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giovedì 17 febbraio 2011

Lo Stato-nazione


Edgar Morin

Lo Stato-nazione è al tempo stesso creazione e creatore dell’Europa moderna. La Storia aveva contemplato fino al Medio Evo imperi, città, popoli, etnie. La formula dello Stato-nazione, più estesa di quella delle città, è più ristretta e più unificata di quella degli imperi, anche quando è multietnica. Lo Stato-nazione si forma lentamente, e alquanto diversa­mente, in Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo a partire da e attorno a un potere monarchico che si forma esso stesso formando lo Stato-nazione. L’insularità favorisce lo sviluppo dello. Stato-nazione britannico. La Reconquista cattolica contro l’Islam favorisce lo sviluppo dello Stato-nazione ispanico. La perseveranza monarchica e la fortuna storica favoriscono lo sviluppo dello Stato-nazione francese. Poi la formula dello Stato-nazione emerge in modo evidente nella e attraverso la Rivoluzione francese. Fino allora, lo Stato monarchico aveva effettuato la gestazione della nazione attraverso la lenta francesizzazione delle etnie inglobate o conquistate. A partire dalla Rivoluzione, la nazione legittima lo Stato. La nazione è ravvivata dall’idea democratica che nomina il nuovo sovrano: l’insieme dei cittadini della nazione che costituiscono il popolo francese; essa è ipervitalizzata dalla minaccia di invasione e dalla guerra contro i nemici della «grande nazione».

Poco tempo prima, si era costituito in America un modello federale di Stato-nazione a partire dall’emancipazione dei coloni rispetto alla loro madrepatria. Da allora, tanto per il principio francese quanto per quello americano, Stato-nazione costituisce un modello emancipatore potenzial­mente universalizzabile. Ecco perché, dall’inizio del XIX secolo, l’esempio degli Stati Uniti anima le rivolte delle popolazioni bianche e meticce che fanno emergere le nuove nazioni dell’America Latina. In Europa, dove fino alla fine del XVIII secolo la nazione non emergeva che lentamente attraverso un pro­cesso multisecolare operato da uno Stato unificatore, il processo si rovescia bruscamente: in Germania e in Italia, è l’idea di nazione che, stimolata da una predicazione infiammata, animata da un vasto slancio collettivo, induce due regni periferici (il Regno di Prussia e il Regno del Piemonte) a fondare un grande Stato-nazione. Meglio ancora, in Grecia, Serbia, Bulga­ria, Romania, l’idea di nazione anticipa la costituzione di qualunque Stato e procede a tale costituzione animando le lotte emancipatrici di popoli sottomessi all’impero ottomano.

Nel XX secolo, lo smembramento dell’Impero ottomano e quello dell’Impero austro-ungarico fanno accedere allo Stato nazionale popoli o etnie che ne erano stati storicamente esclusi. Poi, dopo la Seconda guerra mondiale, la rivolta nell’ambito dei grandi imperi coloniali si fa in nome dell’emancipazione nazionale e il modello di Stato-nazione si impone nel mondo intero.

Spesso, in Africa, sulla base della suddivisione coloniale, alcuni Stati nascenti impongono una nazione ancora incerta o addirittura fittizia a etnie diverse che non possiedono nemmeno un linguaggio comune. Il caso limite è quello in cui l’idea di una nazione precede non solo la formazio­ne di uno Stato, ma finanche l’occupazione di un territorio, stimolando prima l’una e poi l’altra, come nel caso del sionismo, versione giudaica della concretizzazione di un’identità non più soltanto religiosa o etnica, ma nazionale. La formidabile realtà dello Stato-nazione che, ancora minoritaria due secoli fa, ha poi invaso e dominato il pianeta, resta ancora malconcepita e ancor meno pensata. Gli storici descrivono la formazione degli Stati­nazione, i loro sviluppi, ma, con l’eccezione di Toynbee, non c’è alcuna riflessione sulla loro natura. La sociologia parla di categorie di società (tradizionale, industriale, postindustriale) ma ignora la natura nazionale di queste società. Il marxismo ha minimizzato la realtà della nazione, chiarendo ciò che la divide (i conflitti di classe) e non ciò che la unifica,’ e ha minimizzato la realtà dello Stato, vedendo in esso non altro che uno strumento di coercizione nelle mani della classe dominante. Del resto, i partiti marxisti della Seconda Internazionale si sono infranti sul nazionalismo nel 1914, .e il «marxismo-leninismo» di Stalin si è impregnato di patriottismo negli anni Trenta.

