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venerdì 13 luglio 2012


L’eterna guerra dell’imperialismo americano contro il diritto di autodeterminazione dei popoli 



   di Stefano Zecchinelli

1.       I fatti dell’11 settembre 2001 non sono altro che il punto di arrivo della politica interna ed estera Usa, per come è stata intesa almeno dalla fine della seconda guerra (imperialistica) mondiale.
Henry Kissinger il 13 febbraio 2002 pubblica un articolo sul Washington Post in cui avanza una triplice ipotesi sulla strategia Usa: (1) considerare la missione punitiva contro i talebani terminata; (2) fare pressione su paesi come la Somalia e lo Yemen; (3) rovesciare il regime di Saddam Hussein che si trovava da diversi decenni nella lista nera degli Stati Uniti.
Gli Stati imperialistici europei si accodano alla strategia americana impegnandosi non solo sul fronte afghano ma anche su altri fronti di guerra.
Insomma, come disse il politologo del Pentagono Brzezinsky tutti condividono il presupposto che l’Eurasia sia il centro del mondo e che chi controlla l’Eurasia controlli il mondo’’, e gli Usa, dal dopoguerra fino ad ora, gestiscono la politica ed il fucile.
Davanti questa schizofrenia è importante rilevare due cose: (1) la teoria dei complotti è sempre appartenuta ai dominanti, ed a loro è servita per giustificare le loro folli politiche espansionistiche (Hitler riteneva che ci fosse un complotto giudaico massonico mondiale, e i neo-conservatori americani ritengono che ci sia un complotto islamico contro l’occidente); (2) di contro tutti coloro che dimostrano, fatti alla mano, le contraddizioni proprie delle versioni ufficiali vengono silenziati dai monopoli mass-mediatici.
Nei paragrafi successivi metterò a fuoco le principali strategie Usa finalizzate alla militarizzazione del mondo.

2.      Nel 1929 Trotsky delinea questo futuro per i maggiori Stati capitalistici nel mondo:

‘’ La fase attuale acquista di nuovo l'aspetto di una "collaborazione" militare tra l'America e l'Inghilterra e anche alcuni giornali francesi temono di veder sorgere una dittatura anglosassone. Evidentemente gli Stati Uniti possono sfruttare e sfrutteranno la "collaborazione" con l'Inghilterra per far marciare alla stessa briglia il Giappone e la Francia. Ma tutto ciò costituirebbe una tappa non verso una dominazione anglosassone, ma verso una dittatura americana destinata a pesare sul mondo, Gran Bretagna compresa’’ (Leon Trotsky, Il disarmo e gli Stati Uniti d’Europa, MIA)

L’analisi di Trotsky è di una lucidità straordinaria. Negli anni ’30 gli Usa strinsero forti rapporti con la Germania nazista (e le grandi multinazionali americane finanziarono anche l’Operazione Barbarossa contro l’Urss) con il comune obiettivo di controllare l’Eurasia.
Non è tutto: nel dopoguerra l’imperialismo americano non si limitò ad impiegare il meglio delle sue forze nella lotta contro l’Unione Sovietica ma spense anche le resistenze interne al campo imperialistico come, ad esempio, il gollismo francese.
L’imperialismo più forte domina imponendo il suo sistema economico e creando delle equipe di tecnici (giornalisti, magistrati, politici) al suo servizio. Come disse il grande teorico marxista Amadeo Bordiga: ‘’ Nell'ultimo colonialismo, i bianchi colonizzano i bianchi’’ (Amadeo Bordiga, Imprese economiche di Pantaleone, 1950).
La riflessione di Bordiga merita di essere approfondita, quindi mi muoverò su un duplice binario: (1) da una parte elencherò le principali strategie della CIA per spaccare il campo socialista; (2) dall’altra parte inquadrerò il progetto degli Usa di ridurre i principali Stati imperialistici europei a degli Stati vassalli.

3.      La lotta contro il comunismo inizia, per l’imperialismo americano, dalla manipolazione del consenso. Ecco le tappe più importanti:

(1)   Edward Bernays scrisse nel 1947 The Engineering of Consent – La costruzione del consenso. Bernays, che era un nipote di Freud, capisce che le masse per avere fiducia nei leader devono credere che tutto ciò che viene detto da questi sia vero.
In questa stessa linea si muovono gli scritti di Renè Girard sull’imitazione che la destra americana userà per acquistare il consenso necessario per la guerra – ad esempio – in Irak (dove attraverso i mass media fecero degli esperimenti di ‘’comportamentismo di massa’’).

(2)   Frances Stonor Saunders, Qui mène la danse ? La CIA et la Guerre froide culturelle – Chi conduce la danza? La CIA e la Guerra fredda culturale.
Gli strateghi del Pentagono si concentrano sui comunisti anti-stalinisti per il semplice motivo che gli oppositori di destra non avevano bisogno di essere indottrinati dalla propaganda anti-comunista.
L’obiettivo degli Usa era quello di dirigere il pensiero degli oppositori di sinistra allo stalinismo; di fare in modo che non diventasse troppo radicale e quindi di manipolarlo (The Vital Center : The Politics of Freedom di Arthur Schlesinger, 1949).
I dominanti sanno che gli intellettuali (inteso come ceto sociale, o meglio sotto-classe dominata della classe dominante) sono bramosi di gloria e potere quindi, anche inconsapevolmente, oscillano fra i due blocchi sociali antagonisti fino – il più delle volte – vendersi ai dominanti.

