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venerdì 5 aprile 2013

Se il capitalismo diventa di sinistra

 
 
Diego Fusaro
 
Sul fatto che alle elezioni la sinistra, a ogni latitudine e a ogni gradazione, sia andata incontro all’ennesima sonante sconfitta, non v’è dubbio e, di più, sarebbe una perdita di tempo ricordarlo, magari con documentatissimi grafici di riferimento. Più interessante, per uno sguardo filosoficamente educato, è invece ragionare sui motivi di questa catastrofe annunciata. E i motivi non sono congiunturali né occasionali, ma rispondono a una precisa e profonda logica di sviluppo del capitalismo quale si è venuto strutturalmente ridefinendo negli ultimi quarant’anni. Ne individuerei la scena originaria nel Sessantotto e nell’arcipelago di eventi ad esso legati. In sintesi, il Sessantotto è stato un grandioso evento di contestazione rivolto contro la borghesia e non contro il capitalismo e, per ciò stesso, ha spianato la strada all’odierno capitalismo, che di borghese non ha più nulla: non ha più la grande cultura borghese, né quella sfera valoriale che in forza di tale cultura non era completamente mercificabile.

Non vi è qui lo spazio per approfondire, come sarebbe necessario, questo tema, per il quale mi permetto, tuttavia, di rimandare al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (Bompiani, 2012). Comunque, per capire a fondo questa dinamica di imposizione antiborghese del capitalismo, e dunque per risolvere l’enigma dell’odierna sinistra, basta prestare attenzione alla sostituzione, avviatasi con il Sessantotto, del rivoluzionario con il dissidente: il primo lotta per superare il capitalismo, il secondo per essere più libero individualmente all’interno del capitalismo. Tale sostituzione dà luogo al piano inclinato che porta all’odierna condizione paradossale in cui il diritto allo spinello, al sesso libero e al matrimonio omosessuale viene concepito come maggiormente emancipativo rispetto a ogni presa di posizione contro i crimini che il mercato non smette di perpetrare impunemente, contro gli stermini coloniali e contro le guerre che continuano a essere presentate ipocritamente come missioni di pace (Kosovo 1999, Iraq 2003 e Libia 2011, giusto per ricordare quelle più vicine a noi, avvenute sempre con il pieno sostegno della sinistra).

Dal Sessantotto, la sinistra promuove la stessa logica culturale antiborghese del capitalismo, tramite sempre nuove crociate contro la famiglia, lo Stato, la religione e l’eticità borghese. Ad esempio, la difesa delle coppie omosessuali da parte della sinistra non ha il proprio baricentro nel giusto e legittimo riconoscimento dei diritti civili degli individui, bensì nella palese avversione nei confronti della famiglia tradizionale e, più in generale, della normalità borghese. Si pensi, ancora, alla distruzione pianificata del liceo e dell’università, tramite quelle riforme interscambiabili di governi di destra e di sinistra che, distruggendo le acquisizioni della benemerita riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923, hanno conformato – sempre in nome del progresso e del superamento delle antiquate forme borghesi – l’istruzione al paradigma dell’azienda e dell’impresa (debiti e crediti, presidi managers, ecc.).

Il principio dell’odierno capitalismo postborghese è pienamente sessantottesco e, dunque, di sinistra: vietato vietare, godimento illimitato, non esiste l’autorità, ecc. Il capitalismo, infatti, si regge oggi sulla nuda estensione illimitata della merce a ogni sfera simbolica e reale (è questo ciò che pudicamente chiamiamo “globalizzazione”!). “Capitale umano”, debiti e crediti nelle scuole, “azienda Italia”, “investimenti affettivi”, e mille altre espressioni simili rivelano la colonizzazione totale dell’immaginario da parte delle logiche del capitalismo odierno. Lo definirei capitalismo edipico: ucciso nel Sessantotto il padre (l’autorità, la legge, la misura, ossia la cultura borghese), domina su tutto il giro d’orizzonte il godimento illimitato. Se Mozart e Goethe erano soggetti borghesi, e Fichte, Hegel e Marx erano addirittura borghesi anticapitalisti, oggi abbiamo personaggi capitalisti e non borghesi (Berlusconi) o antiborghesi ultracapitalisti (Vendola, Luxuria, Bersani, ecc.): questi ultimi sono i vettori principali della dinamica di espansione capitalistica. La loro lotta contro la cultura borghese è la lotta stessa del capitalismo che deve liberarsi dagli ultimi retaggi etici, religiosi e culturali in grado di frenarlo.

Dalla sinistra che lotta contro il capitalismo per l’emancipazione di tutti si passa così, fin troppo disinvoltamente, alla sinistra che lotta per la legalità, per la questione morale, per il rispetto delle regole (capitalistiche!), per il diritto di ciascuno di scolpire un sé unico e inimitabile: da Carlo Marx a Roberto Saviano. È certo vero che Berlusconi è il Sessantotto realizzato, come ha ben mostrato Mario Perniola in un suo aureo libretto: la legge non esiste, vi è solo il godimento illimitato che si erge a unica legge possibile. Ma sarebbe un errore imperdonabile credere che il capitalismo sia di destra. Lo era al tempo dell’imperialismo e del colonialismo. Oggi il capitalismo è il totalitarismo realizzato (a tal punto che quasi non ci accorgiamo nemmeno più della sua esistenza) e, in quanto fenomeno “totalizzante”, occupa l’intero scacchiere politico. Più precisamente, si riproduce a destra in economia (liberalizzazione selvaggia, privatizzazione oscena, sempre in nome del teologumeno “ce lo chiede l’Europa”), al centro in politica (sparendo le ali estreme, restano solo interscambiabili partiti di centro-destra e di centro-sinistra), a sinistra nella cultura. Sì, avete capito bene: a sinistra nella cultura. Dal Sessantotto in poi, la cultura antiborghese in cui la sinistra si identifica è la sovrastruttura stessa del capitalismo postborghese: il quale deve rimuovere la borghesia e lasciare che a sopravvivere sia solo la già ricordata dinamica di estensione illimitata della forma merce (essa stessa incompatibile con la grande cultura borghese). Di qui le forme culturali più tipiche della sinistra: relativismo, nichilismo, scetticismo, proceduralismo, pensiero debole, odio conclamato per Marx e Hegel, elogio incondizionato del pensiero della differenza di Deleuze, ecc.

In questo timbro “totalizzante” risiede il tratto principale dell’ormai avvenuta estinzione dell’antitesi tra destra e sinistra, due opposti che oggi esprimono in forme diverse la stessa visione del mondo, duplicando tautologicamente l’esistente. Negli ultimi “trent’anni ingloriosi”, il capitale e le sue selvagge politiche neoliberali, all’insegna della perdita dei diritti del lavoro e della privatizzazione sfrenata, si sono imposti con uguale forza in presenza di governi ora di centro-destra, ora di centro-sinistra (Mitterand in Francia, Blair in Inghilterra, D’Alema in Italia, ecc.). Di conseguenza, l’antitesi tra destra e sinistra esiste oggi solo virtualmente come protesi ideologica per manipolare il consenso e addomesticarlo in senso capitalistico.

Destra e sinistra esprimono in forme diverse lo stesso contenuto e, in questo modo, rendono possibile l’esercizio di una scelta manipolata, in cui le due parti in causa, perfettamente interscambiabili, alimentano l’idea della possibile alternativa, di fatto inesistente. Vi è, a questo proposito, un inquietante intreccio tra i due apoftegmi attualmente più in voga presso i politici – “non esistono alternative” e “lo chiede il mercato” –, intreccio che rivela, una volta di più, l’integrale rinuncia, da parte della politica, a operare concretamente in vista della trasformazione di un mondo aprioristicamente sancito immodificabile.

Il paradosso sta nel fatto che la sinistra oggi, per un verso, ha ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva dell’ormai defunto partito comunista e, per un altro verso, li impiega puntualmente in vista del traghettamento della generazione comunista degli anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale al capitalismo globalizzato. Il quotidiano “La Repubblica” è la sede privilegiata di questo processo in cui si consuma questa oscena complicità di sinistra e capitalismo. I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione. Per questo, la sinistra continua inflessibilmente a coltivare forme liturgiche ereditate dalla fede ideologica precedente nell’atto stesso con cui abdica completamente rispetto al proprio originario “spirito di scissione” (la formula è del grande Antonio Gramsci), aderendo alle logiche del capitale in forme sempre più grossolane. È di Bersani la frase, pronunciata in campagna elettorale, “i mercati non hanno nulla da temere dal PD”: frase pleonastica, perché esprime ciò che già tutti sapevamo, ma che è rilevante, perché ben adombra come la sinistra continui indefessamente a lavorare per il re di Prussia, il capitalismo gauchiste.

Lungo il piano inclinato che porta dalla nobile figura di Antonio Gramsci a personaggi come Massimo D’Alema o Vladimir Luxuria si è venuto consumando il tragicomico transito dalla passione trasformatrice al disincanto cinico – tipico della generazione dei pentiti del Sessantotto, la più sciagurata dal tempo dei Sumeri ad oggi – fondato sulla consapevolezza della morte di Dio, con annessa riconciliazione con l’ordo capitalistico. Con i versi di Shakespeare: “orribile più di quello delle erbacce è l’odore dei gigli sfioriti” (lilies that fester smell far worse than weeds). E questi gigli sono effettivamente sfioriti: sono l’incarnazione di quello che Nietzsche chiamava l’“ultimo uomo”. L’ultimo uomo sa che Dio è morto e che per ciò stesso tutto è possibile: perfino aderire al capitalismo e bombardare il Kosovo o la Libia.

È, del resto, solo in questo scenario che si comprende il senso profondo della dinamica, oggi trionfante, della personalizzazione esasperata della polemica con l’avversario. L’antiberlusconismo, con cui la sinistra ha identificato il proprio pensiero e la propria azione negli ultimi vent’anni, ne rappresenta l’esempio insuperato. La personalizzazione dei problemi, infatti, si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni, ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di riciclarsi, ossia di passare dall’opposizione operativa al capitalismo all’adesione alle logiche neoliberali, difendendo l’ordine, la legalità (capitalistica) e le regole (anch’essere capitalistiche). L’antiberlusconismo ha indotto l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali (tramite anche le forme contrattuali più spregevoli, che rendono a tempo determinato la vita stessa) e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti.

Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti del cosmo a morfologia capitalistica, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per questa via, la politica della sinistra – con Voltaire, “mi ripeterò finché non sarò capito” – non ha più avuto quale referente polemico il sistema della produzione e dello scambio – ritenuto anzi incondizionatamente buono o, comunque, intrascendibile –, bensì l’irresponsabilità di una persona che, senza morale e senza onestà, ha inficiato il funzionamento di una realtà sociale e politica di per sé non contraddittoria.