Comunità, società

Una delle difficoltà maggiori per pensare lo Stato-nazione risiede nel suo carattere complesso. In effetti, lo Stato-nazione compiuto è un’entità al tempo stesso territoriale, politica, sociale, culturale, storica, mitica e religiosa. La sua realtà è multidimensionale, fatta dell’assemblaggio intimo di sostanze diverse unificate e articolate in una Unità.

Non mi dilungherò qui sulla realtà politica che si trova cristallizzata nella nozione di Stato sovrano. Lo Stato è un «apparato» che dispone di appendici come l’esercito, la polizia, la giustizia, eventualmente la chiesa. Dirò soltanto che la nozione di Stato non può essere esplicitata soltanto in termini politici e che è necessaria preliminarmente una definizione del concetto di apparato.

Lo Stato-nazione è un’entità sociale o società. E una società territorial­mente organizzata. Una società siffatta è complessa nella sua doppia natura in cui bisogna non solo opporre, ma altresì associare fondamentalmente le nozioni di Gemeinschaft o comunità e di Gesellsehaft o società. La nazione è una società nelle sue relazioni di interesse, di competizioni, rivalità, ambi­zioni, conflitti sociali e politici. Ma è parimenti una comunità identitaria, una comunità di atteggiamenti e una comunità di reazioni di fronte allo straniero e più ancora al nemico. Le guerre europee, dal XVII al XX secolo, hanno intensificato questa comunità per ciascuna nazione contrapposta, talvolta in una lotta mortale, a un nemico sentito in qualche caso addirit­tura come «ereditario». La storia dell’inizio del secolo rileva ad un tempo la formidabile conflittualità interna alle grandi nazioni occidentali, spinta talvolta fino alla guerra civile, e la loro formidabile solidarietà di fronte al nemico esterno. La conflittualità sembra predominante prima del 1914 opponendo i partiti operai, rivoluzionari e internazionalisti ai partiti bor­ghesi, nazionalisti e tradizionalisti. Ma improvvisamente, in ogni nazione, lo scoppio della guerra induce i partiti internazionalisti a compattarsi nella «unione sacra» contro il nemico esterno.



Comunità di destino

La comunità ha un carattere culturale e storico. È culturale sotto il profilo dei valori, i costumi, i riti, le norme, le credenze comuni, storico per le metamorfosi e le prove subite nel corso del tempo. È, nelle parole di Otto Bauer, una comunità di destino.

Le nazioni hanno in genere una lingua comune. Talvolta però il destino storico comune unisce popolazioni di lingue e religioni diverse, come la Svizzera il cui destino comune fu quello di mantenere una rigida e costante neutralità durante le guerre europee.

Questo destino comune viene memorizzato, trasmesso di generazione in generazione dalla famiglia, i canti, le musiche, le danze, le poesie e i libri, poi dalla scuola, che integra il passato nazionale nello spirito dei bambini in cui rivivono le sofferenze, i lutti, le vittorie, le glorie della storia nazionale, i martiri e le prodezze dei suoi eroi. Così l’identificazione con il passato rende presente la comunità di destino.

L’entità mitologica

La comunità di destino è tanto più profonda in quanto è suggellata da una fraternità mitologica. In effetti, lo Stato-nazione è una patria, termine femminile-maschile poiché contiene nel suo femminile il maschile della paternità. La patria è un’entità di sostanza consustanzialmente materna/ paterna. Trasferisce su una scala di popolazioni di milioni di individui, che non hanno alcun vincolo di consanguineità e spesso provengono da etnie

molto diverse, le calde relazioni che esistono fra persone appartenenti al medesimo focolare. Così la nazione, di sostanza femminile, ha in sé le qualità della terra-madre (madre patria), del Focolare (home, heimat) e suscita, nei momenti comunitari, i sentimenti d’amore che si provano naturalmente per la propria madre. Lo Stato, invece, è di sostanza paterna. Dispone dell’au­torità assoluta e incondizionata del padre-patriarca e gli si deve obbedienza assoluta. La relazione matti-patriottica con lo Stato-nazione suscita, di fronte al nemico, il sentimento della fraternità mitica dei «figli della patria».

