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domenica 30 ottobre 2011

 

Gli scenari politici internazionali della crisi sistemica 

 



Intervento di Piero Pagliani  all’assemblea sul debito e sull’euro di Chianciano Terme sabato 22 ottobre.

Piero Pagliani

1. Capitale e Potere: l’origine della crisi 1
2. Politica e finanza: tra storica collaborazione e storico conflitto 4
3. Capitale e Potere: i paradossi politici della loro aggiunzione 8
4. Ipotesi di resistenza all’autocolonizzazione dei Paesi europei 11
Serie economiche 18

1. Capitale e Potere: l’origine della crisi

Poche settimane or sono, in pieno attacco all’euro, “La Repubblica” mentre
da una parte terrorizzava i suoi lettori parlando della caduta nell’abisso delle
borse e persino dell’oro, dall’altra li invitava surrettiziamente ad investire in
titoli a lungo termine del debito pubblico della Germania e degli Stati Uniti,
ultimi rifugi al riparo dalla bufera planetaria.
Ma come? D’accordo la Germania, ma gli Stati Uniti? Il Paese più indebitato
del mondo da che mondo è mondo?
D’acchito la perplessità è d’obbligo. Eppure, per lo meno sul breve periodo
(ma difficilmente sul medio e a maggior ragione sul lungo - e qui sta una
parte del trucco degli imbonitori) i titoli di debito pubblico di questi Paesi
potrebbero veramente essere un affare sicuro.

Fino a quando?

Fino a quando regge la credibilità degli Stati Uniti come superpotenza
dominante sul piano militare, politico e diplomatico mondiale, anche se non
sul piano economico, dato che è dalla fine degli anni Cinquanta del secolo
scorso che gli USA hanno perso questo primato (o, come si diceva una volta,
non sono più l’opificio del mondo). I Paesi dominanti sul piano economico
devono allora essere “contenuti” o associati all’impero come viceré sub
dominanti, come nel caso, per l’appunto, della Germania.
Questa frattura tra il dominio economico e il dominio politico-militare è poco
comprensibile se ci si attiene alla divisione meccanica strutturasovrastruttura.
E’ molto più comprensibile se invece si assume l’ottica leninista dell’analisi dell’intreccio 
tra le contraddizioni sociali e quelle intercapitalistiche.
A quel punto la rinnovata lente analitica ci permette di scoprire un ulteriore
problema: il predominio economico e quello sui mezzi di pagamento mondiali,
entrambi appannaggio della Cina, oltre a non coincidere col predominio
politico-militare non coincidono nemmeno col predominio finanziario. Le
principali piazze finanziarie del mondo rimangono infatti la City di Londra, a
due passi da Downing Street, e Wall Street che sta a quattro ore di macchina
dalla Casa Bianca1. In altri termini la finanza internazionale più che la sirena
dei cosiddetti “fondamentali economici” sembra stare ad ascoltare quella del
potere territoriale. Non è un problema da poco per chi non riesce ad affrancarsi 
da una visione meccanica del rapporto tra la cosiddetta “struttura” e la cosiddetta “sovrastruttura”.

1 Detto incidentalmente, può sembrare un mistero la stessa importanza attuale della City di
Londra, a più di un secolo abbondante da quando la Gran Bretagna perse il titolo di “opificio
del mondo” e a sessant’anni dalla perdita di ogni supremazia territoriale e finanziaria a favore
degli Stati Uniti. Un mistero che non si risolve con gli “zurück zu Marx” e nemmeno con i
ritorni fideistici a Lenin, ma che obbliga a rinnovare gli strumenti analitici. Ovviamente
esistono anche le scorciatoie sciagurate e spesso repellenti che risolvono tutto coi complotti:
della massoneria, degli ebrei, della massoneria giudaica, della massoneria britannica, della
massoneria giudaica britannica, e via intrecciando combinazioni di idiozie che a volte non si
vergognano nemmeno di citare i rettiliani o i Protocolli dei Savi di Sion, per poi dire che è vero
che sono tutte scemenze, per carità di Dio, ma che in fondo in fondo sono segnali di qualcosa
di vero. Ma quel che è peggio è che ci sono persone per bene che ci mettono un po’ troppo a
capire che questi signori bisogna accompagnarli gentilmente alla porta.


Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2847

giovedì 13 ottobre 2011




Riunione del Comitato promotore dell'appello

Il comitato promotore del'assemblea del 1° ottobre, si è riunito martedì 11 ottobre per fare un primo bilancio dell'assemblea e indicare una prima tabella di marcia del percorso avviato.
Le valutazioni sull'assemblea al teatro Ambra Jovinelli sono state tutte positive sia per la partecipazione numerica che per lo spirito unitario dell'iniziativa. E' un segnale di controtendenza importante che ben si coniuga con i contenuti dell'incontro e del percorso messosi in moto con l'appello "Dobbiamo fermarli".
Che la prima assemblea sia andata molto bene è un punto di partenza incoraggiante ma non sufficiente.
Per questo motivo è indispensabile avviare il percorso sui passaggi indicati e condivisi nel documento finale approvato dall'assemblea del 1° ottobre.

Il comitato promotore invita tutte e tutti gli aderenti all'appello Dobbiamo Fermarli a:

- rispettare lo spirito unitario che anima il comitato promotore nazionale anche a livello locale, cercando in tutti i modi di far convergere le/i singoli, le forze organizzate e i soggetti che hanno condiviso l'appello e i cinque punti del programma. E' un passaggio un po' più difficile in alcune realtà ma che va esperito con convinzione a tutti i livelli;

- convocare entro il 20 novembre le assemblee locali dei firmatari dell'appello e di quelli che via via ne stanno condividendo il progetto. La costruzione dei coordinamenti locali, è un passaggio fondamentale.
Le assemblee locali dovranno approfondire la discussione e l'elaborazione sui cinque punti del programma e cominciare a immaginare l'articolazione locale del lancio della campagna nazionale “Noi il debito non lo paghiamo”. A tale scopo è stata approntata una bozza di testo di una petizione popolare, come strumento per i banchetti e il lavoro di massa sulle parole d'ordine della campagna. L'approvazione definitiva del testo è in via di discussione ma è a buon punto

- per sabato 17 dicembre sarà convocata una nuova assemblea nazionale nella quale le/i portavoce designate/i dai coordinamenti locali relazioneranno sui risultati delle assemblee e dei coordinamenti locali. Al termine dell'assemblea verrà lanciata la campagna nazionale vera e propria in tutti i suoi aspetti.
- tra il 15 e il 30 novembre verrà organizzato un seminario di approfondimento con esperti (economisti, giuristi) sulle proposte che verranno avanzate nella campagna (sul non pagamento del debito, sul referendum contro i diktat della Bce, ecc.)

- sono stati creati tre gruppi di lavoro: uno che preparerà il seminario con gli economisti (F. Russo, M. Casadio, P. Pagliani); uno che curerà l'organizzazione (F. Burattini, E. Papi); uno che curerà la comunicazione (S. Bianchi, J. Venier, G. Chiesa, S. Cararo).




                                              Relativamente alla manifestazione del 15 Ottobre

Il comitato promotore valuta positivamente che l'indicazione di contestazione della Banca d'Italia e della Bce messa in campo già dal 26 settembre con la conferenza stampa di presentazione dell'assemblea del 1° ottobre e della campagna “Noi il debito non lo paghiamo” realizzata proprio a ridosso della sede della Banca d'Italia, sia diventata una indicazione di massa e condivisa da settori crescenti dei movimenti sociali, sindacali e giovanili.
L'assemblea del 1° Ottobre ha deciso la partecipazione alla manifestazione del 15 Ottobre contro quello che ha definito il “governo unico delle banche” sia a livello nazionale che europeo. Ritiene che la piattaforma della manifestazione sia inadeguata rispetto alla realtà del conflitto sociale e alle responsabilità della crisi. La mobilitazione europea del 15 Ottobre ha infatti un chiaro segno anticapitalista che nella convocazione italiana è venuto attenuandosi in modo evidente.
Staremo in piazza con un nostro spezzone unitario e rappresentativo di tutte le realtà che hanno aderito all'appello con un camion con amplificazione e con lo striscione: “Contro l'Europa delle banche – Noi il debito non lo paghiamo – Dobbiamo Fermarli”.



