martedì 15 febbraio 2011

Berlusconismo: "nuova strategia della tensione"



Emanuele Maggio

Berlusconismo. Cos’è? In sintesi: è la principale connotazione politico-culturale che la Repubblica Italiana ha assunto negli ultimi 17 anni, ovvero è la specifica conformazione politica di quella che è stata chiamata “Seconda Repubblica”.

Vorrei però tentare di offrire un’analisi più dettagliata. Innanzitutto, oserei affermare che il berlusconismo è una forma di “fascismo”. Ora, qui dobbiamo essere molto cauti. L’intellighenzia liberale e di sinistra da tempo dibatte il problema. Le posizioni sono soprattutto due: c’è chi crede che il berlusconismo sia un vero e proprio “regime” fascista, basato sulla costruzione propagandistica del consenso, sul rapporto diretto capo-massa e su alleanze parlamentari razziste e nostalgiche del duce, un regime fortunatamente limitato dalle garanzie costituzionali ma costantemente minaccioso verso di esse (questa è l’opinione dominante); c’è poi invece chi ridimensiona drasticamente il fenomeno, distinguendo chiaramente il presunto “regime” berlusconiano dal regime fascista che l’Italia ha conosciuto nel ventennio, escludendo categoricamente qualsiasi pericolo di “svolta autoritaria” e negando l’esistenza stessa del berlusconismo, relegandolo magari a semplice fenomeno di degrado culturale, demagogico e populistico.

Io vorrei qui assumere una posizione intermedia. Credo fermamente che il berlusconismo sia una forma di fascismo, ma non nel senso dell’opinione pseudosinistroide dominante. Anzi, credo che quell’opinione vada ribaltata, o quantomeno bilanciata, e il sinistroide che leggerà quanto scrivo probabilmente storcerà il naso.

Prima di tutto, chiariamo un poco il termine “fascismo”. Esso, come si sa, non gode di una definizione esaustiva e precisa. Esistono i fascismi, storicamente determinati, ma non “il fascismo”. Il regime mussoliniano fu diverso da quello hitleriano, ed entrambi, comunque molto simili, furono diversi da quello franchista o da quello peronista. In ogni caso, alcuni elementi ricorrono con costanza: il culto del capo, la costruzione del consenso, la repressione del dissenso, la militarizzazione della società. Il fascismo italiano si è caratterizzato per l’aggiunta di altri elementi specifici: il “rivoluzionarismo verbale” unito al “conservatorismo sostanziale” (è l’interpretazione classica), una certa vocazione totalitaria (ovvero l’ideale di un’uniformazione ideologico-culturale della società), la funzione anticomunista, una politica economica di stampo “sociale”. Il regime hitleriano ha aggiunto a tutti questi elementi soprattutto il razzismo, il nazionalismo e un certo ritualismo di massa. Dal quadro sopra descritto capiamo bene che il berlusconismo, qualora lo considerassimo una forma di fascismo, andrebbe necessariamente declinato come fascismo “moderno”, precisamente differenziato.

Innanzitutto, esso si innesta su un’altra forma di “fascismo” (così definito da Pasolini), quest’ultima di vecchia data. Ovvero l’omologazione consumistica presente nelle società industriali avanzate, che impone come modelli dominanti il successo e la ricchezza. Sono i francofortesi a farci notare che, senza bisogno di golpe militari, il capitalismo ha imposto un “totalitarismo perfetto” che si distingue dal “totalitarismo imperfetto” dei regimi autoritari, che mai sono riusciti a raggiungere quel grado di omologazione culturale che le liberaldemocrazie capitalistiche hanno raggiunto senza problemi. Questa forma di “fascismo”, naturalmente, prescinde da Silvio Berlusconi e cronologicamente lo precede. Ci stiamo avvicinando alla definizione di “berlusconismo”, ma ancora non l’abbiamo delimitata nel suo significato precipuo.

Il berlusconismo si innesta anche su di un altro sistema politico oggi dominante: la poliarchia mediatica bipolare. Il termine “poliarchia” è stato introdotto da Robert Dahl per dare il giusto nome a quella che gli occidentali si ostinano a chiamare “democrazia”. La poliarchia, come già si auspicava nel 1975 l’americano Samuel Huntington, è il governo di molti, non di tutti. Il popolo deve autodeterminarsi, senza dubbio, ma esso può solo decidere tra una gamma di opzioni selezionate dall’alto. Non è che può decidere liberamente su qualsiasi cosa! (sul sistema economico, per esempio). Attualmente, in tutto l’Occidente, la poliarchia viene garantita dalla partitocrazia mediatica, ovvero dal privilegio mediatico di determinate forze politiche (di solito riunite in due grandi “poli”, centrodestra e centrosinistra, “non uguali ma simili”, come ebbe a dire una volta, in un raro sprazzo di sincerità, Fausto Bertinotti), che egemonizzano il dibattito pubblico e dettano l’agenda delle priorità politiche (vedere il fenomeno dell’agenda setting). In Italia disponiamo addirittura di una prova documentale di questo progetto: il Piano di Rinascita Democratica della Loggia P2 che, semplicemente in conformità con i dettami atlantici, auspicava la formazione di due forze centripete tese ad escludere le “frange estreme”. Quali sono le caratteristiche della poliarchia mediatica bipolare? Queste le principali: spettacolarizzazione della politica, leaderismo plebiscitario, costruzione competitiva del consenso (cioè i competitori elettorali – i partiti – pubblicizzano i propri prodotti simbolici – programmi “politici” – che verranno poi “liberamente” scelti dai consumatori – elettori -), comunicazione emotiva nell’arena politica (che si sostituisce all’argomentazione razionale). Curiosamente, la stragrande maggioranza dell’intellighenzia di sinistra, amplificata da una consistente propaganda, ritiene soprattutto imputabili a Berlusconi tutti questi fattori. In realtà, a Berlusconi non siamo ancora arrivati. Il berlusconismo, per quanto ci stiamo avvicinando sempre di più, non lo abbiamo ancora definito. Il sistema sopra descritto vige attualmente in tutto il mondo occidentale e occidentalizzato, con o senza Silvio Berlusconi.

Arriviamo adesso al caso dell’Italia. Agli albori della Seconda Repubblica, un insistente bombardamento mediatico ha convinto gli italiani che essi avevano bisogno di un sistema elettorale che comportasse il bipolarismo. Un referendum popolare ha ufficialmente legittimato questa tesi. Pian piano, nel corso di questi anni, il bipolarismo è diventato una specie di istituzione ufficiosa, una realtà da cui ormai non si può più prescindere (non lo consentono i sistemi elettorali). L’ago della bilancia di questo meccanismo è l’uomo nuovo della politica italiana: l’imprenditore Silvio Berlusconi. Ecco che comincia a delinearsi una prima definizione di “berlusconismo”: il berlusconismo è la “via italiana” alla poliarchia mediatica bipolare. In che senso?

