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martedì 9 ottobre 2012

PER UN NUOVO MOVIMENTO ANTICAPITALISTA





Costruire le Consulte Popolari


di Francesco Salistrari*


«Il riformismo, come movimento filosofico, politico e culturale, ha esaurito la sua funzione storica. Il fatto che la sinistra mondiale, in quanto espressione culturale e politica generale, abbia completamente abbandonato la propria prerogativa anticapitalista per “approdare” a posizioni uniformemente e sostanzialmente liberal-liberiste, dopo la caduta del cosiddetto “socialismo reale”, rappresenta una delle ragioni principali e fondamentali della deriva che il mondo oggi sta vivendo. La messa al bando, da parte di quasi tutte le formazioni politiche del mondo, di un progetto e di un programma anticapitalistico, se ha rappresentato per molti aspetti un qualche vantaggio nel rimuovere l’egemonia che di questa prerogativa ideologica avevano usufruito e abusato le formazioni degenerate del socialismo reale, dall’altra parte sono stati derubricati dall’agenda politica di tutte le formazioni, un’analisi e una proposta di soluzioni alternative per la costruzione di un modello sociale ed economico sostanzialmente diverso da quello capitalista.

Il fatto che dopo il crollo del socialismo reale, tutti i partiti comunisti si sono dissolti insieme al “monolite” sovietico o hanno cambiato pelle riciclandosi nell’agone elettorale (soprattutto in occidente), non ha comunque esentato le formazioni politiche e sociali che si presuppongono un miglioramento delle condizioni di vita nel mondo, dal proporre un modello ed un progetto di alternativa al capitalismo. Il venir meno del comunismo come base teorica e politica per un modello alternativo di società e di economia, non ha significato altresì il venir meno anche della necessità di un progetto di cambiamento delle basi socio-economiche del sistema vigente e questo per ragioni che non hanno nulla a che fare con le idee, ma molto con la prassi e la vita degli uomini, la sostenibilità ambientale del sistema, la sua tenuta dal versante energetico.

Il Sud America è vero, sperimenta situazioni diverse e potrebbe rappresentare un esempio su molte questioni, ma nè l'Argentina nè il Brasile, per fare due esempi, possono dirsi paesi non capitalisti. Il welfare e il keynesianesimo che praticano e predicano NON è anticapitalismo, ma forme di sviluppo sociale che in Europa e nel resto del mondo occidentale sono già state attuate e superate dal neoliberismo dominante. Il problema è che alla lunga anche i paesi del Sud America dovranno fare i conti con la caduta della domanda aggregata mondiale, con la recessione e con la crisi economica, che riproporranno in maniera violenta le dinamiche più cruente della lotta di classe.

Bisogna rendersi conto che è necessario creare i presupposti per un'elaborazione cosciente di modelli nuovi di produzione e distribuzione, utili a creare le condizioni che favoriscano l'unità dei popoli intorno a tali progetti. Abdicare a questo compito che la storia impone, vuol dire arrendersi al "modello unico dominante", al dogma del mercato e dei suoi strumenti e iniquità sistemiche, alla schiavitù perpetua della maggioranza a favore di una esigua minoranza di potenti che governano il pianeta, che detengono il controllo dell'energia, della produzione alimentare, degli apparati militari e industriali, il comparto farmaceutico, l'accesso alle risorse (acqua, petrolio, gas naturale, materie prime).

E' questo il punto NODALE che va compreso! La politica compromissoria di partiti, movimenti e organizzazioni sociali che dovrebbero porsi come catalizzatrici di un nuovo progetto politico, con tutte quelle forze reazionarie e liberiste (esemplificate dall'esempio italiano del PD) sarà l'ulteriore pietra tombale sulle aspirazioni sociali a venire a galla, a diventare proposta politica ed il cambiamento sarà una chimera inseguita piegando il capo alle imposizioni e ai diktat di un potere sempre meno democratico e sempre più dispotico.
In questo contesto, la politica attuale (dal 1989 ad oggi) della sinistra mondiale diventa, consapevolmente o inconsapevolmente, un potente aiuto alla vittoria definitiva di quella Neoaristocrazia che governerà il pianeta per il prossimo secolo.

I pericoli insiti in questa nuova conformazione sociale che sta emergendo, sono immani. E le convulsioni di questa crisi sono essenzialmente determinati dalle forze vive in campo che spingono verso l'affermazione definitiva di questa nuova conformazione sociale che vede, indubbiamente, nella democrazia in quanto tale solo un ostacolo e un impedimento.
La compressione degli spazi democratici e lo spostamento dei centri decisionali di rappresentanza democratica verso nuove istituzioni oligarchico-tecnocratiche, sono un aspetto non marginale delle dinamiche in corso e si collegano strettamente alla questione delle sovranità nazionali. L'erosione della base democratica dei vari contesti nazionali, diventa strumentale al funzionamento dei meccanismi economici e finanziari, alla gestione e allocazione delle risorse, alla circolazione e accumulazione monetaria (capitali). La messa in discussione della modellistica dello Stato Nazione, assume così un aspetto inquietante.
La costruzione economica Europea, sotto il vessillo della moneta unica, ne è l'esempio più lampante. Ma tali dinamiche si affermano su scala globale attraverso tutta una serie di organismi sovranazionali il cui potere decisionale (non democratico) negli ultimi decenni si è enormemente accresciuto. Parlo dell'FMI, del WTO, del OMS, dell'ONU, delle Banche, delle Corporations, ognuno nei propri ambiti di intervento.

E' per questo che la discussione intorno alla conquista democratica della sovranità nazionale da parte dei popoli, particolarmente in quei contesti dove la questione appare più urgente e gigantesca (paesi della cintura mediterranea, Medio Oriente, Sud America, Russia, Cina, Africa Centrosettentrionale, Sud Est Asiatico), diventa il punto iniziale dal quale procedere al fine di favorire la formazione di un movimento internazionale (e internazionalista) capace di mettere al centro l'essere umano e la dignità umana, proponendo soluzioni alla questione sociale e democratica, ambientale, dei diritti sociali.
E' in questo contesto che i termini della questione sono totalmente mutati rispetto al passato, anche recente. Oggi la nazione, la sovranità nazionale, si pongono nei confronti dei processi economici, politici e sociali in atto, come una difesa, come un baluardo, nei confini del quale proteggere tutta una serie di interessi sociali, di diritti e di tutele, che vengono pesantemente ridimensionati e messi in discussione.

E' dunque a partire da una battaglia democratica nei vari contesti nazionali che si costruisce il cambiamento più generale del sistema socio-economico che veda la reimpostazione dei criteri con i quali si affrontano la questione ambientale, i problemi economici; gli obiettivi produttivi e di consumo; l'accesso alla e la redistribuzione della ricchezza; la stratificazione sociale; la divisione mondiale del lavoro.
Bisogna pertanto partire dall'esistente e costruire aggregazione sociale intorno a tutte quelle realtà associative, ai movimenti, ai partiti, alla società civile nel suo complesso, che si pongono come obiettivo principale il cambiamento.

E' dunque necessario creare unione intorno ad alcuni punti fondamentali e che si esca fuori dagli schemi classici della rappresentanza propriamente partitica. E' chiaro che non si possono inventare forme nuove di aggregazione dal nulla, così come per esempio nel caso italiano, ha fatto il Movimento 5 Stelle e che da questo punto di vista pagherà scotto in un prossimo futuro. Alcuni principi di organizzazione, figli della “tradizione” partitica vanno comunque salvati, ma è necessaria una elaborazione collettiva innovativa.
Infatti, intorno ad un nucleo valoriale e di idee fondamentali, è possibile creare attraverso l'attivismo sociale una “rete” tra tutte le associazioni e i movimenti emergenti (o già esistenti e pienamente radicati) in modo tale da favorire la nascita di embrioni territoriali (“Consulte Popolari”) che ad ogni livello elaborino e discutano l'azione politica. Queste unità territoriali, legate tra di loro in tutte le forme possibili, potrebbero contribuire alla nascita di un movimento nazionale con un programma centrale, una struttura democratica definita, un radicamento sociale che rappresenti gli interessi primari della maggioranza delle popolazioni di tutti i contesti nazionali.

L'indizione di quelle che potrebbero essere definite “Assemblee Costituenti” che vadano in questa direzione, appaiono oggi, più che mai irrinunciabili.

E' da qui che si parte per creare i presupposti di un vero cambiamento radicale delle forme di convivenza su questo pianeta. Un cambiamento che presuppone la messa al bando di divisioni razziali, religiose, ideologiche e sociali artificiali, artificiose e controproducenti.
Aldilà di qualsiasi schema culturale, appare evidente che dinnanzi alle sfide che l'umanità ha oggi di fronte, sia urgente mettere al centro della discussione e dell'azione politica cosciente della società nel suo complesso, i bisogni e le esigenze dell'uomo, attraverso la condivisione di una serie di valori universali incontestabili che faccia perno sui principi della conservazione, del rispetto, della qualità e della dignità della vita umana».
dell'ONU, delle Banche, delle Corporations, ognuno nei propri ambiti di intervento.

E' per questo che la discussione intorno alla conquista democratica della sovranità nazionale da parte dei popoli, particolarmente in quei contesti dove la questione appare più urgente e gigantesca (paesi della cintura mediterranea, Medio Oriente, Sud America, Russia, Cina, Africa Centrosettentrionale, Sud Est Asiatico), diventa il punto iniziale dal quale procedere al fine di favorire la formazione di un movimento internazionale (e internazionalista) capace di mettere al centro l'essere umano e la dignità umana, proponendo soluzioni alla questione sociale e democratica, ambientale, dei diritti sociali.
E' in questo contesto che i termini della questione sono totalmente mutati rispetto al passato, anche recente. Oggi la nazione, la sovranità nazionale, si pongono nei confronti dei processi economici, politici e sociali in atto, come una difesa, come un baluardo, nei confini del quale proteggere tutta una serie di interessi sociali, di diritti e di tutele, che vengono pesantemente ridimensionati e messi in discussione.

E' dunque a partire da una battaglia democratica nei vari contesti nazionali che si costruisce il cambiamento più generale del sistema socio-economico che veda la reimpostazione dei criteri con i quali si affrontano la questione ambientale, i problemi economici; gli obiettivi produttivi e di consumo; l'accesso alla e la redistribuzione della ricchezza; la stratificazione sociale; la divisione mondiale del lavoro.
Bisogna pertanto partire dall'esistente e costruire aggregazione sociale intorno a tutte quelle realtà associative, ai movimenti, ai partiti, alla società civile nel suo complesso, che si pongono come obiettivo principale il cambiamento.