L'appuntamento è alle ore 12.30 davanti al museo di Palazzo Massimo (angolo tra Piazza dei Cinquecento e Piazza della Repubblica - vedi foto-mappa qui sotto).
Il nostro striscione sarà nel corteo fino alla sua conclusione in piazza San Giovanni ma sosterremo le iniziative che intenderanno dare forza, conflittualità e continuità alla giornata di mobilitazione europea del 15 Ottobre.

giovedì 10 marzo 2011

Libia e il Ritorno dell’Imperialismo Umanitario 

 

 
Il ritorno di tutta la vecchia gang

Di JEAN BRICMONT
da CounterPunch (trad. di Piero Pagliani)

Tutta la vecchia gang ritorna: I partiti delle Sinistra Europea (che raggruppano i partiti comunisti europei “moderati”), il “Verde” José Bové ora alleato con Daniel Cohn-Bendit che non c’è stata guerra USA-NATO che non gli sia piaciuta, vari gruppi trotzkisti e, ovviamente, Bernard-Henry Lévy e Bernard-Henry Lévy, tutti ad esortare a qualche tipo di “intervento umanitario” in Libia o ad accusare la sinistra latino-americana, le cui posizioni sono molto più ragionevoli, di essere degli “utili idioti” per il “tiranno libico”.
Dieci anni dopo siamo di nuovo al Kosovo. Centinaia di migliaia di Iracheni morti, la NATO bloccata in Afghanistan in una posizione impossibile, e non hanno capito nulla! La guerra in Kosovo fu fatta per bloccare un genocidio inesistente, la guerra afgana per proteggere le donne (andate a vedere la loro situazione ora) e la guerra in Iraq per proteggere i Curdi. Quando capiranno che tutte le guerre proclamano di avere una giustificazione umanitaria? Anche Hitler “proteggeva le minoranze” in Cecoslovacchia e in Polonia.
Dalla parte opposta, Robert Gates avverte che ogni futuro segretario di stato che consigliasse ad un presidente USA di inviare truppe in Asia o in Africa “dovrebbe farsi esaminare la testa”. L’ammiraglio Mullen, similmente, invita alla cautela. Il grande paradosso del nostro tempo è che i quartier generali del movimento pacifista devono essere cercati nel Pentagono o nel Dipartimento di Stato, mentre il partito della guerra è una coalizione di neo-conservatori e di progressisti interventisti di varia specie, inclusi guerrieri umanitari di sinistra, così come Verdi, femministe e comunisti pentiti.
Così ora tutti devono tagliare i loro consumi per via del riscaldamento globale, ma le guerre della NATO sono riciclabili e l’imperialismo è diventato parte dello sviluppo sostenibile.
Ovviamente gli USA andranno o non andranno ad una guerra per ragioni che sono del tutto indipendenti dai consigli offerti dalla sinistra guerraiola. Il petrolio non sembra essere uno dei fattori più importanti nelle loro decisioni, dato che ogni futuro governo libico dovrà vendere petrolio e la Libia non è sufficientemente grande per influire in modo significativo sul prezzo del greggio. Chiaramente i disordini in Libia danno il destro alla speculazione, che invece influenza i prezzi, ma questo è un altro paio di maniche. I sionisti hanno probabilmente due opinioni riguardo la Libia: odiano Gheddafi e lo vorrebbero vedere rimosso, come Saddam, nel modo più umiliante possibile, ma nemmeno sanno se la sua opposizione gli piacerà proprio (e dal poco che sappiamo, non sarà così).
L’argomento principale a favore della guerra è che se le cose andranno velocemente e facilmente gli interventi umanitari della NATO saranno riabilitati, dato che la loro immagine è ora appannata dall’Iraq e dall’Afghanistan. Una nuova Grenada o, al più, un nuovo Kosovo, è proprio ciò che ci vuole. Un altro motivo per intervenire è quello che così si controllano meglio i ribelli, poiché si arriva per “salvarli” nella loro marcia per la vittoria. Ma questo è proprio difficile che funzioni: Karzai in Afghanistan, i nazionalisti kosovari, gli Sciiti in Iraq e, ovviamente, Israele, sono perfettamente felici di ricevere l’aiuto americano, quando serve, dopo di che lo sono di seguire la loro proprio agenda. E un’occupazione della Libia a tutto campo dopo la sua “liberazione” sembra tutto tranne che sostenibile, cosa che ovviamente rende l’intervento poco attraente per gli USA.