E’ molto semplice. Il centrosinistra ha sbandierato e continua a sbandierare programmaticamente, tramite i suoi canali mediatici privilegiati, il “pericolo Berlusconi” e la retorica del “voto utile”; in questo modo attrae da ben 17 anni verso un polo antiberlusconiano l’elettorato socialdemocratico e perfino parte dell’elettorato anticapitalista, potendo anche permettersi di operare una graduale svolta centrista e padronale in cui intrappolare tale elettorato, ormai costantemente “deluso” dai suoi dirigenti, ma rassegnato pur di non veder concretizzarsi il fantomatico “pericolo Berlusconi”. In questo modo, semplice ma geniale, la sinistra è stata finalmente esclusa dal Parlamento. Dobbiamo postulare necessariamente un disegno consapevole orientato a tale obiettivo, un disegno che coinvolge in ugual modo il centrodestra e il centrosinistra. Crediamo davvero che gli esponenti di punta del centrosinistra siano stati “ingenui” (nelle alleanze elettorali, nelle pallide competizioni propagandistiche, nella mancata legge sul conflitto di interessi ecc..) e non abbiano invece volutamente favorito in numerosi casi l’alternanza di governo con il centrodestra, in modo da perpetuare il più a lungo possibile il “pericolo Berlusconi”?

E poi che cos’è questo “pericolo Berlusconi”? Essenzialmente, è una sorta di eventualità senza nome, indefinibile, che riguarda presumibilmente l’equilibrio delle istituzioni democratiche, la salvaguardia della costituzione e il bilanciamento dei poteri dello Stato, tutte cose che Berlusconi metterebbe seriamente a rischio. Come è stato possibile inculcare in gran parte della popolazione un simile allarmismo, peraltro privo di fondamenti? Ciò avviene ininterrottamente da 17 anni, in due atti: vi è una fonte primaria consapevole (l’agenda dei media dominanti) e una moltiplicazione secondaria inconsapevole (media secondari – stampa, radio, web.. – blogger, comici, opinionisti, intellettuali di grido ecc..). La mobilitazione degli ultimi tempi, coadiuvata da presenze illustri (Umberto Eco, Paolo Flores d’Arcais e affini) fa davvero pensare. Nessuno sembra accorgersi del fatto che il “pericolo Berlusconi” è rimasto allo stato di “pericolo” per 17 anni. Mussolini era un pericolo nel 1922, ma 17 anni dopo stava già per completare la sua parabola. Invece Berlusconi no. Egli si trova nello stato di pericolo permanente. Ha più di 70 anni, tra poco muore, ma è sempre un pericolo per le istituzioni repubblicane. Il pericolo, ovviamente, non si concretizza mai. Ma è sempre dietro l’angolo, a livello di possibilità e prospettiva. E’ un po’ come il terrorismo islamico: non lo vedi perchè è dappertutto. Non lo vedi ma c’è, fidati che c’è, e da un momento all’altro può farsi sentire.

Occorre a questo punto tranquillizzare il lettore più sprovveduto. Le svolte autoritarie, i fascismi vecchia maniera, non sono possibili nell’attuale congiuntura internazionale, almeno in Occidente. I fascismi sono stati storicamente utili alle élites transnazionali solo quando si sono presentate minacce comuniste organizzate, minacce che oggi non si vedono, nemmeno all’orizzonte. L’Occidente ha bisogno della poliarchia (“la democrazia”, scrive Canfora, “è rimandata ad altre epoche”…), ovvero di una democratica competizione tra élites imprenditoriali, che si contendono l’egemonia del “mercato elettorale”. I dittatori sono pericolosi, possono essere scheggie impazzite, ad esempio possono operare svolte protezionistiche non autorizzate, danneggiando i mercati comuni, o possono nazionalizzare importanti risorse, eccetera eccetera. E’ in questo senso che vanno lette l’esportazione occidentale della “democrazia” (cioè della poliarchia) e le varie “rivoluzioni colorate” aizzate dagli Stati Uniti contro dittatori poco “collaborativi” (di cui l’italiano “popolo viola” non è che un’inconsapevole, grottesca appendice).

Questo inquietante, sotteso progetto allarmistico possiamo riassumerlo in un sol modo: il berlusconismo (in cui è compreso l’antiberlusconismo) è una “nuova strategia della tensione” finalizzata a marginalizzare la sinistra italiana. La si marginalizza inglobandone la forza elettorale nel moderatismo, in (ir)realtà politiche fluttuanti e amorfe, fortemente colluse con ambienti confindustriali, bancari e filoamericani, e tutto ciò sempre in nome dell’antiberlusconismo. Per fare solo un piccolo esempio, basti ricordare un sondaggio del 2009 del Ministero degli Interni: il 50% della popolazione italiana è contraria alle missioni militari in Afghanistan e in Iraq. Dunque, dov’è rappresentato questo 50% in Parlamento? Non parliamo di un 5%, che può anche succedere non venga rappresentato (dipende dal sistema elettorale). Parliamo del 50%! Ebbene, in Parlamento il voto per i finanziamenti alla guerra è unanime. Quel 50% di italiani è magicamente scomparso, nonostante essi abbiano eletto circa il 50% del Parlamento (il centrosinistra che qui incriminiamo, appunto). La poliarchia è infatti questo: ci sono questioni, dicono lorsignori (ratifica del Trattato di Lisbona, introduzione del precariato, guerre ecc…), che dobbiamo decidere tra di noi, e su cui nemmeno il 50% di voi ha diritto di parola. Voi potete esprimere le vostre preferenze su faccende più superficiali, non certo su questioni “sistemiche”. E per garantire questo Silvio Berlusconi è stato fondamentale, come “ago della bilancia”, perno centrale su cui ha ruotato tutto il meccanismo, “specchietto per le allodole”.

