opera “La guerra dei contadini in Germania”, riconobbe che l’azione del religioso, credente cristiano e rivoluzionario Thomas Muntzer era ispirato da principi- guida che come minimo si avvicinavano al comunismo, ma purtroppo da tale fatto innegabile, indiscutibile e testardo non derivò le necessarie conseguenze teoriche.
Risulta ormai necessario modificare una parte consistente dell’ormai consolidata analisi marxista sulla pratica religiosa, presa nella globalità: del resto “il vero è l’intero”, rilevava Hegel nella sua geniale “Fenomenologia dello Spirito”.[1]
Riteniamo ancora valido il nucleo fondamentale della valutazione espressa dal marxismo “classico” sia rispetto alla genesi della religione, da intendersi come il prodotto dell’azione umana (l’uomo ha creato le divinità, e non viceversa), che soprattutto per quanto riguarda la funzione concreta di “oppio dei popoli” svolta via via dalla religione in una sua particolare versione, quella fornita dagli apparati ecclesiastici collegati strettamente al potere politico e agli organi statali, a partire dalla teocrazia sumera (3700 a.C.) fino ad arrivare all’attuale gerarchia vaticana.
Ma il nucleo non è tutto e già nell’introduzione alla sua “Critica della filosofia del diritto di Hegel” Marx scrisse giustamente che “l’uomo crea la religione e non la religione l’uomo”, rilevando anche che la religione “è l’oppio dei popoli”, aggiunse anche che essa rappresenta “l’espressione della miseria effettiva e la protesta contro questa miseria effettiva”, e cioè il “sospiro della creatura oppressa”.
Oppio dei popoli, e allo stesso tempo “protesta contro la miseria”: una polarità di opposti molto interessante, ma poco studiata e compresa.
Della tradizionale concezione materialista rispetto alla religione molto bisogna conservare, a nostro avviso, ma quasi altrettanto bisogna modificare: per tanto si propongono quattordici tesi generali su questo tema, che formano l’ossatura fondamentale di questo libro.

Segue:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=2887

giovedì 10 marzo 2011

Libia e il Ritorno dell’Imperialismo Umanitario 

 

 
Il ritorno di tutta la vecchia gang

Di JEAN BRICMONT
da CounterPunch (trad. di Piero Pagliani)

