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mercoledì 4 gennaio 2012

Una recente moda filosofica: il nuovo realismo (new realism).



Note di interpretazione.

di Costanzo Preve



1. Ai primi di dicembre 2011, in contemporanea con il commissionamento della politica italiana da parte della giunta Monti (filosoficamente interpretabile come il passaggio dall'illusionismo idealistico di Berlusconi al realismo materialistico di Monti) si è tenuto a Torino un convegno di lancio pubblicitario di un nuovo brand filosofico, il nuovo realismo, definito direttamente in inglese new realism per piacere subito ai padroni imperiali americani, che oltre ad avere sport nazionali (baseball e football americano) hanno anche ovviamente una filosofia nazionale, la filosofia analitica. Il padrone di casa era Maurizio Ferraris, vecchio allievo di Vattimo che ovviamente ha ucciso il padre (come fanno regolarmente i filosofi, Giorello con Geymonat, Rovarotti con Paci, Vattimo ed Eco con Pareyson, eccetera). Presenti anche molti membri del jet-set colto italiano, dal bobbiano di regime Zagrebelski al moralista antiberlusconiano ed antiratzingeriano Flores d'Arcais fino al prezzemolo di incontri come questo, il pagliaccio Umberto Eco.


Non vado mai a fare lo spettatore passivo di questi riti accademici di intellettuali. Ma commentarle questo sì. E mi sembra anche giusto.






2. Una premessa. Nonostante la stima personale che nutro per la commentatrice torinese Franca d'Agostini (di cui si legga l'educata stroncatura del convegno in "Repubblica", 7/12/2011), non condivido la messa sullo stesso piano dei cosiddetti "continentali" e dei cosiddetti "analitici". Si tratta di una bestemmia preventiva e di uno in proiezione subalterna del peggior americanismo. I cosiddetti "continentali" sono la sola ed unica filosofia esistente al mondo, la philosophia perennis, che nasce con i greci, passa attraverso l'esperienza cristiana ed infine sfocia in giganti come Spinoza, Kant, Fichte, Hegel, e Marx. I cosiddetti "analitici" sono una curiosa ed irrilevante scuola britannica, esito dialettico dello scetticismo, dell'empirismo e dell'utilitarismo, che si caratterizza per trattare da "oggetti" sia i concetti astratti sia gli oggetti concreti, e che ha come logica immanente la delegittimazione radicale di qualunque universale normativo, in modo che di fatto l'unica universalità normativa rimasta possa essere il dominio totalitario dei mercati economici. Che questo sia già stato chiaro ai suoi fondatori, ad esempio il secondo Wittgenstein, non lo credo. Probabilmente Wittgenstein voleva esercitare una terapia antimetafisica del linguaggio, perché veniva dalla generazione sciagurata degli anni Venti che credeva in buona fede che la metafisica fosse stata responsabile indiretta dello scoppio della prima guerra mondiale. Ma l'inferno è lastricato di buone intenzioni.


Nessuno mi può chiedere di prendere sul serio la teoria della razza di Rosenberg oppure la teologia dei Testimoni di Geova. Il fatto che ci si chieda di prendere sul serio una pagliacciata coloniale come la filosofia analitica è considerato semplicemente più cool a causa dello snobismo degli intellettuali universitari.






3. Che cosa significa in filosofia "realismo"? Nel linguaggio quotidiano, unica bussola da cui partire (a cui non fermarsi, come ha magistralmente dimostrato Hegel, che lo chiamava "sapere immediato"), significa il riconoscimento dell'esistenza oggettiva di una realtà materiale esterna a noi. Gli psicologi cognitivisti sanno addirittura determinare i mesi in cui il bambino vi arriva. L'esistenza del mondo esterno non è un dato filosofico, ma una premessa evolutiva della sopravvivenza, da quando attraversiamo la strada per non farci arrotare a quando prendiamo atto di una difficoltà da affrontare.


Deve essere chiaro, quindi, che l'esistenza "reale" del mondo esterno non è mai, proprio mai, ma assolutamente mai, un problema filosofico. La filosofia inizia quando la totalità della realtà viene interrogata nel suo significato globale di Bene e di Male e di giusto ed ingiusto, non certo quando ci chiediamo se questa concreta tazzina di caffè esista realmente, e non sia solo uno schema interpretativo o costruttivo. Non fatevi ingannare dai pagliacci che mettono sullo stesso piano, chiamandolo magari pomposamente "ontologia", la totalità dell'essere sociale e la tazzina di caffè ed il telefonino.






4. Ho usato volutamente parole forti, perché non bisogna mai "stare al gioco" di chi ci prende in giro. Se un furbastro inscatola la sua "merda d'artista", e la quota sul mercato dell'arte, non bisogna iniziare dotte dissertazioni sul diritto dell'artista allo sperimentalismo o allo "straniamento del punto di vista del moralismo borghese bacchettone". Neppure per sogno. Bisogna immediatamente fargli fare le scale a calci nel sedere insieme con la sua merda d'artista inscatolata. Una società entra in "decadenza" quando diventa incapace, in preda a complessi di colpa, di effettuare una simile facile operazione.






5. Passiamo ora alle cose serie. L'esistenza degli oggetti esterni dati per presupposti (costruiti o meno kantianamente nello spazio e nel tempo come forme a priori della sensibilità) si chiama in filosofia "realismo gnoseologico". Ai greci antichi, a tutti i greci antichi, senza distinzione alcuna fra cosiddetti "idealisti" (Platone) e cosiddetti "materialisti" (Epicuro), questo problema era completamente estraneo, e non poteva neppure essere concettualizzato e verbalizzato. Tutti davano per scontata l'esistenza di oggetti esterni, sia i veritativi (Platone, Socrate), sia i convenzionalisti ed i relativisti (Protagora, Gorgia). La messa in dubbio dell'eventuale esistenza del mondo esterno comincia soltanto quando questo mondo esterno viene concettualmente unificato in modo, direbbe Marx, "sensibilmente sovrasensibile". E questa concettualizzazione unificata dell'essere astratto del mondo può avvenire soltanto in due modi, ed esclusivamente in due: Dio e la Storia. Entrambe le nozioni (teologia monoteistica e filosofia unificata del flusso storico) erano completamente e disperatamente estranee ai nostri padri greci. Il cosiddetto "realismo gnoseologico", infatti, comincia soltanto quando essi si congedano dalla scena europea, e per semplificare citerò soltanto due filosofi sintomatici: Tommaso d'Aquino e Lenin.


Il teologo domenicano Tommaso d'Aquino pratica il cosiddetto "realismo gnoseologico" perché presuppone l'esistenza esterna alla coscienza umana di una realtà suprema, il Dio della tradizione biblica. Dal momento che Dio, lo vogliamo o no, esiste fuori di noi, è chiaro che la vera conoscenza è in vario modo un riflesso, o un rispecchiamento, di oggetti in ultima istanza creati, o permessi, o concessi da Dio. Solo una presunzione luciferina (il cui primo esponente coerente è stato il tedesco Fichte) ci può far pensare che sia l'Uomo (maiuscolo, alla faccia degli anti-umanisti) a creare, non certo il Sole o la Luna, ma l'intero mondo storico e sociale che conosciamo.


Il militante comunista Lenin adotta la stessa teoria, il realismo gnoseologico. Si dirà che è strano, in quanto Lenin non solo era ateo, ma considerava attardati e superstiziosi cretini (in buona compagnia con Odiffredi, la Turchetto e la simpatica rivista l'Ateo, cui pure ho a suo tempo inviato un intervento, in seguito pubblicato) quelli che ci credevano. Ma una realtà esterna per Lenin c'era, ed erano le inesorabili leggi dialettiche della storia (si veda il modo bestiale e furioso con cui si relazionava con chi lo metteva in dubbio, cfr. Valentinov, I miei colloqui con Lenin, il Saggiatore).


Ricapitoliamo: in filosofia realismo gnoseologico non significa ammissione dell'esistenza esterna di oggetti o di processi, tipica del senso comune, ma significa rispecchiamento o riflesso di due datità a loro volta del tutto indimostrabili dal metodo scientifico moderno, cioè Dio e la Storia (intesa come processo storico unificato concettualmente e variamente direzionato).


Non si pensi di poter capire una cosa così semplice con il pagliaccio superpagato Umberto Eco, che ha recentemente definito il teologo bavarese Ratzinger inferiore filosoficamente ad uno studente di scuola media. Possibile che solo loro possano impunemente distribuire pagelle di imbecillità a platee di babbioni semicolti adoranti?






6. La strategia di rilancio del cosiddetto "new realism" è a tutti gli effetti una strategia pubblicitaria, che vede la sinergia di baroni universitari e di giornalisti di regime. Da un lato, una congrega di professori universitari, che lanciano il prodotto in convegni a New York, Torino e Bonn. Dall'altro, la cassa di risonanza di quotidiani come "Repubblica", organo dei semicolti italiani riciclati dal vecchio storicismo gramsciano al cosiddetto new realism attraverso la camera di decompressione provvisoria del cosiddetto pensiero debole, ermeneutico e nicciano.


Le cose sono forse più "complesse"? La complessità è una divinità universitaria cui prestare un culto conformistico. Ma neppure per sogno! I gruppi intellettuali accademici delle facoltà di filosofia sono più prevedibili degli spostamenti dei banchi di pesci, delle migrazioni degli uccelli e delle transumanze di bisonti. Certo, sono prevedibili se li si studia non come insieme aleatorio di singoli individui, ma come gruppo sociale unitario, il gruppo degli intellettuali, che a suo tempo Pierre Bourdieu definì un gruppo dominato della classe dominante. Un gruppo a guinzaglio lunghissimo, per dargli l'impressione della libertà, ma che alla fine deve cadere gravitazionalmente nello stesso posto.


Sono troppo settario? Sono troppo estremista? Sono troppo politicamente scorretto? Politicamente scorretto certamente sì, ma estremista e settario non credo. Passiamo ad alcuni esempi concreti.






7. Come disse don Abbondio a proposito dei bravi di don Rodrigo: "Le ho viste io quelle facce!". Ho avuto la fortuna di assistere in diretta ed in tempo reale, nel biennio 1977-78, al primo lancio pubblicitario di una scuola filosofica fatto con il metodo delle saponette e dei deodoranti per le ascelle, e cioè dei cosiddetti "nuovi filosofi francesi" (il cui esponente più noto, l'osceno BHL, si è distinto come consigliere di Sarkozy per l'aggressione alla Libia ed è tuttora editorialista del "Corriere della Sera", immagino superpagato). Ricordo quel biennio, perché segnò la fine del mio agitarmi senza scopo da militonto di "sinistra" ed il ritorno ad uno studio serio della filosofia, che avevo praticamente abbandonato per un decennio, travolto dal vergognoso ballo di San Vito sessantottino.


Il lancio pubblicitario dei "nuovi filosofi" segnò in effetti un'interessante sinergia fra il circo mediatico ed il mondo dei cosiddetti "intellettuali". Si trattò di una sorta di grande riciclaggio simbolico, di riconversione e di decompressione. In Italia un'intera generazione si era consegnata a vere e proprie "cupole criminali" (esemplare la cupola di Lotta continua di Sofri e Pietrostefani, mandanti dell'omicidio Calabresi), era entrata nel parossismo della illusione operaista ed aveva addirittura "flirtato" con la lotta armata, ed ora poteva sgonfiarsi e decomprimersi simbolicamente con la "scoperta" che tutto il comunismo con cui aveva rotto le scatole a genitori ed insegnanti non era altro che un'illusione criminale.