Ora che il quadro generale è completo, non resta che spiegare in che senso il berlusconismo (“la via italiana alla poliarchia”, “la nuova strategia della tensione”) è una forma di fascismo. Esso è una forma tutta nuova di fascismo, che definirei fascismo bipolare (da leggersi sempre all’interno dell’omologazione consumistica e della poliarchia mediatica bipolare). Ovvero: il polo berlusconiano ha davvero tentato di riproporre forme di ducismo all’antica, e Berlusconi stesso, tramite la costruzione del consenso, ha probabilmente davvero coltivato velleità autoritarie; i suoi seguaci lo hanno subito ipostatizzato come “colui che risolve i problemi”, il salvatore della patria. Viceversa, il polo antiberlusconiano ha costruito il proprio potere dipingendo Berlusconi come “pericolo pubblico n.1”. Si è assistito cioè, da parte antiberlusconiana, ad una vera e propria costruzione del dissenso, un fascismo al contrario, una sorta di culto negativo del capo. Riassumendo: un’intera classe dirigente ha giustificato per un ventennio il proprio potere e i propri privilegi intorno alla figura di Silvio Berlusconi, chi idolatrandolo, chi demonizzandolo. Questo è un fenomeno, che io sappia, senza precedenti, e la storia lo ricorderà come “berlusconismo”, variante comica del fascismo. Sembra riecheggiare quella vecchia battuta del buon Karl Marx: “i grandi avvenimenti si ripetono due volte nella storia, la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”. Prima il ventennio fascista, poi il ventennio berlusconista, l’alternanza di governi berlusconiani e antiberlusconiani, entrambi berlusconisti.

Ora, quale dei due poli, dei due fascismi, è il più pericoloso? Il 30% “che ama”, i seguaci di Silvio Berlusconi, o il 70% di “persone per bene” (come le ha chiamate Bersani), che ci tengono a precisare che sono antropologicamente diverse e moralmente superiori rispetto a Silvio Berlusconi?

L’istinto mi suggerisce di diffidare soprattutto del conformismo più diffuso…

lunedì 14 febbraio 2011

L’ ANOMALIA NELL’ ANOMALIA ITALIANA


 
DI EUGENIO ORSO

Si discute da molto tempo sulla cosiddetta anomalia italiana, si dice che l’Italia è un paese “anomalo” prendendo come termine di paragone i paesi dell’Europa occidentale, oppure tutti i paesi che si definisco capitalisticamente sviluppati.

Questa anomalia investirebbe ogni aspetto, dalla vita politica all’economia, dall’etica alla socialità, dall’atteggiamento dei singoli verso la collettività ai rapporti di lavoro, e costituirebbe più un motivo di imbarazzo che di vanto, com’è ovvio.

Di recente, la rivista online Overleft ha pubblicato un lungo editoriale dedicato proprio a questo fenomeno, dal titolo “Esiste l’anomalia italiana?”



Si tratta dell’ennesimo dibattito sul tema, in cui il direttore della rivista, Franco Romanò, apre la discussione ricordandoci che non si tratta di questione recente ed inedita, ma che il problema dell’anomalia italiana è cosa vecchia, ed è stata posto fin dai tempi di Gobetti e di Gramsci, agli inizi del Novecento, per citare soltanto due fra le molte personalità che se ne sono occupate, in anni diversi e da diverse angolazioni. L’ennesimo dibattito sulla spinosa e storica questione, del quale non ci si può occupare dettagliatamente in questa sede, non è che l’ultimo della serie, ma può offrire lo spunto per discutere di alcuni recenti [ed inquietanti] aspetti che ha assunto l’”anomalia italiana”, partendo dall’individuazione di un’”anomalia nell’anomalia” che oggi è pienamente osservabile e che si lega alla situazione politica nazionale.

Prescindendo dalla vergogna di essere italiani, moderatamente diffusa nel paese, e dalla relativa indifferenza nei confronti dei simboli nazionali ad esclusione dalla nazionale di calcio, l'Italia è il paese dell'Europa occidentale nella posizione di massima sudditanza nei confronti della UE, della BCE, del FMI e della classe globale, nonché quello più degradato, che mostra agli altri paesi europei occidentali l'immagine desolante del loro futuro.

Se la Fiom oggi si muove in scandalosa solitudine nella difesa di diritti elementari, minimi, già di per sé insufficienti e pur tuttavia messi in discussione giorno dopo giorno – come si afferma giustamente nel dibattito pubblicato in rete da Overleft –, ciò dipende dallo stato in cui è ridotta la popolazione italiana, dopo un trentennio di corruzione diffusa, di scandali, di svendite ai globalisti delle grandi attività produttive nazionali, di flessibilizzazione/ precarizzazione del lavoro [e di tutta l’esperienza esistenziale dei singoli] e di azione socialmente e culturalmente idiotizzante, da parte di quella "industria della menzogna televisiva" che non è esclusivamente berlusconiana.

Per quanto riguarda la domanda sull’esistenza della presunta anomalia italiana, che costituisce il titolo del documento pubblicato dalla rivista online di Romanò, se con questa espressione – Anomalia Italiana – non si intende suscitare un articolato dibattito storico che parte dall’risorgimento o dall’Unità d’Italia, oppure dagli inizi dello scorso secolo, ma si intende la particolare condizione di diminuzione della sovranità nazionale e di sudditanza verso l’esterno che stiamo vivendo oggi, combinata con il degrado umano e culturale del paese, la risposta non può essere che positiva.

Gli elementi principali della cosiddetta anomalia italiana sono quindi due, e presentano grossomodo lo stesso peso specifico, considerando però che il primo ha favorito la diffusione del secondo e lo stesso degrado della politica nazionale:


1) La perdita di sovranità politica e monetaria dello stato italiano e la conseguente mancanza di autonomia dei governi, soggetti alla dittatura UE/ BCE/ FMI, e quindi ai voleri dei dominanti globalisti occidentali, e la conseguente imposizione dei vincoli derivanti dall’adozione dell’euro, che non ha incontrato grandi resistenze. In Italia l’asservimento ai “poteri esterni” e l’accettazione conseguente di una sovranità limitata, soggetta a questi poteri ed alle dinamiche del Libero Mercato Globale, rappresentano da tempo altrettante evidenze, con un atteggiamento di sudditanza verso l’esterno che investe tutto lo spettro politico sistemico nazionale – da Berlusconi a Bersani e D’Alema – rivelandoci una sostanziale unità, in termini di politiche e di obbiettivi, dell’unico Partito della Riproduzione Capitalistica. In altri termini, ci si può scannare sulla legittimità del “bunga-bunga”o sull’opportunità delle orge in Arcore, con tanto di prostitute e ruffiani, ma non sull’intangibile Società di Mercato che non conosce confini – e non riconosce le autonomie statuali – e sul diritto degli Investitori e dei loro rappresentanti [vedi ad esempio Marchionne] di imporre condizioni capestro per continuare le produzioni in loco.

2) La flessibilizzazione e l’idiotizzazione di ampie fasce della popolazione della penisola, frutto di un processo iniziato da circa un trentennio e non ancora concluso, che ha visto l’estensione nella società del lavoro flessibile e precario ed il recente attacco al lavoro dipendente “regolare”, la diffusione incontrollata ma voluta di spazzatura mediatica, l’imposizione di “stili di vita” assurdi e debilitanti, la disinformazione sistematica, l’applicazione dei media della tecnica di distrazione di Noam Chomsky per nascondere i gravi problemi politici e sociali, e via elencando.