Tutta la vecchia gang ritorna: I partiti delle Sinistra Europea (che raggruppano i partiti comunisti europei “moderati”), il “Verde” José Bové ora alleato con Daniel Cohn-Bendit che non c’è stata guerra USA-NATO che non gli sia piaciuta, vari gruppi trotzkisti e, ovviamente, Bernard-Henry Lévy e Bernard-Henry Lévy, tutti ad esortare a qualche tipo di “intervento umanitario” in Libia o ad accusare la sinistra latino-americana, le cui posizioni sono molto più ragionevoli, di essere degli “utili idioti” per il “tiranno libico”.
Dieci anni dopo siamo di nuovo al Kosovo. Centinaia di migliaia di Iracheni morti, la NATO bloccata in Afghanistan in una posizione impossibile, e non hanno capito nulla! La guerra in Kosovo fu fatta per bloccare un genocidio inesistente, la guerra afgana per proteggere le donne (andate a vedere la loro situazione ora) e la guerra in Iraq per proteggere i Curdi. Quando capiranno che tutte le guerre proclamano di avere una giustificazione umanitaria? Anche Hitler “proteggeva le minoranze” in Cecoslovacchia e in Polonia.
Dalla parte opposta, Robert Gates avverte che ogni futuro segretario di stato che consigliasse ad un presidente USA di inviare truppe in Asia o in Africa “dovrebbe farsi esaminare la testa”. L’ammiraglio Mullen, similmente, invita alla cautela. Il grande paradosso del nostro tempo è che i quartier generali del movimento pacifista devono essere cercati nel Pentagono o nel Dipartimento di Stato, mentre il partito della guerra è una coalizione di neo-conservatori e di progressisti interventisti di varia specie, inclusi guerrieri umanitari di sinistra, così come Verdi, femministe e comunisti pentiti.
Così ora tutti devono tagliare i loro consumi per via del riscaldamento globale, ma le guerre della NATO sono riciclabili e l’imperialismo è diventato parte dello sviluppo sostenibile.
Ovviamente gli USA andranno o non andranno ad una guerra per ragioni che sono del tutto indipendenti dai consigli offerti dalla sinistra guerraiola. Il petrolio non sembra essere uno dei fattori più importanti nelle loro decisioni, dato che ogni futuro governo libico dovrà vendere petrolio e la Libia non è sufficientemente grande per influire in modo significativo sul prezzo del greggio. Chiaramente i disordini in Libia danno il destro alla speculazione, che invece influenza i prezzi, ma questo è un altro paio di maniche. I sionisti hanno probabilmente due opinioni riguardo la Libia: odiano Gheddafi e lo vorrebbero vedere rimosso, come Saddam, nel modo più umiliante possibile, ma nemmeno sanno se la sua opposizione gli piacerà proprio (e dal poco che sappiamo, non sarà così).
L’argomento principale a favore della guerra è che se le cose andranno velocemente e facilmente gli interventi umanitari della NATO saranno riabilitati, dato che la loro immagine è ora appannata dall’Iraq e dall’Afghanistan. Una nuova Grenada o, al più, un nuovo Kosovo, è proprio ciò che ci vuole. Un altro motivo per intervenire è quello che così si controllano meglio i ribelli, poiché si arriva per “salvarli” nella loro marcia per la vittoria. Ma questo è proprio difficile che funzioni: Karzai in Afghanistan, i nazionalisti kosovari, gli Sciiti in Iraq e, ovviamente, Israele, sono perfettamente felici di ricevere l’aiuto americano, quando serve, dopo di che lo sono di seguire la loro proprio agenda. E un’occupazione della Libia a tutto campo dopo la sua “liberazione” sembra tutto tranne che sostenibile, cosa che ovviamente rende l’intervento poco attraente per gli USA.
D’altro canto, se le cose si dovessero mettere male, si tratterebbe dell’inizio della fine dell’impero americano; da qui la cautela della gente che è realmente in posizione di decidere e non solo di scrivere articoli su Le Monde o sbraitare contro i dittatori davanti alle telecamere.
E’ difficile per un normale cittadino conoscere esattamente cosa sta succedendo in Libia, dato che i media occidentali si sono completamente screditati in Iraq, Afghanistan, Libano e Palestina e le fonti alternative non sono sempre affidabili. Questo, chiaramente, non impedisce alla sinistra pro-guerra di essere assolutamente convinta della verità dei peggiori resoconti su Gheddafi, così come lo erano dodici anni fa riguardo Milosevic.
Il ruolo negativo della Corte Internazionale dell’Aja è di nuovo evidente in questo caso così come lo fu quello del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia per il caso del Kosovo. Uno dei motivi per cui c’è stato un relativamente modesto spargimento di sangue in Tunisia ed Egitto è che c’è stata una via d’uscita per Ben Ali e Mubarak. Ma la “giustizia internazionale” vuole assicurarsi che non ci sia una via d’uscita per Gheddafi e probabilmente per le persone vicine a lui, così da costringerli a lottare a tutti i costi.
Se un “altro mondo è possibile”, così come la sinistra europea continua a ripetere, allora anche un altro Occidente dovrebbe essere possibile e la sinistra europea dovrebbe lavorare in quel senso. Il recente incontro dell’Alleanza Bolivariana dovrebbe servire da esempio: la sinistra latino americana vuole la pace e vuole evitare ogni intervento da parte degli USA, poiché sanno che sono nelle mire degli USA e che il loro processo di trasformazione sociale richiede innanzitutto la pace e la sovranità nazionale. Per cui hanno suggerito di inviare una delegazione internazionale, possibilmente guidata da Jimmy Carter (difficilmente definibile un tirapiedi di Gheddafi) per iniziare un processo negoziale tra il governo e i ribelli. La Spagna ha espresso interesse per l’idea, che ovviamente è stata rifiutata da Sarkozy. Questa decisione può sembrare utopistica, ma non sarebbe così se fosse sostenuta da tutto il peso delle Nazioni Unite. Questo sarebbe il modo per onorare la propria missione, cosa che ora è resa impossibile dall’influenza statunitense ed occidentale. Tuttavia non è impossibile che oggi, o in qualche crisi futura, una coalizione di nazioni non interventiste, includente la Russia, la Cina, l’America Latina ed eventualmente altri, possa lavorare assieme per costruire alternative credibili all’interventismo occidentale.
A differenza della sinistra latino americana, la sua patetica versione europea ha perso ogni idea di cosa significhi fare politica. Non cerca di proporre soluzioni concrete ai problemi ed è solo capace di prendere posizioni morali, in particolare denunciando dittatori e violazioni dei diritti umani con tono magniloquente. La sinistra socialdemocratica insegue la destra se va bene con qualche anno di ritardo e non ha nessuna idea propria.
La sinistra “radicale” spesso riesce a denunciare i governi occidentali in ogni modo possibile e chiedere contemporaneamente che quegli stessi governi intervengano militarmente in tutto il globo per difendere la democrazia. La sua mancanza di riflessione politica la rende altamente vulnerabile alle campagne di disinformazione facendola diventare una passiva ragazza pon-pon delle guerre della NATO.
Questa sinistra non ha un programma coerente e non saprebbe cosa fare nemmeno se un dio la rimettesse al potere. Invece di “sostenere” Chávez e la Rivoluzione Venezuelana, una affermazione priva di senso che alcuni amano ripetere, dovrebbero umilmente imparare da loro e, prima di tutto, re-imparare cosa significhi fare politica.
Jean Bricmont insegna Fisica in Belgio ed è membro del Tribunale di Bruxelles. Il suo libro “Imperialismo Umanitario” è pubblicato dalla Monthly Review Press. Può essere contattato all’indirizzo Jean.Bricmont@uclouvain.be.