E' dunque necessario creare unione intorno ad alcuni punti fondamentali e che si esca fuori dagli schemi classici della rappresentanza propriamente partitica. E' chiaro che non si possono inventare forme nuove di aggregazione dal nulla, così come per esempio nel caso italiano, ha fatto il Movimento 5 Stelle e che da questo punto di vista pagherà scotto in un prossimo futuro. Alcuni principi di organizzazione, figli della “tradizione” partitica vanno comunque salvati, ma è necessaria una elaborazione collettiva innovativa.
Infatti, intorno ad un nucleo valoriale e di idee fondamentali, è possibile creare attraverso l'attivismo sociale una “rete” tra tutte le associazioni e i movimenti emergenti (o già esistenti e pienamente radicati) in modo tale da favorire la nascita di embrioni territoriali (“Consulte Popolari”) che ad ogni livello elaborino e discutano l'azione politica. Queste unità territoriali, legate tra di loro in tutte le forme possibili, potrebbero contribuire alla nascita di un movimento nazionale con un programma centrale, una struttura democratica definita, un radicamento sociale che rappresenti gli interessi primari della maggioranza delle popolazioni di tutti i contesti nazionali.

L'indizione di quelle che potrebbero essere definite “Assemblee Costituenti” che vadano in questa direzione, appaiono oggi, più che mai irrinunciabili.

E' da qui che si parte per creare i presupposti di un vero cambiamento radicale delle forme di convivenza su questo pianeta. Un cambiamento che presuppone la messa al bando di divisioni razziali, religiose, ideologiche e sociali artificiali, artificiose e controproducenti.
Aldilà di qualsiasi schema culturale, appare evidente che dinnanzi alle sfide che l'umanità ha oggi di fronte, sia urgente mettere al centro della discussione e dell'azione politica cosciente della società nel suo complesso, i bisogni e le esigenze dell'uomo, attraverso la condivisione di una serie di valori universali incontestabili che faccia perno sui principi della conservazione, del rispetto, della qualità e della dignità della vita umana».

* Fonte: memorandum di uno smemorato

giovedì 15 dicembre 2011

MOVIMENTO POPOLARE DI LIBERAZIONE
PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE
LA VIA MAESTRA E' IL SOCIALISMO



(Bozza di Manifesto del M.P.L.)




Rompendo gli indugi

L’Assemblea di Chianciano Terme del 22-23 ottobre “Fuori dal debito! Fuori dall’Euro” adottò per acclamazione una mozione che istituiva un «Comitato di coordinamento nazionale provvisorio con l’incarico di preparare una seconda assemblea entro la fine di gennaio 2012», e di stilare, in vista di quest’ultima, «una bozza di Manifesto».


Alla nostra prima riunione, svoltasi il 5 novembre, oltre a confermare l’impegno a scrivere e proporre alla prossima assemblea il Manifesto, abbiamo anche indicato la necessità di andare verso la costituzione di un nuovo soggetto politico, il Movimento Popolare di Liberazione.


Il 17 novembre, mentre ci apprestavamo a scrivere il Manifesto, la crisi economica e politica subiva l’accelerazione che sfociò nelle dimissioni del governo Berlusconi e nell’insediamento di quello Monti. Ci sembrò doveroso indicare che si trattava «una congiura ordita dal grande capitalismo finanziario internazionale», e che il paese passava «dalla padella alla brace». Per questo diffondemmo un «Appello al popolo lavoratore», segnalando come urgente il compito di formare un ampio Fronte di resistenza. In quell’Appello indicammo i sette punti di un «programma d’emergenza» per fermare Monti, per «dare uno sbocco all’opposizione sociale diffusa ma ancora incerta e frammentata... affinché si candidasse a guidare il paese per portarlo fuori dall’abisso».


Centinaia sono stati i cittadini che, sottoscrivendo quell’Appello, hanno sottolineato la volontà di aderire.


I fatti hanno superato i più foschi timori. La manovra economica del nuovo governo, giustificata con l’obbligo di “onorare il debito”, non solo è senza precedenti, è concepita come una puntata di un massacro sociale senza fine.


Gli eventi recenti se ci dicono che è urgente costruire un ampio Fronte di resistenza per contrastare Monti e fermare l’offensiva antipopolare, ci confermano che è necessario dare vita ad un nuovo movimento politico. Non ci saremmo decisi a compiere questo passo se fossimo vissuti in tempi ordinari, e se fosse esistita una forza solida e coerente capace di interpretare la fase politica attuale e che avesse ideee e proposte all’altezza della gravissima situazione che viviamo.


Che ci sia bisogno di un nuovo movimento politico, ciò è avvertito da larghi settori del popolo lavoratore che ormai da troppo tempo si trova senza un soggetto di riferimento credibile e certo.


Rompiamo così gli indugi e, tenendo fede alla promessa, proponiamo questo Manifesto [che alleghiamo affinché ognuno possa farlo circolare e stamparselo per leggerlo con la dovuta attenzione].


Fronte ampio di resistenza e movimento politico, com'è ovvio, non sono la stessa cosa.


Un’allenza sociale per far fronte all’emergenza è tanto più forte e ha tante più possibilità di vincere, quanto più è ampia, e per questo essa deve fondarsi su pochi e semplici obbiettivi.


Un Movimento politico degno di questo nome deve invece avere un programma di più ampio respiro, una visione d’insieme, un progetto di alternativa di società, che noi indichiamo appunto nel socialismo.


Speriamo di esserci riusciti con questo Manifesto .
Lo sottoponiamo dunque alla attenzione di coloro i quali, dopo l’Assemblea di Chianciano Terme, sono stati solidali con le nostre battaglie ed hanno espresso interesse a partecipare alla prossima Assemblea del 4-5 febbraio 2012.


Assemblea costituente, non costitutiva, ad indicare il suo carattere aperto a chiunque, condivise le linee generali del Manifesto, volesse unirsi a noi per dare vita, nei tempi e nei modi che comunemente verranno decisi, al MPL.*


Per il Comitato di Coordinamento dell’Assemblea di Chianciano Terme
Massimo De Santi, Leonardo Mazzei, Moreno Pasquinelli.
15 dicembre 2011


* Avremmo voluto svolgere l’Assemblea del 4-5 febbraio a Roma. I costi esorbitanti che ognuno avrebbe dovuto affrontare ci costringono a tornare a Chianciano Terme. Il costo approssimativo del soggiorno per sabato e domenica è di 60 € cadauno. Invitiamo fin da ora chi deve e vuole partecipare a segnalarcelo. La sua richiesta sarà considerata valida come prenotazione.



PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE
LA VIA MAESTRA E' IL SOCIALISMO
(Bozza di Manifesto)


Il capitalismo è come una trottola, può tenersi in equilibrio solo se gira vorticosamente attorno al proprio asse. Per ruotare ha bisogno di due fattori: una spinta che gli imprima movimento e una superficie perfettamente piana. Se viene a mancare anche solo uno di questi due fattori essa smette di ruotare, si accascia al suolo e si arresta.
La trottola del capitalismo occidentale sta schiantando perché la sua forza di spinta è venuta a mancare proprio mentre avrebbe dovuto accrescere a causa della superficie diventata accidentata, essendo la spinta il profitto e la superficie il mercato mondiale.




Il gioco vale la candela?


La forza motrice che muove lo sviluppo capitalistico non è il bene comune ma il profitto, il bene privato di chi detiene il capitale. Quando non può accrescere il profitto il capitale arresta la sua corsa, smette di investire, blocca la produzione, smantella impianti e dunque licenzia, crea disoccupazione, getta nella miseria anzitutto chi non ha altre risorse se non quella di vendere al miglior offerente la propria capacità lavorativa.
Queste recessioni cicliche, connaturate al capitalismo, vengono chiamate “crisi”. Ogni fase di espansione è seguita da una inevitabile contrazione. Alcune di queste crisi sono però più profonde, sono sistemiche, investono la gran parte dei settori economici e possono sfociare in depressioni di lungo periodo. Le conseguenze sociali e geopolitiche possono essere devastanti: pauperismo di massa, inasprimento dei conflitti sociali, caduta di governi e regimi, guerra aperta tra gli stati.
Con simili sconquassi vanno al tappeto i due dogmi che sorreggono l’ideologia dominante: quello per cui il capitale, facendo i propri interessi, realizza quelli di tutti, e quello per cui il “libero” mercato è il luogo che meglio assicura e distribuisce il benessere. La società è quindi costretta, quando il capitalismo mette in luce i suoi limiti congeniti, a considerare il rapporto tra i costi e i benefici del sistema, e ove decidesse che il gioco non vale la candela, a cercare una via d’uscita e a sperimentare nuovi modelli sociali e di vita.


Il boomerang


Di portata epocale fu la crisi che il capitalismo occidentale conobbe negli anni ’70 del secolo scorso. La tenace resistenza proletaria all’interno, l’avanzata delle lotte di liberazione dei popoli oppressi e l’esistenza del “blocco socialista” non consentirono al capitalismo di ricorrere alle vecchie terapie. La risposta alla crisi fu la globalizzazione.
All’interno: smantellamento delle protezioni sociali, privatizzazioni delle aziende e dei servizi pubblici, frantumazione delle grandi roccaforti industriali, precarizzazione del lavoro, agevolazione dei flussi migratori, lento abbassamento dei salari e dei redditi, boom del credito per sorreggere il consumismo di massa.
All’esterno, in classico stile coloniale, rapina sistematica delle risorse dei paesi poveri (non solo di materie prime, appunto, ma pure di forza-lavoro, manuale e intellettuale) e, grazie al ruolo guida imperiale degli Stati Uniti, aggressioni, guerre e pressioni di ogni tipo per soggiogare interi paesi e spazzare via i regimi considerati ostili. L’imperialismo, al prezzo di prosciugare le sue casse, ha vinto la “guerra fredda” e rovesciato regimi nazionali considerati “canaglia”, ma ciò ha prodotto nuovi esplosivi squilibri regionali e mondiali.
Il tutto nel quadro di una deregolamentazione sistematica dei mercati, dell’abbattimento di ogni barriera ai movimenti di capitale, della competizione selvaggia tra multinazionali e aziende, paesi e aree economiche. Questa globalizzazione dei mercati, che le potenze occidentali hanno tenacemente perseguito fino a spazzare via ogni ostacolo, si è rivelato un boomerang. L’ampia superficie piana per far girare la trottola si è trasformata in un terreno minato.


Il fallimento


La globalizzazione ha infatti prodotto alcuni effetti macroscopici.
Essa ha fatto emergere nuove potenze economiche, Cina in primis, che sfidano oramai apertamente quella supremazia che l'occidente - nel disperato tentativo di evitare un inesorabile declino - cerca di difendere in ogni modo, anche a rischio di nuove gravissime tensioni geopolitiche.
Al contempo la globalizzazione ha sprofondato nella recessione una serie di paesi poveri privi di materie prime, portando centinaia di milioni di persone alla fame, di qui grandi rivolte sociali, come quelle che hanno portato alla caduta di regimi totalitari nei paesi arabi.
Ma una delle conseguenze è che anche l’Occidente si è impoverito. I capitali occidentali, privi di freni, sono fuggiti via per fare razzie nei nuovi territori di caccia. In virtù dei bassi salari, dei regimi neoschiavistici di sfruttamento e repressione, dei sistemi fiscali di vantaggio dei paesi presi di mira, le imprese occidentali hanno accumulato enormi guadagni.
Questi tornavano sì in Occidente ma per finire nella grande bisca del capitalismo casinò, per essere gettati nel gioco d’azzardo di una speculazione finanziaria fondata sul debito. Somme colossali venivano offerte in prestito ai cittadini per sorreggere domanda interna e consumi in calo a causa della caduta del potere d’acquisto dei salari, e agli stati per puntellare i loro bilanci falcidiati da scellerate politiche privatizzatrici. In questo tritacarne sono quindi finiti gli Stati e le banche centrali. I primi accettando di gettare i debiti sovrani nei mercati finanziari internazionali, le seconde o stampando a tutto spiano carta moneta per sorreggere banche fallite o in procinto di fallire. Questo sollazzo non poteva durare all’infinito: moneta, obbligazioni e titoli per quanto simboli astratti sono pur sempre espressione di valori reali, sempre tenendo conto che il lavoro e la natura sono le due sole fonti da cui sgorga la ricchezza di una società.