La politica ridotta al tragicomico teatro identitario dell’opposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani ha permesso di far passare inosservato lo scolpirsi del nuovo profilo di una sinistra che – nel nome della questione morale e nell’oblio di quella sociale – ha abdicato rispetto alla propria opposizione agli orrori che il capitalismo non ha cessato di generare. È in questo senso che l’antiberlusconismo rivela la sua natura anche più indecente, se mai è possibile, dello stesso berlusconismo.  In questo risiede la natura tragica, ma non seria dell’odierna sinistra, fronte avanzato della modernizzazione capitalistica che sta distruggendo la vita umana e il pianeta. La sinistra è il problema e, insieme, si pensa come la soluzione. Il primo passo da compiere per riprendere il perseguimento del programma marxiano dell’emancipazione di tutti dal capitalistico regno animale dello spirito consiste, pertanto, nell’abbandono incondizionato della sinistra e, anzi, della stessa dicotomia destra-sinistra. Tutto il resto è chiacchiera d’intrattenimento o, avrebbe detto Marx, “ideologia”.

martedì 31 luglio 2012

Dell'inutilità in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale

 

Intervista di Luigi Tedeschi a Costanzo Preve

(Tedeschi) L’avanzare e il perdurare della crisi economica europea, sta progressivamente destrutturando la società. La recessione e i decrementi del Pil hanno determinato la fuoriuscita dalla produzione di rilevanti quote di manodopera dal sistema produttivo. Si allargano a macchia d’olio la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato, il lavoro nero. Soprattutto, l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani è diventato assai difficoltoso. La nostra società diviene sempre più decadente, per il venir meno del ricambio generazionale e la mobilità sociale. La liberalizzazione dell’economia, dei costumi, della cultura di massa, quali fenomeni scaturiti dall’avvento della globalizzazione, si rivelano miti virtuali, destinati ad essere smentiti dal disfacimento degli equilibri sociali provocato dalla crisi incombente. Se volessimo elaborare un bilancio del primo decennio del XXI° secolo, dovremmo rilevare che l’avvento della società globalizzata ha avuto solo la funzione di distruggere l’eredità sociale e culturale del ‘900, dato che i nuovi orizzonti, le nuove opportunità, le grandi sfide del nuovo secolo, si sono rivelate elementi di una strategia di ascesa al potere di una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito della masse sempre più escluse dai processi produttivi. L’emarginazione sociale coinvolge interi popoli; esclusione ed emarginazione sono fenomeni conseguenti al tramonto di un sistema economico basato sulla produzione e di una società fondata su equilibri ispirati al solidarismo interclassista. La fuoriuscita dal mondo del lavoro determina negli individui un senso di inutilità esistenziale, di estraneazione sociale, che conduce alla perdita della autostima di se stessi, ad un non senso della propria individualità, ormai non più compatibile con le prospettive di sviluppo di una società elitaria, basata sulla generalizzata esclusione delle masse non più integrabili nei processi evolutivi della società globalizzata. La coscienza della inutilità è coeva quindi alla defunzionalizzazione produttiva. Tale condizione umana riflette quindi la struttura fondamentale dei rapporti sociali nella società capitalista. L’individuo ha coscienza di sé in quanto svolge un ruolo produttivo nel contesto economico, altrimenti la sua vita è condannata alla emarginazione, alla stregua di un prodotto obsoleto e quindi privo di valore economico. La funzione produttiva e il ruolo consumistico sono le sostanziali fonti di riconoscimento nella società capitalista. Dobbiamo allora credere che è il mercato, con i suoi rialzi e ribassi a dare senso alla vita di ognuno. Il lavoro è merce di scambio in un mercato che si evolve in una prospettiva selettiva di progressiva esclusione dei lavoratori dalla produzione, mai di espansione. La disoccupazione diffusa è però un fenomeno che rivela la sottoutilizzazione di risorse umane disponibili. Il paradosso dell’economia liberista è proprio questo: l’attuale capitalismo genera recessione per la propria incapacità di allocazione e razionalizzazione della risorse produttive disponibili.

(Preve) Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di “sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile. Già Hegel aveva a suo tempo rilevato che 1’ateismo non consisteva nella negazione formale, materiale e “cosale” di Dio, ma nella perdita di interesse verso la verità. Ai suoi tempi, però, questa diagnosi infausta era prematura, perchè l’interesse verso la verità comunitario-sociale (l’unica esistente, il resto essendo certezza, esattezza, veridicità, corrispondenza, eccetera), sia pure deformata dal suo uso ideologico, avrebbe avuto ancora un secolo e mezzo davanti a sé, il secolo e mezzo della civiltà borghese e della sua volonterosa ma inefficace contestazione proletaria. Al tempo di Hegel era impensabile che, appena aperta la televisione per le ultime notizie, la prima frase gridata dal mezzobusto lottizzato fosse “i mercati sono euforici”, oppure “i mercati sono nervosi”. Di fronte a questa quotidiana realtà, alienata ed antropomorfizzata insieme, Kafka appare un sobrio epistemologo popperiano. In secondo luogo, tu suggerisci un tema che dovrebbe interessare i sociologi e gli storici per i prossimi cento anni, e cioè che si sta formando a livello globale una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito delle masse sempre più escluse dai processi produttivi. In proposito, sfugge agli analisti universitari (anche i ceti universitari, gonfiati sproporzionatamente negli ultimi decenni per “assorbire” i miserabili contestatori sessantottini, sono in preda al processo di inutilità e decadenza) che questa nuova classe in formazione non è più la vecchia borghesia, sulla cui definizione multiforme erano “tarati” i concetti del pensiero politico degli ultimi due secoli. Siamo di fronte ad una vera e propria novità storica, in linguaggio hegeliano una nuova epoca di “gestazione e di trapasso”. Il vecchio apparato concettuale non serve più, ma i ceti universitari delle facoltà di filosofia e scienze sociali (non parlo qui di facoltà più serie come biologia, medicina ed ingegneria) sono ormai dei cani da guardia destinati ad impedire lo sviluppo di una nuova concettualizzazione, essendo appunto “pagati” per parlare solo di olocausto, diritti umani, dittatori baffuti e barbuti e legittimazione dei riti elettorali svuotati di ogni residua sovranità. Essi non possono impedire lo sviluppo di una nuova necessaria concettualizzazione, ma possono ritardarla, intorbidire le acque, concionare su concetti vuoti come “qualunquismo” o meglio ancora “populismo”, eccetera. In terzo luogo, infine, la sensazione di inutilità, che ha come sua base strutturale ovviamente la “superfluità” demografica della forza-lavoro valorizzabile dal capitale finanziario, si ripercuote inevitabilmente nella sensazione di inutilità e di superfluità dell’argomentazione filosofica e culturale. Il divorzio fra realtà e “virtualità”, infatti, c’è sempre stato, ma oggi sta raggiungendo vertici da record. Il cattolico Formigoni si tuffa da yacths di speculatori milionari, derubricati ad “amici privati”, il banchiere Monti regna in nome della limitazione dello spread, e la “cassetta delle menzogne” (idest la televisione) ha trasformato i sionisti in campioni della democrazia, l’esemplare Siria di Assad in regno hitleriano di un feroce dittatore, e non è un caso che il fenomeno di Beppe Grillo, battezzato sfrontatamente come “populismo”, sia in realtà sintomo evidente di disperazione politica. Piuttosto di questi politici e di questi economisti, meglio un attore, ma sarebbero ancora meglio degli scimpanzè e degli oranghi. E’ infatti assolutamente insensato pensare che una società possa riprodursi sulla base del mercato, con i suoi rialzi ed i suoi ribassi, eretto ad unico criterio della sensatezza globale. A chi rivolgersi? Ratzinger predica bene, fa riferimento alla filosofia aristotelica della natura umana (la migliore mai prodotta), ma continua a prendersela con lo spettro del comunismo, nel frattempo defunto da almeno un ventennio, ed a avallare il peggio del politicamente corretto in circolazione. Il Dalai Lama, erroneamente spacciato per “guida spirituale”, agisce scopertamente come un agente USA anti-cinese, e tutti fingono che sia soltanto l’eterna incarnazione della saggezza orientale. Il giornale “La Repubblica” ed il suo laicismo azionista al servizio delle oligarchie bancarie ha sciaguratamente forgiato un’intera generazione di semicolti subalterni, maggioritari in quella patetica nicchia sociale dei laureati recenti, dei prof di scuola secondaria e dei ceti universitari autoreferenziali, di fronte a cui le plebi di Padre Pio appaiano per contrasto un gruppo di pensosi intellettuali illuministi.  Ma, evidentemente, il discorso è appena incominciato.

(Tedeschi) Il mercato globale si è affermato attraverso il dominio del mercato finanziario sulla economia produttiva: la crescita economica non è la sua ragion d’essere né tantomeno il suo fine ultimo. In tale contesto, lo sviluppo produttivo si manifesta nei tempi e nei luoghi determinati dalle strategie della speculazione finanziaria. Quindi esso è di per sé un fenomeno indotto, momentaneo e precario, a cui poi fanno riscontro crisi e sottosviluppo non risolvibili secondo i canoni delle dottrine economiche novecentesche. Le stesse crisi, non hanno la loro causa nei cicli economici ricorrenti, ma semmai nelle bolle finanziarie ricorrenti, in eventi cioè estranei alle dinamiche della produzione. La globalizzazione ha prodotto insieme ai mercati globali, anche problemi e crisi globali, data l’interconnessione tra le economie e i mercati di tutto il mondo. La attuale crisi sistemica ha generato decrementi di produzione e di consumo assai rilevanti, decrescita degli investimenti e rarefazione della liquidità. Certo è che la fine del welfare, il lavoro precario, le delocalizzazioni produttive, hanno profondamente inciso sulle capacità di consumo e di risparmio delle masse. Pertanto, nel prossimo futuro sarà di attualità il problema della esistenza di masse non più utilizzabili nella produzione e non più dotate di capacità di consumo. La condizione di inutilità degli individui si va estendendo alle masse globali di lavoratori - consumatori obsoleti e destinati alla rottamazione. Tale problematica è esposta nel libro di M. Della Luna “Oligarchia per popoli superflui, Koiné Nuove Edizioni 2010”. Infatti, mentre nei secoli passati l’incremento della popolazione era incentivato dai sovrani di stati che necessitavano di soldati, agricoltori e cittadini produttori che pagassero imposte, oggi, l’aumento della popolazione mondiale, unito alla recessione produttiva e al decremento delle risorse naturali, ha creato una nuova categoria antropologica: quella dei popoli superflui. Superflui perché non integrabili nel sistema economico e bisognosi di mezzi di sostentamento, in tempi di destrutturazione dello stato sociale. Al di là delle ipotesi catastrofiste (per fortuna poco praticabili), quali quelle di guerre nucleari o epidemie provocate allo scopo di decrementare la popolazione mondiale, altre soluzioni mi sembrano credibili. E’ infatti ipotizzabile l’erogazione pubblica di sussidi minimi di sostentamento per assicurare, assieme alla sopravvivenza materiale delle masse, anche quella del mercato, garantendogli un adeguato livello di consumi. In tale tragico scenario, gran parte dell’umanità vivrebbe in una condizione di dipendenze economico - esistenziale assimilabile alla schiavitù. Ma la situazione descritta sarebbe possibile qualora si prestasse fede al dogma liberista della autoreferenza totalitaria della economia capitalista. Masse asservite e ridotte alla condizione di perpetua, emergenziale sopravvivenza, sono incapaci di rivoluzioni, qualora le cause dei fenomeni rivoluzionari fossero solo di ordine economico. Al contrario, i motivi del mancato riconoscimento sociale, e della ribellione verso un ordine costituito perché moralmente ingiusto, sono di ordine politico - sociale, perché nascono dalla volontà comune di partecipazione politica e dalla visione (magari utopica), di una diversa strutturazione della società che sia in grado di sviluppare risorse, onde creare una più equa e diffusa ripartizione della ricchezza. La crisi della attuale liberaldemocrazia di ispirazione anglosassone è quella di un ordine che non può e non vuole sviluppare risorse, perché il suo scopo ultimo è quello si preservare un sistema finanziario di per sé condannato al fallimento. 