(3)  La CIA creò un Ufficio di Strategia Psicologica attraverso cui promuoveva nel mondo la cultura anti-comunista. Questo processo si accompagnava al riciclaggio dei tecnici che collaborarono con il regime nazista (Progetto Paperclip) e l’infiltrazione dei movimenti di estrema sinistra ed estrema destra (Operazione Chaos).
Nel 1954 nasce il Gruppo Bilderberg, quasi nello stesso anno in cui viene fondata la Lega Anti-comunista Mondiale, che doveva configurare, in fase embrionale, le basi per un Nuovo Ordine Mondiale.
La linea politica è chiara: chiunque non si allinea agli interessi dell’imperialismo Usa deve essere schiacciato militarmente e questo vale anche per dissidenze interne al campo atlantico come la Francia del generale De Gaulle.
Nel 1963 il generale Lyman L. Lemnitzer (definito dallo stesso Kennedy un anti-comunista isterico) è uno degli organizzatori del complotto walzer che avrebbe dovuto portare all’assassinio di De Gaulle per mano dell’OAS.
Nello stesso anno con l’Operazione Northwoods gli Usa avrebbero dovuto rovesciare il legittimo governo cubano di Fidel Castro.
In entrambi i casi ci fu l’opposizione decisiva di Kennedy che – nonostante fosse un prodotto della mafia italo-americana – aveva capito quanto folli fossero questi progetti.
4.    Il passaggio dall’amministrazione Carter a quella Reagan, negli Usa, deve essere considerata una svolta interessante.
Jane Kirkpatrick, nel 1978, scrisse un articolo, Dictatorships and Double Standards, polemizzando proprio con Brzezinski, in quel momento consigliere di Carter.
Secondo la Kirkpatrick, l’imperialismo americano, doveva sostenere feroci dittature militari in funzione anti-comunista, mentre Brzezinski voleva limitare l’azione Usa ad un cambio di regime pilotato dall’alto.
Questa polemica è interessante perché la Kirkpatrick, all’epoca, non faceva parte dei neo-conservatori ma aderì a questa corrente solo nel 1985. Quindi annoterei questi due punti importanti per inquadrare la questione: (1) la teoria dello scontro di civiltà e del totalitarismo è trasversale ed unisce sia la destra repubblicana (neo-conservatori ed anarco-capitalisti) e sia la ‘’sinistra’’ democratica (i liberal); (2) i massacri di Somoza, Videla, Pinochet (e moltissimi altri) non devono essere affrontati da un punto di vista strettamente umanitario (violazione dei diritti umani, ecc…). Si tratta in realtà di una vera e propria scelta strategica da parte degli Stati Uniti: l’imperialismo americano decide di procedere allo sterminio sistematico di chiunque si oppone al suo progetto di conquista del mondo.
In questo modo si ha una idea chiara di cosa sia l’impero americano che, in quanto a ferocia, possiamo dire che ha superato ampiamente il nazismo.

5.    Gli Usa hanno installato dalle 700 alle 800 basi militari in tutto il mondo.
La Rete mondiale No Bases presenta questo scenario:

- Basi operative situate nel nord America, in alcuni paesi latino-americani, in Europa Occidentale, nel Medio Oriente, in Asia centrale, in Indonesia, nelle Filippine ed in Giappone.
- Basi disattivate
- Nuovi basi selezionate
- Basi di spionaggio
- Basi di spionaggio satellitare
- Paesi con basi statunitensi
- Basi la cui acquisizione è in negoziazione
- I paesi senza basi americane (Fonte:
Global Research)



A conti fatti si tratta di una inedita forma di neo-colonialismo rivolto anche agli Stati Europei. L’Italia ha 114 basi NATO sul suo territorio nazionale, giusto per fare un drammatico esempio.
L’imperialismo Usa mira a sottomettere il mondo intero alla volontà delle sue oligarchie economico-finanziarie, ma questo progetto passa attraverso il controllo militare e – di conseguenza – politico degli Stati occidentali e del Terzo Mondo (commissariati a borghesie compradore).
Chiariti questi aspetti è opportuno che mi soffermi – seppur brevemente – sullo smantellamento del gollismo che è stato il più coerente tentativo (da parte delle borghesie imperialistiche europee) di contrapporre agli yankee un proprio imperialismo autonomo.