D’altro canto, se le cose si dovessero mettere male, si tratterebbe dell’inizio della fine dell’impero americano; da qui la cautela della gente che è realmente in posizione di decidere e non solo di scrivere articoli su Le Monde o sbraitare contro i dittatori davanti alle telecamere.
E’ difficile per un normale cittadino conoscere esattamente cosa sta succedendo in Libia, dato che i media occidentali si sono completamente screditati in Iraq, Afghanistan, Libano e Palestina e le fonti alternative non sono sempre affidabili. Questo, chiaramente, non impedisce alla sinistra pro-guerra di essere assolutamente convinta della verità dei peggiori resoconti su Gheddafi, così come lo erano dodici anni fa riguardo Milosevic.
Il ruolo negativo della Corte Internazionale dell’Aja è di nuovo evidente in questo caso così come lo fu quello del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia per il caso del Kosovo. Uno dei motivi per cui c’è stato un relativamente modesto spargimento di sangue in Tunisia ed Egitto è che c’è stata una via d’uscita per Ben Ali e Mubarak. Ma la “giustizia internazionale” vuole assicurarsi che non ci sia una via d’uscita per Gheddafi e probabilmente per le persone vicine a lui, così da costringerli a lottare a tutti i costi.
Se un “altro mondo è possibile”, così come la sinistra europea continua a ripetere, allora anche un altro Occidente dovrebbe essere possibile e la sinistra europea dovrebbe lavorare in quel senso. Il recente incontro dell’Alleanza Bolivariana dovrebbe servire da esempio: la sinistra latino americana vuole la pace e vuole evitare ogni intervento da parte degli USA, poiché sanno che sono nelle mire degli USA e che il loro processo di trasformazione sociale richiede innanzitutto la pace e la sovranità nazionale. Per cui hanno suggerito di inviare una delegazione internazionale, possibilmente guidata da Jimmy Carter (difficilmente definibile un tirapiedi di Gheddafi) per iniziare un processo negoziale tra il governo e i ribelli. La Spagna ha espresso interesse per l’idea, che ovviamente è stata rifiutata da Sarkozy. Questa decisione può sembrare utopistica, ma non sarebbe così se fosse sostenuta da tutto il peso delle Nazioni Unite. Questo sarebbe il modo per onorare la propria missione, cosa che ora è resa impossibile dall’influenza statunitense ed occidentale. Tuttavia non è impossibile che oggi, o in qualche crisi futura, una coalizione di nazioni non interventiste, includente la Russia, la Cina, l’America Latina ed eventualmente altri, possa lavorare assieme per costruire alternative credibili all’interventismo occidentale.
A differenza della sinistra latino americana, la sua patetica versione europea ha perso ogni idea di cosa significhi fare politica. Non cerca di proporre soluzioni concrete ai problemi ed è solo capace di prendere posizioni morali, in particolare denunciando dittatori e violazioni dei diritti umani con tono magniloquente. La sinistra socialdemocratica insegue la destra se va bene con qualche anno di ritardo e non ha nessuna idea propria.
La sinistra “radicale” spesso riesce a denunciare i governi occidentali in ogni modo possibile e chiedere contemporaneamente che quegli stessi governi intervengano militarmente in tutto il globo per difendere la democrazia. La sua mancanza di riflessione politica la rende altamente vulnerabile alle campagne di disinformazione facendola diventare una passiva ragazza pon-pon delle guerre della NATO.
Questa sinistra non ha un programma coerente e non saprebbe cosa fare nemmeno se un dio la rimettesse al potere. Invece di “sostenere” Chávez e la Rivoluzione Venezuelana, una affermazione priva di senso che alcuni amano ripetere, dovrebbero umilmente imparare da loro e, prima di tutto, re-imparare cosa significhi fare politica.
Jean Bricmont insegna Fisica in Belgio ed è membro del Tribunale di Bruxelles. Il suo libro “Imperialismo Umanitario” è pubblicato dalla Monthly Review Press. Può essere contattato all’indirizzo Jean.Bricmont@uclouvain.be.