(Preve)Tu ti poni una domanda inquietante: la gente oggi è diventata incapace di rivoluzioni? Fai anche l’ipotesi, da prendere certamente in considerazione, che questa radicale incapacità trasformatrice (non importa se riformista o rivoluzionaria) possa essere dovuta non certo ad una salarializzazione spinta della società, ma proprio al suo contrario, la generalizzazione di sussidi minimi di sopravvivenza per mantenere da un lato la pace sociale, dall’altro livelli sufficienti di consumo, sia pure parassitario. Lo storico Eric Hobsbawm, nato nel 1917, ha ormai 95 anni. Intervistato da un miliardario sionista italiano, giornalista per snobismo e per diletto, che gli chiede con una punta di malignità se sia ancora “comunista”, Hobsbawn risponde: “Il comunismo non esiste più. Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se non credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista, io sono marxista perchè penso che non ci sarà stabilità finchè il capitalismo non si trasformerà in qualcosa di irriconoscibile dal capitalismo che conosciamo oggi. E sono leale alla memoria in quello che ho creduto e che fu un grande movimento anche in Italia” (cfr. La Stampa, 1/7/12). A proposito del fatto che il comunismo non esiste più mi permetto una serie di brevi considerazioni. Il modello politico-sociale del comunismo storico novecentesco realmente esistito (il cosiddetto “socialismo reale”) non esiste veramente più, ed è crollato per ragioni assolutamente endogene (un pò come il regime signorile feudale in Europa), demolito da una maestosa e feroce controrivoluzione occidentalistica dei nuovi ceti medi “socialisti”, che hanno però finito con il consegnare l’intero potere economico ad una casta di baroni-ladri. Il comunismo storico novecentesco è stato l’espressione di una sorta di democrazia plebeo-totalitaria (l’ossimoro è voluto, perchè indica una contraddizione oggettiva) di operai di fabbrica e di contadini poveri, due gruppi sociali ad egemonia complessiva a scadenza breve, come gli yoghurt. I gruppetti politici comunisti residuali negli attuali paesi capitalistici, senza praticamente alcuna eccezione, non sono più gruppi rivoluzionari a legittimazione marxista, ma sono residui sociologici inseriti nella dicotomia Sinistra/Destra, e per ciò stesso del tutto incapaci di affrontare una fase storica nuova in cui la dicotomia Sinistra/Destra ha perso ogni significato. Il “comunismo ideale eterno”, per usare un termine di Giambattista Vico, non è finito perchè esprime una ricerca comunitaria di verità e di giustizia sociale di tipo non storico ma metastorico. Non era questo ovviamente che pensava Marx, che avrebbe respinto con disprezzo ed irrisione questa formulazione, in quanto Marx pensava che il comunismo fosse un prodotto processuale immanente allo stesso sviluppo del modo di produzione capitalistico. In termini popperiani, questa legittima e ragionevolissima ipotesi scientifica è stata smentita nell’ultimo secolo e mezzo, e mi sembra disonesto non riconoscerlo apertamente. L’espressione di Hobsbawn, “essere leali alla speranza di una rivoluzione” mi sembra affascinante, ed io la adotto interamente. A differenza di Hobsbawn, io penso invece che avverrà, ma probabilmente non in tempi storici vicini, in quanto devono maturare delle condizioni globali ancora largamente immature. Esiste un blog in Italia denominato “sollevazione”, critico dell’euro e del governo Monti, che incita ad una sollevazione popolare sulla base della rivendicazione di un profilo commista di estrema sinistra. Nonostante le ottime intenzioni soggettive di costoro, molto migliori dei semplici fiancheggiatori del sistema politico, resta dura a morire l’idea della sollevazione di estrema sinistra, un’idea ricalcata sulla base dell’analogia con un periodo storico trascorso. La difficoltà nel “pensare” la rivoluzione anticapitalistica che pur sarebbe necessaria sta nel fatto che la globalizzazione per ora consente solo fenomeni storici “locali”, che possono anche abbattere governi dispotici precedenti, ma che poi restano inseriti, incastrati ed ingabbiati nel sistema economico internazionale, che agisce in funzione di ricatto permanente. E’ questa impensabilità che fa da sottofondo allo scetticismo di Hobsbawrn. L’utopia si concretizza soltanto attraverso una prospettiva, ed è appunto l’impensabilità della prospettiva il principale fattore del senso di inutilità così diffuso. Predicare astrattamente contro l’inutilità diventerà così inutile come l’inutilità stessa fino a quando non saranno finalmente visibili socialmente passi in avanti nella limitazione di questo capitalismo cannibale.

(Tedeschi) La crisi avanza, incombe sulla nostra vita quotidiana, svuotando di senso le nostre certezze. La progressiva espropriazione della vita comunitaria, familiare, intimo - personale, provocata dal dominio del mercatismo, che invade la società e la coinvolge nella sua crisi sistemica, è esplicativa di una condizione esistenziale sempre più instabile e precaria, perché subordinata alla sopravvivenza economica. Il fenomeno dell’accentuarsi quotidiano della recessione economica, della disoccupazione, dello spread, della pressione fiscale, è sintomatico di una crisi più profonda, che coinvolge totalmente la nostra vita, in quanto è essa stessa ad essere dipendente da un sistema economico e politico in progressivo disfacimento. Tuttavia, la stagnazione della situazione politica, il dirigismo burocratico e cinico della UE (assieme al governo tecnico di Monti), perché fenomeni di ribellione e dissenso al sistema sono quasi inesistenti, se si eccettuano i movimenti minoritari e velleitari quali il grillismo e altri similari europei. Lo stesso astensionismo massificato assume più il significato di una estraneazione collettiva dalla politica, assai più vicina alla resa senza condizioni, più che quello di un dissenso di massa. Costatiamo quindi che nella società è assente una presa di coscienza comune di una situazione di emergenza sia economica che politico - sociale, dovuta ad una società in crisi sistemica, che può solo produrre altre crisi, quando alla destrutturazione di un sistema non fa riscontro alcuna alternativa, magari futuribile, ma possibile. Si manifesta nella odierna società una coscienza collettiva di tipo adattativo alla situazione di precarietà materiale ed esistenziale, ad uno stato di crisi sedimentato nelle coscienze come una condizione di perenne instabilità in cui si possa solo sopravvivere. Questa estraneazione dalla sfera sociale, comporta il rifugio in un egoismo collettivo in cui, da una parte le classi più elevate tentano di integrarsi in un processo di trasformazione da cui vengono progressivamente escluse, dall’altra, quelle più deboli si affannano a sopravvivere alla crisi. Tutti tentano di “imbucasi” ad un simposio a cui non sono stati invitati dalla global class. La società è prigioniera dell’eterno presente. Si eternizzano in una sfera astorica e asociale le condizioni individuali del nostro presente. Il lavoro, l’avvenire dei giovani, gli affetti personali, i rapporti sociali, vengono vissuti come se questa condizione di crisi fosse una condizione perenne, in trasformabile, data l’impossibilità di sviluppi e mutamenti rispetto alla quotidianità ottusa di questo granitico, eterno presente. Tale fenomeno è spiegabile alla luce dell’etica individualista su cui si è costruita la psicologia collettiva del mondo contemporaneo. Il culto dell’individualità odierna, è il risultato di un atteggiamento narcisistico collettivo, più o meno inconscio, di personalità che hanno coscienza di sé nella misura in cui ottengono riconoscimento, in primis in base alla loro funzione svolta nel sistema economico, e dalla condizione sociale che ne deriva. Solo nell’eterno presente ci si può illudere di avere riconoscimento, e di preservare le proprie meschine ed egoistiche certezze, in un mondo diverso chissà? Non si considera che l’eterno presente è conseguenza della mancanza di senso della storia. L’economia attraversa fasi di stagnazione e recessione, ciclica. La storia, al contrario non ammette periodi di stagnazione, né tanto meno è concepibile una sua recessione al passato. L’eterno presente è una falsa coscienza della storia imposta da un ordine capitalista ormai fuori della storia. La storia invece continua a produrre mutamenti, a generare nuove situazioni di cui occorre prendere coscienza. Interpretare l’avvenire alla luce dell’eterno presente è un non senso. La storia non ha altri fini che quelli che l’uomo si propone di realizzare e pertanto sarà proprio la coscienza insopprimibile dell’uomo come essere storico a determinare il superamento della attuale crisi, quale alienazione dell’uomo nell’eterno presente. Da quanto precede, si comprende anche la necessità storica della presente crisi, quale momento di superamento di un presente che è “eterno” perché non è storico.