6.    In questo paragrafo inquadrerò il tema ‘’fine del gollismo’’ elencando le tappe salienti che hanno portato all’Eliseo Nicolas Sarcozy. Inutile, per ragioni di spazio, ritornare alla figura di De Gaulle che – come è chiaro – non si è dimostrato la pedina voluta dagli Usa (soprattutto dopo il golpe interno del 1958), quindi, dato che questo movimento politico ha avuto un lungo seguito, inquadrerò solo la sua fine (pianificata da forze esterne).
La CIA, prima della crisi irakena, pianificò l’ascesa di Sarcozy secondo queste tre tappe (ben spiegate da Thierry Meyssan): (1) controllo delle burocrazie golliste; (2) eliminazione del principale rivale di destra (di Sarcozy); (3) fare fuori ogni sfidante di sinistra per vincere con certezza le elezioni (e qui la CIA utilizzò i massoni lambertisti entrati nel Partito socialista).
Meyssan ci dà un breve elenco della equipe governativa poi formata da Sarcozy:


- Claude Guéant, segretario generale del palazzo dell’Eliseo. È l’ex braccio destro di Charles Pasqua. 
- François Pérol, segretario generale aggiunto dell’Eliseo. È un associato-gestore della Banca Rothschild.
- Jean-David Lévitte, consigliere diplomatico. Figlio dell’ex direttore dell’Agenzia ebraica. Ambasciatore di Francia all’ONU, era stato sollevato dall’incarico da Chirac che lo giudicava troppo vicino a George Bush.
- Alain Bauer, l’uomo-ombra. Il suo nome non compariva negli annuari. Incaricato dei servizi segreti. Ex Gran Maestro del Grande Oriente di Francia (la principale obbedienza massonica francese) ed ex n°2 della NSA, National Security Agency statunitense in Europa (Thierry Meyssan, Operazione Sarcozy, Rete Voltaire)

In questo modo gli interessi nazionali della Francia vennero vincolati al volere dei Rothschild, della mafia francese e delle oligarchie anglo-americane.

7.    L’azione degli Usa segue, in  modo prevalente, queste due ‘’varianti tattiche’’: (1) colpire i punti nevralgici dei blocchi egemonici antagonisti per indebolirli; (2) limitare la sovranità di uno Stato facendo leva su delle equipe di tecnici filo-americani.
Sul secondo punto sopra esposto mi sono già soffermato, quindi farò qualche esempio per chiarire il primo (colpire i punti nevralgici dei blocchi egemonici antagonisti, per indebolirli) che non è di minore importanza.

8.    Con i bombardamenti contro la Serbia, gli Usa hanno colpito la Comunità Europea in un punto sicuramente strategico: la Serbia era molto vicina politicamente alla Russia, ed aveva un sistema economico misto incompatibile con il neo-liberismo economico.
Le considerazione da fare, anche in questo caso, sono due:

(1)  Gli Usa hanno volutamente vincolato le popolazioni della ex Jugoslavia all’industria tedesca (la Germania è la maggiore potenza d’area europea) per impedire un suo avvicinamento (dei popoli della ex Jugoslavia, per l’appunto!) alla Russia. Quindi l’imperialismo americano ha spinto le oligarchie europee verso un maggiore euro-atlantismo ridando prova, oltretutto, della sua forza militare.
(2) I sistemi ad economia mista devono scomparire. Gli Stati Uniti vogliono distruggere il capitalismo renano ed imporre il modello economico neo-liberista. Secondo i tecnici dell’impero devono coesistere (e vedremo fino a che punto) solo due modelli capitalistici: quello neo-liberale Usa ed il capitalismo di stato cinese.

Ovviamente un marxista sa che è impossibile un ritorno al passato, quindi la crisi del capitalismo si supera solo con la lotta di classe ed il passaggio ad un modo di produzione superiore basato sulla socializzazione dei mezzi di produzione.
9.    A questo punto penso che il progetto Usa di militarizzazione del mondo sia chiaro, od almeno spero di averlo spiegato in modo eloquente.
Penso che il capitalismo occidentale presenti questi rapporti interni fra Stati imperialistici:

Principali potenze imperialistiche: Stati Uniti d’America, Israele.
Sub-imperialismi: Inghilterra, Germania e Turchia.
Stati vassalli: Francia, Spagna, Portogallo, Italia.

Dopo di che abbiamo una lunghissima serie di Stati satellite che si muovono, solo ed esclusivamente su mandato degli Usa.
Questa classificazione, comunque, è molto soggettiva e può essere sottoposta ad ampie discussioni.

10. Come se ne esce ? La domanda richiederebbe uno studio appropriato sul soggetto rivoluzionario cosa impossibile da fare in questa sede.
Vorrei però dare dei validi riferimenti teorici, quindi riporto due brevi estratti dagli scritti teorici di Ernesto Guevara, per poi argomentare:

La storia di questa situazione è ben nota a tutti: governi fantoccio, governi indeboliti da una lunga lotta di liberazione o dallo sviluppo delle leggi del mercato capitalistico hanno permesso la firma di accordi che minacciano la nostra stabilità interna e compromettono il nostro futuro. E’ ora di scuoterci il giogo di dosso, di imporre la ricontrattazione degli ingenti debiti esteri e di costringere gli imperialisti ad abbandonare le loro basi di aggressione. (Ernesto Guevara, Discorso al II seminario economico di solidarietà afroasiatica, Algeri 1965)

In un mondo polarizzato tra due forze di estrema disparità e con interessi assolutamente contrapposti, la presa del potere non si può limitare nel quadro di un’entità geografica o sociale. Essa è un obiettivo mondiale delle forze rivoluzionarie.
Conquistare l’avvenire è l’elemento strategico della rivoluzione, mentre congelare il presente è la contropartita strategica che muove, nel mondo attuale, le forze della reazione, dal momento che si trovano sulla difensiva. (Ernesto Guevara, Tattica e strategia della rivoluzione latino-americana, 1962)