Mutamenti epocali


La finanziarizzazione liberista dell’economia ha agito come una droga. Per sopravvivere il capitale aveva bisogno di dosi sempre più massicce di liquidità, acquistando dalle banche centrali denaro a basso costo per poi lucrare rivendendolo a tassi usurai. Ma nella bisca, il gioco è sempre a somma zero: a fronte di chi vince, c’è sempre qualcun altro che perde. Chi ci ha rimesso le penne è stato anzitutto il lavoro salariato, che in tre decenni si è visto scippato di buona parte delle sue conquiste ed ha subito una drastica riduzione della quota di reddito sociale a sua disposizione; scippo compensato dall’elargizione di crediti che hanno trasformato buona parte dei lavoratori in debitori permanentemente sotto ricatto.
La globalizzazione ha quindi indotto profonde trasformazioni nel corpo stesso delle società occidentali, sia in alto che in basso.
In alto: la rendita, ovvero il capitale finanziario speculativo (denaro che si accresce senza passare per il ciclo produttivo di merci) ha preso il sopravvento su quello industriale; e in esso il vero dominus è diventato il settore bancario predatorio (banche d’affari); in seno alla classe capitalista sono diventati prevalenti i ceti parassitari che vivono di rendita; gli stati nazionali sono stati privati della loro sovranità politica; parlamenti e governi, espropriati delle loro prerogative, sono diventati passacarte; i partiti si sono trasformati in meri comitati d’affari, selettori dei funzionari al servizio dell’oligarchia.
In basso i mutamenti non sono stati meno profondi. Il dato fondamentale è che al crollo del lavoro produttivo è corrisposta la crescita di quello improduttivo o direttamente parassitario. Il processo di deindustrializzazione e di smantellamento dei settori statali ha causato un vero e proprio sfaldamento del tessuto sociale. Scomparsi o quasi i grandi poli industriali, gran parte del lavoro è stato appaltato a piccole e medie aziende, dove i salari sono più bassi ed è molto più difficile per i lavoratori tutelare i propri interessi. Allo smembramento della vecchia classe operaia industriale è corrisposta la crescita dei settori impiegatizi, di mestieri del tutto nuovi, di lavori socialmente necessari ma spesso improduttivi. Il posto fisso ormai è stato in gran parte rimpiazzato dal lavoro precario e flessibile. Le conseguenze sono state devastanti: un disgregazione sociale senza precedenti causa prima dell’implosione dei tradizionali vincoli comunitari e dei tessuti aggregativi, e il sopravvento di un’ideologia individualistica pervasiva, refrattaria ad ogni istanza solidale e collettiva.


La crisi italiana


Nella crisi globale dell’Occidente imperialistico c’è la specifica crisi dell’Unione europea e dentro quest’ultima la crisi italiana. Essa si presenta come un processo che vede coinvolti simultaneamente l’economia, le istituzioni repubblicane, la società civile. All’evidente incapacità della classe dominante di governare il paese (il cui sfascio è emblematico), fa da contraltare la totale inadeguatezza delle classi subalterne a conformare un’alternativa. L’ingresso nell’Unione europea e l’adozione dell’euro, che le classi dominanti avevano pervicacemente perorato come la maniera per porre fine alle strutturali distorsioni italiane, si sono rivelati invece un fiasco totale. La sostanziale cessione di sovranità, monetaria, politica e istituzionale —accettata fideisticamente dalla classe dirigente italiana ma non da quelle tedesche e francesi, né tanto meno dai paesi che come il Regno Unito hanno rifiutato di accettare l’euro— ha finito per aggravare tutti gli squilibri, all’esterno come all'interno.
In questo contesto, l’inevitabile crollo dell’Unione e dell’euro rischiano di essere un evento catastrofico, le cui conseguenze più pesanti verranno fatte pagare al popolo lavoratore, privato oramai di ogni autodifesa.
L’alternativa secca è tra il subire questa catastrofe sociale —che non è un singolo evento fatidico, ma un processo già in atto— o sollevarsi per un vero e proprio cambio di sistema. Se questo rivolgimento non ci sarà presto, il paese sarà ridotto in macerie, col rischio che la miseria generale possa causare un devastante conflitto tra poveri ed infine lasciare spazio ad avventure populiste e reazionarie, animate da una borghesia che tiene sempre in serbo primigenie pulsioni reazionarie, senza nemmeno escludere l’eventualità di uno sgretolamento dello Stato-nazione. Conflitti aspri saranno inevitabili, così come una polarizzazione di forze contrapposte.
Di sicuro la crisi sprigionerà grandi energie sociali, energie che questo sistema politico marcio sarà incapace di ammansire e rappresentare. Queste forze sono la sola leva su cui si possa fare affidamento per cambiare radicalmente questo paese. Vanno quindi alimentate, aiutate ad emergere. Bisogna dare loro una consistenza politica, uno sbocco, una prospettiva. Per farlo non è sufficiente affermare dei no, occorre anche indicare quale possa essere l’alternativa, il nuovo modello sociale.
Questo è esattamente il compito che ci proponiamo come Movimento Popolare di Liberazione (MPL). Esso non consiste anzitutto nell’accendere fuochi di conflitto sociale, poiché essi già esistono come risultato di una resistenza diffusa che scaturisce da condizioni oggettive. Il compito nostro è quello di risvegliare le coscienze sopite, di chiamare a raccolta le migliori intelligenze, di raggruppare e dunque di far scendere in campo centinaia e migliaia di cittadini che di fronte alla miseria sociale e politica generale, sono decisi a prendersi ognuno la propria responsabilità, fino a quella di battersi per rovesciare lo stato di cose esistenti.

Fronte ampio e governo popolare


Parallelamente alla fondazione di una nuova forza politica, il MPL, noi ci battiamo per unire tutte le forze che avvertono la minaccia incombente e che non solo si limitano ad opporre dei no, ma che vogliono sfidare le classi dominanti avanzando soluzioni efficaci e realistiche per portare il paese fuori dal marasma. Si tratta quindi di attivare un Fronte ampio che sappia candidarsi alla guida del paese per dar vita a un governo popolare di emergenza. Tanti sono i problemi, numerose le trasformazioni sociali necessarie, ma esse fanno capo a poche misure sostanziali.


- Abbandonare l’euro per riprenderci la sovranità monetaria.
L’euro ci fu presentato come una panacea per curare i mali strutturali dell’economia italiana (tra cui l’alto debito pubblico e una competitività fondata solo sui bassi salari) e risolvere gli squilibri tra gli Stati comunitari. A dieci anni di distanza non solo il debito pubblico è aumentato, ma l’economia è in stagnazione e la competitività è diminuita. Le politiche antipopolari di austerità perseguite da tutti i governi, presentate come necessarie per restare nell’Unione e difendere l’euro si sono dimostrate del tutto inutili, se non nel fare dell’Italia un paese più povero. L’euro e i principi di Maastricht hanno accresciuto gli squilibri in seno all’Unione europea, determinando uno spostamento di risorse dall’Italia verso i paesi più “virtuosi”, la Germania anzitutto, che non hai mai messo i suoi propri interessi nazionali dietro a quelli comunitari.
La ricchezza di un paese non dipende certo dalla moneta, ma dal lavoro che la crea, e poi da come essa viene distribuita. La moneta è tuttavia una leva per agire sul ciclo economico, un mezzo per decidere come viene distribuita la ricchezza sociale. Un paese che non disponga della sovranità monetaria, tanto più se alle prese con la speculazione finanziaria globalizzata, è come una città assediata priva di mura di cinta. Occorre ritornare alla lira, ponendo la Banca d’Italia sotto stretto controllo pubblico, affinché l’emissione di moneta sia funzionale all’economia e al benessere collettivo e non alle speculazioni dei biscazzieri dell’alta finanza.


-Nazionalizzare il sistema bancario e i gruppi industriali strategici.
Agli inizi degli anni ’80 venne permesso alle banche italiane, in ossequio ai dettami neoliberisti, di diventare banche d’affari, di utilizzare i risparmi dei cittadini per investirli e scommetterli nella bisca del capitalismo-casinò. Prese avvio una politica di privatizzazione delle banche e di concentrazione, che ha coinvolto anche gli enti assicurativi, gettatisi voraci sul malloppo dei fondi pensione. Banche e assicurazioni sono oggi le casseforti che custodiscono gran parte della ricchezza nazionale. Esse debbono essere nazionalizzate, affinché questa ricchezza, invece di partecipare al gioco d’azzardo finanziario, sia utilizzata per il bene del paese. Debbono poi ritornare in mano pubblica le aziende di rilevanza strategica, sottraendole agli artigli dei mercati finanziari e borsistici come dalla logica perversa del profitto d’impresa.
Contestualmente andrà rafforzata la gestione pubblica dei beni comuni come l’ambiente, l’acqua, l’energia, l’istruzione, la salute.


- Per una moratoria sul debito pubblico e la cancellazione di quello estero
Il debito pubblico accumulato dallo Stato è usato da un decennio come la Spada di Damocle per tagliare le spese sociali, giustificare le misure d’austerità ed una tra le più alte imposizioni fiscali del mondo. Esso è diventato fattore distruttivo da quando, agli inizi degli anni ’90, i governi hanno immesso i titoli di debito nella giostra delle borse e dei mercati finanziari internazionali. Da allora i creditori divennero i fondi speculativi, le grandi banche d’affari estere e italiane. Il debito pubblico, gravato di interessi crescenti, non è niente altro che un drenaggio di risorse dall’Italia verso la finanza speculativa, banche italiane comprese.
Per questo riteniamo ingiusto, antipopolare e suicida per il futuro del paese fare del pagamento del debito un dogma. La rinascita dell’Italia richiede la protezione dell’economia nazionale dal saccheggio dei predoni della finanza imperialista. Ciò implica impedire ogni fuga di capitali verso l’estero, incluso il pagamento del debito estero perché esso non è altro che una forma di espatrio legalizzato, di rapina autoinflitta. Non rimborsare gli strozzini della finanza globale non è una opzione, ma una necessità.
Non solo è ingiusto, ma in base al rapporto costi/benefici è economicamente irrazionale tentare di rispettare la clausola del Trattato di Maastricht che impone un rapporto debito/Pil non superiore al 60%. Ciò implica ripetere per ben 25 anni, e non è detto che sia sufficiente a causa della depressione economica, manovre d’austerità da 30 miliardi all’anno.
Sbaglia dunque chi si fa spaventare dagli strozzini che evocano lo spauracchio del “default”. Il male minore per l’Italia è un default programmato e pianificato, una moratoria e dunque una rinegoziazione del debito, che i creditori dovranno accettare, pena il ripudio vero e proprio. Per quanto riguarda il debito con le banche e le assicurazioni italiane, dal momento che saranno nazionalizzate, esso sarà de facto cancellato. Il solo debito pubblico che lo Stato rimborserà, a tassi e scadenze compatibili con le esigenze della rinascita economica e sociale del paese, sarà quello posseduto dalle famiglie italiane.