Quanto precede spiegherebbe bene, fra l’altro, il degrado della vita politica a tutti i livelli e la crescente acquiescenza di un’opinione pubblica che sembra anestetizzata ed insensibile davanti a questo fenomeno in continua espansione.

Una prova dell’”anomalia italiana” ci è offerta dal fatto che il consenso a Berlusconi, e alla Lega che lo puntella a qualsiasi costo etico e sociale, non diminuisce significativamente, nonostante tutto quello che è accaduto e che sta ancora accadendo in questi giorni.

Sembra che non ci siano chiare spiegazioni per il fatto che nessuno, in questo paese, reagisce con la dovuta forza davanti ad un’azione di governo che supporta la distruzione dei posti di lavoro e dei diritti dei lavoratori, davanti alle evidenti collusioni fra politica sistemica ed economia informalmente e formalmente [ossia penalmente] criminale, dinanzi all’evidenza di un individuo, che purtroppo ricopre la carica di presidente del consiglio, il quale si trastulla nelle continue orge “private”, circondato dal malaffare dei ruffiani [in qualche caso, ruffiani-giornalisti], impone le sue prostitute nei consigli regionali o le premia con incarichi ministeriali, scaricandone il mantenimento sulla spesa pubblica, non rispetta le più elementari regole etiche di condotta ed utilizza a scopi personali i poteri del governo, da lui presieduto, per emanare leggi ad personam.

Se non esistesse quella Procura di Milano che oggi lo indaga per concussione e prostituzione minorile, e Ilda Bocassini vivesse all’estero, ad esempio in Australia, a migliaia di chilometri da qui, ciò che fatto Berlusconi per il suo sollazzo e il suo potere personale [in ciò, puntellato caparbiamente dalla Lega], e ciò che non ha fatto per un paese che sprofonda, non scomparirebbero di certo, ma resterebbero come prove evidenti della sostanza del suo miserabile “regime”.

Per quanto molti giornalisti ed intellettuali di sistema non riescono a spiegare questa “anomalia nell’anomalia”, o non vogliono farlo, è chiaro che non si tratta di un fenomeno intelleggibile, ma bensì di un fenomeno assolutamente spiegabile, pur con le dovute cautele e almeno per quanto riguarda lo scrivente.

Nel tentativo di spiegare questa ”anomalia nell’anomalia”, si può utilizzare una metafora astronomica per farsi meglio comprendere.

Nel sistema solare esterno i pianeti non sono rocciosi come la terra, ma veri e propri giganti gassosi, secondo un'espressione diffusa che nasce dalla letteratura di anticipazione scientifica e non dalla scienza vera e propria.

Come tali, sono costituiti da un nucleo, che è essenziale per la loro formazione e quindi per la loro stessa esistenza, e da strati formati da gas, o da gas compressi allo stato liquido, che costituiscono la maggior parte della loro massa.

La materia di cui sono fatti questi pianeti diventa più densa procedendo verso la parte interna, ma essendo i cosiddetti giganti gassosi ricchi di elementi leggeri, come l’idrogeno e l’elio, sono le basse temperature e la minore intensità del vento solare a trattenere questi elementi, impedendogli di disperdersi nello spazio.

Così, il cosiddetto zoccolo duro del consenso berlusconiano ed anche di quello leghista – corrispondente al nucleo roccioso dei giganti gassosi intorno al quale gli stessi si sono formati – è costituito dalla vasta area dell’evasione fiscale e contributiva, e perciò tale consenso si sostanzia, fin dalle origini, nello scambio fondato sull’illegalità “evasione ampiamente tollerata [e dunque protetta] in cambio del voto”, con il voto degli evasori del nord conteso fra il cartello berlusconiano [prima FI, dopo PDL e domani chissà] e la Lega bossiana.

E’ ovvio che la grande massa di voti ricevuti da Berlusconi e dalla Lega non è esaurita dai voti degli evasori, appartenenti a ben noti gruppi sociali relativamente numerosi ma pur sempre minoritari nella società italiana.

Quella che ipocritamente è definita la “piccola” evasione fiscale rappresenta un cancro, anche se non l’unico, per l’Italia, poiché mettendo insieme le “piccole” cifre, sommandole a quelle espresse dalla grande evasione, si ottengono almeno 150 miliardi di euro l’anno, se non 200 miliardi ed oltre, con un trend storico che mostra la continua crescita degli ultimi anni, pur nella persistenza di un PIL stagnante e del declino produttivo.

Ebbene, sono proprio gli appartenenti a questi gruppi – commercio, piccola e media industria, un certo artigianato e parte dei professionisti – che insieme ai patrimonializzati, ai piccoli redditieri ed ereditieri, agli speculatori di piccolo e medio calibro costituiscono la base elettorale più fedele e più consapevole per Berlusconi e per la Lega , in quanto sono mossi esclusivamente dalla volontà di difendere a qualsiasi costo le proprie fortune personali e i propri privilegi, a scapito della maggioranza della società italiana che è soggetta ad una fiscalità spietata.

Come precisato, questi gruppi sociali possono offrire un consenso stabile al berlusconismo e al leghismo in diretta relazione con la necessità di difendere i loro interessi particolari, in conflitto con quelli della restante parte del paese – che deve subire un’elevata fiscalità senza alcun beneficio anche a causa dell’evasione fiscale concessa a queste minoranze – e senza che in ciò vi sia in loro alcuna traccia di idealità, nonostante i roboanti proclami propagandistici di Berlusconi, che ancor oggi osa ergesi ridicolmente a difensore “delle libertà” contro il comunismo, oppure la presunta difesa dei diritti dei “popoli del nord” contro i soprusi dello stato centralista millantata da Bossi.

Per giustificare l’ingiustificabile, se facciamo un rapido tour in rete sapendo in partenza, però, dove andare a parare, in certi siti [mascherati da studi politico-strategici] possiamo leggere autentiche bestialità, in difesa di questo avvilente stato di cose.

Ci sono soggetti in evidente malafade che spacciano i predetti gruppi per le autentiche e salvifiche “forze produttive nazionali” – ben sapendo, ad esempio, che la PMI è soltanto il risultato della frammentazione del tessuto produttivo in una miriade di piccole unità, deboli e non di rado inefficienti, alimentata dalla scomparsa della grande industria e dell’intervento pubblico – ed osano tacciare apertamente la maggioranza della popolazione italiana, costretta a sopportare buona parte del peso economico, sociale e fiscale del declino in atto, di parassitismo, poiché legata per i tre quarti alla “spesa pubblica” e non piegata alle logiche del Mercato!