martedì 1 marzo 2011

Le urgenze politiche italiane poste dalle rivolte arabe



 Piero Pagliani  



1. Parto dalle rivolte arabe per mettere sul tappeto un problema più generale.

Per quanto riguarda il mondo arabo ritengo che siamo di fronte a cose molto diverse.

In Egitto e Tunisia c'è il tentativo imperialista (USA) e subimperialista (UE) di mantenere il controllo della situazione cavalcando e indirizzando le rivolte popolari verso esiti rassicuranti e per certi versi preventivati, ovvero cambi delle guardia indolori, basandosi sui militari.
Non è per nulla detto che la cosa funzioni, ma se anche il movimento popolare non dovesse fermarsi qui, si deve dotare di una direzione e di un’organizzazione, altrimenti saranno guai. Non siamo noi a doverlo insegnare a nessuno: qui è la Storia che dà lezioni a tutti.

La Libia è invece oggetto di un tentativo di balcanizzazione basato sui conflitti interni al regime e alla stessa famiglia Gheddafi. Alcuni ex (da poco) membri del regime si sono recentemente espressi a favore di un "intervento umanitario" per “evitare la guerra civile”, come Mahdi el-Arab, il capo di stato maggiore aggiunto dell’esercito libico. Se ci fosse stato bisogno di una riprova ce l’abbiamo.

I militari si corrompono con i loro giocattoli preferiti, cioè con le armi. Non è azzardato vedere in quel che sta succedendo anche un side-effect della massiccia vendita di armi moderne alla Libia da parte degli USA.

Infine fonti diplomatiche ad Islamabad hanno riferito che gli USA, la Francia e la Gran Bretagna hanno già inviato centinaia di “consiglieri militari” ai rivoltosi.



2. Bisogna capire che la caduta di Gheddafi porterà alla destabilizzazione di tutta la zona subsahariana, che ha grosse riserve petrolifere, in primis Sudan, Ciad e Nigeria. Sono sicuro che si userà questo fatto anche per cercare di contenere la penetrazione della Cina in Africa (paradigmatico è l'abbandono della Libia dei tantissimi cinesi).

Per non contare la volontà-necessità imperialista di controllare Paesi dell'area che non sono ostili ma nemmeno ciechi servitori, come la Siria e il Libano (dopo che la carta dei fedeli di Hariri si è rivelata non vincente). Ovviamente c'é poi sempre l’Iran.

Ricordo allora che questa, come ha rivelato il Generale Wesley Clark, ex comandante supremo della NATO, era più o meno la sequenza prospettata da Dick Cheney, l’indimenticabile Segretario alla Difesa di Bush: invasione di Afghanistan, Iraq, Libia, Libano, Sudan, Somalia, Siria e infine Iran.

Il Nobel per la Pace Barack Obama ha evidentemente aggiornato la lista, dato che dopo l’attentato-bufala del volo Amsterdam-Detroit del Natale 2009, ha immediatamente parlato oltre che di Somalia anche di Yemen (Paesi entro cui, guarda caso, si adagia il Golfo di Aden, passaggio obbligato delle petroliere sulla rotta da e per Suez); e, inoltre, ha aggiunto i bombardamenti sul Pakistan.