Devo ringraziare i "nuovi filosofi". Mi accorsi che si trattava di un riciclaggio generazionale particolarmente miserabile, e che è impossibile che una corrente filosofica seria possa accettare la via pubblicitaria alla "visibilità". Improvvisamente, il situazionismo di Debord e la dialettica negativa di Adorno, che avevo sempre costeggiato senza mai assimilarle, divennero improvvisamente chiare. Avevo permesso ai greci, a Hegel ed a Marx di dormire troppo a lungo. La ripugnanza verso la volgarità porta irresistibilmente a rivalorizzare le cose serie.


Grazie BHL!






8. Un discorso diverso deve essere fatto per il cosiddetto "pensiero debole" legato al nome di Gianni Vattimo. Mentre la nuova filosofia francese è stata soltanto un'operazione pubblicitaria di riciclaggio intellettuale di estremisti deficienti ricondotti all'ovile, con il pensiero debole siamo di fronte a qualcosa di diverso. Il cosiddetto "pensiero debole" si presenta come un'operazione di "indebolimento" non tanto della religione (da Vattimo furbescamente abbandonata dopo essere stato intronizzato all'accademia dal cattolico esistenzialista Pareyson, nemico in tutto di Abbagnano al di fuori del comune odio verso Hegel e la dialettica), quanto della filosofia storicista marxista della storia, cui il comunismo italiano aveva legato il suo profilo teorico (lo storicismo assoluto di tipo crociano, soltanto di "sinistra"). Si trattava di una forma di relativismo nichilistico "educato", che legittimava una liberalizzazione del costume sessuale svincolando questa liberalizzazione da una filosofia comunista della storia, cui gli imbecilli sessantottini l’avevano improvvidamente legata. Qui non esiste lo spazio, e neppure la necessità, di analizzare i due punti fondamentali di questo profilo filosofico, la lettura libertaria di sinistra di Nietzsche, già praticata da Bataille e soprattutto da Deleuze, e la lettura di Heidegger come annunciatore della "consumazione storica dell'Essere", lettura che non sta filologicamente né in cielo né in terra e che lo stesso Gadamer smentì apertamente (ma non c'era neppure bisogno della sua peraltro benvenuta auctoritas).


Tuttavia, l'importanza di Vattimo non sta affatto nella sua predicazione "debolista", quanto nel valore di posizione ideologica nella "congiuntura", che finì con l’incontrare il percorso autonomo di Massimo Cacciari. Se infatti dal "basso" il Pci era sempre di più un partito di cooperatori e di amministratori senza coscienza infelice hegelo-marxiana, dall'"alto" i suoi intellettuali "organici" furono indirettamente chiamati a smantellare la pappa storicistica pseudo-gramsciana ossessivamente fatta ingozzare ai militanti semicolti fra il 1968 ed il 1978.


Non so come Vattimo valuti soggettivamente il successo del suo stesso pensiero. Non gliel'ho mai chiesto, sebbene sia con lui in buoni rapporti, e valuti molto positivamente il suo atteggiamento verso la Palestina, Cuba ed il Venezuela. Può darsi che le interpreti come una giusta ricompensa ai suoi meriti soggettivi. Ma senza essere un "maestro del sospetto", in base all'analisi ideologica di matrice marxiana e dalla deduzione sociale delle categorie del pensiero, credo che il pensiero di Vattimo abbia incontrato una "finestra storica" congiunturale in cui la nausea verso lo storicismo beota era giunta a livelli di parossismo, e gli intellettuali volevano soltanto potersi sganciare dalle grandi narrazioni (Lyotard) e prendere il mondo così com'è (Sloterdijk). A un livello accademico di benpensanti privi di rimorsi "militanti" e di coscienza infelice di ex-estremisti pentiti bastavano Rawls, Habermas e Bobbio, tutti e tre felicemente schierati per il bombardamento etico-umanitario del 1999 su Belgrado.


Ma perché oggi pensiero debole ed il post-moderno sono in crisi? Ma è elementare, Watson!






9. A partire dalla svolta del 1989 il pensiero debole perde ogni funzione di mandato sociale verso la casta degli intellettuali, e può continuare ancora per un ventennio grazie alla terribile vischiosità inerziale delle corporazioni filosofiche universitarie, che riproducendosi per cooptazione possono durare un tempo molto maggiore di quanto spetterebbe al clima culturale che intendono promuovere e legittimare. Il pensiero debole era stato la versione italiana del più vasto fenomeno europeo del post-moderno filosofico, il cui motto era che non esisteva la realtà, ma soltanto la sua interpretazione. Questo rifletteva il desiderio del ceto intellettuale non solo di emanciparsi dal vecchio fardello dell'impegno sociale di legislatori in pectore (da Fichte a Sartre passando per Gramsci), ma anche di fondare il proprio arbitrio soggettivo assoluto su di una metafisica apertamente nichilistica. In Italia il pensiero debole sarebbe impensabile senza connetterlo con il desiderio degli intellettuali di emanciparsi dai due bestioni visti come ormai insopportabili, l'elefante-Chiesa cattolica ed il rinoceronte-Pci.


Oggi il postmoderno debole è presentato in modo manicomiale, come se costoro avessero voluto negare la realtà di oggetti esterni con un telefonino, una tazzina, un'esondazione di fiume, una cardiopatia, una crisi finanziaria, eccetera. Tipico del malcostume filosofico è presentare la tesi avversaria in modo manicomiale, in modo da poterla vincere con facilità. Naturalmente il pensiero debole post-moderno non intendeva affatto negare queste realtà concretamente effettuali. Intendeva negare la normatività di realtà "sensibilmente sovrasensibili" come Dio, la Storia ed il Capitalismo, ed intendeva negare Dio, la Storia ed il Capitalismo perché queste tre realtà sensibilmente sovrasensibili erano in qualche modo fondatrici e normative del mondo dell'esperienza.


A partire dal 1989 tutto cambia. Il comunismo storico novecentesco (nulla a che vedere con il comunismo utopico-scientifico di Marx, ove l'ossimoro è volontario) si suicida per la sinergia di una maestosa controrivoluzione sociale di massa dei nuovi ceti medi sovietici e cinesi, da un lato, e per la putrefazione antropologica degli apparati comunisti, dall'altro (si presti attenzione all'oscillare dell'ubriacone Eltsin ed al sorriso beota di Gorbaciov mentre pubblicizza le borse Vuitton e la pizza americana Hut). In quanto a Dio, è palese che i preti ormai vengono invocati solo come assistenti sociali per poveracci, drogati, criminali pentiti e come psicologi assistenziali per malati gravi. Dio resiste peraltro più della Storia per ragioni squisitamente filosofiche, in quanto la religione (lo aveva già capito bene Hegel, molto più di Feuerbach e di Marx) è un fenomeno di massa in cui gli uomini, guardando dentro se stessi, danno un senso alla loro vita (vallo a far capire agli atei positivisti!). In Italia Mani pulite, che fu sempre e solo un colpo di Stato giudiziario ed extraparlamentare, volto a distruggere quanto restava di uno Stato keynesiano (sia pure corrotto), iniziò nel 1992 un ciclo privatizzatore neoliberale destinato ad essere perfezionato nel 2011 dalla giunta Monti. Per non far capire quanto stava avvenendo si aprì uno spettacolo di pupi siciliani: il popolo viola, il popolo rosa, le donne in quanto donne, la casta dei mangioni, i diritti umani messi in pericolo da dittatori baffuti o barbuti, il Grande Puttaniere Berlusconi con i suoi due Ciambellani Bruno Vespa ed Emilio Fede, eccetera. Spettacolo riuscitissimo e performativo, se consideriamo la sua spettacolare riuscita popolare.






10. Ripetiamo ancora una volta il punto essenziale del problema. Non bisogna pensare in modo manicomiale che il pensiero debole post-moderno intendesse negare la realtà intesa come scatole, terremoti, cardiopatie, reumatismi, eccetera. Intendeva negare la normatività di realtà "sensibilmente sovrasensibili", sostanzialmente due, Dio e la Storia (intesa come filosofia deterministica e teleologica della storia). Anche il capitalismo venne di fatto derealizzato, in quanto anche le sue crisi persero ogni oggettività, diventando prodotto di errori (si pensi a come oggi la crisi economica in Italia venga ricondotta al malgoverno e all'ottimismo da piazzista del Grande Puttaniere).


La comunità filosofica universitaria, una delle più lente di riflessi e torbide dell'intera Via Lattea, si è finalmente resa conto che la fase di delegittimazione normativa delle due realtà sensibilmente sovrasensibili (ricordiamolo: Dio e la Storia) era ormai finita, e bisognava "tornare alla realtà". Già, ma quale realtà?






11. Il ritorno alla realtà propugnato dai new realists (l’inglese è d'obbligo, e non è solo una raffinatezza cosmopolitica, ma indica un volontario adeguamento servile) è il ritorno ad una realtà frammentata di oggetti del tutto disconnessi dal legame dialettico con una totalità espressiva. Del resto, questo era già chiaro ad Herbert Marcuse, nella sua critica alla filosofia analitica contenuta nel classico novecentesco L'Uomo ad una Dimensione. Purtroppo, anche per responsabilità soggettiva di Marcuse, questo classico fu letto all'interno dell'errore metafisico del pensiero di "sinistra", l'identità fra borghesia e capitalismo. In realtà, il pensiero borghese non era affatto ad una dimensione, in quanto è dialettico per sua propria essenza storica e sociale. Il capitalismo come meccanismo anonimo, impersonale e religioso, invece, non è effettivamente dialettico, ma si basa su di un pensiero della "differenza" che riflette la separazione ontologica fra oggetti e soprattutto fra differenziati e potenzialmente infiniti poteri d'acquisto di merci e di servizi. La lettura sessantottina del capolavoro di Marcuse, invece, la fraintese proprio nel suo nucleo comunicativo essenziale. Entrato in una fase post-borghese, ed appunto per questo ultra-capitalistica, la filosofia analitica rispecchiava questa frammentazione senza più ormai nessuna coscienza infelice di una totalità alienata da emancipare. Non a caso, nel lessico di questi nuovi realisti non trovano spazio i concetti di alienazione e di emancipazione, e qui appunto si può notare -se lo si vuole -la continuità con il pensiero debole e con il post-moderno.


Soggettivamente, questi sciagurati credono che il ritorno alla realtà sia il superamento del "populismo mediatico" di Berlusconi, identificato con un ventennio di sviamento culturale. Questa è proprio la fatua concezione del mondo di un Umberto Eco, cui giustamente costoro hanno riservato un posto da guru e padre nobile.






12. Ci si può legittimamente chiedere se questa operazione mediatico-pubblicitaria riuscirà a "mordere" sulla realtà concreta, la realtà cui pure costoro si appellano. Mi sembra evidente che il loro sia un fuoco di sbarramento preventivo contro un possibile ritorno del pensiero dialettico, che deve essere esorcizzato ad ogni costo.


La totalità capitalistica appare oggi fuori controllo, e soltanto un cosciente ritorno alla dialettica potrebbe interpretarla e cambiarla, secondo la formulazione delle marxiane Tesi su Feuerbach. Il pensiero dialettico è il pensiero che trova il suo coronamento in Fichte, Hegel e Marx, ed ha come presupposti Vico e Spinoza, e come continuatori Adorno, Marcuse, Bloch e soprattutto Lukàcs.