Il mito nazionale è bipolarizzato. Al primo polo c’è il carattere spirituale della fraternità tra «figli della patria». Al secondo polo, la fraternità mito­logica appare come una fraternità biologica che unisce fra loro esseri dello stesso sangue, il che tende allora a suscitare il secondo mito (biologicamente erroneo) della «razza» comune. Così l’idea di nazione comporta un razzismo virtuale che si attiva allorché il secondo polo prende il sopravvento. Nel corso del XIX secolo, una polemica franco-tedesca ha messo in rilievo queste due polarità. La querelle sull’Alsazia-Lorena ha radicalizzato l’opposizione fra una concezione francese, che faceva della nazione un essere spirituale, un’«anima» comune che presuppone l’adesione dello spirito e dell’anima degli individui, e una concezione tedesca che insisteva su un’appartenenza quasi biologica al popolo etnicamente uno. In questa concezione, l’Alsazia­Lorena era indubitabilmente tedesca per determinazione germanica, mentre nella concezione francese era francese per scelta e volontà.

Se, in Francia, la prima concezione si impose nel partito repubblicano e permise alla terza Repubblica di continuare l’opera storica di francesizzazione attraverso l’integrazione di immigrati, la seconda polarizzazione trionfò nel partito nazionalista.

La religione nazionale

La mitologia matti-patriottica suscita una vera e propria religione dello Stato-nazione, che implica cerimonie di esaltazione (bandiera, monumen­to ai caduti), culto di adorazione alla Madrepatria, culti personalizzati di eroi e martiri. Come ogni religione, si nutre di amore, capace di ispirare fanatismo e odio. Lo Stato-nazione si radica nel tufo materiale della terra che sottende e costituisce il suo territorio e, al tempo stesso, vi trova il suo tufo mitolo­gico, quello della terra-madre, della madre-patria. C’è come una rotazione ininterrotta dal geopolitico al mitologico e, al tempo stesso, dal politico al culturale al religioso. Il mito non è la sovrastruttura della nazione: è ciò che genera solidarietà e comunità; è il cemento necessario a qualunque società e, nella società complessa, è il solo antidoto all’atomizzazione individuale e al dilagare distruttivo dei conflitti. Così, in una rotazione autogeneratrice del tutto attraverso i suoi elementi costitutivi, e dei suoi elementi costitutivi attraverso il tutto, il mito genera ciò che lo genera, ovvero lo Stato-nazione medesimo.

Oggigiorno, l’era in cui lo Stato-nazione rivestiva un ruolo emancipatore rispetto agli Stati coloniali è finita. Inoltre, tutto ci indica oggi che l’era della fecondità del potere assoluto dello Stato-nazione è superata. Prima di tutto, nella stessa cornice interna della nazione, lo Stato tende a diventare troppo oppressivo, astratto e omogeneizzatore a causa del suo stesso sviluppo tecno­burocratico. Ma, soprattutto, tutti i grandi problemi richiedono soluzioni multinazionali, transnazionali, continentali, perfino planetarie e necessitano di sistemi associativi, confederativi e federativi metanazionali.