Tralasciando questa penosa e miserabile pubblicistica in rete, che fa eco a Libero, al Giornale e alla Padania ed è volta a nascondere la vera sostanza del consenso berlusconiano-leghista, ciò che conta è rilevare che da sole, le minoranze di evasori, di patrimonializzati, di redditieri e di piccoli speculatori [supposti “ceti produttivi”, in particolare del nord della penisola], non possono offrire a Berlusconi e alla Lega che la parte più stabile del voto, insufficiente, però, a garantire un ampio e decisivo successo elettorale, simile a quello del 2008.

Il resto del consenso è espresso da ben altri gruppi, che è bene cercare di individuare per sommi capi ma con una certa precisione.

Come nel caso dei pianeti gassosi, che devono una parte rilevante della massa ad elementi leggeri, così Berlusconi e i leghisti devono una parte significativa dei voti che incamerano a gruppi “esterni” al loro nucleo, o “zoccolo duro”, elettorale, orientato da ben precisi interessi economici.

Per quanto riguarda Berlusconi, il voto degli idiotizzati, dei soggetti culturalmente deboli e degli incolti riveste fin dagli esordi una grande importanza, a tal punto che si può affermare che il successo di Silvio Berlusconi, quale ologramma mediatico dietro il quale si nascondono precisi interessi, è in parte significativa basato sull’ignoranza, sulla manipolazione e sull’arretramento culturale.

Per questi individui, il consenso espresso si fonda su convinzioni fallaci, indotte attraverso la manipolazione ed approfittando della loro situazione di debolezza culturale, e quindi non si sostanzia in precisi interessi economici, che anzi, dovrebbe indurli a negare il voto a Berlusconi [ed ovviamente anche alla Lega].

Non a caso l’industria mediatica berlusconiana ha contribuito a produrre queste “soggettività deboli” e manipolate, essenziali per integrare con il loro consenso quello degli evasori, degli speculatori e dei furbi.

La produzione di quelle che in questa sede sono state definite soggettività deboli – con un progressivo impoverimento culturale ed economico per il paese, nella contemporanea crescita degli squilibri sociali – è in corso da circa tre decenni, e quindi da prima dell’affermazione come forza politica parlamentare della Lega bossiana e della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi.

Anche la Lega Nord ha beneficiato del voto ignorante ed idiota [definiamolo pure così], e si è spinta fino ad inventare una patria nordista, la “Padania”, diffondendo artatamente una forma grottesca di pseudo-nazionalismo nel settentrione.

Il panorama culturale e sociale che si è presentato ai tempi del passaggio dalla cosiddetta prima repubblica alla seconda, era gia profondamente diverso da quello che ha caratterizzato gli anni cinquanta, sessanta e settanta del Novecento, ed i “bacini elettorali” del consenso ai quali hanno potuto attingere, fin dal loro esordio, Berlusconi e Bossi socialmente e qualitativamente non erano più esattamente quelli dei vecchi partiti di massa, dalla DC al PCI e dal PCI al MSI.

Altre componenti elettorali, divise a nord fra berlusconiani e leghisti, sono rappresentate dalle partite IVA più marginali, maggiormente esposte alla crisi e all’impoverimento, quelle che ipocritamente si definiscono parasubordinate, cioè le partite IVA e le posizioni di coloro che non sono dei veri “professionisti”, dotati di una sostanziale autonomia nel definire i ritmi di lavoro ed i compensi – anche se in molti casi sono loro stessi a credere di esserlo, illudendosi di occupare ruoli sociali che nei fatti non occupano – ma semplici lavoratori dipendenti non stabilizzati e quindi svantaggiati, i quali dipendono da pochi committenti che gli impongono le condizioni e decidono, perciò, del loro futuro.

Per quanto riguarda il successo ottenuto della Lega, ha pesato molto in questi ultimi venti anni un generico voto di protesta antipolitico, non troppo “maturo” e consapevole né ben definito socialmente, che non di rado l’ha beneficiata nel settentrione del paese, riassorbendo un po’ di astensionismo elettorale.

Del voto antipolitico ha beneficiato ampiamente lo stesso Berlusconi, e questo è accaduto subito dopo il disastro di Mani pulite e la distruzione dei vecchi partiti.

Berlusconi è stato, fra l’altro, molto abile nel giocare la carta propagandistica dell’anticomunismo in assenza di comunismo – paventando un pericolo rosso sempre in agguato ma ormai non più reale –, soprattutto all’inizio della sua parabola, quando erano ancora “caldi” i cadaveri dell’Unione Sovietica e del vecchio PCI.

La conclamata “fine della lotta di classe”, in seguito alla vittoria del modello di capitalismo liberaldemocratico-mercatista, ha liberato forze che in altre età capitalistiche hanno assunto connotati critici o apertamente antagonisti nei confronti del sistema.

Se per Berlusconi hanno votato i disoccupati siciliani, nell’illusione diffusa dal piazzista di Arcore della risoluzione integrale dei problemi del paese, compreso lo storico divario nord-sud che tuttora permane con la tendenza ad approfondirsi, e nell’inganno del milione di posti di lavoro creati letteralmente dal nulla [un po’ come fanno le banche con la moneta “contabile” …], nel settentrione gli operai hanno votato per la Lega bossiana in quanto orfani di rappresentanza politica e abbandonati da una sinistra debole, prona davanti al liberismo e disponibile alla sudditanza nei confronti dei grandi interessi globalistico-finanziari esterni al paese.

Infine, sia Berlusconi sia la Lega – e qui non si può non dare ragione ad una certa sinistra individualistica, liberista e parlamentare – hanno giocato molto sulla Paura, sotto vari aspetti, a partire da una generica paura del futuro suscitata dalla fine delle aspettative crescenti capitalistiche e dal declino economico italiano, fino ad arrivare alla “paura dell’altro”, dell’allos, dello straniero e del diverso, e la Paura ha avuto un peso maggiore, nei successi elettorali berlusconiano-leghisti, di un generico richiamo alla “Libertà”, per quanto riguarda il berlusconismo, e della conclamata [ma pelosa] “difesa dei diritti dei popoli del nord”, per quanto attiene a Bossi e alla Lega.

Appare chiaro che vi sono molti elementi comuni – tutti negativi – fra il berlusconismo ed il leghismo, i quali si possono riassumere come segue: illegalità derivante da un consenso “primario” fondato sull’evasione fiscale, idiotizzazione della popolazione e degrado culturale come veicoli per il successo elettorale, misconoscimento dello stato comatoso dell’economia nazionale e nascondimento della questione sociale, adesione nei fatti alla visione liberista e smantellamento dello stato sociale, pulsioni eversive nei confronti dell’assetto istituzionale della repubblica italiana e della costituzione, diffusione della Paura nel corpo elettorale per consolidare il proprio potere, e si potrebbe proseguire nell’elencazione, ma è bene fermarsi qui per ragioni di spazio.