In questa fase speculativa del capitalismo assoluto (assoluto in quanto absolutus, sciolto da precedenti legami borghesi e proletari) abbiamo bisogno di un sapere assoluto nel senso di Hegel. Tuttavia, per evitare pittoreschi equivoci, diamo la parola a Remo Bodei, indiscusso conoscitore della dialettica hegeliana: "Si pensa che il sapere assoluto per Hegel sia qualcosa di manicomiale, come se sostenesse che con la sua filosofia si sa tutto. Ma le cose non stanno così: absolutus vuol dire sciolto da ogni legame, e cioè da ogni condizionamento del passato". Non si poteva dire meglio. Ma oggi sapere assoluto è il sapere filosofico sciolto da ogni legame con la pretesa del presente capitalistico di essere la fine della storia. Questo è oggi il "sapere assoluto" di cui abbiamo bisogno.


Nella sua fase astratta, il capitalismo si è costituito unificando teoricamente il mondo, lo spazio (materia), il tempo (progresso), il lavoro (valore), la società economica, la morale dell'individuo (robinsonismo). Nella sua posteriore fase dialettica, la filosofia ha dato spazio all'elaborazione della polarità tra borghesia e proletariato. In questa terza fase speculativa, in cui il capitalismo si contempla allo specchio (speculum) come insieme oggettuale di merci pure, abbiamo bisogno di ridialettizzare appunto lo speculativo.


La ridialettizzazione dello speculativo non avverrà facilmente. La corporazione dei filosofi universitari con accesso mediatico filtrato, gruppo dominato della classe dominante, vi si opporrà certamente. I new realists sono fra costoro. Certo, occuperanno il davanti della scena, ma sono sicuro che non avranno campo libero.

domenica 20 novembre 2011

BERLUSCONEIDE 

Considerazioni storiche e politiche dopo la caduta di Berlusconi.





di Costanzo Preve



1. Una premessa. Scrivo queste considerazioni su esplicito invito di amici, francesi e greci, interessati ad avere una mia analisi strutturale, e non solo pettegola o episodica, sulla caduta di Berlusconi. Caduta certo non ancora formalizzata, ma io credo irreversibile. Ed irreversibile non certamente perchè causata da tre fattori a mio avviso poco rilevanti (ceto po­litico professionale ex-comunista ed ex-cattolico democristiano, circo mediatico asservito alle strategie oligarchiche del grande capitalismo finanziario g1obalizzato, magistratura politicizzata anti-berlusconiana). Poco rilevanti sono stati anche gli scandali, le prostitute, i sorrisini di Merkel e Sarkozy, e tutto il ciarpame sollevato da quell’autentico scandalo culturale e giornalistico chiamato “La Repubblica”, incrocio fra la componente borghese laica ex-azionista e la componente “picista”, che con tutta la mia buona volontà non intendo connotare con il glorioso anche se discusso nome di “comunista”.


Partirò quindi da un fattore tutto sommato secondario come il berlusconismo, ma arriverò presto al vero ed unico problema storico che ci sta dietro, l'adeguamento e poi la sparizione del modello europeo di capitalismo verso un unico modello anglosassone di capitalismo totale. Prego il lettore di prestare attenzione a questa tesi finale, perche tutto quanto c‘è prima è solo gli “antipasti”, le “tapas” per dirla in spagnolo.






2. Il giorno 5 novembre 2011 il Canale La Sette ha trasmesso in prima sera­ta, modificando la programmazione prevista, un film su Berlusconi intitola­to BERLUSCONI FOR EVER. Si tratta di una sintesi del come per circa vent'anni l’intera classe dirigente italiana ed i suoi intellettuali, dall’italianista Asor Rosa al comico Benigni hanno visto Berlusconi. Ecco perchè conviene partire da lì. In sintesi, evidenzierei quattro temi in ordine di importanza:


(1) Berlusconi appare come un megalomane in preda ad un compulsivo deli­rio di onnipotenza patologica, una sorta di piazzista e di venditore di tappeti levantino autoreferenziale, che crede che la propria “verità” sia anche l’unica verità. Il riferimento è al vecchio giornalista vate della borghesia italiana, Indro Montanelli, esempio di passaggio e di “riciclaggio” in tempo reale dal fascismo al regime dopo il 1945. Non a caso il suo successore, il sionista fanatico Travaglio, è diventato per un ventennio l'idolo della sinistra anti-berlusconiana.


(2) Berlusconi appare come il portatore dei difetti atavici degli italia­ni, primo dei quali sarebbe la sostituzione della furbizia all’intelligenza. Il suo “successo” (qui si ripete l’interpretazione di Piero Gobetti sulle ragioni del successo di Mussolini) appare dovuto proprio al fatto che ha incarnato la parte peggiore della tradizione antropologico-sociale italiana.


(3) Viene continuamente suggerito un fatto non provato, ma dato assolutamente per scontato dall'italiano medio di “sinistra”, il fatto che Berlusco­ni abbia fondato il suo impero economico, prima da costruttore e poi da magnate dei media, riciclando alla grande denaro di provenienza mafiosa. Ma il piazzista è ora diventato inaffidabile. Il piazzista non può per venti anni dare “bidoni”.


(4) Berlusconi appare portatore della vecchia ipocrisia cattolica italia­na. Da lato puttaniere impenitente, adultero manifesto, laido organizza­tore di festini con adolescenti ambiziose, e dall'altro cattolico fervente che faceva la comunione tutte le domeniche.


Potremo continuare ma è chiaro che un simile personaggio da commedia dell'arte è troppo ghiotto per non attirare l'attenzione di quella che è stata battezzata “opinione pubblica”, la cui completa sparizione era stata peraltro diagnosticata da Habermas quando era ancora sotto il controllo di Adorno. Tutto questo, ovviamente, è vero, non mi sogno assolutamente di negarlo. Ritengo però che sia solo la superficie, e si è detto che la “scienza” sarebbe inutile se la superficie e la profondità coincidessero. E allora indaghiamo prima la superficie e poi la profondità.


3. Partiamo prima dall’ideologia anti-berlusconiana, durata parossisticamente in Italia quasi un ventennio. Si tratta, per usare un termine del filo­sofo-economista althusseriano francese Charles Bettelheim, di una vera e propria “formazione ideologica”. Essa è a mio avviso il prodotto della fu­sione di due elementi distinti ma intercorressi:


(1) L’origine risale ai primi anni Venti, e fu proposta per la prima volta dal saggista torinese Piero Gobetti. Il popolo italiano soffrirebbe di una grave carenza morale complessiva, dovuta in primo luogo alla mancata riforma protestante (non importa se luterana o calvinista, ma meglio cal­vinista in quanto individualistica, borghese-capitalistica e soprattutto inglese ed anglofila), ed in secondo luogo al carattere ristretto ed elitario del risorgimento (il “risorgimento senza eroi”). II secondo punto a mio avviso è inesatto, e rimando ad un recente ottimo testo pubblicato in 1ingua francese (cfr. Yves Branca , Le risorgimento au coeur de l’Euro­pe), che corregge in buona parte questa visione unilaterale.


L’idea degli italiani come popolo delle scimmie e del risorgimento senza eroi ha nutrito, in particolare dopo il 1945, 1’ala “azionista” della cultura borghese italiana, ansiosa di “scaricare” il fascismo sui difetti atavici degli italiani, per poter così far dimenticare le dirette responsabilità del grande capitale italiano, che abbandonò il fascismo soltanto nell'an­no della sua sconfitta evidente (l943). Si trattava di una ala anglofila, empirista in filosofia e quindi nemica soprattutto dell’idealismo e dunque di Hegel.Questa posizione, assolutamente minoritaria nel popolo ita­liano, era però assolutamente maggioritaria nel mondo degli intellettuali. Ed a proposito degli intellettuali, categoria con la quale chi scrive non vuole avere assolutamente niente a che fare, ricordo la posizione anticipatrice espressa più di un secolo fa da Georges Sorel, che a mio avviso Bourdieu ha saputo sistematizzare bene, quando definisce gli intel­lettuali come gruppo sociale (e non come insieme eterogeneo di individua­lità diverse), come una sezione dominala della classe dominante. Lo ripeto per chi se lo fosse lasciato scappare: una sezione dominata della classe dominante, non certo i “portatori” della visione del mondo dei do­minati.


(2) La seconda componente risulta geneticamente dalla riconversione ideolo­gica del picismo italiano, che mi rifiuto di chiamare “comunismo” per le ragioni esposte in precedenza. Questo enorme rinoceronte sociologico ed antropologico aveva già gestito fra il 1956 ed il 1962 il passaggio dal modello sovietico alla cosiddetta “via italiana al socialismo”, che copriva una integrazione strutturale nei meccanismi riproduttivi del sistema ca­pitalistico italiano, e poi dal l976 al 1982, dopo la presa in giro mediatica del cosiddetto “eurocomunismo”, il passaggio dal partito della critica al capitalismo al partito degli “onesti”, contrappasso ovviamente ai “disonesti” (prima il socialista Bettino Craxi e poi ovviamente Berlusconi, in quanto suo presunto erede). Dopo il triennio 1989-1991 il bestione so­ciologico ed antropologico dovette riconvertirsi alle nuove condizioni storiche aperte dalla dissoluzione del comunismo storico novecentesco (19I7-1991) il solo ed unico comunismo “pratico” mai esistito, essendo restati tutti gli altri mere petizioni morali alternative oppure gruppi di testimonianza settaria, sia pure pieni di “buone intenzioni”. Si tratta di un'azienda che produce scarpe e che dopo un'alluvione è obbligata, per non uscire dal mercato, a produrre pinne e stivali di gomma per alluvio­nati.


Il riciclaggio di questi cialtroni fu fatto talmente bene che essi riusci­rono a portarsi dietro gran parte della loro precedente clientela fideliz­zata identitaria, nella forma del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD. In proposito, l’antiberlusconismo fu provvidenziale perché permise una rapida e performativa sostituzione alla identità precedente. Il serpentone meta­morfico fu sempre in primo piano per appoggiare attivamente tutte le strategie di guerra USA-NATO, dal Kosovo nel l999 (D'Alema) alla Libia 2011 (Napolitano).


L'unione di questi due elementi fecero sì che l’antiberlusconismo fosse veramente provvidenziale.






4. Non vorrei che sorgessero spiacevoli equivoci. Io considero Berlusco­ni, come figura umana, culturale, storica e politica un ripugnante cialtrone, ed in questo non mi distinguo affatto (purtroppo) dall'anti-berlusconiano medio. Ma insisto sul fatto che rifiuto la koinè pittoresca ed estetica del riciclaggio delle classi dominanti italiane, per cui Berlusconi, lungi dall’esserne stato il rappresentante, è stato piuttosto un “incidente di percorso”. Un incidente di percorso? Certamente. Vediamo come.






5. Per usare un lessico militare, Berlusconi fu un “incidente di percorso”, o più esattamente un “danno collaterale” di Mani Pulite, che fu nella sua fun­zione storico-politica oggettiva (e non nella sua rappresentazione ideolo­gica, che fu il teatrino della vittoria degli onesti sul cinghialone, porcone, corrottone Craxi, che la marmaglia plebea fanatizzata avrebbe voluto uc­cidere ed appendere per i piedi, come Mussolini) un colpo di stato giudiziario extra-parlamentare, il cui scopo fu quello di sostituire un modello di stato neo-liberale privatizzato al precedente modello di stato, certamente corrotto, ma anche e soprattutto assistenziale-keynesiano. In onesta sede è del tutto irrilevante se gli agenti storici che propiziarono questo passaggio ne fossero pienamente consapevoli, o pensassero di agire spinti dalla morale kantiana e dal “senso dello stato”. Ciò che conta furono i risultati politici “oggettivi”.


E' del tutto chiaro che la decapitazione dell'intera classe politica di provenienza DC, PSI, PSDI, PRI, PLI non eliminava anche automaticamente il loro bacino elettorale, che restava praticamente intatto, e che non intendeva


accettare la facile presa del governo da parte del PCI riciclato. Ci voleva però qualcuno che avesse la forza economica e l'iniziativa politica per impedire tutto questo, e fu appunto Berlusconi, indipendentemente dalle sue caratteristiche antropologiche o dalla probabile origine mafiosa del suo denaro.