3. Insomma, siamo in piena Terza Guerra Mondiale e bisogna partire da questa constatazione per capire cosa sta succedendo.

Bisogna ad esempio prepararci a capire cosa dire e cosa fare se per caso all'Italia venisse la brillante idea di inviare un “corpo di pace” in Libia esattamente a 100 anni dall’inizio della colonizzazione sotto Giolitti.

Purtroppo in Libia non c'è nessuna forza democratica e popolare di riferimento. E questo rende più difficile capire come opporsi ad un’eventuale spedizione (forse UE, forse NATO), senza con ciò lasciare il campo agli USA. Intendo dire che non basta opporsi a una spedizione europea (che probabilmente sarebbe principalmente composta da Germania, Francia, UK e Italia, come chiede Obama), non basta opporsi al nostro coinvolgimento, ma occorre opporsi a tutte le mire imperialistiche sulla Libia, pur in mancanza di un interlocutore politico sulla sponda opposta del Mediterraneo, cosa che rischia di trasformare quella opposizione in un favore a quelle potenze che nella Libia “liberata” stanno già mettendo buone radici.

Occorre premere perché l’Europa esprima una volontà e una capacità politica di essere una potenza autonoma e non un esecutore degli ordini statunitensi.

Ma ciò comporta automaticamente una lotta per una ridefinizione di tutta la politica estera europea, in senso unitario, neutrale e a-imperialista (antimperialista mi sembra troppo) e per una ridefinizione radicale della politica interna, in senso antiliberista e antimonetarista.



4. Tutte e tre le cose, cioè a-imperialismo, sovranità e neutralità in politica estera (e quindi anche energetica) e infine antiliberismo/antimonetarismo sono intrecciate strettamente e presumo che saranno temi che gli effetti delle rivolte arabe metteranno all’ordine del giorno.

Se non si riesce a creare un fronte di Paesi europei di peso che vada in quella direzione bisognerebbe allora essere pronti a chiedere che l'Italia si dissoci dalla UE, anche per quanto riguarda la politica monetaria (accordi di Maastricht, etc), altrimenti il rischio serio è che ci potremmo ritrovare a casa degli altri con truppe in Africa, in Kosovo, in Libano e in Afghanistan e a casa nostra con uno smantellamento selvaggio di ciò che resta dello stato sociale. I 150 anni dell’unità d’Italia verrebbero così festeggiati con un ritorno alle peggiori abitudini, una sorta di politica imperiale senza nemmeno il welfare fascista, il tutto però benedetto in modo bipartisan.

Non è per nulla facile, ma occorre essere preparati a contrastare queste possibilità e per di più in poco tempo.

I partiti della sinistra su questo non ci seguiranno, è inutile illudersi. Anzi è certo che ci contrasteranno, chi direttamente chi facendo confusione alla ricerca di alleanze incoerenti.

E’ invece necessario unirsi con chi concorda su pochi principi base di azione politica e su alcuni punti chiave di carattere generale che occorre definire per abilitare le lotte che saranno obbligatorie.

E’ un compito urgente perché le cose rischiano di precipitare da un momento all'altro.
  
Megachip.

giovedì 24 febbraio 2011

I misteri della logica: Il punto fisso di P. Pagliani

  di Gloria M. Ghioni


Il punto fisso
di Piero Pagliani
Mimesis, Milano-Udine 2010

pp. 284
€ 16.00


Le lettere dell'alfabeto hanno aperto possibilità grandiose all'umanità, proprio perché sono astrazioni impoverite di immagini concrete. Al contrario, le nuove concretezze virtuali della comunicazione faranno retrocedere di millenni le facoltà intellettive dell'uomo. (pp. 73-74)


Parola e logica, narrazione e tecnologia, alfabeto e numero... Ma anche amore e disamore, volontà di agire e paura del rifiuto, un passo avanti e due indietro, indagine e occultamento di prove,... Il punto fisso è un romanzo che vive di antitesi, fino all'irrisolta dicotomia vita/morte che tanto spesso troviamo nei thriller. Ma questo non è un semplice thriller, né il suo impianto narrativo ricalca modelli vetusti: la formazione scientifica dell'autore (informatico nonché studioso di algebra e di logica, professore di Teoria dei Modelli) non è un semplice sfondo alla vicenda, ma parte integrante e, forse, nucleo forte dell'ispirazione.