Se nel caso metaforico dei giganti gassosi del sistema solare esterno gli elementi leggeri che li costituiscono sono trattenuti dalle basse temperature e dalla minore intensità del vento solare, ciò che contribuisce a trattenere il consenso di questi gruppi esterni allo “zoccolo duro” elettorale berlusconiano e leghista [corrispondente al nucleo dei giganti gassosi], non è esclusivamente quel ”idiotismo socialmente organizzato” che ostacola cambiamenti di rilievo, ma è l’assenza di vere alternative politiche, che si accompagna al timore diffuso che comunque, dopo Berlusconi, la situazione economica del paese non potrà che peggiorare.

Oltre all’equazione perversa, fondata sull’illegalità, che possiamo esprimere come “consenso elettorale = licenza di evadere il fisco”, e all’idiotizzazione di parte significativa della popolazione, che di questi tempi da sole potrebbero non bastare, l’esecutivo Berlusconi-Lega si regge grazie alla compresenza nella società italiana di quattro elementi principali: 1) l’assenza di vere alternative politiche all’interno del sistema percepita dal corpo elettorale, 2) l’impossibilità di riacquisire la necessaria sovranità politica e monetaria per cercare di arrestare il declino, 3) il crescente terrore che l’azione speculativa dei Mercati ed Investitori si rivolga con decisione contro l’Italia, 4) la soggezione apparentemente senza scampo alle imposizioni di Unione Europea, FMI e BCE.

Il risultato pratico di questa situazione è che il degrado culturale, economico e sociale del paese continua, favorito dalla relativa “inamovibilità” di Berlusconi che contribuisce, assieme ad una Lega sempre più influente e con il concorso di un’opposizione parlamentare inaffidabile e inefficace, ad alimentarlo, allontanando nel tempo, sine die, ogni prospettiva di cambiamento.

In ciò risiede, essenzialmente, l’ulteriore anomalia nell’”anomalia italiana”.

domenica 13 febbraio 2011

Su Howard Zinn, storico radical del popolo americano
 
 
di Bruno Cartosio

… Marx aveva detto che la storia è la storia della lotta di classe; Zinn – da marxista che è avvertito sulla storicità dello stesso marxismo – aggiorna il maestro e alle classi aggiunge sesso, razza, appartenenza culturale e nazionale.

Un piccolo gioco di specchi: il 6 novembre 2008 Howard Zinn risponde su “The Nation” all’articolo con cui Edward Rothstein ha commemorato Studs Terkel sul “New York Times” di tre giorni prima. Terkel, giornalista radiofonico e storico era morto il 31 ottobre. Rothstein ha scritto che Terkel “sembrava un liberal incoerente…ma se lo guardi più da vicino non riesci a individuare il punto in cui il suo liberalismo scivola nel radicalismo”. Dello storico Studs Terkel – contro l’ideologia mistificante dell’obiettività come “assenza di ideologia” – Zinn difende il fatto che la sua “visione politica” sia presente nelle storie orali da lui raccolte e assemblate; ne difende le posizioni, che definisce “così ragionevoli da fare onore al ‘radicalismo’”.

Zinn contesta varie altre affermazioni e giudizi di Rothstein, ma per quanto riguarda la definizione della fisionomia ideologico-politico-umana di Terkel fa ricorso alle parole di un altro intellettuale, Norman Mailer. Infatti, Zinn cita una lettera che Mailer scrisse a “Playboy” nel 1962, dopo che la rivista lo aveva contrapposto come liberal al conservative William Buckley: “Non mi interessa se mi chiamano radical, ribelle, rosso, rivoluzionario, outsider, fuorilegge, bolscevico, anarchico, nichilista o perfino conservatore di sinistra, ma per piacere non mi si chiami liberal”. Probabilmente, scrive Zinn, Terkel avrebbe dato una simile definizione di se stesso.Howard Zinn

Il gioco degli specchi sta nel cercare di mostrare Zinn facendo ricorso a quello che lo stesso Zinn valorizza in altre figure che gli sono vicine o avvicinabili. Studs Terkel è stato uno di queste figure, forse l’unico per cui si possano dire cose che molti altri hanno detto di Zinn: apertamente radical, mentalmente aperto; collocato sempre, inequivocabilmente da una parte; storico curioso che ha sempre scritto avendo in mente l’educazione (non l’indottrinamento) di quelli per cui scriveva; scrittore prolifico e mai mestierante opportunista; amato da due-tre generazioni diverse di giovani, che hanno continuato ad amarlo e leggerlo come un amico-maestro nei loro percorsi verso la maturità. Infine, persona di cui si ricordano con affetto tutti quelli che la hanno incontrata.

Un ultimo sguardo riflesso, questa volta sul solo Zinn da parte di Bob Herbert, un giornalista che sul “New York Times” ha la funzione istituzionale di osservare e commentare le ingiustizie, incoerenze e spiacevolezze del mondo locale e nazionale. Non ricordo più chi ha sottolineato il fatto paradossale che alla morte di Howard Zinn, all’età di 87 anni, il “Times” non aveva pronto il necrologio, quel pezzo che da noi viene chiamano “coccodrillo” e che viene preparato e di volta in volta aggiornato per averlo pronto in caso di morte improvvisa della persona. Sorpreso che il suo giornale avesse dovuto ricorrere alla scarna notizia fornita, mi pare, dall’Associated Press il 29 gennaio 2010, Herbert pubblicò un suo pezzo il giorno dopo. Il suo era anche un ricordo personale, caloroso e percettivo. “Mi sono sempre domandato perché Howard Zinn venisse considerato un radical. (Lui stesso di definiva radical.)”, scriveva Herbert. “Era una persona straordinariamente onesta che si sentiva obbligata a combattere l’ingiustizia e la prevaricazione dovunque le incontrasse. Che cosa c’era di così radical nell’essere convinti che i lavoratori debbano essere trattati giustamente sul lavoro?, che le corporations hanno un potere eccessivo sulle nostre vite e troppa influenza sul governo?, che le guerre sono così criminalmente distruttive da rendere necessario trovare alternative alla guerra?, che i neri e le altre minoranze razziali ed etniche devono avere gli stessi diritti dei bianchi?, che gli interessi dei leader politici e dei vertici imprenditoriali non sono gli stessi della gente comune che lotta una settimana dopo l’altra per riuscire a sbarcare il lunario?”

La prosa è giornalistica – e il “New York Times” è un giornale liberal, naturalmente – e le domande, retoriche, servono a dire le cose come stanno, ma anche a smussare gli spigoli. Tuttavia, Herbert coglie un aspetto reale della personalità di Zinn: direi, quella naturalità del suo essere radical che lo stesso Zinn aveva sottolineato in Studs Terkel quando aveva scritto che le sue posizioni erano “così ragionevoli da fare onore” all’essere radical.