Questa è la genesi del fenomeno Berlusconi. Naturalmente la cultura detta di “sinistra” non poteva accettare questa semplice realtà,ed è allora chia­ro che dovesse attivare il teatrino dei vizi atavici degli italiani, popolo delle scimmie manipolato dalla televisione del Grande Corruttore e della sua corte di puttane, attricette, intellettuali falliti oppure con il “dente avvelenato” verso il PCI (pensiamo al notevole filosofo ex-marxista Lucio Colletti).


Si apriva così il teatrino identitario del Partito B e del Partito Anti-B, che hanno soffocato per un ventennio il nostro povero paese pri­vato di sovranità politica e geopolitica.


Ma ora cominciano, caro lettore, le analisi serie, cui ti chiedo di presta­re un'attenzione particolare.


6. Non dimentichiamoci dunque del punto da cui siamo partiti: Berlusconi ha dovuto andarsene, chiudendo un intero ciclo politico che essendo stato ventennale è anche stato un ciclo storico, non certo perchè cacciato dal buon gusto snobistico degli intellettuali alla Eco-Baricco, dal popolo urlante identitario PD, da Bersani e dai cooperatori emiliani, dai giornali­sti di “Repubblica” e dalle loro “dieci domande”, dai magistrati milanesi, dal­le puttanelle ricattatrici di Ancore, dai suoi vizi di vecchio satiro solo nella vecchiaia incombente, eccetera; Berlusconi è stato cacciato dalla grande finanzia internazionale, e da nient'altro, perchè non ha saputo, potuto o voluto sincronizzare l'intera Italia (anzi, 1’azienda-Italia) al ritmo della nuova forma egemonica del capitalismo imperialistico neoliberale e globalizzato. Non facciamoci scappare questa dato storico, che implica un radicale riorientamento gestaltico rispetto alle fole ed alle panzane con cui ci ha rintronato per un ventennio il coro politico, mediatico ed intellettuale, prevalentemente di “sinistra”, ma non solo. Cerchiamo allora di arrivare a questo riorientamento gestaltico mediante alcuni passaggi, non troppo nume­rosi per non confondere le menti intorpidite dallo spettacolo di manipola­zione dell'ultimo ventennio. Ecco i passeggi principali: (l) La fine del comunismo storico novecentesco veramente esistito (19I7-1991), che non aveva assolutamente nulla a che fare con le ipotesi filosofiche e scientifiche ottocentesche di Marx e con l’originario progetto nove­centesco di Lenin, è stata una catastrofe storica e geopolitica terribile, incondizionatamente negativa, una vera tragedia, accolta con gridolini di entusiasmo dalla emulsione culturale più stupida dell'intera galassia, la cosiddetta “sinistra”. Questa fine ha propiziato, anche se non direttamente causato (1e cause profonde erano già interne alla dinamica illimitata di riproduzione nel modo di produzione capitalistico) il successo evolutivo darwiniano del modello anglosassone-americano di capitalismo sul precedente modello europeo. (2) Fino a qualche tempo fa si poteva dire grosso modo che c'erano tre di­versi tipi di capitalismo; il capitalismo anglosassone americano, interamen­te privatizzato; il capitalismo europeo, frutto di un compromesso detto a volte impropriamente keynesiano-fordista , che veniva sia dall'alto (Bismarck, De Gaulle, eccetera), sia dal basso (laburismo, sindacalismo, movimento operaio organizzato); il capitalismo cinese, derivato da una storia particolare, che potremmo riassumere in due punti, eredità del modo di produzione asiatica (e quindi non occidentale, prima schiavistico antico e poi feudale-signorile) e di una accumulazione primitiva collettiva del capitale di tipo maoista, con precedenti nella storia cinese (Wang Mang, rivolte contadine, riformismo Ming, Taiping, eccetera). (3) Stiamo assistendo all'intera assimilazione del modello europeo, e cioè alla sua fine, nell'unico modello anglosassone-USA, frutto di un tradi­mento storico delle classi dirigenti europee, americanizzate linguisticamente e culturalmente. Questo non avviene attraverso la vecchia ed obsoleta dicotomia Destra/ S inistra, difesa per interesse dal ceto politico pro­fessionale e per stupidità dal ceto intellettuale identitario e tifoso, ma attraverso la vittoria del partito degli economisti (PE) sul partito del po­litici (PP). (4) Di conseguenza, e per finire, Berlusconi non ha potuto, saputo e voluto effettuare questo passaggio, nonostante la sua natura di pescecane capita­lista liberale lo spingesse soggettivamente a propiziarla, per il sempli­ce fatto che era pur sempre legittimato elettoralmente ed una legittima­zione elettorale non può consentirlo, per il fatto che i tacchini non pos­sono votare il loro assenso al cenone di Natale, che prevede la loro messa in pentola. Il CHE FARE? -e ci arriverò brevemente alla fine- non può quindi essere pen­sato nelle forme della vecchia dicotomia Destra/ Sinistra, sempre più protesi manipolatoria di adattamento di masse atomizzate e babbionizzate dal circo politico, dal circo mediatico e dal circo intellettuale tradizionale. Vediamo le cose con ordine.






7. La prima operazione teorica da fare è un riorientamento gestaltico globa­le rispetto al bilancio storico-politico del socialismo reale, che preferisco chiamare “comunismo storico novecentesco” (CSN), per distinguerlo dal comuni­smo utopico-scientifico (l’ossimoro è intenzionale) di Marx, assolutamente inapplicabile perchè basato su previsioni storiche inevitabilmente non cor­rette (in sintesi: incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive; capacità rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria; entrambe le ipotesi totalmente falsificate dalla storia rea­le).


La “sinistra”, questa emulsione culturale intellettuale confusionaria, che Georges Sorel fu il primo a diagnosticare precocemente, ha in proposito sviluppato per quasi un secolo il teatrino della contrapposizione: in URSS c’è il socialismo oppure in URSS non c'è il socialismo? Risparmio al letto­re tutti gli argomenti pro e contro (staliniani, trotzkisti, neolinerali, bordighisti, eccetera), che richiederebbero mille pagine per la loro sempli­ce elencazione, e di cui sono uno specialista. Ma il problema URSS (e paesi fantoccio divorati alla fine della seconda guerra mondiale) è molto più semplice, perchè è storico e geopolitico, e lo formulerò sommariamente così: indipendentemente dal suo essere un esperimento artificiale di eguagliamento sociale livellatore sotto cupola geodesica protetta (protetta da un indispensabile dispotismo partitico operaio, in quanto senza coercizione dispotica la classe operaia e proletaria non potrebbe neppure gestire una bocciofila, altrochè una “transizione al comunismo”!), i1 sistema so­cialista degli stati “comunisti” (l’unico comunismo storicamente esistito, non certo le elucubrazioni snobistiche del salotti romani o l'agitarsi scomposto degli operai fondisti con i loro fischietti ed i loro tamburi) ha influenzato direttamente la storia del capitalismo, limitandone in parte (in greco antico si dice katechon) la sua tendenza illimitata ad assumere una forma pura, che nella mia personale periodizzazione filosofica del capitalismo definisco “speculativa”, con una terminologia tratta liberamente dalla Scienza della Logica di Hegel. Dunque, indipendentemente dal suo dispotismo e dal carattere miserabile del suo personale politico (i comunisti nichilisti, opportunisti, autofagi e straccioni) viva viva viva il comunismo storico novecentesco e tragedia im­mane il fatto che non si sia voluto, saputo o potuto riformare “in corso d’opera”, come avevano auspicato i più grandi intellettuali marxisti indipendenti del Novecento (Lukàcs, Gramsci, Bloch, eccetera, alla cui scuola mi sono formato, mentre ho sempre avuto ripugnanza ed estraneità per il circo intellettuale snobistico italiano detto di “sinistra”). Dunque TRAGEDIA, TRAGEDIA, TRAGEDIA.






8. Il capitalismo già ai tempi Reagan-Thatcher stava cambiando forma, e quindi prima della caduta catastrofica del baraccone socialista. Le ra­gioni del mutamento erano interne alla dinamica del modo di produzione, ed erano dettate dalla cosiddetta globalizzazione e dalla privatizzazione di tutto ciò che era privatizzabile. Sono gli animal spirits di cui hanno parlato gli economisti inglesi, e che Hegel in altro contesto definì “il regno animale dello spirito”, la definizione più geniale di capitalismo che abbia mai letto in vita mia.


Il teatro storico degli ultimi venti anni è quindi stato nell’essenziale quello di un assalto del modello americano di capitalismo contro il modello europeo, che non avrebbe avuto tanto successo senza il mantenimento dell'occupazione militare USA sull'Europa, iniziata nel l943-1945 e mai terminata, neppure dopo il 1991, anzi ampliata e rafforzata. Non c’è democrazia ad Atene con guarnigione spartana sull’Acropoli. Non ci può essere democrazia in Europa con basi militari atomiche USA in Europa. Si tratta di una semplice verità lapalissiana, che la “sinistra” ha contribuito ad occultare, con la retorica strumentale sulla Costituzione, con il proseguimento maniacale dell'antifascismo in completa, palese e totale assenza di fascismo, con l'agitare scomposto del termine “democrazia” in presenza di irrilevanti parate sindacali, femministe, ecologiste, pacifiste, ed in Ita1ia ossessivamente anti-berlusconiane. A proposito della Cina, sono un incondizionato sostenitore della sua forza geopolitica e militare, ma non mi raccontino (Losurdo, Diliberto, Sidoli, KKE greco, eccetera), che si tratta di “socialismo”, sia pure di mercato, ecce­tera. Considero la Cina completamente capitalistica, in quanto considero storicamente fallito ed esaurito l'intero modello del comunismo storico novecentesco (salvo invece il “comunismo” -sia ben chiaro- come filosofia della storia e come tendenza metastorica dell'umanità, ed in questo senso sono sempre più che mai “comunista”). Si tratta però di un capitalismo sorto da una combinazione originale del modo di produzione asiatico, caratterizzato da una forte e benefica dominanza del potere politico sull’economia, e di una esperimento egualitario estremistico maoista, sia pure fallito. Spero che l'apparato confuciano denominato partito comunista cinese continui ad iso­lare e neutralizzare, se possibile con mezzi civili ed umanistici, gli orrendi intellettuali filo-occidentali e le tendenze americanizzanti. Se queste ul­time si affermassero, magari sotto lo scudo dei diritti “umani” (la forma rovesciata della disumanità contemporanea), allora ci sarebbe uno ed un solo orribile modello di capitalismo. Sarebbe questa la vera globalizzazione politica, che per il momento non c’è ancora, al di là dei voleri della strega Clinton (ricordo il suo WOW (uau) televisivo oscenamente ostentato alla notizia del linciaggio di Gheddafi).


9. E quindi Berlusconi non ha potuto, saputo o voluto (a mio avviso lo avrebbe voluto, ma non ha potuto per il fatto che doveva pur sempre essere eletto, ed il popolo, al di là delle sue irrilevanti e confuse opinioni politiche, non può votare per la propria macelleria sociale) effettuare questa america­nizzazione. Essa presuppone il commissariamento integrale da parte non di una parte politica (destra contro sinistra o sinistra contro destra), ma di un partito degli economisti (Papadimos in Grecia, Monti in Italia, ma so­no tutti uguali -inglese perfetto e monoteismo del mercato) contro il partito dei politici.