In ogni caso, se è palese che in un certo numero di Paesi europei il nazionalismo aggressivo/difensivo si è considerevolmente assopito nel corso dei processi di intercomunicazione e scambio che sono seguiti alla Seconda guerra mondiale, deve essere altrettanto chiaro che lo Stato-nazione è ben lungi dall’essere diventato un fossile storico. Prima di tutto, non si può as­solutamente escludere che il rinnovamento delle esasperazioni nazionaliste che succede al crollo dell’ex impero sovietico possa effettuare una ricontaminazione dall’est all’ovest. Ma quand’anche, al contrario, l’est assistesse a una pacificazione dei nazionalismi, la resistenza multipla dello Stato-nazione, tanto nei confronti delle autonomie decentralizzate all’interno del suo ambito, quanto rispetto al sorgere di istituzioni multinazionali, resterà abbastanza forte da frenare e perfino stoppare tutti i processi che tendono a creare un sistema confederativo europeo e alle istanze sovranazionali di carattere continentale o planetario. L’antico internazionalismo aveva sottostimato la formidabile realtà mitologica dello Stato-nazione. Si tratta ormai non solo di riconoscerla, ma anche di non cercare di abolirla. Si tratta di rivitalizzarla, come è stata relativizzata la realtà provinciale che però non è stata abolita nella realtà nazionale. Ma allo scopo bisognerebbe che si amplificassero e si radicassero i sentimenti di solidarietà europei. Bisognerebbe al tempo stesso che i fondamenti mitologico-religiosi della nazione, il loro carattere matri-patriottico, fossero estesi, non solo sulla scala del nostro continente, già contrassegnato dalla civiltà che ha creato e da una comunità di destino via via più evidente, ma anche all’insieme di un pianeta ormai riconosciuto come la sola casa (home, heimat) della specie umana, e minacciata del più gran pericolo dalla specie umana medesima. Al pari della comunità nazio­nale, la comunità planetaria ha il suo nemico, ma la differenza radicale è che il nemico siamo noi stessi e che è difficile riconoscere questo nemico e affrontarlo. Tutto ciò fa sì che ci troviamo giusto al malcerto principio di questa presa di coscienza e delle nuove solidarietà. Questi processi potranno eventualmente sia accelerarsi e amplificarsi, sia al contrario disintegrarsi allorché entreremo in pieno nelle crisi che si annunciano. Ancora una volta, saremo obbligati ad attingere le nostre ragioni per sperare dalle ragioni che ci indurrebbero a disperare.

[testo inedito del 1997, tratto da: Edgar Morin, La mia sinistra. Rigenerare la speranza, a cura di Riccardo Mazzeo, Erickson, Trento 2011]

martedì 7 dicembre 2010

COMUNISMO E LIBERAZIONE NAZIONALE



Popolo e nazione

Una delle contraddizioni apparentemente più inspiegabili di questi anni è la coincidenza tra crisi delle grandi visioni del mondo globali e ideologiche, con le relative appartenenze politico-culturali, e il manifestarsi di ondate nazionaliste che ripropongono una forte appartenenza etnico-culturale e una riproposizione delle "radici" di individui e collettività territorialmente fondate.
Di fronte a questa contraddizione che assume caratteri così inediti la sinistra ha certamente necessità di una rifondazione che riguardi anche l’analisi del problema nazionale ed etnico-culturale.
Non sono del tutto persuaso che a questo proposito il vero limite della cultura marxista sia quello di essersi limitata a un approccio di classe ed economicista. I diversi movimenti che si sono ispirati al socialismo e al comunismo hanno avuto impostazioni complesse e differenziate sul tema nazionalitario, ed è troppo facile ridurre il marxismo alla sua vulgata superficiale o propagandistica.
Il comunismo prima di Marx rifiutava il concetto di nazione (vedi Fourier) perché lo identificava con gli Stati borghesi allora esistenti, divisi e belligeranti. Veniva contrapposto un universalismo dei popoli che si opponeva ai patriottismi. In seguito, con Marx ed Engels viene sottoposta a critica la "triviale retorica" della fratellanza universale dei popoli, e si sceglie una analisi che storicizza il rapporto tra i popoli e tra popolo e nazione, legandolo al contesto dei rapporti sociali. Nello stesso tempo i fondatori del socialismo scientifico erano convinti che gli antagonismi nazionali dei popoli fossero un fenomeno arcaico, destinato a scomparire con lo sviluppo della borghesia, e ancor di più con il dominio del proletariato.