Melancholy atomic, Salvador Dalì, 1945, Olio su tela, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, MadridIn un certo senso si potrebbe dire: si è radicali perché o quando si è ragionevoli, e viceversa, e non è necessario ricorrere a una morale religiosa per ritenere inaccettabile l’ingiustizia. A volte però non la si vede; è in questi casi che occorrono l’etica e la ragione. Un esempio: nell’aprile 1945, Zinn, dagli otto o novemila metri del suo B-17, ha bombardato con le bombe e con il napalm la cittadina francese di Royan, sulla Gironda, contribuendo a fare centinaia di vittime civili. Ha visto le esplosioni, non i morti. Poi, su quei morti non visti – e sulle storie di Hiroshima – ha ragionato. Ha anche fatto ricerca storica su quel bombardamento, accertando che era stato un’azione ingiusta, inutile e criminale, compiuta solo per permettere a qualche generale francese di poter dire di avere contribuito alla vittoria. E siccome era un episodio dentro la guerra – che Terkel aveva definito ”The good war”, con le virgolette, come gli rimproverò Rothstein – Zinn ha ragionato su guerra giusta e guerra ingiusta, e infine sulla guerra americana in Vietnam, prendendo posizione da pacifista e manganellate dai poliziotti quando manifesta in piazza.

Un altro esempio. Nel 1956, gli capitò – capitò a lui e sua moglie, che l’ha sempre pensata come lui – l’occasione di andare a insegnare allo Spelman College, il college femminile nero di Atlanta, in Georgia, che John D. Rockefeller aveva finanziato all’inizio del Novecento e che aveva cambiato nome in onore della moglie del magnate del petrolio. Zinn, come tutti, sapeva che cos’era il Sud, ma non lo conosceva. Ad Atlanta lo vide di persona. La sua risposta fu ovvia: si schierò contro la segregazione razziale che era norma e legge e fece quello che poteva per infrangere quella regola. Ci sono racconti, come quello che ha scritto Alice Walker, che parlano della “sorpresa” delle ragazze dello Spelman di trovarsi a fare – con la naturalezza che Zinn e l’altro radical Staughton Lynd davano alla cosa – atti di protesta che il perbenismo della borghesia nera locale riteneva più che sconvenienti, impensabili. Per Zinn e per l’altro radical Staughton Lynd, anche lui presente ad Atlanta, “abbandonare la lezione per andare ai picchetti” (come scrive Zinn in un articolo del tempo) era naturale e ragionevole. Fino ai primi anni Sessanta, Zinn partecipò in prima persona al movimento contro la segregazione razziale e per i diritti civili nel Sud e la più combattiva delle organizzazioni nere del momento, lo Student Nonviolent Coordinating Committee, lo scelse come “consigliere anziano”, insieme con quell’altra grande figura del movimento nero che fu Ella Baker. Zinn diede anche un’interpretazioni del movimento nero di quegli anni che pochi allora avrebbero condiviso, definendoli i “nuovi abolizionisti”.

Ma c’è anche un altro aspetto, inseparabile da quello appena ricordato. Zinn è sempre stato un insegnante. “Ricordo di essere entrato in aula per la mia prima lezione”, racconta lui stesso, “e di avere visto sulla lavagna le scritte del docente che mi aveva preceduto. Era l’albero genealogico degli Stuart e dei Tudor. Queste giovani donne nere erano tenute a studiare i monarchi d’Inghilterra e le differenze tra Carlo I e Carlo II, ma [non studiavano] nulla della storia dei neri”. Avevano un corso obbligatorio sulla storia dell’Inghilterra, ma neppure una lezione sulla storia afroamericana. Il fatto – ovvio, naturale – di insegnare alla ragazze afroamericane la loro storia fu un atto di rottura che avrebbe avuto conseguenze qualche anno più tardi, insieme con la inaccettabilità della sua partecipazione pubblica al movimento contro la segregazione razziale. Zinn fu licenziato per insubordinazione nel 1963.

Ma che cosa fosse necessario insegnare e a chi si dovesse insegnare la storia rimase il filo che avrebbe tenuto legati insieme tutti gli anni successivi della sua vita. Ed esattamente come nella protesta contro la segregazione o contro la guerra o contro la discriminazione sessuale o nei conflitti di lavoro non si può stare da due parti allo stesso tempo, Zinn ha preso partito anche nella sua scrittura e interpretazione della storia. La sua Storia del popolo americano, pubblicata nel 1980, è il racconto di un lungo percorso che in tanti hanno fatto a piedi, mentre pochi altri lo facevano in carrozza. E’ una “contro-narrazione”, secondo la definizione che Henry Louis Gates ha dato del concetto, applicandolo però soltanto agli afroamericani: “Le persone capiscono se stesse e il mondo attraverso narrazioni – racconti trasmessi da insegnanti, giornalisti, ‘autorità’ e altri produttori di senso comune. E usano contro-narrazioni per contestare quella realtà dominante e i presupposti su cui si regge. In un certo senso, tutta la storia afroamericana è una contro-narrazione, documentata e legittimata da lenta e faticosa ricerca”.

Se si scrive storia da quel punto di vista, se cioè si scrive “storia dal basso”, o si fa “storia militante” oppure se, come scrive Jim Green, si “prende a cuore la storia”, ci si espone a critiche a volte pesanti. Può succedere di non soddisfare i palati fini di storici che sono fermamente convinti che la storia sociale non sia storia o che la storia “vera” sia quella delle grandi figure della politica e dell’economia, oppure ancora che l’unico motore della storia siano i ceti dominanti. Non sono stati soltanto i conservatori, o i reazionari a dileggiare la storia from the bottom up. Anche tra gli storici culturalmente più vicini a gente come Zinn, c’è stato chi non ha avuto simpatia per le contro-narrazioni.

Da parte di alcuni di loro è stato rimproverato a Zinn – così come veniva rimproverato a Studs Terkel – di essere un “divulgatore” e quindi un semplificatore. La sua visione della storia, ha scritto Sean Wilentz, un antico giovane radical che insegna a Princeton, “è capovolta: fa degli eroi di quelli che erano i reietti, ma dopo un po’ la trama [del racconto] mostra la corda”. Il radical Eric Foner, pur essendo molto più simpatetico di Wilentz, fu quasi ugualmente critico in una recensione alla Storia. Allora Foner scrisse che la storia “dal basso” di Zinn era spesso troppo parziale e che Zinn presentava la gente comune un po’ troppo come “o ribelli o vittime”, e troppo poco come “gente che tenta di vivere con dignità in circostanze difficili”. Anni dopo, nel ricordo pubblicato da “The Nation” in occasione della morte di Zinn, Foner correggeva un po’ il giudizio: “A volte, a dire il vero, il suo racconto tendeva e essere manicheo, a essere una narrazione ipersemplificata della battaglia tra le forze della luce e delle tenebre. Ma la Storia del popolo americano ha insegnato una lezione alta e salutare: che nonostante le repressioni troppo frequenti, se gli Stati Uniti hanno una storia da celebrare questa storia sta nei movimenti sociali che hanno fatto di questo paese un paese migliore”. E aggiungeva, sintetizzando la lettura della storia di Zinn: gli eroi del passato non vanno cercati tra i presidenti o i capitani d’industria, ma tra radicals come l’ex schiavo e abolizionista Frederick Douglass, la femminista Susan B. Anthony e il sindacalista socialista Eugene V. Debs. E altri come loro, naturalmente.