- Debellare la disoccupazione con un piano nazionale per il lavoro
La natura e il lavoro sono le sole fonti da cui sgorgano il benessere e la ricchezza sociale. Proteggere l’ambiente e assicurare a tutti i cittadini un lavoro sono le due priorità di un governo popolare. Ciò implica che esso, liberatosi dal feticcio della cosiddetta “crescita economica” misurata in Pil, dovrà sottomettere l’economia, pubblica e privata, alla politica, ovvero ad una visione coerente della società, in cui al centro ci siano l’uomo e la sua qualità della vita. Non si vive per lavorare ma si deve lavorare per vivere. Si produrrà il giusto per consumare il necessario. Solo così si potrà uscire dalla trappola produzione-consumo per affermare un nuovo paradigma produzione-benessere.


- Uscire dalla NATO e dall’Unione europea, scegliere la neutralità.
Attraverso la NATO l’Italia è incatenata ad un patto strategico che oltre a farla vassalla dell’Impero americano, la obbliga a seguire una politica estera aggressiva, neocolonialista e guerrafondaia. Uscire dalla NATO e chiudere le basi e i centri strategici militari americani in Italia è necessario per riacquisire la piena sovranità nazionale, scegliere una posizione di neutralità attiva e una politica di pace. L’uscita dall’Unione europea, inevitabile se si ripudiano, come occorre fare, i Trattati di Maastricht e di Lisbona, non vuol dire chiudere l’Italia in un guscio autarchico, al contrario, vuol dire puntare a diversi orizzonti geopolitici, aprendosi alla cooperazione più stretta con l’area Mediterranea, stringendo rapporti di collaborazione con l’America latina, l’Africa e l’Asia.


- Rafforzare la Costituzione repubblicana per un’effettiva sovranità popolare
La cosiddetta “Seconda repubblica” si è fatta avanti calpestando i dettami della carta costituzionale. L’abolizione delle legge elettorale proporzionale, il bipolarismo coatto, i poteri crescenti dell’Esecutivo, la trasformazione del Parlamento in un parlatoio per replicanti spesso corrotti, erano misure necessarie per assecondare i torbidi affari di banchieri e pescecani del grande capitale, nonché per sottomettere il paese e la politica ai diktat e agli interessi della finanza globale. La Costituzione va difesa contro i suoi rottamatori, se necessario dando vita ad una Assemblea costituente incaricata di rafforzarne i dispositivi democratici a tutela della piena ed effettiva sovranità popolare.

Sovranità nazionale e socialismo


Non vediamo oggi, in seno alle classi dominanti italiane componenti disposte a battersi sul serio per uscire dall’Unione europea, sganciare l’Italia dalla morsa della globalizzazione liberista per ricollocarla dentro nuovi scenari geopolitici. Ove domani si manifestassero il popolo lavoratore non dovrebbe esitare a costituire un’alleanza comune.
Compito pressante dell’oggi è costruire un fronte ampio del popolo lavoratore, un'alleanza solida tra il proletariato e parti consistenti delle classi medie. Dentro questa alleanza il proletariato non dovrà stare a rimorchio ma agire da forza motrice. E per questo serve un soggetto politico rivoluzionario, che aiuti la classe degli sfruttati a diventare classe dirigente nazionale. Solo un fronte popolare con al centro i lavoratori può avere la forza e la determinazione per un cambio di sistema capace di portare l’Italia fuori dal marasma. E' da questo contesto che discendono i compiti, le funzioni e il profilo del Movimento Popolare di Liberazione.
Ma essi dipendono anche dalla nostre finalità, dai nostri scopi ultimi.
Vi è ancora chi considera l’uscita dall’Unione europea e l’abbandono dell’euro come idee velleitarie ed estremistiche. E’ vero esattamente il contrario. Il disfacimento dell’Unione europea e la fine dell’euro sono processi oggettivi, oramai irreversibili. Velleitari sono coloro che si illudono di fermare queste tendenze facendo gli esorcismi, mettendo toppe che sono peggiori del buco. Estremisti psicotici sono gli oligarchi di Francoforte e Bruxelles, disposti a dissanguare intere nazioni pur di tenere in vita una moneta moribonda e ingrassare la rendita parassitaria. Il problema non è se abbandonare l’euro o meno, il problema è chi guiderà questo processo. Se al potere resteranno i servi politici del capitalismo finanziario ne faranno pagare le salate conseguenze alle masse lavoratrici. Se sarà un governo popolare a pilotare l’uscita, i sacrifici, certo inevitabili, saranno anzitutto addossati ai parassiti, e i frutti di questi sacrifici saranno utilizzati per il bene comune della maggioranza e la rinascita del paese.
E’ in questo quadro che il MPL considera la riconquista della sovranità nazionale una stella polare. Senza sovranità nazionale non c’è quella popolare, non c’è democrazia. Solo riconquistando questa sovranità politica, economica e monetaria il paese può risorgere su nuove basi, sgangiandosi dalla soffocante morsa dei mercati finanziari internazionali per proiettarsi verso altri orizzonti regionali e mondiali. Se Un’Europa dei popoli vedrà un giorno luce essa nascerà sulle macerie di quella di Maastricht.
Siccome è sotto gli occhi di tutti che non siamo alle prese con una recessione ciclica ma con una crisi storico-sistemica di un modello di produzione e di vita, dovere di chi guarda al futuro è immaginare un’alternativa di società e agire per realizzarla. Sarebbe assurdo fare grandi sacrifici per poi ritrovarci alle prese con una società esposta a crisi cicliche devastanti, incapace di assicurare un reale benessere collettivo, generatrice di diseguaglianze e squilibri, lacerata dai conflitti sociali.


Il MPL scende in campo per contrastare questa crisi e soprattutto per uscire dal sistema neoliberista globalizzato che ha fatto del capitalismo un dogma. Per liberare il paese dalla corruzione, dalle ingiustizie, dalla dittatura delle banche e della finanza internazionale. Per liberarci dalla dittatura del mercato. Scende in campo per non accettare supinamente la distruzione sistematica della natura, della nostra vita e del futuro delle nuove generazioni; per affermare che l'alternativa è una società socialista che metta l'economia al servizio della collettività e della difesa di tutti i beni comuni.
Sappiamo che questo approdo è ancora lontano, che occorrono tempi lunghi affinché lavoratori e cittadini possano riuscire a prendere in mano i loro destini. Solo allora la società sarà matura per fare a meno del mercato, per togliere ai mezzi di produzione e di scambio la loro forma capitalistica e ai beni la loro forma di merce.
Fino ad allora coesisteranno forme diverse di proprietà, quelle capitalistiche e quelle statali, quelle pubbliche e quelle autogestite. Fermo restando che il governo popolare dovrà aiutare il nuovo a crescere e il vecchio a perire.
L’alternativa di oggi è lottare o soccombere. Quella di domani sarà la liberazione o il ritorno a forme più brutali di oppressione

domenica 27 marzo 2011

La privatizzazione della vita sociale



Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi

1. Il referendum dei lavoratori della Fiat, conclusosi con la vittoria dei SI alla strategia di ristrutturazione aziendale voluta da Marchionne, prelude a mutamenti sistemici dell’economia italiana in senso liberista. E’ dunque giunto al suo “naturale” compimento un processo di destrutturazione del modello di economia mista enunciato dalla carta costituzionale, che prevedeva il controllo, l’indirizzo e lo stesso intervento diretto dello Stato nell’economia nazionale. Alle privatizzazioni delle aziende pubbliche, hanno fatto seguito le riforme strutturali della legislazione del lavoro, con l’introduzione di forme diversificate di lavoro precario, le riforme pensionistiche con l’allungamento della vita lavorativa, le limitazioni della tutela sindacale. La nuova strategia industriale inaugurata da Marchionne, rappresenta di per se il delinearsi di un nuovo modello di sviluppo, suscettibile di applicazione a tutti i settori della produzione. La svolta “Marchionne” sarebbe dovuta all’esigenza prioritaria di adeguare l’economia italiana alla competitività dei mercati internazionali: pertanto essa comporta l’aggancio dei salari alla produttività, la compressione dei diritti sindacali e l’esclusione dalle trattative aziendali di quei sindacati che non accettino i contratti di lavoro proposti dagli imprenditori, oltre alla abrogazione, nei fatti, del contratto collettivo di lavoro. Il nuovo modello di sviluppo è quindi fondato sulla unilateralità del modo di produzione imposto dalla grande industria e dalle banche in relazione alle condizioni, in termini di produttività e competitività poste dal mercato globale. In realtà, quali che siano le prospettive di sviluppo della Fiat – Chrysler, certo è che l’economia italiana ed europea non potrà mai essere competitiva con quella cinese e/o asiatica, data la minima incidenza del costo del lavoro dei paesi emergenti rispetto ai lavoratori europei. Si è comunque determinata una svolta epocale nei rapporti di produzione: è scomparsa la funzione di mediazione dello Stato nei rapporti tra le parti sociali (il governo ha peraltro sostenuto la strategia di Marchionne), si è svuotato di contenuto il ruolo dei sindacati, quale controparte rappresentativa dei lavoratori nelle trattative con l’imprenditore, che a sua volta (nel caso di Marchionne), si dissocia dalla propria associazione sindacale (Federmeccanica), per imporre il proprio contratto di lavoro. I costi sociali di tale trasformazione del modello economico, in termini di salario, tutela sindacale, occupazione, qualità della vita, sono devastanti. Ma, soprattutto, occorre evidenziare come la ristrutturazione industriale imposta da Marchionne si realizzi nel contesto di una fase storica in cui si verifica nella società italiana una trasformazione sociale e culturale che potremmo definire “privatizzazione della vita sociale”. Infatti, nell’ambito della giustizia civile l’orientamento riformatore è quello di sviluppare la pattuizione privata, la conciliazione, un tipo di contrattualistica in cui le leggi derogano alla trattativa tra le parti. Nel campo penale, la depenalizzazione di molte fattispecie di reato, il massiccio ricorso al patteggiamento, sono fenomeni di analoga ispirazione. Nello stesso diritto del lavoro tutta la legislazione sul lavoro precario e flessibile, è, nei fatti, sostitutiva dei principi della contrattazione collettiva, e della stessa contrattazione aziendale, già diffusa in altri settori (vedi il tessile), prima del “modello” Marchionne si sostituirà nel tempo la contrattazione privata individuale. Sta emergendo un processo riformatore in cui gli organi legislativi e giurisdizionali dello Stato vengono estraniati dalle loro funzioni istituzionali: il legislatore abroga se stesso, eliminando l’intervento dello Stato come fonte normativa primaria e devolvendo alla sfera privatistica la regolazione dei rapporti tra le parti sociali, il giudice è destinato asvolgere una funzione giurisdizionale limitata alla legittimità, estraniandosi cioè dal merito delle controversie tra i cittadini.