Le forze della reazione imperialistica adesso non sono sulla difensiva ma stanno massacrando il proletariato occidentale ed i popoli coloniali (o post-coloniali), però, nonostante questo, le parole di Guevara restano attualissime.
Rivolgerei l’attenzione del lettore su questi tre punti:

(1)  Le borghesie nazionali (usando un termine antico che ora andrebbe aggiornato) non possono risolvere il problema dell’autonomia nazionale. Non è possibile nessun ritorno a quello che Marx chiamava la vecchia merda del regime precedente.
(2)  Il problema del debito pubblico deve essere ricollegato al folle progetto degli Usa e del sionismo di militarizzare il mondo. Quindi è necessario respingere i dettati della nuova global class e prendere di mira le postazioni strategiche dell’imperialismo: ad esempio rivendicare, anche con azione di forza mirate, lo smantellamento delle basi NATO sul territorio nazionale.
(3)  La lotta fra la nuova pauper class e il neo-imperialismo si svolge su un piano puramente internazionale. Quindi è necessario un coordinamento europeo dei movimenti anti-capitalistici che si formano su scala nazionale.
Questi sono i presupposti minimi per ricominciare a fare paura all’imperialismo creando, per dirla con Marx, il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Adesso, sia da un punto di vista analitico che di prassi politica, siamo appena agli inizi.

Altri testi consultati:

1)    Thierry Meyssan, L’incredibile mensogna, Ed. Fantango
2)    In difesa della Jugoslavia, Ed. Zambon
3)    Ernesto Guevara, Scritti scelti, Ed. Massari




giovedì 17 febbraio 2011

Lo Stato-nazione


Edgar Morin

Lo Stato-nazione è al tempo stesso creazione e creatore dell’Europa moderna. La Storia aveva contemplato fino al Medio Evo imperi, città, popoli, etnie. La formula dello Stato-nazione, più estesa di quella delle città, è più ristretta e più unificata di quella degli imperi, anche quando è multietnica. Lo Stato-nazione si forma lentamente, e alquanto diversa­mente, in Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo a partire da e attorno a un potere monarchico che si forma esso stesso formando lo Stato-nazione. L’insularità favorisce lo sviluppo dello. Stato-nazione britannico. La Reconquista cattolica contro l’Islam favorisce lo sviluppo dello Stato-nazione ispanico. La perseveranza monarchica e la fortuna storica favoriscono lo sviluppo dello Stato-nazione francese. Poi la formula dello Stato-nazione emerge in modo evidente nella e attraverso la Rivoluzione francese. Fino allora, lo Stato monarchico aveva effettuato la gestazione della nazione attraverso la lenta francesizzazione delle etnie inglobate o conquistate. A partire dalla Rivoluzione, la nazione legittima lo Stato. La nazione è ravvivata dall’idea democratica che nomina il nuovo sovrano: l’insieme dei cittadini della nazione che costituiscono il popolo francese; essa è ipervitalizzata dalla minaccia di invasione e dalla guerra contro i nemici della «grande nazione».

Poco tempo prima, si era costituito in America un modello federale di Stato-nazione a partire dall’emancipazione dei coloni rispetto alla loro madrepatria. Da allora, tanto per il principio francese quanto per quello americano, Stato-nazione costituisce un modello emancipatore potenzial­mente universalizzabile. Ecco perché, dall’inizio del XIX secolo, l’esempio degli Stati Uniti anima le rivolte delle popolazioni bianche e meticce che fanno emergere le nuove nazioni dell’America Latina. In Europa, dove fino alla fine del XVIII secolo la nazione non emergeva che lentamente attraverso un pro­cesso multisecolare operato da uno Stato unificatore, il processo si rovescia bruscamente: in Germania e in Italia, è l’idea di nazione che, stimolata da una predicazione infiammata, animata da un vasto slancio collettivo, induce due regni periferici (il Regno di Prussia e il Regno del Piemonte) a fondare un grande Stato-nazione. Meglio ancora, in Grecia, Serbia, Bulga­ria, Romania, l’idea di nazione anticipa la costituzione di qualunque Stato e procede a tale costituzione animando le lotte emancipatrici di popoli sottomessi all’impero ottomano.

Nel XX secolo, lo smembramento dell’Impero ottomano e quello dell’Impero austro-ungarico fanno accedere allo Stato nazionale popoli o etnie che ne erano stati storicamente esclusi. Poi, dopo la Seconda guerra mondiale, la rivolta nell’ambito dei grandi imperi coloniali si fa in nome dell’emancipazione nazionale e il modello di Stato-nazione si impone nel mondo intero.