(Preve)Non sono un esperto di politologia o di sociologia elettorale, ma personalmente assimilo i due fenomeni dell’astensionismo e del grillismo. Con questo non intendo unirmi a1 coro gracchiante dei “responsabili” aderenti ai vecchi partiti. Dovendo scegliere, con la pistola alla testa, fra Grillo da un lato, e Bersani, Vendola, Di Pietro, Casini ed Alfano dall’altro, voterei certamente Grillo, che è certamente un guitto, ma almeno non ha dirette responsabilità per lo svuotamento della decisione democratica. Tuttavia sono rimasto molto colpito dal fatto che nelle recenti elezioni del giugno 2012 in Grecia, dove pure si prendevano decisioni strategiche sul futuro del paese l’astensione sia arrivata al quaranta per cento. In Italia non si decide più nulla da un pezzo, perchè esiste una sorta di giunta militarizzata di economisti con garante un ex-comunista disilluso del comunismo, che in una recente intervista su “Repubblica” rimprovera post mortem a Berlinguer di avere ancora creduto che ci potesse essere una società “alternativa” al mercato capitalistico. Ma in Grecia si decideva effettivamente qualcosa di strategico, ed a mio avviso il fronte di sinistra di Syriza vi giocava esattamente lo stesso ruolo anti-euro del partito di Marine Le Pen in Francia, anche se questa ovvia verità è nascosta da mille sigilli per chi si ostina ad orientarsi sul mercato politico in nome della dicotomia obsoleta Destra-Sinistra. Ho letto recentemente in una bellissima intervista autobiografica di Alain de Benoist una frase di Bergson del 1936 che non conoscevo: “Su dieci errori politici, nove consistono semplicemente nel continuare ancora nel credere vero ciò che ha cessato di esserlo”. Bisognerebbe ricordarlo ai politologi. E’ quindi inutile condannare moralisticamente gli astensionisti oppure coloro che si rifugiano nel grillismo. Essi prendono semplicemente atto della radicale inutilità della tensione politica. Il vero problema, tuttavia, sta nell’immaginare come possa continuare nel tempo e riprodursi una società tenuta insieme soltanto dal legame del mercato, in cui la decisione politica comunitaria ha di fatto cessato di esistere. Per il momento questa è una relativa novità storico-politica, che deve ancora stabilizzarsi. Una società del genere è la prima società umana completamente priva di “grande narrazione”, e cioè di racconto identitario. Già Hegel, a proposito dell’Inghilterra, si era meravigliato che potesse esistere una “nazione civile senza metafisica”. Benchè abbia insegnato storia e filosofia nei licei per trentacinque anni, solo recentemente mi è parso di capire il significato della sentenza di Hegel. Infatti la mescolanza tipicamente inglese di empirismo, scetticismo ed utilitarismo non è una filosofia come le altre, ma è una anti-filosofia radicale, che ha effettivamente anticipato la concezione attuale delle oligarchie anglosassoni, cui l’Europa si è interamente allineata negli ultimi venti anni. Siamo effettivamente arrivati ad essere, ed a vantarci di essere, “un popolo civile senza metafisica”. L’attuale globalizzazione senza metafisica è comunque intrecciata al messianesimo americano vetero testamentario, che appunto non è una filosofia di tipo greco, ma una secolarizzazione religiosa di origine calvinista. Questo fa anche venir meno la vecchia mobilità sociale ascendente e discendente, sostituita da una mobilità individualistica senza alto né basso, al di fuori della capacità di consumo. Ma la mobilità non è più la vecchia mobilità ascendente, che era stata per più di un secolo la grande ideologia di legittimazione della borghesia classica. Gli atomi sradicati si muovono in uno spazio mercantile senza alto né basso, in cui il vecchio significato comunitario della vita è integralmente sostituito dalla capacità di acquisto e di vendita delle proprie capacità lavorative. Come ho già fatto notare in precedenza, il vero problema non sta nel constatare questo processo, che è sotto gli occhi di tutti anche se per ora oscurato dai meccanismi mediatici, editoriali ed universitari, ma nel prospettare lo scenario allargato di questa situazione. L’accesso al consumo dei giganteschi strati medio-bassi in India, Cina, Brasile, eccetera può certamente rinviare di decenni una crisi generalizzata di senso storico e politico. Un mondo globalizzato senza metafisica, si accompagna ovviamente a sempre più virulente identità religiose, in cui la cosiddetta arretratezza e la cosiddetta intolleranza sono semplicemente il risvolto pseudo-comunitario della completa mancanza di senso. Le facoltà di filosofia sono già nel loro complesso interamente “normalizzate” in una koinè che può essere definita, in termini di scetticismo sofisticato, di relativismo multicolore e di nichilismo tranquillizzante. Ma quanto questo possa durare nessuno può veramente saperlo.



(Tedeschi) La coscienza dell’inutilità sociale ed esistenziale dell’uomo contemporaneo non è che la proiezione massificata di un mondo economico e politico virtuale che rivela nella crisi il vuoto di senso, cioè la sua incontestabile inutilità. Così come inutile si è dimostrata la classe politica,  acquiescente e complice delle manovre perpetrate dalla UE a danno degli stati. Si consideri l’euro. Che cosa è l’euro? E’ una moneta virtuale, che non rispecchia le condizioni economiche e politiche dei paesi della UE, una valuta imposta da una BCE senza uno stato che ne garantisca la solvibilità e la sussistenza, da una BCE composta da organismi tecnici non elettivi, non rappresentativi della volontà popolare. L’euro è stato definito da alcuni non una moneta unica, ma un  sistema di cambi fissi, dato che  nell’Eurozona, la valuta è comune, mentre il debito pubblico grava sulle finanze degli stati. A cosa serve l’euro? Con l’euro si è fermato lo sviluppo economico, si sono dimezzati il potere d’acquisto e i risparmi dei cittadini, si è imposta una politica di austerity che ha distrutto lo stato sociale e ha diffuso la precarietà del lavoro. Sono state distrutte le conquiste sociali, le certezze, mentre l’unificazione monetaria ha incrementato la speculazione finanziaria che sta determinando il fallimento degli stati. L’euro, anziché integrare i popoli, li ha condannati ad una competizione sfrenata che ha condotto ad enormi sperequazioni economiche tra popoli del nord e del sud europeo. Liberarci dall’euro significherebbe liberarci dalla schiavitù del debito imposta dalla speculazione finanziaria, utile ai propri profitti, ma inutile e dannosa ai popoli. Gli stati sono stati incoraggiati ad indebitarsi, anziché a sviluppare ala propria economia, e classi politiche corrotte hanno goduto del consenso di masse anestetizzate da un benessere virtuale e precario. Farla finita con l’euro però comporterebbe riforme sistemiche negli stati e nell’ambito europeo. Ma gli stati europei non dispongono di classi politiche adeguate a tali eventi di emergenza rivoluzionaria, Tali concetti sono tuttora impensabili per la stragrande maggioranza degli europei.




(Preve) Con questa quarta ed ultima domanda mi solleciti a parlare dell’euro, cosa però che faccio malvolentieri perché, detto in linguaggio popolare, “non ci capisco niente”. Altre volte nelle nostre conversazioni ne abbiamo già parlato, in genere molto negativamente. Continuare testardamente con l’euro oppure farla finita con l’euro è infatti una sorta di atto di fede per tutti coloro che non sono specialisti di economia. Personalmente, pur non dominando la materia, mi riconosco nelle opinioni di economisti come Bagnai e Brancaccio, che sono critici radicali dell’euro, e nello stesso tempo non voglio nascondere di essere spaventato dalle campagne di terrore indotte quotidianamente dalla televisione e dai giornali, che annunciano apocalissi in caso di crollo dell’euro. Fanno sul serio o minacciano soltanto? Siamo nel 2012. Nonostante gli apparenti mutamenti, politici, le classi politiche oligarchiche italiane sono le stesse del 1915, e del 1940. Sarebbe troppo lungo scendere nei dettagli di questi elementi di continuità che vanno molto al di là delle differenze superficiali fra il regime liberale, il regime fascista ed il regime democratico. In proposito, i manuali di storia contemporanea sono ingannatori, perchè ad esempio non informano sulla continuità della geopolitica di espansione nei Balcani nel 1915 e nel 1940, in modo che lo studente medio è in generale convinto che la guerra del 1915 sia stata fatta per Trento e Trieste, città la cui “italianità” non era messa in dubbio da nessuno, ed anzi era fiorente sul piano culturale e letterario. Dico questo perchè gli italiani hanno già dovuto pagare due volte, nel 1915 e nel 1940, per un azzardo pokeristico (del tutto secondario se da parte di Salandra o di Mussolini), e questa mi pare la terza volta. Di fronte alla sempre maggiore evidenza che l’euro non è stata una buona idea, ma è anzi stato un errore storico e strategico, molti si rifugiano in una vera e propria “fuga in avanti”: l’Europa non ha una sovranità politica unitaria, ha solo una moneta comune senza stato, adesso bisogna andare verso uno stato europeo unitario. A mio avviso sarebbe non solo un errore, ma un vero e proprio crimine, e cercherò brevemente di spiegare il perché. Uno stato presuppone una nazione, una nazione europea non esiste e non esisterà mai, al massimo l’Europa sarà una “macroregione”, del tipo del Friuli e della Slovenia. Parlare di “unità nella diversità” è pura retorica per borsisti Erasmus. Non ci può essere una vera unità politica senza nazione. Possibile che i casi lampanti della Cecoslovacchia e della Jugoslavia (per non parlare dell’Unione Sovietica) non insegnino proprio nulla? Se mi pagassero un tanto a pagina (come facevano con Alessandro Dumas) per scrivere un saggio sulla presunta eredità culturale unitaria dell’Europa (che a mio avviso non esiste, e non potrebbe esistere comunque dopo lo tsunami della globalizzazione finanziaria) non avrei alcuna difficoltà a partorire un migliaio di pagine ipocrite ed artificiali. Ma quando si sventolano le bandiere, sia pure per ragioni soltanto sportive, si sventolano solo le bandiere nazionali. Vi immaginate dei tifosi che sventolano la bandiera europea? E poi la Russia fa parte dell’Europa oppure no? Se sì, l’Europa finisce a Vladivostok, ed è dunque un’unità geograficamente eurasiatica. Se invece no, bisogna artificialmente estendere l’Europa a Tallinn e Kiev, ed escluderne Mosca, accettando invece l’integrazione europea ideale con gli USA, il Canada ed Israele. Le contraddizioni potrebbero continuare. L’euro è stata quindi una cattiva idea, e pensare di salvarlo con la fuga in avanti di un unico stato-nazione europeo inesistente è un’idea ancora peggiore, sulla quale sembrano unirsi sia l’ex-destra sia l’ex-sinistra, in assenza di identità culturali e politiche. I rapporti culturali fra nazioni europee erano migliori quando non si era ancora creata l’isteria delle nazioni cicale o spendaccione e delle nazioni virtuose. E’ già difficile far passare l’idea della solidarietà sul debito sovrano all’interno di una sola nazione (il caso della Lega Nord insegna, e non può essere ridotto al folklore snobistico con cui la analizza il giornale “Repubblica”), e chi pensa che questo sia possibile in futuro per una evidente non-nazione come l’Europa mente a sé ed agli altri. Quello che ha prodotto l’Euro è sotto gli occhi di tutti, e cioè la svalutazione del lavoro salariato e lo smantellamento progressivo degli elementi di welfare. Pensare che nel prossimo futuro la tempesta passerà è da mentitori o da incoscienti. Dall’euro bisognerà uscire, ed il modo di uscirne sarà il principale indicatore storico-politico del prossimo futuro. Sarà un vero dopoguerra, cui nessuno di noi potrà sottrarsi.

martedì 10 aprile 2012

DUBBI IPERBOLICI

                                               Commento a un testo di Lidia Cirillo

di Costanzo Preve

1. Ho letto un contributo di Lidia Cirillo dal titolo “Ogni cosa è illuminata”, un testo di alto livello teorico che rivela l’anima e l’intelligenza di una “militante di lungo corso”. Due affermazioni mi hanno colpito: la prima è che “il movimento operaio non esiste più”, e la seconda è che “l’ipotesi di un comunismo democratico, nel contesto in cui era stato pensato e in qualche momento anche praticato, non era realizzabile”. In linguaggio cartesiano, ecco due dubbi iperbolici. Ne do la mia interpretazione che è diversa da quella di Lidia Cirillo.

2. Il movimento operaio non è mai esistito, se non come mito di mobilitazione nel significato di Georges Sorel. Intendo movimento operaio come unificazione astratta di migliaia di movimenti concreti. Tuttavia anche realtà inesistenti, come ad esempio il Dio monoteistico del creazionismo, possono avere e hanno avuto effetti storici giganteschi.

Senza movimento operaio il comunismo resta soltanto come filosofia pratica della storia nel senso dell’Io di Fichte, che peraltro anch’io condivido e in cui continuo a riconoscermi. Se è così, la triade Ecologismo Femminismo Comunismo diventa soltanto Ecologismo Femminismo Sindacalismo, ed è inutile raccontarsi delle storie. Il comunismo può testare, ma deve essere radicalmente rifondato, e non solo con aggiustamenti nel senso della teoria dei paradigmi scientifici di Kuhn. Se ci fosse ancora il movimento operaio, allora avrebbe ragione Lotta Comunista, che almeno prende questo termine alla lettera e sul serio, e non come semplice risorsa simbolica ed elettorale alla Diliberto.