R. Penso che la formula da te impiegata “privatizzazione della vita sociale” sia estremamente felice, e possa servire da bussola concettuale per una corretta ricostruzione storica e culturale di ciò che ha preceduto la situazione attuale. Ciò che correttamente il sindacato FIOM-CGIL chiama il “ricatto Marchionne” è in realtà il “modello globalizzato Marchionne”, e senza capirne la logica diventa impossibile opporvisi se non in modo puramente lamentoso e testimoniale. Benché preti, politici, giornalisti e clero universitario parlino di “responsabilità sociale dell’impresa” ad ogni piè sospinto, in realtà l’impresa è responsabile soltanto verso i profitti dei propri azionisti, ed il resto è secondario. Cerchiamo allora nella storia degli ultimi secoli un filo conduttore che ci permetta di andare un poco più in profondità.

In tutte le società precapitalistiche la privatizzazione integrale della vita sociale era non solo impossibile, ma anche concettualmente inconcepibile. Questo non significa affatto che esse fossero moralmente “migliori”, ed ogni nostalgismo di questo tipo ci porta fuori strada. E’ interessante che lo stesso termine latino privatus non alludesse ad una situazione originaria di libertà ‘“naturale”, ma indicasse al contrario l’operazione di “priva- zione” dal godimento della proprietà comunitaria dell’ager publicus, che in realtà “pubblico” in senso moderno non lo era per niente, ma si riferiva ad una comunità tribale fortemente gerarchica ed inegualitaria. Il fatto che essere “privato” volesse dire essere forzosamente privato di qualche cosa (il godimento comunitario dei beni), mentre il “pubblico” alludesse ad un particolarismo tribale gerarchico (le gentes) non è solo una curiosità etimologica, ma è uno stimolo per uno spaesamento concettuale necessario per farci relativizzare i significati attuali dei termini, che sono storici e non “naturali”.

Il modello politico e sociale della polis greca classica era fondato su di un modo di produzione sociale di piccoli produttori indipendenti, e non era affatto correlato ad un modo di produzione schiavistico sviluppato, secondo una tradizionale confusione cui sono caduti pensatori diversi ed incompatibili come Nietzsche, Hannah Arendt, Stalin ed il marxismo classico. Ed è questa la ragione per cui Marx fece sempre riferimento alla polis greca classica, vedendo in essa un esempio certo di sfruttamento, ma non di alienazione vera e propria. La separazione dei concetti di sfruttamento (Ausbeutung) e di alienazione (Entfremdung) è concettualmente necessaria, perchè il modo di produzione capitalistico è il primo ed il solo in cui si verifica la piena fusione di entrambi. Solo la norma dell’accumulazione illimitata di valore, infatti, permette di incorporare integralmente i processi di sfruttamento (che caratterizzano tutte indistintamente le formazioni sociali classiste) all’interno del processo di alienazione, cioè di espropriazione integrale dello stesso processo lavorativo sociale, al di là della precedente distribuzione ineguale del plusprodotto.

Questo – val la pena ripeterlo senza stancarsi – non comporta assolutamente conclusioni ‘’nostalgiche” nei confronti delle società caratterizzate dal dispotismo orientale oppure, in Europa, dal feudalesimo e dal dominio nobiliare. Il problema non sta qui, ma sta nella corretta individuazione della genesi storica della società caratterizzata dalla privatizzazione della vita sociale. Anche se solo oggi questa privatizzazione della vita sociale è diventata scandalosamente visibile (e lo è diventata perché si è globalizzata), è bene ricordare che già fra Settecento ed Ottocento sono già riscontrabili sintomi di questa visibilità, soprattutto nell’interpretazione idealistica della natura del precedente illuminismo (Aufklärurng). Ciò che cercherò di sviluppare in questa mia prima risposta è appunto una tesi, per cui progressivamente il punto di vista integralmente individualistico e privatistico dell’empirismo inglese ha sostituito il punto di vista certamente ancora classistico, ma anche comunitario, dell’idealismo tedesco cui Marx non è che l’ultimo coerente esponente.

Ma indaghiamo prima il modello dell’idealismo tedesco, e soltanto dopo, quello dell’empirismo inglese, in modo che la “contrastività” del secondo rispetto al primo appaia maggiormente visibile. Il carattere “dialettico”, e quindi contraddittorio, degli esiti della critica illuministica appare già chiaro al primo grande idealista, il prussiano Fichte, figlio di servi della gleba. A differenza di Voltaire e dei suoi successori odierni (ricordo qui solo il giornalista con pretese culturali Eugenio Scalfari), Fichte considera l’illuminismo in termini dialettici, che ritengo nell’essenziale validi ancora oggi. Da un lato, la distruzione illuministica delle pretese metafisiche di legittimazione feudale e signorile (e quindi assolutistica) è interamente giustificata e legittimata, e non c’è traccia di quel “nostalgismo” che invece caratterizzerà i pensatori della successiva Restaurazione (1815-1830). Il vecchio mondo meritava di morire, perchè aveva perduto quella eticità sostanziale che pure era stata in grado di produrre le grandi cattedrali, romaniche e gotiche. Dall’altro lato, però, la distruzione di tutte le precedenti certezze comunitarie, pur necessaria, aveva comportato uno stato di anomia individualistica, di scetticismo e di relativismo nichilistico integrale che Fichte definì in termini di “epoca della compiuta peccaminosità” e più tardi Hegel definì come “risoluzione dell’ascetismo della morale in regno animale dello spirito”. Qui non c’è lo spazio, e neppure la necessità di interpretare analiticamente i due concetti critici di Fichte e di Hegel, ma è sufficiente sottolineare che la diagnosi di potenziale “privatizzazione della vita sociale” era già stata fatta, ed era stata fatta in termini chiari ed addirittura cristallini. Non siamo all’anno zero della critica, se sappiamo restaurare affreschi coperti dai graffiti liberali e postmoderni.

Ci sono molti modi alternativi di esporre e di riassumere il pensiero di Hegel, ma ce n’è forse uno comparativamente e contrastivamente migliore degli altri: Hegel è il pensatore moderno che ha esposto nel mondo migliore la distinzione e nello stesso tempo la complementarietà convergente del Privato e del Pubblico, ognuno sovrano nei rispettivi ambiti. Se questo è vero – come può essere agevolmente dimostrato – partendo da Hegel non si potrà arrivare mai alla privatizzazione della vita sociale. E’ utile ripercorrere sommariamente il suo processo di pensiero, fondato sulla distinzione fra la Moralità (o sfera del Privato) ed Eticità (o sfera del Pubblico), in cui entrambi i momenti sono riconosciuti interamente legittimi.

Hegel inizia concettualmente da una critica, talvolta addirittura eccessiva ed un po’ ingenerosa, nei confronti del diritto naturale (o giusnaturalismo) e del contratto sociale (o contrattualismo). Se pensiamo che il giusnaturalismo ed il contrattualismo ai suoi tempi costituivano il novanta per cento del pensiero politico, ci rendiamo conto della sua rivoluzionarietà e del suo coraggio innovativo. Ma sono le motivazioni che lo spingono a suscitare la nostra postuma ammirazione.

Hegel respinge il diritto naturale, pur riconoscendone il valore storico negli ultimi secoli perchè non accetta che ci sia un presupposto non-storico della storia posto all’origine della storia stessa, e nello stesso tempo sottratto alla storicità costituente. Oggi si direbbe che si contrappone ai miti dell’Origine, che sono inevitabilmente anche dei miti della Fine della Storia (ove la storia è vista in termini di perdita e di successiva ricomposizione di un Intero Perduto). Se ci fosse qui lo spazio per approfondire analiticamente la questione, apparirebbe chiaro che questa posizione è incompatibile con l’interpretazione di Hegel come neoplatonico moderno che vuole ricomporre una totalità organica originaria decaduta (Lucio Colletti), oppure come teorico della fine della storia (Alexandre Kojève). Ma in questa sede ci interessa sottolineare che sia il Privato che il Pubblico sono entrambi prodotti dello sviluppo storico, e non sono presupposizioni giusnaturalistiche astoriche. Hegel critica la teoria del contratto sociale per le stesse ragioni per cui aveva criticato la teoria del diritto naturale. Non c’è e non c’è mai stato un contratto originario, ma all’origine la società si è costituita sulla base di rapporti di forza (nascita del dominio, rapporto fra servo e signore, eccetera). Il moderno rapporto di Privato e di Pubblico è un risultato storico di un processo di incivilimento dialettico progressivo, non la restaurazione di una caduta originaria, bene esemplificata dal mito biblico del peccato originale, radice unica di tutte le successive secolarizzazioni escatologiche. Chi interpreta Marx in termini di secolarizzatore utopico della escatologia giudaico-cristiana (ad esempio Löwith, ed oggi la stragrande maggioranza della filologia universitaria sia moderna che postmoderna, da Habermas a Lyotard) deve dimenticare e far dimenticare che Marx nell’essenziale accetta la critica di Hegel al diritto naturale ed al contratto sociale, la metabolizza e la fa sua, e quindi non è corretto inserirlo nella sequenza (sia pur rispettabile) dei pensatori dell’Origine presupposta e del conseguente Fine prefissato.

Il rapporto fra sfera pubblica e sfera privata è posto da Hegel in modo rigorosamente filosofico, e più esattamente filosofico-comunitario, e non più nel vecchio modo religioso precedente. Per essere chiari, il pubblico interviene sul privato quando c’è un reato non quando c’è un peccato. Il pubblico interviene nel privato quando c’è pedofilia, non certo quando c’è omosessualità. Nello stesso tempo, anche alla famiglia viene conferito un carattere pubblico, nella misura in cui l’educazione dei figli non può che avere un carattere pubblico. La stessa società civile fa parte di una sfera pubblica, perchè il riconoscimento della professionalità e l’assistenza pubblica non possono essere ridotte all’arbitrio di un eventuale “capitalismo compassionevole”.

Non vi è qui lo spazio per esaminare le varie forme di hegelismo posteriore, di destra (Gentile) o di sinistra (hegelo-marxismo). Esse hanno sempre avuto come minimo comun denominatore il rifiuto concettuale di una qualsivoglia privatizzazione della vita sociale, ed ad esse bisognerà tornare per “raddrizzare” l’attuale andazzo privatizzatore. E’ invece utile esaminare la corrente dell’ empirismo individualistico anglosassone, perchè è essa a fare da portatrice ed amplificatrice di questo fenomeno.