Spesso, in Africa, sulla base della suddivisione coloniale, alcuni Stati nascenti impongono una nazione ancora incerta o addirittura fittizia a etnie diverse che non possiedono nemmeno un linguaggio comune. Il caso limite è quello in cui l’idea di una nazione precede non solo la formazio­ne di uno Stato, ma finanche l’occupazione di un territorio, stimolando prima l’una e poi l’altra, come nel caso del sionismo, versione giudaica della concretizzazione di un’identità non più soltanto religiosa o etnica, ma nazionale. La formidabile realtà dello Stato-nazione che, ancora minoritaria due secoli fa, ha poi invaso e dominato il pianeta, resta ancora malconcepita e ancor meno pensata. Gli storici descrivono la formazione degli Stati­nazione, i loro sviluppi, ma, con l’eccezione di Toynbee, non c’è alcuna riflessione sulla loro natura. La sociologia parla di categorie di società (tradizionale, industriale, postindustriale) ma ignora la natura nazionale di queste società. Il marxismo ha minimizzato la realtà della nazione, chiarendo ciò che la divide (i conflitti di classe) e non ciò che la unifica,’ e ha minimizzato la realtà dello Stato, vedendo in esso non altro che uno strumento di coercizione nelle mani della classe dominante. Del resto, i partiti marxisti della Seconda Internazionale si sono infranti sul nazionalismo nel 1914, .e il «marxismo-leninismo» di Stalin si è impregnato di patriottismo negli anni Trenta.

Comunità, società

Una delle difficoltà maggiori per pensare lo Stato-nazione risiede nel suo carattere complesso. In effetti, lo Stato-nazione compiuto è un’entità al tempo stesso territoriale, politica, sociale, culturale, storica, mitica e religiosa. La sua realtà è multidimensionale, fatta dell’assemblaggio intimo di sostanze diverse unificate e articolate in una Unità.

Non mi dilungherò qui sulla realtà politica che si trova cristallizzata nella nozione di Stato sovrano. Lo Stato è un «apparato» che dispone di appendici come l’esercito, la polizia, la giustizia, eventualmente la chiesa. Dirò soltanto che la nozione di Stato non può essere esplicitata soltanto in termini politici e che è necessaria preliminarmente una definizione del concetto di apparato.

Lo Stato-nazione è un’entità sociale o società. E una società territorial­mente organizzata. Una società siffatta è complessa nella sua doppia natura in cui bisogna non solo opporre, ma altresì associare fondamentalmente le nozioni di Gemeinschaft o comunità e di Gesellsehaft o società. La nazione è una società nelle sue relazioni di interesse, di competizioni, rivalità, ambi­zioni, conflitti sociali e politici. Ma è parimenti una comunità identitaria, una comunità di atteggiamenti e una comunità di reazioni di fronte allo straniero e più ancora al nemico. Le guerre europee, dal XVII al XX secolo, hanno intensificato questa comunità per ciascuna nazione contrapposta, talvolta in una lotta mortale, a un nemico sentito in qualche caso addirit­tura come «ereditario». La storia dell’inizio del secolo rileva ad un tempo la formidabile conflittualità interna alle grandi nazioni occidentali, spinta talvolta fino alla guerra civile, e la loro formidabile solidarietà di fronte al nemico esterno. La conflittualità sembra predominante prima del 1914 opponendo i partiti operai, rivoluzionari e internazionalisti ai partiti bor­ghesi, nazionalisti e tradizionalisti. Ma improvvisamente, in ogni nazione, lo scoppio della guerra induce i partiti internazionalisti a compattarsi nella «unione sacra» contro il nemico esterno.



Comunità di destino

La comunità ha un carattere culturale e storico. È culturale sotto il profilo dei valori, i costumi, i riti, le norme, le credenze comuni, storico per le metamorfosi e le prove subite nel corso del tempo. È, nelle parole di Otto Bauer, una comunità di destino.

Le nazioni hanno in genere una lingua comune. Talvolta però il destino storico comune unisce popolazioni di lingue e religioni diverse, come la Svizzera il cui destino comune fu quello di mantenere una rigida e costante neutralità durante le guerre europee.

Questo destino comune viene memorizzato, trasmesso di generazione in generazione dalla famiglia, i canti, le musiche, le danze, le poesie e i libri, poi dalla scuola, che integra il passato nazionale nello spirito dei bambini in cui rivivono le sofferenze, i lutti, le vittorie, le glorie della storia nazionale, i martiri e le prodezze dei suoi eroi. Così l’identificazione con il passato rende presente la comunità di destino.

L’entità mitologica

La comunità di destino è tanto più profonda in quanto è suggellata da una fraternità mitologica. In effetti, lo Stato-nazione è una patria, termine femminile-maschile poiché contiene nel suo femminile il maschile della paternità. La patria è un’entità di sostanza consustanzialmente materna/ paterna. Trasferisce su una scala di popolazioni di milioni di individui, che non hanno alcun vincolo di consanguineità e spesso provengono da etnie

molto diverse, le calde relazioni che esistono fra persone appartenenti al medesimo focolare. Così la nazione, di sostanza femminile, ha in sé le qualità della terra-madre (madre patria), del Focolare (home, heimat) e suscita, nei momenti comunitari, i sentimenti d’amore che si provano naturalmente per la propria madre. Lo Stato, invece, è di sostanza paterna. Dispone dell’au­torità assoluta e incondizionata del padre-patriarca e gli si deve obbedienza assoluta. La relazione matti-patriottica con lo Stato-nazione suscita, di fronte al nemico, il sentimento della fraternità mitica dei «figli della patria».