Operai senza patria

Il comunismo marxista ha quindi accolto plurali interpretazioni del concetto di nazione. Innanzitutto vi è la convinzione che gli operai non hanno patria. Le lotte nazionali (contro la borghesia nazionale del proprio paese) sono per il "Manifesto del partito comunista" decisive per sconfiggere l’avversario di classe, ma in un contesto "internazionalista".
Nell’Ottocento di Marx le nazioni tendono a coincidere con confini decisi dai ceti dominanti e "forti" dei paesi capitalistici, e lo scenario che si propone allo sguardo è quello di guerre nazionali con evidenti motivazioni economiche1.
Per il marxismo classico, dunque, le nazioni coincidono con le frontiere statali (distinguendo, poi, tra nazioni storiche e non), e l’attenzione è rivolta solo marginalmente all’appartenenza etnico-culturale dei popoli. Inoltre, Marx aveva grande ammirazione per il delinearsi di un pianeta in comunicazione complessiva, affascinato da un mondo che poteva entrare in collegamento da un continente all’altro: di qui l’enfatizzazione, "storicamente determinata", dell’internazionalismo, più che del nazionalismo2. Ma, non va dimenticato, alla parola internazionalismo veniva aggiunto, nella vulgata leninista, il termine "proletario", ad indicare non un privilegio del contatto/incontro tra Stati, ma tra classi subalterne dei vari paesi. Un afflato unificante che aveva un esplicito contenuto di "modernizzazione", contro vecchi e sanguinosi colonialismi, contro le politiche imperiali del capitalismo, contro le frontiere artificiosamente costruite dalle borghesie nazionali.
È quasi banale ricordare come oggi la situazione assuma contorni profondamente nuovi. Lo Stato-nazione è in declino, si propone con forza l’interdipendenza o l’ipotesi di un governo mondiale. Ma, al contrario di quanto auspicava il marxismo e il comunismo, questo declino degli Stati-nazione e questo collegamento universale tra paesi avviene tutto in un contesto di omogeneizzazione e di tendenziale cancellazione delle differenze e delle diversità, sotto il dominio del più forte (i paesi maggiormente industrializzati e dotati di un potente e sofisticato armamento bellico).

Per un territorio autogovernato

I movimenti di liberazione nazionale diventano oggi una forma decisiva del conflitto contemporaneo proprio perché mettono in discussione non sono il dominio sul e nel proprio territorio, ma anche i confini nazionali prodotti da guerre e rapporti di forza nel corso della storia. Viene recuperato un pezzo dell’identità collettiva (l’appartenenza etnico-culturale) e ciò in contraddizione con le frontiere nazionale/statali date.
Indubbiamente vi è qualcosa di ambiguo e di pericoloso in una enfatizzazione del nazionalismo, anche in chiave di liberazione. I movimenti nazionalitari possono essere la premessa (e in passato è spesso stato così) per ulteriori ostilità anche armate tra gruppi vicini in contrapposizione atavica, oggi comode pedine per gli stravolgimenti degli equilibri mondiali scossi dal crollo del blocco sovietico.
Esiste un approccio reazionario e regressivo al nazionalismo, ed esiste un approccio dinamico e fecondo (la rivendicazione di un territorio autoregolato, autogovernato, autocentrato). Il rispetto e la valorizzazione delle differenze culturali, talora legate alle questioni etniche, può scivolare facilmente in una moderna forma di razzismo, che frammenta e disgrega ulteriormente, che risveglia attriti facilmente strumentali a giochi di potere e di classe. L’ombra di un neo-fascismo e di un neo-nazismo (magari sotto altre spoglie e colori) che muova da una radicalizzazione delle contrapposizioni etnico-nazionaliste non è affatto improbabile o fantastica.
Eppure, in una prospettiva comunista, sarebbe assolutamente inadeguato un giudizio liquidatorio od unilaterale sui fenomeni nazionalitari di questi anni. Né si può evitare di distinguere tra Stato-nazione e nazione come aggregato etnico-politico-culturale. L’Intifada palestinese, come ha scritto il noto cronista di "Time" Lance Morrow, dal 1987 non è riuscita a conquistarsi uno Stato, ma sta costruendo una nazione: un significativo esempio della portata di lotte e movimenti su base etnico-culturale.