Mentre la tradizione dell’idealismo tedesco (nell’essenziale ereditata da Marx nella forma del superamento-conservazione, Aufhebung) permette di salvare l’autonomia specifica sia del Pubblico che del Privato, la tradizione dell’empirismo anglosassone fin dall’inizio è dominata da una tendenza di privatizzazione individualistica integrale del pubblico). L’origine sta forse in una particolare secolarizzazione del calvinismo, una forma di religione che tende a mettere in rapporto diretto e senza mediazioni l’individuo e la divinità, oltre a fare l’apologia dell’arricchimento privato come segnale della elezione divina. Ma già in Hobbes, che pure è completamente ateo e diffida degli estremisti religiosi puritani, è centrale la polemica contro l’antropologia filosofica di Aristotele. Rifiutando la teoria aristotelica per cui l’uomo è un animale politico, sociale e comunitario (politikòn zoon) si rifiuta soprattutto la conseguenza pratico-politica di questa teoria, per cui l’uomo è un animale comunitario capace di calcolo sociale per la divisione giusta ed armonica del potere e delle ricchezze (zoon logon echon). In Locke la proprietà privata è un diritto naturale derivato dal lavoro diretto del primo coltivatore, e non l’effetto di un processo storico di progressiva privatizzazione di una precedente comunitaria (si tratta della concezione che Marx chiamò poi “robinsonismo” riferendosi al personaggio di Robinson Crusoè). La stessa critica di Locke alla categoria metafisica di “sostanza”, lungi dall’essere una innocua operazione gnoseologica, è una metafora politica per la negazione di una sostanza comunitaria che “sta sotto” agli scambi privati fra individui. Ma il punto archimedico di questa privatizzazione filosofica della vita sociale sta in David Hume, e nel suo particolare modo di respingere il contratto sociale che nelle concezioni del tempo era considerato l’elemento che “istituiva” la società. Mentre Hegel (e poi Marx) respingeva la fondazione contrattualistica della convivenza umana perchè considerava il contratto una istituzione puramente privatistica, non adatta a fondare concettualmente la società umana (rifiutando così la concezione della società umana come rete contrattuale di individui privati originari e sottratti alla storicità ed alla socialità costituenti), Hume considera il

contratto sociale inutile, dal momento che la società si istituisce spontaneamente senza contratto sulla base delle attese di scambio reciproche fra venditore e compratore (e Smith, accetterà integralmente questa autofondazione dell’economia su se stessa, con inevitabile posteriore trasformazione del primato dell’economia in dittatura totalitaria della crematistica). Soltanto i manuali di storia della filosofia, capolavori di stupidità istituzionalizzata, possono sostenere che la critica di Hume alla categoria di causalità non nasconde nulla di “sociale”, ma è soltanto un geniale accorgimento gnoseologico. In questo modo, la privatizzazione della vita sociale era cosa fatta, con l’inevitabile primato del modello neoliberale di economia su tutti gli altri ambiti della vita sociale (l’azienda Italia, il giudizio dei mercati, eccetera).

E’ interessante che nell’ultima opera di Toni Negri, questo giocoliere che ricava il suo comunismo anarchico dallo stesso sviluppo della globalizzazione capitalistica, ci sia un’insistita polemica contro la dicotomia di Pubblico e di Privato, in nome di un fantomatico “comune” attinto direttamente da individui onnipotenti animati da una nicciana volontà di potenza intesa come autovalorizzazione energetica individuale. Ma si tratta solo di un sintomo secondario, nel mondo dissociato dei cosiddetti “intellettuali di sinistra”, della provvisoria vittoria del modello dell’empirismo anglosassone sul modello dell’idealismo tedesco. La storia delle idee ha infatti un andamento più ciclico che lineare, dipendendo strettamente non tanto da una logica conoscitiva e veritativa, che resta sempre e solo “ideale” (donde appunto l’idealismo), quanto da una più modesta sociologia degli intellet- tuali accademici, editoriali ed universitari. Oggi il padrone é a Washington, e nel giorno stesso in cui sto scrivendo queste righe (sabato 12 febbraio 2011) i giornali commentano la cacciata dei Mubarak, sostengono che non si tratta di una vittoria del popolo egiziano, pagata con un grande tributo di sangue, ma di una vittoria di Obama e del modello neoliberale dì gestione “democratica” del capitalismo. I rapporti di forza in cui viviamo ci costringono a sopportare impotenti questa dittatura della manipolazione, ma speriamo che si tratti soltanto di una congiuntura temporanea.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2317

giovedì 6 gennaio 2011

Comunismo, Comunità, Classe

 



di Maurizio Neri

«Ma non scoppiano forse tutte le sommosse, senza eccezione, nel disperato

isolamento dell’uomo dalla comunità (Gemeinwesen)?» Karl Marx, 1844

Riflessioni e proposte per promuovere il dibattito, per la costruzione del Movimento Anticapitalista.


Questo saggio vuole contribuire a delineare i tratti del pensiero del Comunismo Comunitario inserendosi nel discorso iniziato nelle pagine di Comunitarismo diversi anni fa in due diversi saggi sul comunitarismo.1

I due articoli in questione rappresentano una importante e lucida ricostruzione delle varie influenze del pensiero comunitarista italiano e riescono a cogliere come i termini «comunità» e «comunitarismo» siano stati utilizzati dalle più eterogenee forze politiche a dai più diversi Autori. Ritengo però che il volersi rifare ad analisi ed elaborazioni fatte da altri, o il voler ricondurre il proprio agire politico a quello di movimenti del passato, rappresentino entrambi un limite.

Segue:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=1280

domenica 17 ottobre 2010

Karl Marx, un contemporaneo
 
di Vladimiro Giacchè
 
 



Ironie della storia. Mentre in Germania viene festeggiato il 20° anniversario della fine della Repubblica Democratica Tedesca, si assiste ovunque a un grande risveglio di interesse nei confronti di quello che ne fu (inconsapevolmente) il filosofo ufficiale: Karl Marx. Soltanto in Italia da giugno ad oggi sono uscite due biografie: la traduzione del testo di Francis Wheen (Karl Marx. Una vita, Isbn edizioni, p. 400) e il volume di Nicolao Merker Karl Marx. Vita e opere (Laterza, pp. 261). Se il primo testo è avvincente, il secondo riesce a fare il miracolo: ossia a darci una panoramica completa della vita di Marx e delle linee di fondo del suo pensiero.
Merker inizia ricordando che “il pensiero di Marx sta nei suoi scritti”. Non si tratta di una banalità, ma di una doverosa cautela, visto l’uso a dir poco disinvolto che spesso si è fatto del pensiero di Marx. I testi di Marx vanno letti e collocati nel loro contesto storico. Ma non per farne altrettanti “classici” da tenere sullo scaffale, bensì per capire cosa ci possono dire sull’oggi. Questo utilizzo è possibile in quanto la struttura economica della società in cui viviamo è ancora quella descritta da Marx. Anzi, per certi aspetti il mondo attuale è più vicino ai testi marxiani di quanto lo fosse la realtà dei suoi tempi: basti pensare alla “globalizzazione”, ossia alla creazione di un mercato mondiale.
Merker nella sua ricostruzione del pensiero di Marx non ha timore di andare controcorrente. Come quando denuncia “l’infatuazione per i Grundrisse che alcuni decenni addietro regnò nella letteratura su Marx”, insistendo invece sulla centralità del Capitale (tanto del primo libro, pubblicato da Marx nel 1867, quanto dei manoscritti che dopo la sua morte Engels pubblicò come secondo e terzo libro del Capitale nel 1885 e nel 1894). E soprattutto quando afferma l’importanza della “teoria del valore e del plusvalore”, che a suo giudizio “spiega tanto la dinamica del particolare modo di produzione capitalistico quanto gli elementi generali di ogni sistema produttivo”. La forza-lavoro umana, osserva Merker, “fornisce sempre con il suo pluslavoro un valore economico maggiore di quanto essa costa”; è infatti l’unica merce che possiede la caratteristica di creare nuovo valore (cosa di cui non è capace neppure la macchina più sofisticata,
che se non viene messa in opera dal lavoro umano non soltanto non crea nuovo valore, ma perde anche quello che possedeva). La peculiarità del sistema capitalistico consiste nel fatto che “i risultati del pluslavoro - cioè il plusprodotto e il corrispettivo plusvalore – non sono proprietà del soggetto che lavora. Questo carattere del capitalismo non viene modificato dal numero dei ‘colletti bianchi’ che sostituiscono le ‘tute blu’. Conserva il connotato che la proprietà e gestione dei mezzi di produzione non è proprietà e gestione sociale”.
Proprio da questo Marx fa derivare le crisi: esse sono infatti – ci spiega Merker – “conseguenza dell’antitesi, nell’economia di mercato, tra la produzione moderna a carattere sociale e l’appropriazione privata del profitto”. In questo modo ci viene offerta una chiave di lettura anche della crisi odierna molto diversa da quelle correnti. “A un certo punto il mercato non assorbe più tutte le merci che vengono offerte. Mancano gli acquirenti perché il sistema è caduto in un circolo vizioso: non appena le merci invendute affollano i magazzini, il capitalista riduce la produzione chiudendo fabbriche e licenziando operai, sicché a causa del diminuito potere d’acquisto dei consumatori la montagna dei beni invenduti continua a crescere e la crisi si avvita su se stessa. Alla fine il sistema la risolve soltanto a costo di enormi distruzioni di mezzi di produzione e di prodotti. Fabbriche smantellate, lavoratori disoccupati, beni di consumo
al macero e una crescente concentrazione di capitali perché i capitalisti deboli, rovinati, escono dal mercato: sono questi i fenomeni che accompagnano le crisi periodiche”. Le crisi sorgono insomma, come ci ricorda lo stesso Marx, perché nel sistema capitalistico “l’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma …in base al profitto e al rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato”.
Secondo questo punto di vista, a differenza di quanto ci è stato ripetuto in questi anni, le crisi non rappresentano un incidente di percorso o una sciagurata eccezione all’interno di un sistema che per sua natura sarebbe in equilibrio, ma sono necessarie per correggere – attraverso la distruzione di forze produttive su larga scala – i profondi squilibri che inevitabilmente caratterizzano l’“anarchia della produzione”capitalistica.
Nelle ultime pagine del suo libro Merker si chiede quindi se quel “contrasto tra la produzione sociale-collettiva del plusvalore e l’utilizzazione privatistica di esso” sia ineliminabile nella società umana. E osserva che “quest’istanza teorico-pratica, certamente non scaduta, viene dal Marx del Capitale, e attende risposte che funzionino nella prassi socio-politica”.
La più grande sfida dei nostri tempi è precisamente questa.

su il Fatto Quotidiano del 15/10/2010

lunedì 11 ottobre 2010


IL COMUNISMO E LA QUESTIONE NAZIONALE




 

di Maurizio Neri

Queste riflessioni nascono dalla necessità di analizzare lo stato presente di cose e di fare qualche ipotesi e previsione sui possibili sviluppi del comunismo.

Dopo la caduta dell’Urss il capitalismo ha potuto fare quel balzo in avanti nell’estensione del suo modello di produzione e di conseguente ridispiegamento delle sue potenzialità di circolazione di capitali e merci che va sotto il nome di "globalizzazione".