Se utilizzassi la dicotomia Destra/ Sinistra (ma me ne guardo bene!) direi che il partito degli economisti è un partito di estrema destra, che si posiziona alla destra di Forza Nuova e di Attila, re degli Unni. Ma i mutamenti semantici propiziati dal ceto intellettuale dell’ultimo ventennio (ah, ombra di Sorel, dove sei?) ha associato la sinistra soltanto alle gesticolazioni irrilevanti della FIOM, alla retorica di Vendola, ai matri­moni gay, alla insistita polemica laico-radicale contro la chiesa cattolica e Ratzinger, alle sfilate femministe (ah, le donne, le donne!), al belare ostensivo pacifista (pacee, pacee, diritti umanii, diritti umanii, abbasso i dittatori, processate Gheddafi, Milosevic, Saddam Hussein, tutti meno la Clinton ed Obama, eccetera).


10. Che fare? Non lo so. Non sono mica Lenin! In prima approssimazione, ed in via preliminare, che cosa non fare:


(1) Smettere di fare partitini comunisti (Diliberto, Ferrero), attaccati alle mutande di Vendola e Bersani pur di poter rientrare in Parlamento, oppure di fare partitini a base settaria che ripropongono programmi sumeri, egizi ed assiro-babilonesi (Ferrando).


(2) Andare oltre la dicotomia obsoleta Destra/ Sinistra. Questo capitali­smo distrugge i popoli e le comunità, non solo le classi svantaggiate (anche se ovviamente anche queste). Ritrovare il linguaggio adatto per salvare i popoli e le comunità è impossibile sulla base della divisione settaria del popolo in popolo in destra e popolo di sinistra. Questa divisione c'è storicamente stata, e non mi sogno affatto di negarlo. Ma oggi è obsoleta, e viene reintrodotta dall'alto per via manipolatoria, utilizzando strati identitari sedimentati in basso nell'ultimo secolo. (3) Uscire da questa Europa. Se ci fossero possibilità reali di riformare l’Europa dall'interno in corso d'opera, non direi questo, ma mi unirei alla stragrande maggioranza dei “sinistri” riformatori che vogliono una Europa “diversa”. E tuttavia costoro non sono in grado di andare oltre le loro pie intenzioni soggettive. Le oligarchie reali che dirigono questa Europa (e non il sogno di Erasmo, Mazzini o Spinelli) vogliono fortemente la sua americanizzazione (modello anglosassone di capitalismo illimitato privatizzato), la sua sottomissione geopolitica agli USA (NATO, interventi in Kosovo 1999, in Afganistan 2001, in Irak 2003, in Libia 2011, domani chissà), 1’uniformità culturale occidentalistica, insomma tutta la merda (non c'è altro termine!) che ci offre quotidianamente il sistema mediatico editoriale ed universitario.






11. E qui provvisoriamente finisco. So perfettamente che queste tre precondi­zioni sono assolutamente inattuabili a breve termine, e sospetto anche a medio termine. I “sinistri” vocianti continueranno a proporre inutili ed irrilevanti partitini comunisti o di tipo consociativo antiberlusconiano (Diliberto, Ferrero) o di tipo settario-paleolitico (Ferrando), o semplici ap­pendici della cultura femministico-ecologista post-moderna (Sinistra Critica). Non c’è niente da fare.


Continuerà l’illusione di potere alla fine, magari cambiando le maggioranze elettorati, modificare la natura neoliberale assoluta di questa Euro­pa. Chi nutre questa illusione non capisce o non vuol capire per opportunismo, pigrizia, stupidità o boria intellettuale, che siamo di fronte ad un processo storico, e non solo politico congiunturale. Lo storicismo ed il mito del progresso lineare irreversibile sparso a piene mani nell'ultimo mezzo secolo dalle canaglie dei gruppi intellettuali comunisti degenerati hanno abituato la gente a pensare in termini ferroviari di Indietro/ avanti. Ma come, abbiamo fatto l’Europa, non possiamo mica andare Indietro! Biso­gna andare Avanti!


In realtà, nella storia non c’è un avanti ed un indietro. La storia è un luogo di prassi umana integrale, non di temporalità evoluzionistica in qualche modo prevedibile. La fine del berlusconismo è semplicemente una opportunità, che bisognerebbe saper cogliere per riorientare integralmente una intera cultura politica fallimentare.


Questa opportunità verrà colta? Sarei contento di poter lasciarmi andare ai soliti auspici generici ottimisti, del “pensare positivo”, ma purtroppo sono un allievo di Hegel e Marx, e non di Jovanotti o Celentano. Data la situazione attuale, ed il terribile potere di interdizione diretta o indiretta dei gruppi intellettuali italiani che conosciamo, non vedo nessuna possibilità di invertire la tendenza babbionizzante ed identitaria. I vele­ni dell’antiberlusconismo di “Repubblica” e del PD continueranno purtroppo a lungo, perchè sono strutturali, in quanto coprono ideologicamente una gi­gantesca tragedia storica. Vorrei poter promettere di più, ma per il momento siamo ancora alla fase dei preliminari dei preliminari. Per chi ha già la mia età è triste. In quanto ai giovani, chi vivrà vedrà.

domenica 30 ottobre 2011

 

Gli scenari politici internazionali della crisi sistemica 

 



Intervento di Piero Pagliani  all’assemblea sul debito e sull’euro di Chianciano Terme sabato 22 ottobre.

Piero Pagliani

1. Capitale e Potere: l’origine della crisi 1
2. Politica e finanza: tra storica collaborazione e storico conflitto 4
3. Capitale e Potere: i paradossi politici della loro aggiunzione 8
4. Ipotesi di resistenza all’autocolonizzazione dei Paesi europei 11
Serie economiche 18

1. Capitale e Potere: l’origine della crisi

Poche settimane or sono, in pieno attacco all’euro, “La Repubblica” mentre
da una parte terrorizzava i suoi lettori parlando della caduta nell’abisso delle
borse e persino dell’oro, dall’altra li invitava surrettiziamente ad investire in
titoli a lungo termine del debito pubblico della Germania e degli Stati Uniti,
ultimi rifugi al riparo dalla bufera planetaria.
Ma come? D’accordo la Germania, ma gli Stati Uniti? Il Paese più indebitato
del mondo da che mondo è mondo?
D’acchito la perplessità è d’obbligo. Eppure, per lo meno sul breve periodo
(ma difficilmente sul medio e a maggior ragione sul lungo - e qui sta una
parte del trucco degli imbonitori) i titoli di debito pubblico di questi Paesi
potrebbero veramente essere un affare sicuro.

Fino a quando?

Fino a quando regge la credibilità degli Stati Uniti come superpotenza
dominante sul piano militare, politico e diplomatico mondiale, anche se non
sul piano economico, dato che è dalla fine degli anni Cinquanta del secolo
scorso che gli USA hanno perso questo primato (o, come si diceva una volta,
non sono più l’opificio del mondo). I Paesi dominanti sul piano economico
devono allora essere “contenuti” o associati all’impero come viceré sub
dominanti, come nel caso, per l’appunto, della Germania.
Questa frattura tra il dominio economico e il dominio politico-militare è poco
comprensibile se ci si attiene alla divisione meccanica strutturasovrastruttura.
E’ molto più comprensibile se invece si assume l’ottica leninista dell’analisi dell’intreccio 
tra le contraddizioni sociali e quelle intercapitalistiche.
A quel punto la rinnovata lente analitica ci permette di scoprire un ulteriore
problema: il predominio economico e quello sui mezzi di pagamento mondiali,
entrambi appannaggio della Cina, oltre a non coincidere col predominio
politico-militare non coincidono nemmeno col predominio finanziario. Le
principali piazze finanziarie del mondo rimangono infatti la City di Londra, a
due passi da Downing Street, e Wall Street che sta a quattro ore di macchina
dalla Casa Bianca1. In altri termini la finanza internazionale più che la sirena
dei cosiddetti “fondamentali economici” sembra stare ad ascoltare quella del
potere territoriale. Non è un problema da poco per chi non riesce ad affrancarsi 
da una visione meccanica del rapporto tra la cosiddetta “struttura” e la cosiddetta “sovrastruttura”.

1 Detto incidentalmente, può sembrare un mistero la stessa importanza attuale della City di
Londra, a più di un secolo abbondante da quando la Gran Bretagna perse il titolo di “opificio
del mondo” e a sessant’anni dalla perdita di ogni supremazia territoriale e finanziaria a favore
degli Stati Uniti. Un mistero che non si risolve con gli “zurück zu Marx” e nemmeno con i
ritorni fideistici a Lenin, ma che obbliga a rinnovare gli strumenti analitici. Ovviamente
esistono anche le scorciatoie sciagurate e spesso repellenti che risolvono tutto coi complotti:
della massoneria, degli ebrei, della massoneria giudaica, della massoneria britannica, della
massoneria giudaica britannica, e via intrecciando combinazioni di idiozie che a volte non si
vergognano nemmeno di citare i rettiliani o i Protocolli dei Savi di Sion, per poi dire che è vero
che sono tutte scemenze, per carità di Dio, ma che in fondo in fondo sono segnali di qualcosa
di vero. Ma quel che è peggio è che ci sono persone per bene che ci mettono un po’ troppo a
capire che questi signori bisogna accompagnarli gentilmente alla porta.


Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2847

sabato 1 ottobre 2011

Verso una definizione condivisa di comunitarismo Il comunitarismo come etica e come politica




di Costanzo Preve


1. È possibile arrivare ad avere una definizione condivisa di comunitarismo? No, è assolutamente impossibile. È possibile ovviamente proporre alcuni elementi credibili per una sua definizione generica, ma è imHegel,possibile pensare di poter giungere ad un’unica definizione condivisa. E la ragione di questa impossibilità è molto semplice. Comunque lo si intenda, il comunitarismo è una unità di teoria e di pratica (e più esattamente di teoria comunitaria e di pratica solidaristica), e le unità di teoria e di pratica non possono essere definite. Soltanto la teoria, o per ripetizione pleonastica la “teoria teorica” può essere definita con categorie e concetti teorici. Se un “ismo” connota un’unità concreta di teoria e di pratica, questo “ismo” non può essere definito per principio, perché soltanto le forme storiche e sociali concrete della sua messa in pratica hanno in realtà un valore formativo.
Si tratta di un fatto semplice ed intuitivo. E tuttavia è bene averlo sempre ben presente. Hegel aveva ragione quando scrisse che è inutile definire teoricamente il nuoto prima di nuotare. Da un punto di vista astratto, il comunitarismo è soltanto l’astratto contrario polare dell’individualismo e del collettivismo, che in quanto opposti in correlazione essenziale non fanno che rovesciarsi continuamente l’uno nell’altro. Concretamente, soltanto la pratica comunitaria può alla lunga mostrare la sua superiorità rispetto alle pratiche individualistiche e collettivistiche. in realtà un valore normativo.


2. Le definizioni che cercherò di dare in questo capitolo sono pertanto del tutto formali ed astratte. Per sgombrare il terreno da alcuni possibili equivoci inizierà prima dal rapporto fra relativismo ed universalismo, e cioè fra usi particolari e possibilità di una norma universalismo, e cioè fra usi particolari e possibilità di una norma universale di comportamento estendibile in via di principio all’intera umanità, pensata come se fosse un solo soggetto unitario. Passerà poi a discutere una teoria dell’individuo, perché senza una teoria dell’individuo non ci può neppure essere comunitarismo, se non in forme regressive. Terminerò infine con una discussione sul comunitarismo come etica e come politica. E tuttavia. Questo non potrà che restare inevitabilmente astratto, se non è pensato in modo contrastivo all’individualismo ed al collettivismo.