3. Se l’ipotesi di un comunismo democratico, e non burocratico-dispotico, non era storicamente realizzabile, allora bisogna essere coerenti, e cade tutta la metafisica trotzkista. Essa si basa infatti proprio sul fatto che una rivoluzione anti-burocratica possa rendere possibile un comunismo democratico.

A mio avviso, quella che i trotzkisti chiamano “burocrazia” è soltanto il solo modo storicamente possibile in cui un soggetto subalterno e non egemonico come la classe operaia, salariata e proletaria può prendere il potere. Verità dura da digerire, ma anche la sola verità che può far luce sul corso storico effettivo del Novecento, fino al Caro Leader. Una volta cresciuti i nuovi ceti medi, si ha la controrivoluzione aperta (Cina 1976, Russia 1989). A meno che, appunto, si decida di battezzare “controrivoluzione” lo stalinismo, che anche a me è odioso, ma che considero la sola forma fisiologica, e non patologica, con cui una classe subalterna e non egemonica può mantenersi al potere.

Un dubbio iperbolico, certamente. Ma è meglio affrontarlo, sia pure per negarlo e controbatterlo, che continuare a rimuoverlo. In caso contrario, il marxismo diventa “struzzismo”, dal nome dell’animale che mette la testa sotto la sabbia.

4. Ma allora, che conclusione trarne? Forse che il capitalismo è la fine della storia? Neppure per sogno! Al contrario, lo smettere di prendere per “scienza” un mito di mobilitazione è invece il presupposto per ripensare le basi sociali, politiche e filosofiche del comunismo, ricollocando sia Marx che il Marxismo nel loro tempo storico.

Non si creda però che ritenendo sorpassato il movimento operaio resti attuale la “sinistra”. O si ha di questa nozione un concetto ideal-tipico, necessariamente bobbiano, oppure si continua a pensare che la divisione del popolo in destra e sinistra possa essere utile per criticare il capitalismo, come se quest’ultimo si riproducesse “a destra” e non come totalità, dentro la quale ci stanno Monti e Draghi, ma anche la Dandini e la Annunziata.

So perfettamente (sono anch’io di lungo corso) che chi vuol fare politica concreta deve posizionarsi sull’asse Destra/Sinistra. Mi limito a constatare, senza voler fare il grillo parlante, che accettando questo posizionamento si apre una catena elettorale Ferrero-Diliberto-Vendola-Bersani, oppure, volendo giustamente distinguersi da costoro, si rischia di cadere in un piano inclinato gravitazionale. Sbaglio? E’ possibile, ma mi si dica il perché.

Torino, 1 aprile 2012

domenica 20 novembre 2011

BERLUSCONEIDE 

Considerazioni storiche e politiche dopo la caduta di Berlusconi.





di Costanzo Preve



1. Una premessa. Scrivo queste considerazioni su esplicito invito di amici, francesi e greci, interessati ad avere una mia analisi strutturale, e non solo pettegola o episodica, sulla caduta di Berlusconi. Caduta certo non ancora formalizzata, ma io credo irreversibile. Ed irreversibile non certamente perchè causata da tre fattori a mio avviso poco rilevanti (ceto po­litico professionale ex-comunista ed ex-cattolico democristiano, circo mediatico asservito alle strategie oligarchiche del grande capitalismo finanziario g1obalizzato, magistratura politicizzata anti-berlusconiana). Poco rilevanti sono stati anche gli scandali, le prostitute, i sorrisini di Merkel e Sarkozy, e tutto il ciarpame sollevato da quell’autentico scandalo culturale e giornalistico chiamato “La Repubblica”, incrocio fra la componente borghese laica ex-azionista e la componente “picista”, che con tutta la mia buona volontà non intendo connotare con il glorioso anche se discusso nome di “comunista”.


Partirò quindi da un fattore tutto sommato secondario come il berlusconismo, ma arriverò presto al vero ed unico problema storico che ci sta dietro, l'adeguamento e poi la sparizione del modello europeo di capitalismo verso un unico modello anglosassone di capitalismo totale. Prego il lettore di prestare attenzione a questa tesi finale, perche tutto quanto c‘è prima è solo gli “antipasti”, le “tapas” per dirla in spagnolo.






2. Il giorno 5 novembre 2011 il Canale La Sette ha trasmesso in prima sera­ta, modificando la programmazione prevista, un film su Berlusconi intitola­to BERLUSCONI FOR EVER. Si tratta di una sintesi del come per circa vent'anni l’intera classe dirigente italiana ed i suoi intellettuali, dall’italianista Asor Rosa al comico Benigni hanno visto Berlusconi. Ecco perchè conviene partire da lì. In sintesi, evidenzierei quattro temi in ordine di importanza:


(1) Berlusconi appare come un megalomane in preda ad un compulsivo deli­rio di onnipotenza patologica, una sorta di piazzista e di venditore di tappeti levantino autoreferenziale, che crede che la propria “verità” sia anche l’unica verità. Il riferimento è al vecchio giornalista vate della borghesia italiana, Indro Montanelli, esempio di passaggio e di “riciclaggio” in tempo reale dal fascismo al regime dopo il 1945. Non a caso il suo successore, il sionista fanatico Travaglio, è diventato per un ventennio l'idolo della sinistra anti-berlusconiana.


(2) Berlusconi appare come il portatore dei difetti atavici degli italia­ni, primo dei quali sarebbe la sostituzione della furbizia all’intelligenza. Il suo “successo” (qui si ripete l’interpretazione di Piero Gobetti sulle ragioni del successo di Mussolini) appare dovuto proprio al fatto che ha incarnato la parte peggiore della tradizione antropologico-sociale italiana.


(3) Viene continuamente suggerito un fatto non provato, ma dato assolutamente per scontato dall'italiano medio di “sinistra”, il fatto che Berlusco­ni abbia fondato il suo impero economico, prima da costruttore e poi da magnate dei media, riciclando alla grande denaro di provenienza mafiosa. Ma il piazzista è ora diventato inaffidabile. Il piazzista non può per venti anni dare “bidoni”.


(4) Berlusconi appare portatore della vecchia ipocrisia cattolica italia­na. Da lato puttaniere impenitente, adultero manifesto, laido organizza­tore di festini con adolescenti ambiziose, e dall'altro cattolico fervente che faceva la comunione tutte le domeniche.


Potremo continuare ma è chiaro che un simile personaggio da commedia dell'arte è troppo ghiotto per non attirare l'attenzione di quella che è stata battezzata “opinione pubblica”, la cui completa sparizione era stata peraltro diagnosticata da Habermas quando era ancora sotto il controllo di Adorno. Tutto questo, ovviamente, è vero, non mi sogno assolutamente di negarlo. Ritengo però che sia solo la superficie, e si è detto che la “scienza” sarebbe inutile se la superficie e la profondità coincidessero. E allora indaghiamo prima la superficie e poi la profondità.


3. Partiamo prima dall’ideologia anti-berlusconiana, durata parossisticamente in Italia quasi un ventennio. Si tratta, per usare un termine del filo­sofo-economista althusseriano francese Charles Bettelheim, di una vera e propria “formazione ideologica”. Essa è a mio avviso il prodotto della fu­sione di due elementi distinti ma intercorressi:


(1) L’origine risale ai primi anni Venti, e fu proposta per la prima volta dal saggista torinese Piero Gobetti. Il popolo italiano soffrirebbe di una grave carenza morale complessiva, dovuta in primo luogo alla mancata riforma protestante (non importa se luterana o calvinista, ma meglio cal­vinista in quanto individualistica, borghese-capitalistica e soprattutto inglese ed anglofila), ed in secondo luogo al carattere ristretto ed elitario del risorgimento (il “risorgimento senza eroi”). II secondo punto a mio avviso è inesatto, e rimando ad un recente ottimo testo pubblicato in 1ingua francese (cfr. Yves Branca , Le risorgimento au coeur de l’Euro­pe), che corregge in buona parte questa visione unilaterale.


L’idea degli italiani come popolo delle scimmie e del risorgimento senza eroi ha nutrito, in particolare dopo il 1945, 1’ala “azionista” della cultura borghese italiana, ansiosa di “scaricare” il fascismo sui difetti atavici degli italiani, per poter così far dimenticare le dirette responsabilità del grande capitale italiano, che abbandonò il fascismo soltanto nell'an­no della sua sconfitta evidente (l943). Si trattava di una ala anglofila, empirista in filosofia e quindi nemica soprattutto dell’idealismo e dunque di Hegel.Questa posizione, assolutamente minoritaria nel popolo ita­liano, era però assolutamente maggioritaria nel mondo degli intellettuali. Ed a proposito degli intellettuali, categoria con la quale chi scrive non vuole avere assolutamente niente a che fare, ricordo la posizione anticipatrice espressa più di un secolo fa da Georges Sorel, che a mio avviso Bourdieu ha saputo sistematizzare bene, quando definisce gli intel­lettuali come gruppo sociale (e non come insieme eterogeneo di individua­lità diverse), come una sezione dominala della classe dominante. Lo ripeto per chi se lo fosse lasciato scappare: una sezione dominata della classe dominante, non certo i “portatori” della visione del mondo dei do­minati.


(2) La seconda componente risulta geneticamente dalla riconversione ideolo­gica del picismo italiano, che mi rifiuto di chiamare “comunismo” per le ragioni esposte in precedenza. Questo enorme rinoceronte sociologico ed antropologico aveva già gestito fra il 1956 ed il 1962 il passaggio dal modello sovietico alla cosiddetta “via italiana al socialismo”, che copriva una integrazione strutturale nei meccanismi riproduttivi del sistema ca­pitalistico italiano, e poi dal l976 al 1982, dopo la presa in giro mediatica del cosiddetto “eurocomunismo”, il passaggio dal partito della critica al capitalismo al partito degli “onesti”, contrappasso ovviamente ai “disonesti” (prima il socialista Bettino Craxi e poi ovviamente Berlusconi, in quanto suo presunto erede). Dopo il triennio 1989-1991 il bestione so­ciologico ed antropologico dovette riconvertirsi alle nuove condizioni storiche aperte dalla dissoluzione del comunismo storico novecentesco (19I7-1991) il solo ed unico comunismo “pratico” mai esistito, essendo restati tutti gli altri mere petizioni morali alternative oppure gruppi di testimonianza settaria, sia pure pieni di “buone intenzioni”. Si tratta di un'azienda che produce scarpe e che dopo un'alluvione è obbligata, per non uscire dal mercato, a produrre pinne e stivali di gomma per alluvio­nati.


Il riciclaggio di questi cialtroni fu fatto talmente bene che essi riusci­rono a portarsi dietro gran parte della loro precedente clientela fideliz­zata identitaria, nella forma del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD. In proposito, l’antiberlusconismo fu provvidenziale perché permise una rapida e performativa sostituzione alla identità precedente. Il serpentone meta­morfico fu sempre in primo piano per appoggiare attivamente tutte le strategie di guerra USA-NATO, dal Kosovo nel l999 (D'Alema) alla Libia 2011 (Napolitano).