Il mito nazionale è bipolarizzato. Al primo polo c’è il carattere spirituale della fraternità tra «figli della patria». Al secondo polo, la fraternità mito­logica appare come una fraternità biologica che unisce fra loro esseri dello stesso sangue, il che tende allora a suscitare il secondo mito (biologicamente erroneo) della «razza» comune. Così l’idea di nazione comporta un razzismo virtuale che si attiva allorché il secondo polo prende il sopravvento. Nel corso del XIX secolo, una polemica franco-tedesca ha messo in rilievo queste due polarità. La querelle sull’Alsazia-Lorena ha radicalizzato l’opposizione fra una concezione francese, che faceva della nazione un essere spirituale, un’«anima» comune che presuppone l’adesione dello spirito e dell’anima degli individui, e una concezione tedesca che insisteva su un’appartenenza quasi biologica al popolo etnicamente uno. In questa concezione, l’Alsazia­Lorena era indubitabilmente tedesca per determinazione germanica, mentre nella concezione francese era francese per scelta e volontà.

Se, in Francia, la prima concezione si impose nel partito repubblicano e permise alla terza Repubblica di continuare l’opera storica di francesizzazione attraverso l’integrazione di immigrati, la seconda polarizzazione trionfò nel partito nazionalista.

La religione nazionale

La mitologia matti-patriottica suscita una vera e propria religione dello Stato-nazione, che implica cerimonie di esaltazione (bandiera, monumen­to ai caduti), culto di adorazione alla Madrepatria, culti personalizzati di eroi e martiri. Come ogni religione, si nutre di amore, capace di ispirare fanatismo e odio. Lo Stato-nazione si radica nel tufo materiale della terra che sottende e costituisce il suo territorio e, al tempo stesso, vi trova il suo tufo mitolo­gico, quello della terra-madre, della madre-patria. C’è come una rotazione ininterrotta dal geopolitico al mitologico e, al tempo stesso, dal politico al culturale al religioso. Il mito non è la sovrastruttura della nazione: è ciò che genera solidarietà e comunità; è il cemento necessario a qualunque società e, nella società complessa, è il solo antidoto all’atomizzazione individuale e al dilagare distruttivo dei conflitti. Così, in una rotazione autogeneratrice del tutto attraverso i suoi elementi costitutivi, e dei suoi elementi costitutivi attraverso il tutto, il mito genera ciò che lo genera, ovvero lo Stato-nazione medesimo.

Oggigiorno, l’era in cui lo Stato-nazione rivestiva un ruolo emancipatore rispetto agli Stati coloniali è finita. Inoltre, tutto ci indica oggi che l’era della fecondità del potere assoluto dello Stato-nazione è superata. Prima di tutto, nella stessa cornice interna della nazione, lo Stato tende a diventare troppo oppressivo, astratto e omogeneizzatore a causa del suo stesso sviluppo tecno­burocratico. Ma, soprattutto, tutti i grandi problemi richiedono soluzioni multinazionali, transnazionali, continentali, perfino planetarie e necessitano di sistemi associativi, confederativi e federativi metanazionali.

In ogni caso, se è palese che in un certo numero di Paesi europei il nazionalismo aggressivo/difensivo si è considerevolmente assopito nel corso dei processi di intercomunicazione e scambio che sono seguiti alla Seconda guerra mondiale, deve essere altrettanto chiaro che lo Stato-nazione è ben lungi dall’essere diventato un fossile storico. Prima di tutto, non si può as­solutamente escludere che il rinnovamento delle esasperazioni nazionaliste che succede al crollo dell’ex impero sovietico possa effettuare una ricontaminazione dall’est all’ovest. Ma quand’anche, al contrario, l’est assistesse a una pacificazione dei nazionalismi, la resistenza multipla dello Stato-nazione, tanto nei confronti delle autonomie decentralizzate all’interno del suo ambito, quanto rispetto al sorgere di istituzioni multinazionali, resterà abbastanza forte da frenare e perfino stoppare tutti i processi che tendono a creare un sistema confederativo europeo e alle istanze sovranazionali di carattere continentale o planetario. L’antico internazionalismo aveva sottostimato la formidabile realtà mitologica dello Stato-nazione. Si tratta ormai non solo di riconoscerla, ma anche di non cercare di abolirla. Si tratta di rivitalizzarla, come è stata relativizzata la realtà provinciale che però non è stata abolita nella realtà nazionale. Ma allo scopo bisognerebbe che si amplificassero e si radicassero i sentimenti di solidarietà europei. Bisognerebbe al tempo stesso che i fondamenti mitologico-religiosi della nazione, il loro carattere matri-patriottico, fossero estesi, non solo sulla scala del nostro continente, già contrassegnato dalla civiltà che ha creato e da una comunità di destino via via più evidente, ma anche all’insieme di un pianeta ormai riconosciuto come la sola casa (home, heimat) della specie umana, e minacciata del più gran pericolo dalla specie umana medesima. Al pari della comunità nazio­nale, la comunità planetaria ha il suo nemico, ma la differenza radicale è che il nemico siamo noi stessi e che è difficile riconoscere questo nemico e affrontarlo. Tutto ciò fa sì che ci troviamo giusto al malcerto principio di questa presa di coscienza e delle nuove solidarietà. Questi processi potranno eventualmente sia accelerarsi e amplificarsi, sia al contrario disintegrarsi allorché entreremo in pieno nelle crisi che si annunciano. Ancora una volta, saremo obbligati ad attingere le nostre ragioni per sperare dalle ragioni che ci indurrebbero a disperare.