giovedì 30 settembre 2010



Venezuela
Scritto da Atilio A. Boron   

La destra tiene, ma la fascistizzazione delle masse non c’è
La scorsa domenica in Venezuela si sono tenute varie elezioni. Una è stata di carattere nazionale, realizzata a circoscrizione amministrativa unica, e ha eletto i deputati venezuelani che entreranno nel Parlamento Latinoamericano (Parlatino). L'altra, quella dei deputati del Parlamento, è stata la capricciosa somma di un insieme di situazioni statuali e nella quale fattori come la sfortunata – a volte impopolare - designazione di alcuni candidati chavisti e il discredito o l'indifferenza delle autorità locali hanno decisamente giocato contro le aspettative ufficiali. A nessuno sfugge, inoltre, che le elezioni legislative invariabilmente producono risultati diversi dalle presidenziali, poiché in esse l'attrazione di un leader di massa - e niente meno che un leader della statura di Chávez! - è assoggettata alla qualità dei suoi rappresentanti locali, e spesso per disgrazia. Analizzare queste due consultazioni, convocate simultaneamente, ci offre un quadro quasi sperimentale che permette di calibrare alcuni importanti dati che caratterizzeranno gli scenari politici in Venezuela dopo il 26-S.
Nelle elezioni per il Parlatino il voto popolare, espresso a margine di condizionamenti locali, ha prodotto i seguenti risultati: 5.268.939 per l'alleanza PSUV-PCV contro 5.077.043 dei suoi avversari, ovvero 46.71 % dei voti contro il 45.01 dell'inusitato agglomerato oppositore. Nel referendum del 2007 il chavismo aveva ottenuto 4.404.626 voti, contro 4.521.494 dei partiti del rifiuto della nuova costituzione socialista. Da ciò si deduce che nelle elezioni del 26-S il governo ha aumentato la propria attrazione elettorale di quasi 900.000 voti, mentre l'opposizione qualcosa meno di 500.000. Nelle presidenziali del dicembre del 2006 Chávez era stato (ri)eletto con 7.309.080 voti, contro la coalizione di destra capitanata da Manuel Rosales, che ottenne 4.292.466 suffragi. Ovviamente qualsiasi comparazione con queste cifre va vista con molta cautela e tuttavia esse indicano aspetti interessanti, almeno come tendenza: (a) che il governo si debilita, e molto, nelle elezioni nella quali Chávez non è candidato. Fra il 2006 e il 2010 si sono allontananti circa due milioni di voti dalle fila bolivariane, anche se sarebbe un grosso errore dedurre, a giudicare da quello che è successo dal 1998, che questo allontanamento sia definitivo. La cosa più probabile è che i disillusi dai candidati locali ritornino (persino aumentando) a votare Chávez alle presidenziali del 2012, a condizione, ben inteso, che il candidato sia lui; (b) anche se la destra cresce quando Chávez non compete, la sua crescita sembra avere un tetto relativamente basso. In condizioni molto favorevoli come è stata questa, che è piuttosto improbabile si ripresentino in futuro, l'opposizione raggiunge appena i cinque milioni di voti. In altre parole, non c'è migrazione di voto chavista verso la destra, che era ciò che speravano i reazionari. C'è invece un (comprensibile) disincanto o collera della base bolivariana per alcune offerte elettorali proposte dal PSUV e un (altresì comprensibile) malessere di fronte ai problemi che affliggono la vita quotidiana dei settori popolari, come vedremo più avanti. Ma non c'è, e questa è una grande vittoria ideologica del governo Chávez, una fascistizzazione o una virata a destra dei settori popolari, cosa non da poco. La popolazione, al di là dei limiti dell'azione del governo, della sua corruzione e inefficienza, sa che è grazie alla rivoluzione bolivariana che ha acquisito dignità e diritti fondamentali di una cittadinanza che non è solo politica e giuridica, limitata al suffragio, ma anche economica e sociale. E tale rivoluzione operata sul piano delle coscienze resiste agli avatar, alle penurie economiche, agli inconvenienti e alle scomodità derivanti, per esempio, da situazioni come la crisi energetica. Lì, sul piano delle coscienze, troviamo una formidabile muraglia che la propaganda della destra non è riuscita ad abbattere.