L'unione di questi due elementi fecero sì che l’antiberlusconismo fosse veramente provvidenziale.






4. Non vorrei che sorgessero spiacevoli equivoci. Io considero Berlusco­ni, come figura umana, culturale, storica e politica un ripugnante cialtrone, ed in questo non mi distinguo affatto (purtroppo) dall'anti-berlusconiano medio. Ma insisto sul fatto che rifiuto la koinè pittoresca ed estetica del riciclaggio delle classi dominanti italiane, per cui Berlusconi, lungi dall’esserne stato il rappresentante, è stato piuttosto un “incidente di percorso”. Un incidente di percorso? Certamente. Vediamo come.






5. Per usare un lessico militare, Berlusconi fu un “incidente di percorso”, o più esattamente un “danno collaterale” di Mani Pulite, che fu nella sua fun­zione storico-politica oggettiva (e non nella sua rappresentazione ideolo­gica, che fu il teatrino della vittoria degli onesti sul cinghialone, porcone, corrottone Craxi, che la marmaglia plebea fanatizzata avrebbe voluto uc­cidere ed appendere per i piedi, come Mussolini) un colpo di stato giudiziario extra-parlamentare, il cui scopo fu quello di sostituire un modello di stato neo-liberale privatizzato al precedente modello di stato, certamente corrotto, ma anche e soprattutto assistenziale-keynesiano. In onesta sede è del tutto irrilevante se gli agenti storici che propiziarono questo passaggio ne fossero pienamente consapevoli, o pensassero di agire spinti dalla morale kantiana e dal “senso dello stato”. Ciò che conta furono i risultati politici “oggettivi”.


E' del tutto chiaro che la decapitazione dell'intera classe politica di provenienza DC, PSI, PSDI, PRI, PLI non eliminava anche automaticamente il loro bacino elettorale, che restava praticamente intatto, e che non intendeva


accettare la facile presa del governo da parte del PCI riciclato. Ci voleva però qualcuno che avesse la forza economica e l'iniziativa politica per impedire tutto questo, e fu appunto Berlusconi, indipendentemente dalle sue caratteristiche antropologiche o dalla probabile origine mafiosa del suo denaro.


Questa è la genesi del fenomeno Berlusconi. Naturalmente la cultura detta di “sinistra” non poteva accettare questa semplice realtà,ed è allora chia­ro che dovesse attivare il teatrino dei vizi atavici degli italiani, popolo delle scimmie manipolato dalla televisione del Grande Corruttore e della sua corte di puttane, attricette, intellettuali falliti oppure con il “dente avvelenato” verso il PCI (pensiamo al notevole filosofo ex-marxista Lucio Colletti).


Si apriva così il teatrino identitario del Partito B e del Partito Anti-B, che hanno soffocato per un ventennio il nostro povero paese pri­vato di sovranità politica e geopolitica.


Ma ora cominciano, caro lettore, le analisi serie, cui ti chiedo di presta­re un'attenzione particolare.


6. Non dimentichiamoci dunque del punto da cui siamo partiti: Berlusconi ha dovuto andarsene, chiudendo un intero ciclo politico che essendo stato ventennale è anche stato un ciclo storico, non certo perchè cacciato dal buon gusto snobistico degli intellettuali alla Eco-Baricco, dal popolo urlante identitario PD, da Bersani e dai cooperatori emiliani, dai giornali­sti di “Repubblica” e dalle loro “dieci domande”, dai magistrati milanesi, dal­le puttanelle ricattatrici di Ancore, dai suoi vizi di vecchio satiro solo nella vecchiaia incombente, eccetera; Berlusconi è stato cacciato dalla grande finanzia internazionale, e da nient'altro, perchè non ha saputo, potuto o voluto sincronizzare l'intera Italia (anzi, 1’azienda-Italia) al ritmo della nuova forma egemonica del capitalismo imperialistico neoliberale e globalizzato. Non facciamoci scappare questa dato storico, che implica un radicale riorientamento gestaltico rispetto alle fole ed alle panzane con cui ci ha rintronato per un ventennio il coro politico, mediatico ed intellettuale, prevalentemente di “sinistra”, ma non solo. Cerchiamo allora di arrivare a questo riorientamento gestaltico mediante alcuni passaggi, non troppo nume­rosi per non confondere le menti intorpidite dallo spettacolo di manipola­zione dell'ultimo ventennio. Ecco i passeggi principali: (l) La fine del comunismo storico novecentesco veramente esistito (19I7-1991), che non aveva assolutamente nulla a che fare con le ipotesi filosofiche e scientifiche ottocentesche di Marx e con l’originario progetto nove­centesco di Lenin, è stata una catastrofe storica e geopolitica terribile, incondizionatamente negativa, una vera tragedia, accolta con gridolini di entusiasmo dalla emulsione culturale più stupida dell'intera galassia, la cosiddetta “sinistra”. Questa fine ha propiziato, anche se non direttamente causato (1e cause profonde erano già interne alla dinamica illimitata di riproduzione nel modo di produzione capitalistico) il successo evolutivo darwiniano del modello anglosassone-americano di capitalismo sul precedente modello europeo. (2) Fino a qualche tempo fa si poteva dire grosso modo che c'erano tre di­versi tipi di capitalismo; il capitalismo anglosassone americano, interamen­te privatizzato; il capitalismo europeo, frutto di un compromesso detto a volte impropriamente keynesiano-fordista , che veniva sia dall'alto (Bismarck, De Gaulle, eccetera), sia dal basso (laburismo, sindacalismo, movimento operaio organizzato); il capitalismo cinese, derivato da una storia particolare, che potremmo riassumere in due punti, eredità del modo di produzione asiatica (e quindi non occidentale, prima schiavistico antico e poi feudale-signorile) e di una accumulazione primitiva collettiva del capitale di tipo maoista, con precedenti nella storia cinese (Wang Mang, rivolte contadine, riformismo Ming, Taiping, eccetera). (3) Stiamo assistendo all'intera assimilazione del modello europeo, e cioè alla sua fine, nell'unico modello anglosassone-USA, frutto di un tradi­mento storico delle classi dirigenti europee, americanizzate linguisticamente e culturalmente. Questo non avviene attraverso la vecchia ed obsoleta dicotomia Destra/ S inistra, difesa per interesse dal ceto politico pro­fessionale e per stupidità dal ceto intellettuale identitario e tifoso, ma attraverso la vittoria del partito degli economisti (PE) sul partito del po­litici (PP). (4) Di conseguenza, e per finire, Berlusconi non ha potuto, saputo e voluto effettuare questo passaggio, nonostante la sua natura di pescecane capita­lista liberale lo spingesse soggettivamente a propiziarla, per il sempli­ce fatto che era pur sempre legittimato elettoralmente ed una legittima­zione elettorale non può consentirlo, per il fatto che i tacchini non pos­sono votare il loro assenso al cenone di Natale, che prevede la loro messa in pentola. Il CHE FARE? -e ci arriverò brevemente alla fine- non può quindi essere pen­sato nelle forme della vecchia dicotomia Destra/ Sinistra, sempre più protesi manipolatoria di adattamento di masse atomizzate e babbionizzate dal circo politico, dal circo mediatico e dal circo intellettuale tradizionale. Vediamo le cose con ordine.






7. La prima operazione teorica da fare è un riorientamento gestaltico globa­le rispetto al bilancio storico-politico del socialismo reale, che preferisco chiamare “comunismo storico novecentesco” (CSN), per distinguerlo dal comuni­smo utopico-scientifico (l’ossimoro è intenzionale) di Marx, assolutamente inapplicabile perchè basato su previsioni storiche inevitabilmente non cor­rette (in sintesi: incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive; capacità rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria; entrambe le ipotesi totalmente falsificate dalla storia rea­le).


La “sinistra”, questa emulsione culturale intellettuale confusionaria, che Georges Sorel fu il primo a diagnosticare precocemente, ha in proposito sviluppato per quasi un secolo il teatrino della contrapposizione: in URSS c’è il socialismo oppure in URSS non c'è il socialismo? Risparmio al letto­re tutti gli argomenti pro e contro (staliniani, trotzkisti, neolinerali, bordighisti, eccetera), che richiederebbero mille pagine per la loro sempli­ce elencazione, e di cui sono uno specialista. Ma il problema URSS (e paesi fantoccio divorati alla fine della seconda guerra mondiale) è molto più semplice, perchè è storico e geopolitico, e lo formulerò sommariamente così: indipendentemente dal suo essere un esperimento artificiale di eguagliamento sociale livellatore sotto cupola geodesica protetta (protetta da un indispensabile dispotismo partitico operaio, in quanto senza coercizione dispotica la classe operaia e proletaria non potrebbe neppure gestire una bocciofila, altrochè una “transizione al comunismo”!), i1 sistema so­cialista degli stati “comunisti” (l’unico comunismo storicamente esistito, non certo le elucubrazioni snobistiche del salotti romani o l'agitarsi scomposto degli operai fondisti con i loro fischietti ed i loro tamburi) ha influenzato direttamente la storia del capitalismo, limitandone in parte (in greco antico si dice katechon) la sua tendenza illimitata ad assumere una forma pura, che nella mia personale periodizzazione filosofica del capitalismo definisco “speculativa”, con una terminologia tratta liberamente dalla Scienza della Logica di Hegel. Dunque, indipendentemente dal suo dispotismo e dal carattere miserabile del suo personale politico (i comunisti nichilisti, opportunisti, autofagi e straccioni) viva viva viva il comunismo storico novecentesco e tragedia im­mane il fatto che non si sia voluto, saputo o potuto riformare “in corso d’opera”, come avevano auspicato i più grandi intellettuali marxisti indipendenti del Novecento (Lukàcs, Gramsci, Bloch, eccetera, alla cui scuola mi sono formato, mentre ho sempre avuto ripugnanza ed estraneità per il circo intellettuale snobistico italiano detto di “sinistra”). Dunque TRAGEDIA, TRAGEDIA, TRAGEDIA.






8. Il capitalismo già ai tempi Reagan-Thatcher stava cambiando forma, e quindi prima della caduta catastrofica del baraccone socialista. Le ra­gioni del mutamento erano interne alla dinamica del modo di produzione, ed erano dettate dalla cosiddetta globalizzazione e dalla privatizzazione di tutto ciò che era privatizzabile. Sono gli animal spirits di cui hanno parlato gli economisti inglesi, e che Hegel in altro contesto definì “il regno animale dello spirito”, la definizione più geniale di capitalismo che abbia mai letto in vita mia.