L’incontenibile ricchezza delle diversità


Le potenzialità positive di un rinnovato espandersi di movimenti di liberazione nazionale sta anche nella controtendenza rispetto alla dissoluzione delle regole del diritto internazionale e alla crisi delle Nazioni Unite. Da tempo si pone il problema di rifondare il diritto internazionale e la stessa ONU, e tanto più è urgente oggi dopo che il tracollo economico-militare, e poi lo scioglimento dell’Unione Sovietica ha fatto saltare unilateralmente Yalta con la motivazione, imperdonabilmente ingenua, di favorire una nuova prospettiva di pacifici ed equilibrati rapporti internazionali. In realtà al mondo di Yalta si è sostituito un mondo in cui l’occidente a guida statunitense ripropone la sua tradizionale politica di potenza sotto le spoglie di un governo mondiale, sulla pelle di popoli e culture, adducendo in molti casi il pretesto del destino del pianeta (destino energetico, economico, politico: così è stato con la guerra del Golfo). Un governo mondiale già operante, che marginalizza completamente le opposizioni nazionali e sostituisce all’idea (pur discutibile e limitata) di un "parlamento mondiale" la pratica di un esecutivo planetario degli esecutivi nazionali. È dunque di piena attualità ridiscutere di autodeterminazione dei popoli, di movimenti di liberazione nazionale, di internazionalismo.
Una rifondata critica comunista può valorizzare anche in quest’ambito il meglio del proprio patrimonio e saper mutare rigidità e vecchi schemi assumendo temi e fondamenti di altre culture e altri movimenti. Mentre una sinistra omologata e perdente propone di contrapporre alle disintegrazioni nazionaliste l’integrazione in organismi sovranazionali come la Nato, una sinistra capace di superare le compatibilità esistenti e la subalternità al dato deve stimolare e accogliere le controtendenze che promuovono la ricchezza delle diversità, incontenibili e irriducibili, in un quadro di rapporti pacifici e non violenti tra popoli ed etnie.


Fabio giovannini

1 Vedi su questi aspetti il saggio di Luigi Cortesi, Il socialismo e la guerra, in Aa.Vv., Guerre e pace nel mondo contemporaneo, Istituto Universitario Orientale, Napoli, 1985.
2 Vedi Renato Monteleone, Marxismo, internazionalismo e questione nazionale, Loescher, Torino, 1982.

mercoledì 20 ottobre 2010

Conferenza teorica “Dalla crisi del marxismo  

al marxismo della crisi”

 
Conferenza sul tema “Dalla crisi del marxismo al marxismo della crisi”

Relatore: Piero Pagliani

Venerdì 22 ottobre 2010, ore 18.00

Nella sede sindacale Failea-Falcev di via di Pietralata, 394
(fermata Pietralata metro B)

Ai partecipanti sarà consegnata una dispensa

Organizza la rivista “Comunismo e Comunità”

Locandina: http://www.comunismoecomunita.org/wp-content/uploads/2010/10/locandina.pdf

giovedì 30 settembre 2010

Dalla crisi del marxismo a un marxismo della crisi?

 
petrolio 

di Piero Pagliani

Il progetto imperiale statunitense è in visibile riflusso. L’elezione di Barack Obama ne è il sintomo più vistoso. Ormai solo gli ottusi senza speranza non riescono a capire che quella attuale è una crisi capitalistica sistemica che, quindi, non lascerà gli assetti geopolitici come li ha trovati. Ciò che è in crisi non è la finanziarizzazione minata dai titoli tossici, non è l’economia reale lasciata senza ossigeno creditizio e tradita da finanzieri e manager attratti dalle chimere della speculazione finanziaria: ciò che è in crisi è il ciclo capitalistico di accumulazione globalmente egemonizzato e coordinato dagli Stati Uniti, ciclo iniziato alla fine della II Guerra Mondiale, l’evento che risolse la grande crisi del ’29 e consentì di riempire il vuoto egemonico mondiale lasciato dal declino dell’impero britannico. Il resto sono conseguenze, sintomi, fenomeni ed epifenomeni collegati.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=341