[testo inedito del 1997, tratto da: Edgar Morin, La mia sinistra. Rigenerare la speranza, a cura di Riccardo Mazzeo, Erickson, Trento 2011]

venerdì 28 gennaio 2011

Nazione e comunità: definizioni e chiarimenti
  
 Maurizio Neri

Il comunismo, inteso nel senso di Marx, si è storicamente proposto come movimento spontaneo possibile dall' insorgere di una contraddizione tra classi esasperata, che avrebbe portato la sempiterna lotta di classe a sfociare nell'ultimo stadio dell'evoluzione sociale: l'avvento di una società senza classi attraverso l'egemonia temporanea del proletariato e la successiva estinzione naturale dello Stato, del potere, delle istituzioni e di tutte le sovrastrutture a ciò connesse. In questo processo di liberazione dalle catene, non vi era alcuna comunità politica pensata come intermediazione tra uomini singoli e vita sociale, poiché la vita sociale, superata la contraddizione del capitale avrebbe superato la scissione rispetto alla vita personale tipica dei modi di produzione conflittuali.
Da tale visione prende forma l'idea di un comunismo spontaneo che si afferma per via decostruttiva, ovvero destrutturando poco a poco l'uomo dalle incrostazioni sociali che lo condizionano.
Proporre un comunismo comunitario, cioè incentrato sulla complessa nozione di comunità, significa in realtà respingere dalla base la concezione del comunismo come movimento spontaneo che non necessita di alcuna entità autocosciente collettiva ( se non la comunità umana ultima universale), e aver chiara l'idea che tra singolo ed universale, come tra singolo e sociale, vi sarà sempre un salto ontologico troppo grande per poter credere in un innesto armonico senza filtri di sorta.
La comunità, allora, è proprio quel filtro che segna il passaggio tra uomo e universale, e tra uomo e suo essere in comune con l'altro. E lo è in due maniere:da un lato essa rappresenta il momento politico di riflessione comune, che si interpone tra persona e società, permettendo ad ognuno di rivelare il suo essere politico.
Dall'altro è reale momento di unità intermedia tra uomini, e si declina come identità collettiva sotto innumerevoli forme: familiare, affettiva, di conoscenza, di mestiere, di professionalità, territoriale, nazionale, linguistica, statale, ed infine universale umana ( la vera comunità umana/gemeinwesen).

Affinchè la comunità umana universale (gemeinwesen) sia davvero un concetto reale, e non un'astrazione consolatoria del nostro essere a-comunitari precipitati nel cinismo sociale conflittuale, bisogna fare in modo che la comunità intermedia in ogni sua forma sia riconosciuto luogo di legame sociale tra uomo e uomo.
“La furia del dileguare” espressione utilizzata da Hegel nella sua critica all'astrattezza dell'utopia comunitaria roussoviana, è stata elemento dominante nel comunismo storicamente predicato e proposto.
Re-immettere il comunismo nella comunità reale, significa rigettare utopie dissolutorie, rigettare appunto la furia del dileguare, in favore di utopie e di pratiche costruttive. Costruttive senza ansia rigeneratrice.
Non si costruisce su terra bruciata, ma si costruisce su ciò che già c' è.
Così come i medioevali costruivano le città sui resti di quelle romane, riutilizzandone il materiale e valorizzandone i siti, il comunismo deve essere costruito con il materiale reale esistente, e non con inesistenti purezze creazioni da laboratorio.
Questo significa valorizzare la comunità, come forma immanente dell'azione umana, come realizzazione quotidiana del singolo teso all'universale.