Il teatro storico degli ultimi venti anni è quindi stato nell’essenziale quello di un assalto del modello americano di capitalismo contro il modello europeo, che non avrebbe avuto tanto successo senza il mantenimento dell'occupazione militare USA sull'Europa, iniziata nel l943-1945 e mai terminata, neppure dopo il 1991, anzi ampliata e rafforzata. Non c’è democrazia ad Atene con guarnigione spartana sull’Acropoli. Non ci può essere democrazia in Europa con basi militari atomiche USA in Europa. Si tratta di una semplice verità lapalissiana, che la “sinistra” ha contribuito ad occultare, con la retorica strumentale sulla Costituzione, con il proseguimento maniacale dell'antifascismo in completa, palese e totale assenza di fascismo, con l'agitare scomposto del termine “democrazia” in presenza di irrilevanti parate sindacali, femministe, ecologiste, pacifiste, ed in Ita1ia ossessivamente anti-berlusconiane. A proposito della Cina, sono un incondizionato sostenitore della sua forza geopolitica e militare, ma non mi raccontino (Losurdo, Diliberto, Sidoli, KKE greco, eccetera), che si tratta di “socialismo”, sia pure di mercato, ecce­tera. Considero la Cina completamente capitalistica, in quanto considero storicamente fallito ed esaurito l'intero modello del comunismo storico novecentesco (salvo invece il “comunismo” -sia ben chiaro- come filosofia della storia e come tendenza metastorica dell'umanità, ed in questo senso sono sempre più che mai “comunista”). Si tratta però di un capitalismo sorto da una combinazione originale del modo di produzione asiatico, caratterizzato da una forte e benefica dominanza del potere politico sull’economia, e di una esperimento egualitario estremistico maoista, sia pure fallito. Spero che l'apparato confuciano denominato partito comunista cinese continui ad iso­lare e neutralizzare, se possibile con mezzi civili ed umanistici, gli orrendi intellettuali filo-occidentali e le tendenze americanizzanti. Se queste ul­time si affermassero, magari sotto lo scudo dei diritti “umani” (la forma rovesciata della disumanità contemporanea), allora ci sarebbe uno ed un solo orribile modello di capitalismo. Sarebbe questa la vera globalizzazione politica, che per il momento non c’è ancora, al di là dei voleri della strega Clinton (ricordo il suo WOW (uau) televisivo oscenamente ostentato alla notizia del linciaggio di Gheddafi).


9. E quindi Berlusconi non ha potuto, saputo o voluto (a mio avviso lo avrebbe voluto, ma non ha potuto per il fatto che doveva pur sempre essere eletto, ed il popolo, al di là delle sue irrilevanti e confuse opinioni politiche, non può votare per la propria macelleria sociale) effettuare questa america­nizzazione. Essa presuppone il commissariamento integrale da parte non di una parte politica (destra contro sinistra o sinistra contro destra), ma di un partito degli economisti (Papadimos in Grecia, Monti in Italia, ma so­no tutti uguali -inglese perfetto e monoteismo del mercato) contro il partito dei politici.


Se utilizzassi la dicotomia Destra/ Sinistra (ma me ne guardo bene!) direi che il partito degli economisti è un partito di estrema destra, che si posiziona alla destra di Forza Nuova e di Attila, re degli Unni. Ma i mutamenti semantici propiziati dal ceto intellettuale dell’ultimo ventennio (ah, ombra di Sorel, dove sei?) ha associato la sinistra soltanto alle gesticolazioni irrilevanti della FIOM, alla retorica di Vendola, ai matri­moni gay, alla insistita polemica laico-radicale contro la chiesa cattolica e Ratzinger, alle sfilate femministe (ah, le donne, le donne!), al belare ostensivo pacifista (pacee, pacee, diritti umanii, diritti umanii, abbasso i dittatori, processate Gheddafi, Milosevic, Saddam Hussein, tutti meno la Clinton ed Obama, eccetera).


10. Che fare? Non lo so. Non sono mica Lenin! In prima approssimazione, ed in via preliminare, che cosa non fare:


(1) Smettere di fare partitini comunisti (Diliberto, Ferrero), attaccati alle mutande di Vendola e Bersani pur di poter rientrare in Parlamento, oppure di fare partitini a base settaria che ripropongono programmi sumeri, egizi ed assiro-babilonesi (Ferrando).


(2) Andare oltre la dicotomia obsoleta Destra/ Sinistra. Questo capitali­smo distrugge i popoli e le comunità, non solo le classi svantaggiate (anche se ovviamente anche queste). Ritrovare il linguaggio adatto per salvare i popoli e le comunità è impossibile sulla base della divisione settaria del popolo in popolo in destra e popolo di sinistra. Questa divisione c'è storicamente stata, e non mi sogno affatto di negarlo. Ma oggi è obsoleta, e viene reintrodotta dall'alto per via manipolatoria, utilizzando strati identitari sedimentati in basso nell'ultimo secolo. (3) Uscire da questa Europa. Se ci fossero possibilità reali di riformare l’Europa dall'interno in corso d'opera, non direi questo, ma mi unirei alla stragrande maggioranza dei “sinistri” riformatori che vogliono una Europa “diversa”. E tuttavia costoro non sono in grado di andare oltre le loro pie intenzioni soggettive. Le oligarchie reali che dirigono questa Europa (e non il sogno di Erasmo, Mazzini o Spinelli) vogliono fortemente la sua americanizzazione (modello anglosassone di capitalismo illimitato privatizzato), la sua sottomissione geopolitica agli USA (NATO, interventi in Kosovo 1999, in Afganistan 2001, in Irak 2003, in Libia 2011, domani chissà), 1’uniformità culturale occidentalistica, insomma tutta la merda (non c'è altro termine!) che ci offre quotidianamente il sistema mediatico editoriale ed universitario.






11. E qui provvisoriamente finisco. So perfettamente che queste tre precondi­zioni sono assolutamente inattuabili a breve termine, e sospetto anche a medio termine. I “sinistri” vocianti continueranno a proporre inutili ed irrilevanti partitini comunisti o di tipo consociativo antiberlusconiano (Diliberto, Ferrero) o di tipo settario-paleolitico (Ferrando), o semplici ap­pendici della cultura femministico-ecologista post-moderna (Sinistra Critica). Non c’è niente da fare.


Continuerà l’illusione di potere alla fine, magari cambiando le maggioranze elettorati, modificare la natura neoliberale assoluta di questa Euro­pa. Chi nutre questa illusione non capisce o non vuol capire per opportunismo, pigrizia, stupidità o boria intellettuale, che siamo di fronte ad un processo storico, e non solo politico congiunturale. Lo storicismo ed il mito del progresso lineare irreversibile sparso a piene mani nell'ultimo mezzo secolo dalle canaglie dei gruppi intellettuali comunisti degenerati hanno abituato la gente a pensare in termini ferroviari di Indietro/ avanti. Ma come, abbiamo fatto l’Europa, non possiamo mica andare Indietro! Biso­gna andare Avanti!


In realtà, nella storia non c’è un avanti ed un indietro. La storia è un luogo di prassi umana integrale, non di temporalità evoluzionistica in qualche modo prevedibile. La fine del berlusconismo è semplicemente una opportunità, che bisognerebbe saper cogliere per riorientare integralmente una intera cultura politica fallimentare.


Questa opportunità verrà colta? Sarei contento di poter lasciarmi andare ai soliti auspici generici ottimisti, del “pensare positivo”, ma purtroppo sono un allievo di Hegel e Marx, e non di Jovanotti o Celentano. Data la situazione attuale, ed il terribile potere di interdizione diretta o indiretta dei gruppi intellettuali italiani che conosciamo, non vedo nessuna possibilità di invertire la tendenza babbionizzante ed identitaria. I vele­ni dell’antiberlusconismo di “Repubblica” e del PD continueranno purtroppo a lungo, perchè sono strutturali, in quanto coprono ideologicamente una gi­gantesca tragedia storica. Vorrei poter promettere di più, ma per il momento siamo ancora alla fase dei preliminari dei preliminari. Per chi ha già la mia età è triste. In quanto ai giovani, chi vivrà vedrà.

lunedì 31 ottobre 2011

LA CARICA DEL RINOCERONTE




di Costanzo Preve

 
Non ho mai lavorato come “cacciatore bianco” in Africa, ma ho visto abbastanza film e letto abbastanza libri per sapere che quando un rinoceronte carica la sua carica non può essere arrestata in alcun modo, per cui o ci si toglie dalla sua traiettoria o ti travolge inesorabilmente. Il popolo italiano (ripeto, il popolo italiano nel suo insieme, non solo le sue classi più svantaggiate o la sola classe operaia) è di fronte a una vera e propria carica di un rinoceronte, il commissariamento europeo per conto degli interessi strategici della riproduzione complessiva del capitalismo finanziario globalizzato. O riesce a togliersi collettivamente e comunitariamente dalla sua traiettoria o ne verrà inevitabilmente travolto.
C’è consapevolezza di questo, al di là di piccoli gruppi politici e intellettuali non solo non rappresentati in parlamento, ma non rappresentati neppure nelle nicchie elettorali e giornalistiche della cosiddetta “sinistra extraparlamentare”? Ma neppure per sogno! Se potessi, non vorrei affatto occuparmi di queste cose, ma dedicare gli anni di vita che mi rimangono a occuparmi di filosofia, e solo di filosofia. Purtroppo, ho preso da giovane il “viziaccio” dell’intervento politico, e allora farò alcune osservazioni politiche di “congiuntura”.


1. I sorrisini di Merkel e di Sarkozy e il coro di risate del giornalismo internazionale sull’Italia di Berlusconi (giornalisti niente affatto “comunisti”, come direbbe Berlusconi, ma embedded dalle oligarchie capitalistiche finanziarie globalizzate) hanno sancito plasticamente il totale commissariamento economico dell’Italia. Le opposizioni PD e terzo polo se ne compiacciono, perché il loro orizzonte strategico è inesistente, e quello tattico è limitato allo “scarico” di Berlusconi.
Con il termine “sviluppo” è passato che l’idea dello sviluppo abbia come presupposti l’aumento dell’età pensionabile (per ora 65 anni, ma in realtà ben presto 67 e addirittura 70), la liberalizzazione delle professioni, la privatizzazione di tutto ciò che è privatizzabile (per ora solo l’acqua, ma arriverà anche l’aria, eccetera). Gli eventuali colpi di coda di Bossi o del “cerchio magico” non sono che folklore padano, il tentativo di fermare la carica del rinoceronte sventolando fazzoletti e bandierine. E’ bene allora cercare di ragionare sul “medio periodo”, e fare alcuni ipotesi.


2. Prima ipotesi. Si conferma l’ipotesi per la quale Berlusconi non sarà rovesciato da magistrati, dipietristi urlanti e sostenitori di leggi speciali, poeti pugliesi sognanti, scandali sessuali, conflitti di interesse, eccetera, e cioè dalle stupidaggini che ci hanno imbonito per un ventennio, ma per il fatto che la macelleria sociale è incompatibile con il metodo delle maggioranze elettorali, e deve avvenire per ricatto, ultimatum e commissariamento. Berlusconi sarà laido finché si vuole (e infatti lo è), ma in definitiva per governare deve essere eletto. Ora, nessuno può essere eletto e nello stesso tempo distruggere la propria base elettorale, sia quella economica che quella ideologico-simbolica. La compatibilità della riproduzione non tanto del capitale in generale, ma di questo specifico capitale finanziario globalizzato neoliberale non possono passare attraverso l’assenso elettorale volontario, ma solo attraverso ultimatum stranieri (lettera Draghi-Trichet, eccetera).
Naturalmente, il circo anti-berlusconiano non può permettere che una simile presa di coscienza superi i limiti ristrettissimi di alcuni osservatori politicamente e militarmente impotenti. L’attenzione delle plebi babbionizzate e manipolate deve essere portata sulle puttane e puttanelle, sulle ruberie della casta, sui faccendieri più luridi e pittoreschi, eccetera. E ciò che è più triste è che queste strategie di diversione sembrano riuscire, e anzi do per scontato che nel breve e forse anche nel medio periodo riescano molto bene.