La vicenda, infatti, ha per protagonisti e personaggi secondari quasi unicamente matematici, tra cui l'io-narrante, Marco, e la bella amica indiana Mohua, tanto intelligente da portare avanti uno studio di logica che potrebbe avere implicazioni importanti nella vita quotidiana. Importanti e pericolose, al punto da attirare l'interesse di diverse potenze internazionali, che stringono d'assedio la giovane matematica, trovata uccisa da Marco all'inizio dell'opera.
Dunque, come capirete, ci si muove perlomeno su due piani temporali diversi: il nebuloso, ambivalente, misterioso e intrigante presente, in cui Marco deve prendere decisive risoluzioni (e non mancano i pericoli); e l'intreccio di episodi passati, in cui Marco compare o è assente: tra i primi, le serate con Mohua e l'amore nascosto in un patto tacito, quasi masochistico; tra i secondi, segreti, presenze ambigue e scambi di informazioni che, secondo le leggi più classiche del thriller, aumentano la suspense e rimescolano continuamente le carte in tavola.

I diversi piani narrativi, molto rischiosi da portare avanti con coerenza, sono gestiti con grande padronanza: è chiaro che Piero Pagliani aveva tutta la trama ben organizzata prima ancora di scrivere, e non si notano significativi cali di tensione o sbavature. Al contrario, è interessante la capacità di intridere il nucleo narrativo (che si avvicina, come abbiamo detto, al thriller o al genere di spionaggio) di riflessioni più ampie, che spaziano dalla letteratura alla vita di tutti i giorni, senza trascurare i sentimenti. Perché Il punto fisso affianca alle suddette tematiche la forza dei sentimenti - in modo particolare, i tre amori della vita di Marco: la compianta Mohua, che diventa quasi tangibile nel ricordo; Laura, il primo amore mai completamente rimosso; e Paula, sensibile transessuale verso cui il protagonista cerca di arginare il forte desiderio. Tre amori che - anticipo - non appagano Marco, appigliato alle proprie frustrazioni e a fantasie sentimentali, bloccato tra l'azione e la contemplazione del ricordo.
Così anche nella vita professionale: in apertura, Marco è sostanzialmente un rinunciatario, e non mancano altri momenti in cui è forte la tentazione di arrendersi. Ma il "punto fisso" impedisce una serena rinuncia, e al protagonista - chiaramente diverso dalla canonica immagine di eroe romanzesco - non resta che mettersi in discussione, e sfidare questo mondo in cui realtà e menzogna sono due facce della stessa caleidoscopica medaglia. Il tutto, verso un finale del tutto imprevedibile e ben architettato.

Come è possibile dedurre da quanto detto finora, il romanzo non tradisce ingenuità, né vizi di forma: è una struttura compatta che sa quando e come dilatare analessi e dialoghi. Il linguaggio matematico e logico entra con una certa prepotenza in alcuni dialoghi, ma l'autore si preoccupa di inserire chiose che, se da un lato paiono meno verosimili nel dialogo quotidiano tra matematici di quel livello, dall'altro assicurano un buon margine di comprensione da parte del lettore. Infine, il linguaggio specialistico si sposa con un buon livello di ricchezza lessicale, per una sintassi piuttosto articolata, dove non mancano andamenti argomentativi impeccabili da mente scientifica.