La ragione per cui il termine comunità è molto più pregnante e onnicomprensivo del temine nazione, è a questo punto ben comprensibile.
La nazione è valida e sacrosanta forma comunitaria, ma non è l'unica declinazione possibile del concetto comunitario.
Se così fosse, e se il termine nazionale, nazionalitario o nazione divenissero momenti univoci sloganistici, si incorrerebbe nel rischio di fare della nazione un lasciapassare a tutto campo per l'incontro tra singolo e universale. Così non è, poiché la nazione, è semplice espressione particolare di una comunità possibile, e, sopratutto all'interno di essa, vivono e nascono comunità intermedie di vitale importanza.
Rinunciare al nazionalitarismo come fattore sloganistico non significa affatto rigettarlo come pensiero forte relativo alla concezione della nazionalità.
Il nazionalitarismo che dobbiamo difendere è tutto nella considerazione dell'importanza dell'espressione libera culturale, linguistica e tradizionale di popoli coesi ed autocoscienti.
Ma essere nazionalitari, non può neanche assurgere a forma ideologica aprioristica, che induce alla difesa dell'indipendenza statuale possibile di nazionalità o etnie, indipendentemente dai contesti e dalla reale percezione che i popoli hanno realmente di loro stessi nel presente.
Credendo che la nazione sia un concetto dinamico, aperto, in divenire, applicare un nazionalitarismo ideologico -accademico, per cui ad ogni etnia-lingua deve corrispondere la difesa senza quartiere del diritto di indipendenza, è pura operazione astratta, fatta dall'alto di una teoria e non dall'interno delle dinamiche reali di popoli liberi.
In termini concreti il nazionalitarismo reale ( da opporre a quello ideologico ) deve avere quattro priorità:
1) la difesa della libertà formale di ogni popolo potenzialmente autocosciente di determinare in forma democratica il proprio futuro, manifestando attraverso libere elezioni eventuali volontà indipendentiste.
2) La difesa della lotta, anche armata, qualora realmente necessaria, dei popoli oppressi, ovvero viventi in forme di impossibilità di esprimere in alcun modo la propria cultura e specificità. In proposito, senza scendere nei singoli esempi, bisogna essere molto chiari, perchè l'argomento si presta a manipolazioni demagogiche o a logiche di tipo lobbistico ed imperialistico che nulla hanno a che vedere con un nazionalitarismo puro e verace. L'oppressione reale e giuridica è il vero criterio dirimente per legittimare lotte che travalicano i confini della democraticità e l'uso della violenza, ricordando che il ricorso a lotte impositive è legittimo solo laddove non esiste in alcun modo altra possibilità.
3) La lotta per forme di inter-comunitarismo politico (questo si indipendentemente dalle condizioni specifiche d'ogni nazionalità) all'interno degli stati politici esistenti, difendendo la possibilità della convivenza plurinazionale, difendendo la sovranità politica statale dove minacciata da separatismi etero-diretti
4) La propagazione di uno spirito patriottico democratico, fondato sulla fede nella comunità politica, in senso costituzionale e progettuale, da intendersi dunque in opposizione alla visione nazionale di tipo culturale ed etnico. Esempi luminosi di patriottismo politico immerso tra presente e passato e dunque non metastorico, è quello sudamericano, di nazioni come Cuba , il Venezuela, la Bolivia. La proposizione di un sano patriottismo civico, aperto e plurietnico, estraneo ad ogni logica di sciovinismo o di etnicismo, è uno dei nostri obiettivi politici e culturali al tempo odierno in Italia, paese sempre più supino a logiche esterne alla propria vita politica nazionale autonoma, e sempre più in crisi di rappresentanza strutturale causata dalla dipendenza del potere dominante da poteri esterni consacrati persino dalla presenza di basi militari di controllo.
In tale senso la lotta per un'Italia indipendente nell'alveo di un Europa da ricostruire, deve essere ideale faro d'azione: non certo per affermare un italianismo culturale sciovinistico ed annichilitore di altre etnie, o persino potenziali nazionalità coesistenti presenti nel nostro territorio, ma, al contrario, per sviluppare il senso d'appartenenza intercomunitario in un alveo politico storicamente formatosi in unità e potenziale condivisione nella differenza e nel rispetto delle tradizioni delle varie comunità interne.

Su queste quattro linee guida si può sviluppare una sensibilità nazionalitaria non ideologica.

Per concludere questo breve scritto chiarificatore, il ricorso al termine comunità, come primo riferimento politico ( di presentazione e di sostanza) è inerente all'onnicomprensività e alla trasversalità del termine comunità, rispetto alla parzialità ed all'univocità del termine nazione.
La nazione, come detto, non è che una possibile comunità particolare, ma non incarna in toto il senso di comunità che nella nostra elaborazione teorica vuole essere il centro motore di riproposizione di un comunismo politico fondato sul comunitarismo filosofico.
La sovranità della nazione politica, nonché la valorizzazione della nazionalità culturale coesistente, sono obiettivi politici e istanze collettive di cui ci facciamo portavoce e difensori, contro la cultura anti-democratica ed atomistica del potere globale concentrato nella mani di gruppi oligarchi senza patria né comunità.
Ma la comunità, intesa in ogni sua forma, livello e declinazione, è il vero oggetto di interesse complessivo cui ci rivolgiamo per ricostruire un pensiero anti-capitalista forte e radicato nella vita reale dell'uomo.

venerdì 1 ottobre 2010

Impero, imperialismo, stati-nazione e classi 





di Piero Pagliani




«Gli inglesi risero molto quando io aprii il mio speech osservando che il nostro amico Lafargue, ecc…, che ha eliminato le nazionalità, ci ha rivolto il discorso in Francese, vale a dire in una lingua che i nove decimi dell’uditorio non capivano. Accennai inoltre che lui, affatto inconsapevolmente, sembra che voglia intendere sotto il termine negazione delle nazionalità il loro assorbimento nella nazione modello francese.»

Lettera di Marx a Engels, 20 giugno 1866



1. A partire dal collasso dell’Unione Sovietica abbiamo assistito impotenti a una serie impressionante di violenze planetarie da parte degli Stati Uniti con il seguito, spesso, dei suoi alleati: l’aggressione premeditata alla Serbia, l’invasione dell’Iraq, l’invasione dell’Afghanistan. E possiamo già assistere ad atti di guerra, magari su “invito” dei cosiddetti “legittimi governanti”, come i bombardamenti sul Pakistan, le manovre nello Yemen e tra poco in Somalia come promesso da Barack Obama dopo l’attentato farsa del volo Amsterdam-Detroit (basta aprire un atlante e si capisce immediatamente perché gli USA sono così interessati a questi due Paesi: controllano il Golfo di Aden, transito marittimo fondamentale, specialmente per le rotte petrolifere).

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