La globalizzazione è divenuta in poco tempo la parola d’ordine assunta da ogni analista per descrivere un mondo nuovo, reticolare, intessuto ed innervato da rapporti economici che in una sorta di Tela di Penelope avvolgono il pianeta.

Esiste, però, a parere di chi scrive uno "sviluppo ineguale" del capitalismo globalizzatore che non ha la stessa composizione e natura, a seconda che si tratti dell’Occidente e dei paesi che hanno marciato alla sua stessa velocità nella strutturazione dei rapporti di produzione e le periferie dell’Impero che in molti casi sono ancora ferme ad un capitalismo di stampo ottocentesco basato su forme di produzione legate ad una manodopera ridotta in condizione di sfruttamento prossime allo schiavismo.

Quando parliamo della globalizzazione dovremmo fare attenzione a non confondere la situazione di chi ha e detiene il potere di mutare le forme di produzione (paesi ricchi)e di chi le subisce passivamente (paesi poveri) adattando le proprie risorse umane alle necessità produttive dei primi.

Partendo da questo assunto la conseguenza è che molti paesi hanno saltato il passaggio dal proto-capitalismo alla formazione di un tessuto economico che contempli una divisione in classi così come concepita da Marx nei paesi ad avanzato sviluppo industriale con una borghesia imprenditoriale ed una classe operaia in contrapposizione con la prima.

Tutto questo è assente nei paesi "periferici" dove al più si rinviene una borghesia "compradora" locale di natura oligarchica legata a centri di potere internazionali, ma che in termini di sviluppo dei rapporti di produzione è ancora arcaica , legata a fattori come il possesso di terra o a traffici spesso di natura illegale che le permettono di mantenere una posizione di comando "interna" tramite la corruzione.

Molti di questi paesi che negli anni sessanta e settanta avevano lottato per la loro indipendenza dai regimi coloniali che dall’Ottocento avevano stabilito un regime di dipendenza diretta con molti paesi europei, sono stati "riassorbiti" da un nuovo colonialismo soprattutto grazie alla sconfitta del campo socialista.

In Africa, in Asia ed anche in Sudamerica, dove la lotta dei movimenti di liberazione, di ispirazione comunista e socialista, è stata sconfitta dagli apparati militari nazionali legati a doppio filo con gli Usa, ovunque si è registrata o la caduta dei regimi che avevano preso il potere dopo la liberazione oppure ad un loro progressivo riallineamento alle direttive del nemico di ieri.

Per alcuni, penso al Vietnam, ma non è l’unico caso, si è trattato del classico "bere o affogare" poiché oggi l’essere esclusi dal consesso del commercio internazionale equivale ad una condanna a morte, come hanno dimostrato i drammatici casi di Cuba, Irak, Iran e tanti altri paesi, affamati da anni di embargo.

Le cause di questo fenomeno sono molteplici, non ultima la caduta dell’URSS e del Comecon che garantiva un interscambio, seppur minimo, tra i paesi socialisti, ma quel che colpisce oggi è che non esiste allo stato un "modello socio - economico" che un Paese possa oggi adottare in alternativa al capitalismo che possa avere la chance di durare più di un giorno.

Non esistendo più il paese di "riferimento", l’Unione Sovietica, oggi Russia, prossima ad entrare addirittura nella Nato, non esistendo una "sinistra" in Europa che sappia ancora declinare il socialismo come via alternativa al capitalismo, se non con istanze confuse e contraddittorie, allo stato l’opposizione all’imperialismo è interpretata su base nazionale, religiosa ed identitaria come rifiuto della dominazione altrui in casa propria.

Come si pongono i comunisti davanti a questi fenomeni nuovi, frutto anch’essi della esasperata dominazione non solo economica, ma culturale, militare ed antropologica che l’Occidente produce e sussume nel termine di "comunità internazionale"?

Oscillano paurosamente tra incomprensioni di fondo dettate dal mancato riconoscimento della "questione nazionale" come fattore di mobilitazione da indirizzare su posizioni comuniste per vecchie interpretazioni legate alla "demonizzazione" di tutto ciò che è la complessità dei fattori culturali, psicologici , religiosi, che compongono la questione nazionale, lette come meri artifizi sovrastrutturali che inficiano l’unita’ dei lavoratori su base universale.

Bisognerebbe, però, ricordare che ogni volta che negli anni sessanta e settanta i movimenti comunisti, socialisti ,anticoloniali ed antiimperialisti hanno vinto, da Cuba al Vietnam dall' Algeria al Congo lo hanno fatto perché hanno saputo interpretare alla luce del comunismo/socialismo le aspirazioni ed i caratteri costitutivi di un "determinato paese". Ciò non ha impedito, di certo, a Guevara che coniò il famoso "Patria o Muerte" di andare a combattere, da convinto internazionalista qual’era, in Africa per liberare quei popoli dalla schiavitù imposta da regimi fantoccio al soldo degli occidentali ed a molti movimenti di liberazione nazionale dell’epoca di lottare in stretta collaborazione internazionalista.

A scanso di equivoci la diatriba tra quelli che auspicano il "socialismo in un solo paese" o quelli che parlano di "rivoluzione globale" la trovo assai poco pertinente ed anche fuori tempo massimo, essendo legata da una fase storica ben determinata e circoscritta e sicuramente non attuale, ma se dovessi esprimere il mio parere sulla questione allora opterei per un’altra formulazione di prospettiva.

Se quanto da me esposto sinora ha una conseguenza questa non può che essere che nell’epoca della globalizzazione e probabilmente a causa di essa e degli effetti che essa comporta e determina, la questione della "identità" o questione "comunitaria "è diventata ineludibile per chiunque voglia fare politica sulla base di una futura opzione comunista senza scadere nell’"astrattismo".

Ciò vuol dire che il Comunismo, che rimane sempre la ricerca di una società nella quale non esista più lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dovrà, comunque, avere sviluppi diversi a seconda dei paesi nei quali otterrà il consenso. Sviluppi e cammini diversi, non esiti diversi, che si raccordino strettamente alla questione nazionale vista come elemento di crescita progressista della comunità dei lavoratori, individui liberati e solidali, ma non deracinès dal contesto identitario nel quale operano e svolgono il loro ruolo di classe. Diversi Socialismi in diversi paesi uniti da una solidarietà internazionalista che li faccia procedere uniti quando sarà il momento di affrontare la prevedibile reazione capitalista.

La ricchezza di espressioni che le diverse forme potranno apportare al Comunismo, tenendo ben saldo l’obiettivo finale ed irrinunciabile della liberazione dell’ Uomo da ogni forma di sfruttamento basata sul lavoro salariato, è essenziale per dare ossigeno all’ asfittica idea comunista, oggi in crisi e minoritaria in tutto il mondo.

Per questo motivo la partecipazione dei comunisti alle istanze di liberazione dei popoli , all’interno di un fronte vasto e articolato, anche eterogeneo ed a guida borghese, è essenziale in molti paesi "periferici", perché ogni passo in avanti nella liberazione di un popolo dalla catena imperiale è una chance in più per il Socialismo soprattutto se saprà interpretare al meglio la cultura e l’ identità peculiare della propria realtà alla luce dei suoi obiettivi di emancipazione. Basta accorgersene.