Continua: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2758

giovedì 10 febbraio 2011

AUTONOMIA PROLETARIA: RESISTENZA COMUNITARIA



Matteo Brumini

E dunque dove eravamo rimasti? Alcuni mesi fa scrissi un articolo in occasione del novantennale della rivoluzione d’Ottobre e fu l’occasione per parlare di ciò che oggi era il comunismo ed il movimento comunista nel Centro Capitalista e di ciò che avrebbe potuto (o dovuto a seconda di come la si vuol vedere) essere, un’occasione per fare il punto della situazione e provare ad andare avanti. Questo articolo vuole partire proprio da lì, vuole essere il seguito, vuole essere lo sguardo oltre ciò che già abbiamo visto e abbiamo analizzato. Prima di iniziare però è fondamentale per chi scrive stare a sottolineare che in questi mesi sono accadute due cose fondamentali, la prima è la sconfitta elettorale della sinistra istituzionale (la Sinistra Arcobaleno) e la sua conseguente fuoriuscita dal parlamento italiano e la seconda è una recente ondata nell’area comunista di proposte di unità e soprattutto fondamentale per noi la messa al centro del dibattito politico di diverse anime dell’area del concetto di “comunità”. Sia sul primo tema che sul secondo si tornerà più avanti.
Intanto tornando indietro si era detto che il punto fondamentale da cui ripartire era l’esperienza dell’autonomia, quella con la lettera piccola, quella dello spontaneismo e della frattura con il bagaglio ideologico dei gruppi e dei partiti, l’autonomia operaia degli anni Settanta, quella che cercava la sintesi delle sue due diverse anime, quella operaia e operaista e quella studentesca e potremmo dire libertaria. Autonomia operaia si diceva e senza dubbio l’anima che prevalse alla fine fu proprio quella operaista, quella di Piperno e Scalzone, quella della rivista Rosso e di Toni Negri. Si è già più e più volte parlato dei danni a lungo termine che portò con sé la corrente operaista e quindi non è necessario né interessante ora stare a ripetere concetti già più volte ripetuti ma è importante far notare come allora avesse ancora un senso valido o perlomeno percepito tale parlare di autonomia OPERAIA, quando si stava entrando in un periodo di percepita maturazione delle lotte operaie all’interno delle grandi fabbriche fordiste e del loro stretto collegamento con le lotte studentesche degli anni passati. A distanza di anni e con il fatidico senno del poi possiamo dire che fu proprio il prevalere dell’operaismo all’interno dell’autonomia operaia a costituire quel peccato originale che in breve tempo portò prima alla morte dell’autonomia come movimento spontaneo ed autorganizzato dal basso e quindi al costituirsi in seguito di una struttura organizzata verticalmente, l’Autonomia con la A maiuscola. E tuttavia parlare di autonomia operaia allora aveva un senso e senza dubbio era proprio la grande fabbrica fordista (ed il connubio con l’area studentesca) ad essere il luogo più avanzato delle lotte e delle proposte ed era allora altamente percepibile e palpabile la presenza di quella che viene chiamata la coscienza di classe e la conseguente solidarietà e compattezza (nelle differenze!) di tutto il movimento. La storia della fine dell’autonomia e della crisi progressiva da quegli anni ad oggi è nota a tutti ed è stata già tracciata più e più volte e dunque non verrà ripetuta. Di quell’esperienza rimane la grande intuizione della fine delle forme partitiche e dei gruppi, la ricerca creativa di nuove forme di lotta e di nuove strutture e nuove teorie e l’esigenza di cercare una autorganizzazione dell’area attraverso un agire concreto e teso verso l’esterno e la cosiddetta massa. Basta ricordare in tal senso le esperienze delle radio come Radio Onda Rossa a Roma, Radio Alice a Bologna o Radio Sherwood a Padova dove per la prima volta potevano intervenire nelle trasmissioni le persone all’ascolto creando assieme la trasmissione stessa e trasformando in parte attiva il soggetto passivo, oppure alle lotte locali nei quartieri, le occupazioni delle case, le autoriduzioni delle bollette, le spese proletarie sempre nell’ottica del coinvolgimento e della proposizione verso la gente comune. Era un lavoro politico non strutturato in una visione di inquadramento passivo e già predeterminato ma in uno scambio continuo dei ruoli fino al coinvolgimento e la fusione in un'unica soggettività in lotta concreta. Si creava così un collegamento biunivoco di scambio reciproco tra interno ed esterno ed allo stesso tempo si apriva un varco tra massa e sistema in cui si inserivano le lotte e diventavano pratica quotidiana. Fu davvero per molti versi l’ultima intuizione veramente rivoluzionaria, la parte più avanzata di un movimento unico esente da avanguardie.
La convinzione di chi scrive è che questo passaggio sia a tutt’oggi il risultato più rilevante raggiunto dall’area comunista negli ultimi quarant’anni; da allora i passi fatti sono solamente stati passi all’indietro sostanzialmente cancellando e smantellando tutto ciò che era stato raggiunto. Gli stessi centri sociali nati come collettivi in conseguenza ed in continuità di quel lavoro proprio per proseguire sul territorio l’esperienza dell’autonomia sono andati con gli anni ad assumere un carattere autoreferenziale (salvo le debite eccezioni) fino a collassare su sé stessi e ad arrivare a marginalizzarsi e ad essere marginalizzati proprio da quel territorio che doveva essere l’obiettivo principale delle attività dei centri sociali stessi.
Dunque l’abbiamo detto più volte, riprendiamo il discorso dall’autonomia. Riprendere il discorso non significa chiaramente riprendere l’autonomia del 1974 o quella del 1977 e portarla qui come se non ci fossero in mezzo trent’anni.
Quell’autonomia è fallita, un po’ sotto le spinte della repressione violenta dello stato e un po’ sotto il peso dei propri errori e dei propri peccati originari, un po’ per l’implosione delle previsioni e delle visioni operaiste e delle lotte operaie (ma sarebbe più corretto dire in tal senso per la fine stessa della coscienza di classe e della solidarietà di classe all’interno del mondo operaio). Appurato e dato per chiaro una volta per tutte che la classe operaia non esiste più o meglio non esiste più come soggetto politico autocosciente e come soggettività trainante e monolitica ed appurato che l’operaismo è definitivamente tramontato e le ulteriori teorizzazioni nate da quelle ceneri come le varie teorie delle moltitudini di Negri alla prova dei fatti si sono dimostrate inefficienti ed errate non rimane che cercare una nuova soggettività da cui ricominciare. Ora considerato che il marxismo di Marx è una scienza sociale in quanto tale segue le regole della metodologia scientifica il primo passo da compiere è quello di ragionare in termini metodologici e scientifici (ricordando che per Marx l’ideologia era una “falsa rappresentazione” della realtà).
Metodologicamente dunque dobbiamo stabilire che all’interno di un discorso scientifico e attorno ad un nucleo fondativo (e tra le altre cose il marxismo è anche una filosofia fondazionale) si costruiscono poi le varie teorie che vanno progressivamente verificate nella prassi. Il nucleo fondativo del marxismo di Marx è strutturato attorno al proletariato inteso come classe sociale, quindi a parere di chi scrive è fondamentale riprendere come soggettività da analizzare proprio il concetto di proletariato. Cos’è questo proletariato oggi. È evidente che esso non può essere il proletariato di Marx, non è il proletariato di Lenin e non è nemmeno quello degli anni Settanta, e come detto poco sopra non è nemmeno la moltitudine di Negri. Non è possibile a mio parere oggi dare una definizione precisa e circostanziata di proletariato in quanto esso è definibile negativamente (ovvero dicendo quello che non è) ma non positivamente (dicendo quello che è); di una cosa sola si può essere certi, il proletariato contemporaneo vive polverizzato nei mille rivoli e rami di un sistema ultraflessibile e motore primo di un modello culturale ultraindividualista e corporativo che rende il proletariato stesso un fantasma che si aggira per il Centro Capitalista privo della percezione di sé, trasformato in macchina desiderante, desiderante di essere parte stessa di quel sistema che lo schiavizza e tende allo stesso tempo a marginalizzarlo (senza mai escluderlo chiaramente). Conseguenza di questo è che ogni definizione positiva che viene data oggi del proletariato finisce inevitabilmente per diventare un contenitore vuoto in cui si affastellano teorizzazioni prive di riscontro e dunque metodologicamente votate al fallimento alla prova dei fatti. Chi sarà arrivato a leggere fino a questo punto si starà chiedendo dunque il perché del titolo. Perché autonomia proletaria se non è in alcun modo individuabile con l’analisi e l’osservazione un proletariato cosciente di sé e inscrivibile all’interno di una teoria. La risposta sta nella seconda parte del titolo di questo articolo: resistenza comunitaria.
Come detto all’inizio si assiste ad una riproposizione da più parti dell’area comunista italiana della parola “comunità”. Noi come rivista e come Comunità Proletarie Resistenti non possiamo che guardare con soddisfazione (e aggiungo anche con un sorriso sardonico) a questa novità assieme ad una profonda preoccupazione di vedere scippato ma soprattutto vanificato il nostro lavoro (per alcuni compagni più che decennale e tra numerose critiche e soprattutto accuse e marginalizzazioni) da un eccessivo uso superficiale del concetto di comunità. Una parola difatti è in sé solo un segno, un involucro dentro cui mettere un significato e a seconda del significato cambia anche il valore ed il concetto stesso. Non è stavolta inutile stare a ripetere che quello che noi come rivista “Comunismo e Comunità” e come Comunità Proletarie Resistenti intendiamo costruire è un tessuto interconnesso di comunità (intese come Gemeinwesen marxiana) aperte di libere individualità legate tra loro da un tessuto connettivo che neutralizzi il passaggio dell’uomo da ente naturale ad ente mercantile. Comunità aperte che sappiano creare una intercapedine, un fulcro che si inserisca tra la massa atomizzata ed indistinta passiva ed il sistema istituzionale, borghese, liberista e capitalista, un modello intuito ed analizzato in parte già anche fuori dal centro capitalista come dimostra la teoria del Terzo Dominio di Abdullah Ocalan (di cui scrissi sempre in queste pagine diverso tempo fa), qualche cosa che non si contrapponga semplicemente allo stato ed al sistema ma sia in grado di inserirsi prima e di sostituirsi ad esso gradualmente (comunità aperte in grado di abbattere tra l’altro anche uno dei falsi miti più dannosi per l’area comunista di questi ultimi decenni ovvero il mito della contrapposizione totale e continua al Capitale, mito creatore di società chiuse in sé stesse ed autoalimentanti e autoreferenziali sostanzialmente innocue per il sistema stesso in quanto escluse da esso e dunque anche dal contatto con la massa, per volontà propria reale o percepita che sia).
Ed il proletariato? E la ripresa del discorso dell’autonomia? Qui sta il nodo centrale di questo breve articolo.