Bisogna tenere presente i vari fattori che hanno inciso negativamente per il governo in queste elezioni e hanno generato il malumore sociale contro i non pochi candidati governativi: la crisi energetica, l'inflazione, il boicottaggio degli approvvigionamenti, l'insicurezza, l'inefficienza nel funzionamento dell'apparato statale, l'influenza demoralizzante dell'ostentosa e corrotta borghesia bolivariana, fenomeni obbiettivi ma che sono stati straordinariamente ingigantiti dall'oligarchia mediatica venezuelana e internazionale con un'estesa e costosissima campagna che non ha precedenti nella regione: la CNN ha prodotto un insolito documentario chiaramente orientato a terrorizzare la popolazione alla vigilia delle elezioni!, e la “stampa seria” di America Latina, Stati Uniti ed Europa - che di serio non ha nulla - ha fustigato quotidianamente Chávez, scaricandogli addosso vagoni di menzogne che, malgrado l'impegno profuso nell'intento, non hanno sortito l'effetto desiderato, peraltro volto ad ottenere ben più del 40 % dei seggi nella Assemblea Nazionale! Tramavano ben altro: volevano ricreare in Venezuela le condizioni parlamentari che in Honduras hanno reso possibile il colpo di stato contro Mel Zelaya, ma la giocata non gli è riuscita bene e probabilmente torneranno alla carica. Tale sfrontata campagna mediatica è stata accompagnata da un vero diluvio di dollari, più di 80 milioni solo per l'anno in corso, sono stati canalizzati – attraverso “innocenti e indipendenti” ONG europee e statunitensi, perfidi strumenti di interventismo statunitense, verso l'agglomerato di forze politiche oppositrici con il pretesto di “rafforzare la società civile”, sviluppare la “educazione civica” e altri trucchi del genere.
Malgrado tutto ciò, Chávez ha ottenuto una comoda maggioranza in Parlamento e la destra adesso ha 20 seggi meno di quanti ne avesse, per esempio, nel 2000; e sebbene il presidente non avrà straordinari poteri politici, ha comunque una maggioranza abbastanza ampia per andare avanti nel processo di trasformazione in cui è immerso il Venezuela. Per questo, non ha alcun senso, parlare dell'inizio di una fase Terminale quale conseguenza del recente risultato elettorale. Sempre e quando, questo è chiaro, si legga correttamente il messaggio inviato dal popolo bolivariano evitando di negare le evidenze, come fa chi crede che i problemi si risolvano ignorandoli; si prenda corretta nota degli errori commessi e delle grandi sfide che deve affrontare il governo e, si ricordi, soprattutto, che non sarà il parlamento a insufflare nuova vita alla Rivoluzione Bolivariana bensì l'efficace lavoro di organizzare, mobilitare e coscientizzare della base del chavismo, procedimenti che o sono in forte ritardo o sono stati realizzati in modo molto carente. Il lavoro che resta è enorme, ma non impossibile. Bisogna rivedere e rettificare molte cose, dalla qualità della gestione pubblica fino al funzionamento del PSUV e dei suoi procedimenti di selezione dei dirigenti, che in alcuni casi è un vero fallimento. Nonostante quel che dicono i portavoce dell'impero, ammiratori per esempio della democrazia uribista in Colombia, Chávez ha un record democratico straordinario, ineguagliato a livello mondiale: in elezioni rigorosissimamente controllate, ha trionfato 15 volte sulle 16 consultazioni convocate dal 1998. A differenza di ciò che è avvenuto in tanti paesi - dal furto delle elezioni del 2000 negli USA, quando Al Gore vinse su George Bush Jr. per mezzo milione di voti e il Tribunale Superiore dello Stato della Florida, vedi caso governato da Jebb Bush, “corresse” in tribunale questo “malinteso” dell'elettorato, fino agli incredibili furti perpetrati in Messico prima dal PRI, nel 1988, contro Cuauhtémoc Cárdenas, e poi dal PAN, nel 2006, contro Andrés Manuel López Obrador - nel Venezuela bolivariano non ci sono mai state frodi. Questa eccezionale missione di Chávez, che radica nella profonda identificazione che esiste fra il popolo e il suo leader, ci permette di pronosticare che se saprà correggere ciò che deve essere corretto e rilanciare il processo rivoluzionario, il suo popolo saprà fare ancora un plebiscito alle elezioni del 2012. Non solo il Venezuela, ma tutta l'America Latina e i Caraibi hanno necessità che ciò accada.

da www.atilioboron.com