venerdì 1 ottobre 2010

Il clandestino, lo Stato e la violenza



di Stefano Moracchi

Dalla fine dell’ottocento ai giorni nostri abbiamo visto crescere una serie di Stati Nazionali. Guerre di liberazione hanno acceso la fantasia per il coraggio di popoli che fino a qualche tempo prima si riteneva impensabile potessero arrivare all’autodeterminazione. La guerra d’Algeria si caratterizzò per la forza e il coraggio del suo popolo. La Rivoluzione Cubana ha alimentato  un certo mito e una certa cultura per diverse generazioni. Perché, che cosa hanno di affascinante queste lotte?
A che cosa serve arrivare ad uno Stato Nazionale?
Cosa significa Nazione?
Perché si è disposti a sacrificare la propria vita per la Nazione?
Il nostro Risorgimento ha ancora un valore?
Tutte queste domande hanno diritto di esposizione e considerazioni ulteriori, perché da esse discendono tutta una serie di problematiche che oggi vengono racchiuse impropriamente con il termine globalizzazione.
La globalizzazione c’è sempre stata da quando l’uomo ha cominciato a navigare e ad esplorare nuove terre (anche ferocemente e con genocidi inauditi).
La politica dovrebbe dirigere l’economia e non, al contrario, l’economia che impone alla politica uomini, mezzi e strategie.
Quindi l’Unione Europea, da queste considerazioni, non poteva che essere una comunione di interesse fondata sulla moneta.
Se ci poniamo in questa ottica non è difficile comprendere la riduzione del concetto di cittadinanza a mero punteggio.
Il punteggio è entrato nella nostra vita da quando l’efficienza e l’efficientismo si sono basati sulla falsa prerogativa di valutare ciò che si poteva contare e pesare.
Cosa più della moneta e dell’interesse è soggetto a contabilizzazione?
Il punteggio è facile da acquisire se si è disposti a rinunciare a tutto ciò che di più caratteristico ha un individuo: la sua umanità, la sua dignità (lavoro, sicurezza, salute. Istruzione), la sua credenza, i suoi valori irrinunciabili.
Il punteggio è facile da acquisire nel momento in cui si accetta un ordine dato e stabilito.
Il punteggio è, altresì, facile da perdere se si rimane fedeli a se stessi.
Dall’etica del lavoro (che impose il modello della piena occupazione, per cui chi non era disposto sottostare all’interno delle fabbriche e ai ritmi di lavoro frenetici e alienanti, veniva confinato nei manicomi o nelle galere), si è passati all’estetica del consumo, dove la disoccupazione non è più un problema per lo Stato, ma solo per l’individuo. Nella società dei consumatori non ha importanza l’ordine dei valori, ma la capacità di spendere del soggetto, che è un essere privato nella doppia concezione ( privato dei valori che sorreggono l’identità e la persona) e privato in quanto soggetto atomizzato escluso dalla vita come cittadino portatore di prerogative politiche e sociali, e quindi, come puro soggetto passivo chiamato ad esercitare il solo diritto di voto.
In questo contesto l’escluso, il diverso è per comodità l’immigrato clandestino ma in verità vi rientrano tutti coloro solo che sfuggono alla logica dell’ordine costituito.
La sua clandestinità è pericolosa non in quanto soggetto delinquente, ma come soggetto non oggetto classificazione. Paradossalmente la sua condizione richiama quella del Pirata che spaventava, ma suscitava anche meraviglia e stupore, perché le sue gesta erano possibili solo a lui, in quanto viveva in una terra di nessuno dove non c’era giurisdizione.
Oggi il clandestino è un pericolo perchè sfugge alla statistica, e a tutte quelle scienze classificatorie che devono contemplare gli esseri umani sul principio del numero.
Analizziamo il sistema carcere dalle sue motivazioni. Il carcere è il bisogno della società di essere protetta dalle sue paure. Queste paure sono sia collettive che individuali. Le paure collettive hanno una dimensione emotiva, incostante, irrazionale, induttiva.
Quelle individuali sono propriamente sentimentali e patrimoniali: quelle sentimentali fanno leva appunto sul sentimento affettivo che riguarda la famiglia; quelle patrimoniali sono rivolte alla proprietà cioè ai beni materiali dell’individuo. Le paure collettive non sono la somma delle paure individuali anche se hanno più di qualche collegamento tra loro.
Le paure individuali hanno una loro razionalità fintanto che si basano su dati personali e concreti che vengono dall’esperienza. Divengono irrazionali quando passano o meglio sconfinano dall’esperienza al collettivo: questo passaggio non è spontaneo ma indotto.
Queste paure che ingenerano insicurezza hanno bisogno di giustificazioni. Il problema della giustificazione serve da normalizzatore, in quanto paure infondate, cioè senza un vero elemento conturbante, rientrerebbero nella patologia. La giustificazione va, quindi, ricercata. La collettività che non è un individuo ma una somma di individui, non la trova con la ragione ma con l’irrazionalità istintiva. L’istinto è un archetipo, una figura mitica. Dato che le paure sono paure inconsce, la collettività trova la sua giustificazione nel diverso, nell’altro da sé. Ora il diverso nell’antichità lo si poteva cercare nelle divinità, nella figura del maligno, cioè in una figura che non rientrava nell’uomo, e anche quando era un uomo, lo era solo in quanto posseduto. Nella società moderna la giustificazione della paura viene ricondotta al contratto sociale, cioè al contratto stipulato da tutti i cittadini per la comune convivenza. Chi rompe questo patto non fa parte della comunità umana e di conseguenza è disumano. Il disumano è la classica figura del mostro, del diverso, dell’altro. Lo Stato, con il suo apparato di guerra, controlla che il patto stipulato attraverso il contratto sociale venga rispettato.
La comunità non ha memoria del patto ma percepisce una continua insicurezza, una minaccia che gli viene continuamente sollecitata da coloro che sono preposti a tutela di quel patto. La collettività per sconfiggere la paura generata dal senso di insicurezza (indotto) chiede agli stessi che gli venga consegnato il presunto responsabile.
Si è così creato un circolo vizioso della repressione della violenza: l’ordinamento sociale è una condizione necessaria del contenimento della violenza: la violenza è una condizione necessaria del mantenimento dell’ordinamento sociale. D’altro canto già Hobbes, il padre del moderno Stato, ha teorizzato lo Stato come il detentore del monopolio della violenza. Lo Stato è un atto fondativo della violenza nelle sole sue mani. Come possiamo ben capire da un atto di violenza non può germogliare certo un fiore. Questa violenza viene velata, rimodellata, concettualizzata, introiettata, espressa, repressa, comunicata, stravolta, ridotta, amplificata, indotta, prodotta sistematicamente attraverso tutte le sovrastrutture di cui lo Stato si dota. Una struttura efficace a comunicare senso di paura e instabilità alla collettività è la comunicazione.
La comunicazione (una volta propaganda) è l’opposto della conoscenza. Fonda se stessa nell’opinione e non nella conoscenza. La comunicazione è anche volontariamente contraddittoria e questa è la sua forza. Valori che si contrappongono l’un l’altro, oppure stessi valori “vestiti” con abiti diversi: uno “amico”, l’altro “nemico”. La comunicazione è nemica del sapere anche perché corre veloce su questioni che hanno bisogno di riflessione e analisi e riflette a lungo su questioni futili che non necessitano di attenzione. In questo modo la collettività ingerisce continuamente insicurezza. Come singolo, l’individuo è ancora capace di razionalità, ma non riesce a concettualizzarla perché non ha la sua eticità, il suo nucleo fondante in un’idea di uomo-mondo, di comunità E’ chiuso nella sua solitudine individualistica in difesa della proprietà e della famiglia.
Sfocia in irrazionalità appena si percepisce massa collettiva, cioè un insieme collettivo di paure infondate, o meglio, fondate su una paura veicolata da coloro che sono a difesa del patto sociale fondato sul monopolio della violenza. Lo Stato moderno è uno Stato produttivo. Questa produzione non riguarda soltanto l’economia monetaria ma anche e soprattutto l’economia della violenza. Dobbiamo vedere questo intreccio tra violenza e stato come ad una complessità che ha trovato la sua unità nelle forme di guerra e formazioni politico-sociali. Noi troviamo la giustificazione del nesso tra guerra (violenza) e società nell’età contemporanea.
E’ stato, infatti, in questa fase che si è elaborata la dicotomia tra dentro e fuori, tra amici e nemici, tra vicino e lontano e si è costruito l’Edificio Sociale dell’esclusione. Come dicevo, il massimo pensatore dell’età del giusnaturalistica, Thomas Hobbes, fece derivare la sua concezione del contratto, che separava drasticamente e irrevocabilmente l’immagine interna e quella esterna dello stato, ovvero il regno della pace e quello della guerra. Nel suo sforzo di concettualizzare la necessità dello stato, Hobbes ricorre a un’astrazione, tra un originario ( e ipotetico) stato di natura (nel quale vigerebbero esclusivamente le leggi naturali) e un artificiale ed effettiva società civile.
Nel primo, verrebbe a determinarsi in sostanza una condizione di esistenza talmente insostenibile che si verificherebbe una condizione di “bellum omnium contra omnes” tale da convincere gli individui a dare vita alla seconda, cedendo una parte di quella specie di sovranità naturale che tutti avrebbero su tutto: il destinatario ne sarebbe il Leviatano, ovvero il sovrano (che può essere una persona sola, o più persone) costituito per così dire dall’insieme delle volontà individuali (la collettività ) garantendo a ciascuno, in cambio della cessione della sua inutile (o indesiderabile) libertà, la conservazione della pace.
Tanto salda e sicura sarà la condizione pacifica che si realizza così all’interno dei limiti della sovranità detenuta dal sovrano, quanto instabile e insicura si rivelerà, conseguentemente, la condizione di ciascun stato nei suoi rapporti con tutti gli altri, per il semplice fatto che quel contratto che ha potuto essere stipulato (seppur metaforicamente) tra gli individui (ormai divenuti cittadini) è oggettivamente improponibile se i soggetti sono gli stati i quali, se cedessero una parte della loro sovranità, cesserebbero addirittura di esistere. La chiave di volta dell’argomento è l’idea, quindi, di esclusione e di nemico-amico. Di conseguenza una volta tirata la linea di separazione, viene individuato chi sta fuori e chi sta dentro.
Irreparabilmente e senza possibilità di ritorno. Il nemico è tale a prescindere.
Lo stato moderno è uno stato di potenza che esercita tutta la sua violenza per le sue ragioni che sono “ragioni di stato”. Sappiamo benissimo che per ragioni di stato si può fare tutto perché tutto è lecito per lo stato, e non c’è un principio di legalità: in questa fase la legalità coincide con lo stato stesso che ne è il detentore. Machiavelli in questo campo ha fatto scuola.
Questa separazione tra dentro e fuori, vicino e lontano, buono e cattivo è l’essenza stessa della giustificazione dello stato, senza la quale non potrebbe esistere.
Allo stesso modo viene concepito l’Edificio Sociale, ovvero l’istituzione carceraria. La popolazione carceraria è nemica perché ha rotto il patto sociale, ha infranto le regole. Lo stato punisce la popolazione dell’Edificio Sociale con le stesse regole con cui lui stesso si è posto fuori dalla comunità del genere umano, stabilendo un confine tra chi è dentro e chi è fuori.
Una volta tracciato il confine tra il dentro e il fuori nello stato, si pone il problema del che fare tra coloro che nello stato così concepito non intendono sottostare. La prima cosa che lo stato applica è la sovranità. La sovranità dello stato moderno è un retaggio del passato. Con la nascita dello stato moderno la sovranità passa simbolicamente al popolo: dico simbolicamente perché tra il popolo e lo stato ci sono “distanze” insormontabili e tutto un apparato di èlites che formano la classe dirigente. E’ all’interno di questa classe che si svolgono le lotte per la detenzione del potere, ma è la stessa classe di èlites a formare per sé un potere.
Il potere nello stato moderno è formato dall’interazione tra i vari settori produttivi: economico, burocratico, politico, giornalistico, religioso, imprenditoriale. Al di sotto di questo apparato c’è il popolo dei consumatori (una volta dei produttori). Chi consuma è considerato per quanto consuma, di conseguenza chi non ha questa possibilità, è tagliato fuori dalla società dei consumi. E’ un invisibile e non ha nessuna possibilità di protezione e quindi soggetto ad essere schiacciato dal sistema. A questo proposito voglio citare un passo di Carlyle, nel suo saggio sul cartismo del 1837:
se i poveri vengono resi miseri, per forza di cose scompariranno in massa. E’ un segreto palese a tutti i cacciatori di topi: otturare le crepe di tutti i granai, affliggeteli con centinaia di miagolii, allarmi e scatti di trappole e i vostri “lavoratori a carico” scompariranno e lasceranno lo stabile. Un metodo ancor più rapido e forse anche più dolce, là dove fosse permesso sarebbe quello dell’arsenico.
Gertrude Himmelfarb, nella sua monumentale storia dell’idea di povertà, commenta così la proposta del famoso scrittore inglese:
in questo modo, i poveri e i derelitti potevano essere in effetti eliminati o quanto meno sottratti alla vista degli altri. Bastava trattarli, senza esitazione, come topi, considerandoli solo degli scocciatori di cui sbarazzarsi e da annientare.
Se queste considerazioni ci sembrano un retaggio del passato è solo perché è cambiato il linguaggio, in quanto considerato inopportuno. Il moderno linguaggio parla più pulito, più consono al nuovo corso di produzione e quindi si esprime con termini discinti quali: flessibilità, mobilità, riconversione, formazione, educazione, sostegno, reintegrazione per dire licenziamento, disoccupazione, emancipazione, segregazione e questo nel migliore dei casi e per i più fortunati.
Nell’altro caso, invece, abbiamo il buio assoluto, il mondo degli invisibili, di coloro dei senza identità, quelli di cui parlava il famoso scrittore Carlyle che avrebbe visto come soluzione radicale il problema povertà attraverso l’utilizzo dell’arsenico come si fa con i topi. Questa popolazione in una società dei consumi è una popolazione rifiutata.
Alla stessa stregua con cui una società che consuma produce rifiuti così anche produce una fetta di umanità rifiutata che vive come può ai margini e nei lembi delle periferie e si avvicina ai scarti dei ricchi e dei benestanti così come essi stessi sono scartati dal resto della popolazione.
L’idea di scarto, di rifiuto è così ricomparsa con tutta la sua forza e violenza, quella violenza dalla quale eravamo partiti per concettualizzare lo stato moderno.
L’Edificio Sociale sta sempre là in piedi minaccioso pronto ad accogliere chi sta fuori dalla concezione del patto originario e riportarlo dentro, inesorabilmente e fuori dalla vista del cittadino moderno inconsapevole strumento di un’atavica violenza progettata.