Si è detto poco sopra che il proletariato odierno è un proletariato disperso, polverizzato, non circoscrivibile e soprattutto senza coscienza di sé stesso e dunque ancora più sfuggente alle analisi anche dei più zelanti e dei più volenterosi. In una logica atomista e ultraindividualista in cui l’uomo è ente mercantile potremmo affermare (per molti provocatoriamente) che non esiste un solo proletariato come soggetto monolitico ma in potenza tanti proletariati diversi, tanti quanti sono gli enti mercantili atomizzati raggruppati di volta in volta all’interno di logiche corporative che creano unità di vedute puramente tattiche e contingenti sul momento per poi dissolversi di nuovo una volta raggiunto l’obiettivo a breve termine. In parole povere credo sia sotto gli occhi di tutti che in questi ultimi anni le rivendicazioni all’interno del mondo del lavoro sono sempre state rivendicazioni di tipo corporativo in cui di volta in volta ogni categoria si ritrovava unita per questo o quel motivo avvolta nella sostanziale indifferenza delle altre (e a volte anche con un senso di fastidio) per poi ricadere nell’oblio e nell’apatia passiva a rivendicazione, lotta o protesta finita. E’ proprio la mancanza del tessuto comunitario di cui si accennava prima a creare questo stato di cose e si perpetra e riproduce sostanzialmente nella stessa maniera anche al di fuori del mondo del lavoro in ogni aspetto singolo della vita sociale dell’individuo e della società massificata e atomizzata allo stesso tempo. E dunque in un humus sociale, economico e politico simile che la ricomposizione di tale tessuto all’interno di comunità aperte di libere individualità fungerebbe da catalizzatore, da attrattore per quel proletariato senza coscienza e polverizzato, per quella miriade di potenziali proletariati (o proletari) che si ritroverebbero di nuovo assieme come un'unica soggettività collettiva aperta e non coatta, una unica soggettività non più passiva ma attiva e dunque di nuovo non più potenziale ma in atto e quindi con coscienza di sé.
Ecco il passaggio quindi, autonomia proletaria all’interno delle comunità; comunità autonome connesse tra loro in diversi gradi orizzontali proprio come le maglie di un tessuto, comunità proletarie, autonomia comunitaria, o meglio ancora comunità come autonomia e autonomia come comunità in una relazione biunivoca e sostanzialmente identitaria in cui i due termini (autonomia e comunità) finirebbero per assumere la stessa funzione e lo stesso significato. Come infatti nell’esperienza dell’autonomia di trent’anni fa all’interno delle comunità si ribalterebbe il ruolo degli individui da soggetti passivi a soggetti attivi, soggetti creatori e creativi, soggetti che non subiscono il sistema e dunque cercano di interpretarlo e di adattarsi ad esso cercando di farne parte ma si sostituiscono ad esso assieme creando qualche cosa di nuovo che renderebbe inutile il sistema stesso senza allo stesso tempo autoescludersi da esso ma agendo come un virus all’interno di un organismo vivente, parassitandolo (ovvero sfruttando tutti i varchi e le contraddizioni che esso offre e mostra necessariamente per sua natura) e contemporaneamente modificandolo. Un ribaltamento progressivo dei ruoli in cui il sistema stesso diventerebbe alla fine soggetto passivo. È difatti il principio della delega, della rappresentatività, della volontaria cessione della gestione della propria vita che crea falsa coscienza e passività, che rende l’ente naturale umano soggetto mercantile ovvero consumatore di idee già pronte e preparate dall’esterno. La spinta creatrice spontanea d’altra parte annulla il principio di passività e quindi di mercantilizzazione del pensiero e quindi la dipendenza da qualche cosa che è esterno che non viene più visto a quel punto come punto fisso e quindi ineludibile ed inattaccabile ma come qualche cosa non solo di alieno (altro da sé, in cui il sé diventa declinazione sia di sé stessi che della comunità tutta) ma soprattutto di inutile.
Ma perché “resistenza”? Perché autonomia proletaria come resistenza comunitaria? E’ il caso di demolire un altro mito oramai logoro dell’area comunista italiana ovvero che esista una biunivocità fra rivoluzione e volontà rivoluzionaria. In sostanza non è altro che la sensazione che prima o poi attraversa tutti i compagni ovvero che basta essere comunisti o far parte di un collettivo o di una realtà comunista o anche semplicemente essere all’interno del movimento antagonista per vivere all’interno di un mondo rivoluzionario, più semplicemente essere dei rivoluzionari. È allora davvero il caso di dirlo bene una volta per tutte: nessuno di noi è un rivoluzionario, non c’è alcuna rivoluzione per il momento in atto o in potenza, non c’è alcun palazzo d’inverno da prendere nell’immediato futuro, questa non è un epoca rivoluzionaria. Si tratta sostanzialmente di una conseguenza del mito avanguardista di cui avevo già parlato nell’ultimo articolo; se difatti esiste un avanguardia allora esistono coloro che compongono l’avanguardia ed essi non possono dunque che essere rivoluzionari in quanto l’avanguardia non può che essere rivoluzionaria. Ma questa non è un epoca rivoluzionaria, non ci sono le condizioni nell’immediato per pensare ad alcuna rivoluzione nel Centro Capitalista e se non esiste alcuna rivoluzione allora non può esistere alcun rivoluzionario al pari del principio per cui se non hai delle scarpe da riparare allora non puoi essere un calzolaio e se non sai come coltivare la terra e non hai terra da coltivare allora non puoi essere e definirti un agricoltore. La rivoluzione non c’è, non sappiamo come farla e dunque non siamo rivoluzionari.
Ma allora cosa siamo? Siamo resistenti, perché questa è un epoca di resistenza, siamo coloro che debbono riprendere il discorso e tentare di ricominciare a portarlo avanti. Ma sia chiaro a tutti non siamo una avanguardia e non esiste alcuna avanguardia di resistenza. La resistenza si può pensare di farla e di trasformarla in qualche cosa di altro e di rivoluzionario solo all’interno di un tessuto comunitario ricostituito, all’interno di una logica di autonomia in cui si riunisca in atto il proletariato disperso ed assente. La resistenza non può che essere come il comunismo comunitaria. Autonomia proletaria per la resistenza comunitaria e viceversa. Diventa quindi chiaro perché si sia deciso di chiamare il nostro collettivo Comunità Proletarie Resistenti. Non è certo una qualifica che ci diamo o ci siamo dati autoincoronandoci avanguardia resistente di qualche cosa o portatori di un verbo di salvezza: Comunità Proletarie Resistenti vuol essere solo un auspicio, un virus appunto che vada diffondendosi spontaneamente attraverso un meccanismo di interconnessioni (un tessuto) creative. Questo è il momento di farlo, questo è il momento di spingere e di alzare un po’ più la voce, questo è il momento. Le elezioni ultime hanno sancito esplicitamente la fine di ogni differenza tra destra e sinistra istituzionali, la sinistra radicale istituzionale è stata e si è annientata ed ora è fuori dai palazzi alla ricerca di nuova verginità all’interno di un movimento che è fermo ed in agonia. Una agonia che dovremmo cominciare ad ammettere sembra irreversibile o troppo avanzata per tentare di rimettere a posto ciò che da troppo tempo non lo è più e continua a peggiorare. La crisi di legittimazione territoriale dei Centri Sociali, l’immobilismo autoreferenziale del movimento antagonista italiano (ma anche di quello buona parte del Centro Capitalista con le solite debite eccezioni che non è necessario stare a ripetere ancora una volta), la cacciata dalle istituzioni della sinistra radicale istituzionale, gli appelli lanciati negli ultimi tempi dopo le elezioni alla solita astratta e tardiva unità dei comunisti rappresentano per chi vuole parlare ed intendere come noi (e con noi) il concetto di autonomia proletaria, di resistenza comunitaria, di comunità, di ripresa del marxismo come scienza sociale, di ripensamento in genere del comunismo e dell’area comunista. C’è una grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. Bene dunque ripartiamo, ripartiamo da zero, e facciamolo ora, queste sono le premesse, il lavoro fatto fino ad oggi è la nostra premessa.
Che fare? Se questa è la premessa, se questa è il nucleo, la struttura da cui partire e da realizzare, che cosa si deve fare per rendere tutto questo realizzabile? È chiaro infatti che è la prassi quotidiana, l’impegno personale e collettivo, le proposte concrete che rendono realizzabile o anche semplicemente verificabile una analisi; è il processo marxiano d’altronde ed anche il semplice buonsenso a ribadirlo.
Cosa propongono dunque le Comunità Proletarie Resistenti, cosa propone chi scrive in questa rivista? La risposta non c’è. Non c’è a questo punto alcun deus ex machina a mettere l’animo in pace di chi sta leggendo queste parole, non c’è il lieto fine o anche semplicemente la chiusura a questo articolo. Chi scrive non sta facendo un decalogo o un manifesto programmatico da esportare;
chi scrive in questa rivista, le Comunità Proletarie Resistenti tutte non sono in cerca di proseliti o di esecutori a cui far mettere in atto ciò che già è stato scritto. Come già detto noi non siamo una avanguardia, né rivoluzionaria né resistente. Non siamo qui a proporci come deus ex machina per tutta l’area comunista e per il movimento antagonista; questo articolo non sono le parole di un oratore da strillare sopra di un pulpito, questa è solo la nostra proposta. La proposta contiene in sé già la risposta alla domanda. Ricucire un tessuto comunitario, riprendere il discorso dell’autonomia, ricreare un blocco proletario resistente significa sostanzialmente uscire là fuori, scendere per le strade e cominciare a guardarsi intorno, abbandonare le mura tranquille e rassicuranti delle sedi partitiche, dei centri sociali, non aspettare più che qualcuno si faccia avanti ma andare a prendere le persone. Come si può farlo? Noi non lo sappiamo, noi navighiamo in mare aperto, cerchiamo e sperimentiamo ogni idea pratica, viviamo dei nostri fallimenti e delle nostre conferme e rimettiamo tutto in gioco. Non può esistere una risposta unica e valida per ogni realtà locale, non può esistere un modello unico di comunità aperta, non può esistere una parola d’ordine che racchiuda in sé ogni granello di quel proletariato polverizzato e anche se ci fosse non sarebbe e non è più compito nostro, compito di chi scrive ora, compito di chi scrive in questa rivista, compito delle Comunità Proletarie Resistenti starlo a dire. Siete voi che ora state leggendo a dovervi spremere le meningi, a fare i passi concreti adesso, a riappropriarvi in prima persona di quella volontà creatrice, a creare quella comunità aperta attiva e pensante, siete voi a dover creare le condizioni per creare quel virus che modifichi attivamente il sistema. Fino a che si continuerà ad aspettare le idee di qualcun altro, ad imitare le azioni e le lotte di altri e fino a che le idee continueranno ad essere tese verso l’autoalimentazione di quella piccola realtà, fino a che un idea una volta verificata sul campo si dimostrerà perdente e nonostante tutto si continuerà a riproporla costantemente senza cercare di nuovo e rimettere in moto un ciclo costante di analisi, teorizzazione e prassi allora tutte queste parole rimarranno lettera morta. Noi la nostra parte la stiamo facendo, non chiediamo a nessuno di seguirci né di applaudirci, non cerchiamo in altri compagni lodi o critiche, il nostro lavoro politico sul territorio è rivolto certamente verso i compagni ma soprattutto verso chi compagno non è, verso la gente comune, verso le loro difficoltà senza premesse o condizioni di adesione. L’adesione deve essere spontanea e frutto di una maturazione che ogni individuo coinvolto mette in moto attraverso il circolo virtuoso che le nostre proposte dovrebbero far partire.
Il momento è questo, ora, la gente è là fuori, non serve altro, non servono ricette. Volete anche voi una autonomia proletaria, volete delle comunità aperte resistenti? Allora chiudete questa rivista, alzatevi dalla sedia ed andatele a fare; noi lo stiamo già facendo.