3. Seconda ipotesi. Non posso sapere se il prossimo governo risulterà da un colpo di stato “tecnico” o da vere e proprie elezioni, e neppure se sarà possibile o meno un’alleanza di coalizione fra Bersani e Casini; a occhio e croce credo di sì, ma non si sa mai. In realtà non m’importa molto, e non certo perché “non sono un bravo cittadino”, pensoso delle “sorti della Repubblica” (intesa come stato e/o come giornale), ma perché in ogni caso la carica del rinoceronte non può essere arrestata da chi non si toglie dalla sua traiettoria, che si chiami Fini, Rutelli, Casini, Bersani, Veltroni, Di Pietro, Vendola, Camusso, Landini, Ferrero o Diliberto.
Occuparsi di politica parlamentare o governativa ha infatti soltanto senso nella misura in cui questa politica è almeno in parte sovrana, non se la sovranità è limitata a fenomeni di costume, tipo il matrimonio gay. E questo del tutto indipendentemente da cosa ne pensiamo in termini culturali complessivi.


4. Tutti coloro che propongono di votare l’attuale opposizione (non faccio qui distinzioni fra i “grossi”, Bersani, Di Pietro e Vendola, e i “piccoli” ansiosi di essere presi a bordo, Diliberto, Ferrero e Vinci) hanno dalla loro un solo argomento razionale, che Vinci ha avuto il merito di esplicitare in un intervento sul “Manifesto” di polemica con lo stesso Ferrero. In breve, si afferma che il nuovo governo non potrebbe in alcun modo continuare sulla linea di massacro e macelleria sociale , e bisogna consapevolmente “scommettere” (in senso pascaliano, e cioè di scommessa razionale) sul fatto che non proseguirebbe la macelleria sociale.
Ci si può chiedere: in base a cosa si può pensare che non lo farebbe? Si può rispondere in molti modi. Primo, non lo farebbe perché avrebbe la “autorevolezza” di contrattare con i poteri internazionali (BCE, FMI, governi tedesco, francese, eccetera) condizioni migliori, laddove lo sputtanato Berlusconi (che definì telefonicamente la Merkel una “culona intrombabile”) non potrebbe farlo. Secondo, perché sarebbero i suoi stessi elettori e i loro movimenti organizzati, in primo luogo i sindacati, a impedirglielo, anche se per caso i “politici” lo volessero. Oppure per una combinazione dei due elementi e dei due fattori.
Bisogna prendere molto sul serio questa argomentazione, soprattutto se non ci si crede, come è il mio caso. Se essa infatti fosse corretta e metodologicamente non lo si può escludere, allora i vari astensionisti e non-votanti avrebbero torto, e i vari Diliberto, Ferrero, Giacché, Vinci, eccetera, avrebbero ragione. Anzi, avrebbe addirittura più ragione Vinci di Ferrero, che afferma che si può addirittura entrare in un governo di coalizione di centro-sinistra, per poter “contare” ancora di più. Che cosa rispondere?


5. Se la politica economica europea non fosse eterodiretta dalla più complessiva riproduzione del capitalismo finanziario globale (vedere in proposito l’eccellente e recente Enigma del Capitale di David Harvey) allora Diliberto, Ferrero, Giacché e Vinci avrebbero ragione, o almeno in parte ragione. In caso contrario hanno torto, e proseguono nella linea politica suicida del portare acqua al mulino del re di Prussia. Un governo di sinistra, o di centro-sinistra sarebbe altrettanto commissionato di quello di Berlusconi, e sarebbe unicamente un commissionamento senza escort e conflitti di interesse, cose prive di interesse per i pensionati e i giovani senza lavoro che sono stati e che sono state artificialmente gonfiate a forza dalla strategia babbionizzante di “Repubblica” e del “Manifesto”.




6. Che fare? Non lo so. Non sono mica Marx o Lenin!!! A me basta e avanza essere preso sul serio e letto come filosofo, non certo come politico dilettante da bar dei pensionati. Ma in prima battuta credo che non ne usciremo senza porre almeno il problema dell’uscita dall’euro, del ristabilimento di una moneta nazionale, di una uscita dall’organizzazione criminale NATO, di un riorientamento geopolitico strategico, e della rinegoziazione radicale del debito.
Si dirà: ma sei matto! Ma non sai che non ci sono le condizioni, non solo a breve termine, ma anche a medio termine? Ora, si fa poco onore alla mia scarsa intelligenza politica se mi si considera talmente cretino e talmente “sulle nuvole” (come si sa, i filosofi abitano sulle nuvole, come i piccioni) da non saperlo. Ma appunto perché lo so, rivendico il vecchio diritto di ogni pensatore, quello di porre problemi strategici e non solo soluzioni tattiche.
Non faccio parte per mia fortuna del jet-set degli intellettuali di sinistra con accesso ai media politicamente corretti. Ma per ragioni biografiche conosco bene il greco moderno, e posso fare citazioni di prima mano da riviste di cui sono anche membro della redazione, come il settimanale greco “Sinistra”, Aristerà. Cito il più grande filosofo greco vivente, Eutichis Bitzakis (15 ottobre 2011): “Bisogna creare un fronte popolare di salvezza nazionale; un movimento anticapitalista che leghi insieme il patriottismo e l’internazionalismo. Nel corso di questa alleanza potremo sciogliere i problemi delle finalità strategiche attraverso la creazione di alleanze più larghe e di azione comune”. Ed afferma l’economista Flora Papadede: “Il rifiuto del pagamento del debito e l’uscita dall’euro con la ricostituzione di una moneta nazionale non è per nulla una richiesta di sinistra che deriva da qualche considerazione ideologica. E’ l’elemento fondamentale perché possa sopravvivere il Paese e il suo popolo”. E ancora aggiunge la Papadede: “Non basta oggi riaffermare davanti al popolo che le cose vanno male e che diventeranno ancora peggiori. Il popolo lo vede ogni giorno al lavoro, a scuola, a casa, negli ospedali. Bisogna che veda come ci sono prospettive fondate e organizzate, in modo da riprendere coraggio e convincersi che un’altra strada è possibile”.
Ho citato Bitzakis e la Papadede perché sono pubblicati da un periodico della cui redazione faccio parte. Ma qui mi interessa riaffermare che in Italia siamo ancora lontani dalla chiarezza, contestabile fin che si vuole, di queste affermazioni. Cerchiamo di enuclearne il centro motore.


7. Contestare Bersani, Di Pietro e Vendola, e persino contestare Diliberto, Ferrero e Vinci è del tutto inutile, e anzi addirittura controproducente, se non si mostra almeno una prospettiva di salvezza nazionale di questo paese. Spagna e Italia non sono certo nelle condizioni della Grecia, ma non facciamoci illusioni. E’ solo questione di tempo, prima che la carica del rinoceronte non arrivi anche da noi: l’adattamento al modello anglosassone di capitalismo globalizzato neoliberale, appoggiato dall’insieme delle classi dirigenti europee senza alcuna differenza fra centro, destra e sinistra, è incompatibile con il salvataggio di un secolo di conquiste del movimento operaio organizzato e dello stesso modello europeo (di origine tedesca) di capitalismo sociale.
Ciò che dice per la Grecia Flora Papadede non sembra ancora attuale in Italia. Ma lo sarà fra un breve lasso di tempo. O si pensa forse che il PD è più “a sinistra” del PASOK greco, oppure è più influenzabile “a sinistra” da Vendola e Landini? Ma per favore!!


8. E arriviamo finalmente al dunque. Quello che voglio dire è che le proteste di tipo strettamente “classista”, non importa se con o senza black bloc, con muggiti di tori o con belati pecoreschi, eccetera, non sono, e non possono essere, all’altezza della sfida che le oligarchie ci hanno rivolto. Da simili sfide si esce in modo nazionale , vedi l’Argentina, o non si esce. I gruppetti estremisti di estrema sinistra o di estrema destra, non c’è differenza, hanno perduto da decenni qualunque dimensione nazionale; e l’idea di poter essere affidabili presso il popolo normale con le loro urla rauche di contestatori “classisti” è del tutto fuori di ogni credibilità. Il popolo normale non li voterà neppure, fino a che “spererà” che Bersani lo possa tirare fuori dal fango in cui siamo caduti. Che non è il fango delle irrilevanti puttane di Berlusconi, ma è il fango della mancanza di ogni sovranità politica, economica e militare.
E voglio qui chiarire un malinteso. Io appoggio interamente gli argomenti politici del recente convegno di Chianciano (Mazzei, Pasquinelli, più vari estremisti di gruppetti ultra-comunisti e intellettuali indipendenti). La mia obiezione non deve essere intesa come indiretto appoggio ai “compatibilisti” tipo Diliberto, Giacché, Ferrero e Vinci. Anzi, proprio perché appoggio il loro porre problemi strutturali e strategici, non sopporto il solito modo settario e veteroclassista con cui li pongono. Un buon modo per seguire l’esempio del notabile sardo un po’ coglione Mariotto Segni, che prima vince alla lotteria e poi perde il biglietto vincente. Credere di poter sollevare problemi del genere, di portata storica ed epocale, con sostenitori della dittatura del proletariato (CARC) e della rivoluzione trotzkista (Ferrando) significa esattamente questo.
Verrò ascoltato? Ma certamente no! Ma sicuramente no! Conosco infatti molto bene i miei polli, provenienti dalla diaspora del vecchio estremismo di sinistra sedimentato dal riflusso del ventennio 1990-2010. Costoro non capiscono neppure che cosa voglia dire una “questione nazionale”, ed è come parlare in turco a un black bloc di Benevento che studia a Chieti e devasta Roma. Oppure alla signora Rossanda, che sul “Manifesto” del 23 ottobre 2011 non trova una sola parola di pietà per il “dittatore” Gheddafi e se la prende invece con i dittatori “antimperialisti” (persino Fidel Castro è sporcato dalla anziana signora), che non avrebbero nulla a che fare con il suo “socialismo” da salotto parigino: en passant, se la prende addirittura “da sinistra” con la sua creatura “Il Manifesto” affermando di rifiutare il “socialismo di mercato”. Sono stati questi i maitres a penser della sinistra più stupida d’Europa, priva di qualsiasi dimensione patriottica e nazionale, quella che si è spinta a consigliare la formazione di “brigate internazionali” in Libia a fianco della NATO, dei tagliagole sodomizza tori e delle bande di assassini linciatori di Gheddafi.
Su queste basi, la carica del rinoceronte non solo non potrà essere arrestata (nessuno la arresterebbe!), ma non riusciremo neppure a scansarci in tempo. E’ molto triste esserne consapevoli, e non vedere al presente nessuna via d’uscita, almeno per ora.


Torino, 27 ottobre 2011