martedì 26 ottobre 2010

Dalla crisi del marxismo al marxismo della crisi 
 


della Redazione



Venerdì 22 Ottobre, nella sala del sindacato Failea-Falcev, il laboratorio Comunismo e Comunità ha dato spazio ad una lezione del compagno logico-matematico nonché studioso di economia marxiana Piero Pagliani. Si è trattato di un’interessante sintesi di suoi recenti studi sull’economia capitalistica basati sulla rielaborazione, influenzata in diversi punti dalla critica di Costanzo Preve, di lavori che oltre a quelli di Marx vanno dalle analisi sui cicli sistemici di accumulazione e sulle diverse forme di imperialismo di Giovanni Arrighi, con cui Pagliani aveva militato a Milano negli anni Settanta e al quale riconosce il proprio fondamentale debito intellettuale, fino a David Harvey passando per gli studi di Karl Polanyi, di Marcello De Cecco e per quelli di Michael Hudson. Una rielaborazione che confluirà ben presto in un libro (il terzo di carattere politico, dopo “Alla conquista del cuore della Terra”, Punto Rosso 2003 e “Naxalbari-India. La rivolta nella futura terza potenza mondiale”, Mimesis, 2007) .

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=1778

mercoledì 20 ottobre 2010

Conferenza teorica “Dalla crisi del marxismo  

al marxismo della crisi”

 
Conferenza sul tema “Dalla crisi del marxismo al marxismo della crisi”

Relatore: Piero Pagliani

Venerdì 22 ottobre 2010, ore 18.00

Nella sede sindacale Failea-Falcev di via di Pietralata, 394
(fermata Pietralata metro B)

Ai partecipanti sarà consegnata una dispensa

Organizza la rivista “Comunismo e Comunità”

Locandina: http://www.comunismoecomunita.org/wp-content/uploads/2010/10/locandina.pdf

venerdì 1 ottobre 2010

Impero, imperialismo, stati-nazione e classi 





di Piero Pagliani




«Gli inglesi risero molto quando io aprii il mio speech osservando che il nostro amico Lafargue, ecc…, che ha eliminato le nazionalità, ci ha rivolto il discorso in Francese, vale a dire in una lingua che i nove decimi dell’uditorio non capivano. Accennai inoltre che lui, affatto inconsapevolmente, sembra che voglia intendere sotto il termine negazione delle nazionalità il loro assorbimento nella nazione modello francese.»

Lettera di Marx a Engels, 20 giugno 1866



1. A partire dal collasso dell’Unione Sovietica abbiamo assistito impotenti a una serie impressionante di violenze planetarie da parte degli Stati Uniti con il seguito, spesso, dei suoi alleati: l’aggressione premeditata alla Serbia, l’invasione dell’Iraq, l’invasione dell’Afghanistan. E possiamo già assistere ad atti di guerra, magari su “invito” dei cosiddetti “legittimi governanti”, come i bombardamenti sul Pakistan, le manovre nello Yemen e tra poco in Somalia come promesso da Barack Obama dopo l’attentato farsa del volo Amsterdam-Detroit (basta aprire un atlante e si capisce immediatamente perché gli USA sono così interessati a questi due Paesi: controllano il Golfo di Aden, transito marittimo fondamentale, specialmente per le rotte petrolifere).

Continua qui:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=850

giovedì 30 settembre 2010

Dalla crisi del marxismo a un marxismo della crisi?

 
petrolio 

di Piero Pagliani

Il progetto imperiale statunitense è in visibile riflusso. L’elezione di Barack Obama ne è il sintomo più vistoso. Ormai solo gli ottusi senza speranza non riescono a capire che quella attuale è una crisi capitalistica sistemica che, quindi, non lascerà gli assetti geopolitici come li ha trovati. Ciò che è in crisi non è la finanziarizzazione minata dai titoli tossici, non è l’economia reale lasciata senza ossigeno creditizio e tradita da finanzieri e manager attratti dalle chimere della speculazione finanziaria: ciò che è in crisi è il ciclo capitalistico di accumulazione globalmente egemonizzato e coordinato dagli Stati Uniti, ciclo iniziato alla fine della II Guerra Mondiale, l’evento che risolse la grande crisi del ’29 e consentì di riempire il vuoto egemonico mondiale lasciato dal declino dell’impero britannico. Il resto sono conseguenze, sintomi, fenomeni ed epifenomeni collegati.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=341