Comunismo e Comunità N. 1

sabato 23 ottobre 2010

 
Lenin: un genio rivoluzionario





Ho paura che una corona sulla sua testa

possa nascondere la sua fronte

così umana e geniale,

così vera. Sì, io temo

che processioni e mausolei,

con la regola fissa dell'ammirazione,

offuschino d'aciduli incensi

la semplicità di Lenin; io temo,

come si teme per la pupilla degli occhi,

ch'egli venga falsato

dalle soavi bellezze dell'ideale.
 

V. Maiakovsky 


                                                          di Giancarlo Paciello




Parte prima





1. Il destino dei grandi




Se è scontato (ed opportuno) che si discuta il pensiero e l'operato dei grandi del passato, non dovrebbe essere altrettanto scontato (ed opportuno) che ci si accanisca contro di loro, criminalizzandoli, quando il loro pensiero e la loro azione sono in contrasto con il nostro modo di vedere di oggi o, peggio ancora, per pura strumentalità. Succede soprattutto ai rivoluzionari, in verità, ma anche a filosofi eccezionali, come Hegel ad esempio. E così, nell'ottantesimo anniversario della morte, è toccato a Lenin, un genio della politica come vedremo, essere vilipeso e caricato di una montagna di responsabilità da coloro che, sotto la sapiente (!?) guida di Silvio Berlusconi o forse sarebbe meglio dire del mondo del politicamente corretto, operano con tenacia alla criminalizzazione del comunismo. Operazione, a dire il vero, cominciata ben prima dell'arrivo del cavaliere alla ricerca del comunismo inesistente.



Eppure l'esperienza storica del comunismo (1917-1991), consumatasi nell'arco del secolo breve, secondo la felice definizione di Hobsbawn, ha inizio a sette anni dalla morte di Lenin, che dunque ha potuto poco, quale che fosse la sua diabolica influenza, sulla evoluzione complessiva dell'esperienza comunista.



Certamente Lenin contribuì, con la sua genialità, a trasformare una guerra imperialista, un massacro immondo, che rimane ancora privo di diaboliche responsabilità, in una rivoluzione, la Rivoluzione d'ottobre, contro un potere oppressivo, quello degli zar, in una Russia dalla quale, chi poteva, fuggiva. Tanto per fare un esempio scelto a caso, più di un milione di ebrei emigrò dalla Russia, negli anni che vanno appunto dal 1882 al 1914, per la quasi totalità negli Stati Uniti, oltre che, in minima parte, in Palestina.



Non è mia intenzione polemizzare con i "maestri" di storia dei nostri quotidiani, che si sono accaniti con Lenin, né con le assai prudenti e ahimè modeste risposte che a costoro sono state date sulle pagine di Liberazione, quanto piuttosto ripercorrere, da ammirato estimatore, il percorso seguito da Vladimir Iljic Uljanov nella sua breve quanto emozionante vita di rivoluzionario. Ripeto, del riferimento a questa criminalizzazione mi sono servito soltanto per un incipit di totale presa di distanza dal modo di concepire una rievocazione e soprattutto la Storia.



E, visto che mi è scappata la maiuscola, è opportuno indicare a chi mi sono ispirato, derubandolo spesso anche nella formulazione del testo. Si tratta dello storico e filosofo Massimo Bontempelli, del quale non mi stancherò mai di elogiare le capacità, anche narrative.



In particolare, mi riferisco a quel prezioso libro "Il respiro del Novecento, Percorso di storia del XX secolo" uscito nel 2003 per i tipi della C.R.T. di Pistoia. Un libro scritto per coloro che amano la storia, per coloro che si occupano di politica e vogliono farlo in modo storicamente consapevole e soprattutto per gli studenti. La società in cui viviamo è una società interamente dominata dal mercato e continuamente riplasmata dai suoi automatismi, e non ha più riferimenti che la preservino da mutamenti umanamente devastanti. Perciò la nostra società, i giovani soprattutto, hanno bisogno di un'educazione all'autonomia di pensiero e al valore della personalità spirituale dell'uomo. Ed è proprio la conoscenza storica, in quanto conoscenza particolarmente in grado di far emergere possibilità antropologiche cancellate dall'attuale sviluppo sociale, ma custodite nella memoria del passato, che può favorire tutto questo.



Riconciliatomi con un orizzonte di senso molto significativo, affronto questo lavoro che, da solo, non avrei nemmeno osato pensare di cominciare, e del quale però mi assumo totalmente la responsabilità.




Ma chi è dunque?

Quali gesta ha compiuto?

Di dove viene quest'uomo

di ogni uomo più umano?


Segue: http://comunitarismo.it/lenin_genio.htm

lunedì 11 ottobre 2010


IL COMUNISMO E LA QUESTIONE NAZIONALE




 

di Maurizio Neri

Queste riflessioni nascono dalla necessità di analizzare lo stato presente di cose e di fare qualche ipotesi e previsione sui possibili sviluppi del comunismo.

Dopo la caduta dell’Urss il capitalismo ha potuto fare quel balzo in avanti nell’estensione del suo modello di produzione e di conseguente ridispiegamento delle sue potenzialità di circolazione di capitali e merci che va sotto il nome di "globalizzazione".

La globalizzazione è divenuta in poco tempo la parola d’ordine assunta da ogni analista per descrivere un mondo nuovo, reticolare, intessuto ed innervato da rapporti economici che in una sorta di Tela di Penelope avvolgono il pianeta.

Esiste, però, a parere di chi scrive uno "sviluppo ineguale" del capitalismo globalizzatore che non ha la stessa composizione e natura, a seconda che si tratti dell’Occidente e dei paesi che hanno marciato alla sua stessa velocità nella strutturazione dei rapporti di produzione e le periferie dell’Impero che in molti casi sono ancora ferme ad un capitalismo di stampo ottocentesco basato su forme di produzione legate ad una manodopera ridotta in condizione di sfruttamento prossime allo schiavismo.

Quando parliamo della globalizzazione dovremmo fare attenzione a non confondere la situazione di chi ha e detiene il potere di mutare le forme di produzione (paesi ricchi)e di chi le subisce passivamente (paesi poveri) adattando le proprie risorse umane alle necessità produttive dei primi.

Partendo da questo assunto la conseguenza è che molti paesi hanno saltato il passaggio dal proto-capitalismo alla formazione di un tessuto economico che contempli una divisione in classi così come concepita da Marx nei paesi ad avanzato sviluppo industriale con una borghesia imprenditoriale ed una classe operaia in contrapposizione con la prima.

Tutto questo è assente nei paesi "periferici" dove al più si rinviene una borghesia "compradora" locale di natura oligarchica legata a centri di potere internazionali, ma che in termini di sviluppo dei rapporti di produzione è ancora arcaica , legata a fattori come il possesso di terra o a traffici spesso di natura illegale che le permettono di mantenere una posizione di comando "interna" tramite la corruzione.

Molti di questi paesi che negli anni sessanta e settanta avevano lottato per la loro indipendenza dai regimi coloniali che dall’Ottocento avevano stabilito un regime di dipendenza diretta con molti paesi europei, sono stati "riassorbiti" da un nuovo colonialismo soprattutto grazie alla sconfitta del campo socialista.

In Africa, in Asia ed anche in Sudamerica, dove la lotta dei movimenti di liberazione, di ispirazione comunista e socialista, è stata sconfitta dagli apparati militari nazionali legati a doppio filo con gli Usa, ovunque si è registrata o la caduta dei regimi che avevano preso il potere dopo la liberazione oppure ad un loro progressivo riallineamento alle direttive del nemico di ieri.

Per alcuni, penso al Vietnam, ma non è l’unico caso, si è trattato del classico "bere o affogare" poiché oggi l’essere esclusi dal consesso del commercio internazionale equivale ad una condanna a morte, come hanno dimostrato i drammatici casi di Cuba, Irak, Iran e tanti altri paesi, affamati da anni di embargo.

Le cause di questo fenomeno sono molteplici, non ultima la caduta dell’URSS e del Comecon che garantiva un interscambio, seppur minimo, tra i paesi socialisti, ma quel che colpisce oggi è che non esiste allo stato un "modello socio - economico" che un Paese possa oggi adottare in alternativa al capitalismo che possa avere la chance di durare più di un giorno.

Non esistendo più il paese di "riferimento", l’Unione Sovietica, oggi Russia, prossima ad entrare addirittura nella Nato, non esistendo una "sinistra" in Europa che sappia ancora declinare il socialismo come via alternativa al capitalismo, se non con istanze confuse e contraddittorie, allo stato l’opposizione all’imperialismo è interpretata su base nazionale, religiosa ed identitaria come rifiuto della dominazione altrui in casa propria.

Come si pongono i comunisti davanti a questi fenomeni nuovi, frutto anch’essi della esasperata dominazione non solo economica, ma culturale, militare ed antropologica che l’Occidente produce e sussume nel termine di "comunità internazionale"?

Oscillano paurosamente tra incomprensioni di fondo dettate dal mancato riconoscimento della "questione nazionale" come fattore di mobilitazione da indirizzare su posizioni comuniste per vecchie interpretazioni legate alla "demonizzazione" di tutto ciò che è la complessità dei fattori culturali, psicologici , religiosi, che compongono la questione nazionale, lette come meri artifizi sovrastrutturali che inficiano l’unita’ dei lavoratori su base universale.

Bisognerebbe, però, ricordare che ogni volta che negli anni sessanta e settanta i movimenti comunisti, socialisti ,anticoloniali ed antiimperialisti hanno vinto, da Cuba al Vietnam dall' Algeria al Congo lo hanno fatto perché hanno saputo interpretare alla luce del comunismo/socialismo le aspirazioni ed i caratteri costitutivi di un "determinato paese". Ciò non ha impedito, di certo, a Guevara che coniò il famoso "Patria o Muerte" di andare a combattere, da convinto internazionalista qual’era, in Africa per liberare quei popoli dalla schiavitù imposta da regimi fantoccio al soldo degli occidentali ed a molti movimenti di liberazione nazionale dell’epoca di lottare in stretta collaborazione internazionalista.

A scanso di equivoci la diatriba tra quelli che auspicano il "socialismo in un solo paese" o quelli che parlano di "rivoluzione globale" la trovo assai poco pertinente ed anche fuori tempo massimo, essendo legata da una fase storica ben determinata e circoscritta e sicuramente non attuale, ma se dovessi esprimere il mio parere sulla questione allora opterei per un’altra formulazione di prospettiva.

Se quanto da me esposto sinora ha una conseguenza questa non può che essere che nell’epoca della globalizzazione e probabilmente a causa di essa e degli effetti che essa comporta e determina, la questione della "identità" o questione "comunitaria "è diventata ineludibile per chiunque voglia fare politica sulla base di una futura opzione comunista senza scadere nell’"astrattismo".

Ciò vuol dire che il Comunismo, che rimane sempre la ricerca di una società nella quale non esista più lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dovrà, comunque, avere sviluppi diversi a seconda dei paesi nei quali otterrà il consenso. Sviluppi e cammini diversi, non esiti diversi, che si raccordino strettamente alla questione nazionale vista come elemento di crescita progressista della comunità dei lavoratori, individui liberati e solidali, ma non deracinès dal contesto identitario nel quale operano e svolgono il loro ruolo di classe. Diversi Socialismi in diversi paesi uniti da una solidarietà internazionalista che li faccia procedere uniti quando sarà il momento di affrontare la prevedibile reazione capitalista.

La ricchezza di espressioni che le diverse forme potranno apportare al Comunismo, tenendo ben saldo l’obiettivo finale ed irrinunciabile della liberazione dell’ Uomo da ogni forma di sfruttamento basata sul lavoro salariato, è essenziale per dare ossigeno all’ asfittica idea comunista, oggi in crisi e minoritaria in tutto il mondo.

Per questo motivo la partecipazione dei comunisti alle istanze di liberazione dei popoli , all’interno di un fronte vasto e articolato, anche eterogeneo ed a guida borghese, è essenziale in molti paesi "periferici", perché ogni passo in avanti nella liberazione di un popolo dalla catena imperiale è una chance in più per il Socialismo soprattutto se saprà interpretare al meglio la cultura e l’ identità peculiare della propria realtà alla luce dei suoi obiettivi di emancipazione. Basta accorgersene.