Che Zinn abbia a volte semplificato e reso fin troppo lineare la sua narrazione è giusto dirlo. Non avrebbe avuto milioni di lettori se non fosse stato così, se la sua narrazione storica fosse una puntigliosa esercitazione della professione, invece di essere quello che è: una dimostrazione appassionata che la storia di una nazione è percorsa da molti fili intrecciati, che è caratterizzata da equilibri e squilibri nei rapporti di potere sociali, economico e politico, che non è un viaggio trionfale di una classe o di un ceto, ma il prodotto di una dinamica o dialettica incessante. Marx aveva detto che la storia è la storia della lotta di classe; Zinn – da marxista che è avvertito sulla storicità dello stesso marxismo – aggiorna il maestro e alle classi aggiunge sesso, razza, appartenenza culturale e nazionale. E’ giusto puntare il dito sugli errori fattuali o le forzature interpretative e le diversità di giudizio rispetto a chi ci precede nella scrittura; fare questo è parte integrante del mestiere dello storico. Ma non è lecito gonfiare surrettiziamente i “difetti” fino a dimensioni che portino a delegittimare l’opera in quanto tale e la prospettiva di cui essa è portatrice. Non è lecito nascondere il proprio disagio, magari derivante dal non avere detto noi cose che lo storico radical invece dice senza peli sulla lingua, dietro il paravento di quello che Peter Novick ha definito il “nobile sogno” dell’obiettività.

Quanti, fino a pochi anni fa hanno scritto la storia tenendo conto del modo in cui la realtà poteva essere vista dagli indiani, dagli schiavi, dalle donne, dai lavoratori, immigrati o nativi che fossero? Quanti sono gli storici che hanno fatto l’apologia di Thomas Jefferson senza dire una parola dei suoi rapporti con la sua schiava Sally Hemings, madre dei suoi figli? Quanti hanno spiegato il fordismo e scritto di Henry Ford senza dire che era un virulento antisemita, insignito della massima onorificenza hitleriana e un “disprezzatore” della gente comune? Quanti apologeti della “democrazia jacksoniana” hanno scritto che Andrew Jackson era proprietario di schiavi e sostenitore della schiavitù, che deportò le popolazioni indiane per fare spazio per le piantagioni di cotone? Quanti si sono scrollati di dosso la soggezione al mito di Theodore Roosevelt e ne hanno denunciato l’aggressività espansionistica, l’imperialismo? Mi riferisco non ai biografi accademici o agli autori di monografie, cioè agli specialisti che scrivono per specialisti, ma agli estensori dei libri di storia per le scuole, i college e le università. Contro tutti questi, nel 1980 ha fatto la sua comparsa, per fortuna, la Storia di Howard Zinn, che per prima ha cercato di rispondere a domande come quelle appena formulate. Se quelle cose non sono più la faccia nascosta della luna è anche grazie a quella sua prima esplorazione.

Bruno Cartosio (1943) insegna storia dell’America del Nord all’Università di Bergamo. Si occupa da anni di storia sociale e culturale degli Stati Uniti, collabora con varie testate giornalistiche (tra cui “il manifesto”) ed è autore di numerose pubblicazioni. Dirige, con Alessandro Portelli e Giorgio Mariani, “Ácoma. Rivista Internazionale di Studi Nordamericani”. Tra i suoi volumi: Anni inquieti. Società, media, ideologie negli Stati Uniti da Truman a Kennedy (1992), L’autunno degli Stati Uniti (1998), Da New York a Santa Fe. Terra, culture native, artisti, scrittori nel Sud-ovest, 1865-2002 (2002), Più temuti che amati. Gli Stati Uniti nel nuovo secolo (2005), New York e il moderno (2007).

giovedì 10 febbraio 2011

AUTONOMIA PROLETARIA: RESISTENZA COMUNITARIA



Matteo Brumini

E dunque dove eravamo rimasti? Alcuni mesi fa scrissi un articolo in occasione del novantennale della rivoluzione d’Ottobre e fu l’occasione per parlare di ciò che oggi era il comunismo ed il movimento comunista nel Centro Capitalista e di ciò che avrebbe potuto (o dovuto a seconda di come la si vuol vedere) essere, un’occasione per fare il punto della situazione e provare ad andare avanti. Questo articolo vuole partire proprio da lì, vuole essere il seguito, vuole essere lo sguardo oltre ciò che già abbiamo visto e abbiamo analizzato. Prima di iniziare però è fondamentale per chi scrive stare a sottolineare che in questi mesi sono accadute due cose fondamentali, la prima è la sconfitta elettorale della sinistra istituzionale (la Sinistra Arcobaleno) e la sua conseguente fuoriuscita dal parlamento italiano e la seconda è una recente ondata nell’area comunista di proposte di unità e soprattutto fondamentale per noi la messa al centro del dibattito politico di diverse anime dell’area del concetto di “comunità”. Sia sul primo tema che sul secondo si tornerà più avanti.
Intanto tornando indietro si era detto che il punto fondamentale da cui ripartire era l’esperienza dell’autonomia, quella con la lettera piccola, quella dello spontaneismo e della frattura con il bagaglio ideologico dei gruppi e dei partiti, l’autonomia operaia degli anni Settanta, quella che cercava la sintesi delle sue due diverse anime, quella operaia e operaista e quella studentesca e potremmo dire libertaria. Autonomia operaia si diceva e senza dubbio l’anima che prevalse alla fine fu proprio quella operaista, quella di Piperno e Scalzone, quella della rivista Rosso e di Toni Negri. Si è già più e più volte parlato dei danni a lungo termine che portò con sé la corrente operaista e quindi non è necessario né interessante ora stare a ripetere concetti già più volte ripetuti ma è importante far notare come allora avesse ancora un senso valido o perlomeno percepito tale parlare di autonomia OPERAIA, quando si stava entrando in un periodo di percepita maturazione delle lotte operaie all’interno delle grandi fabbriche fordiste e del loro stretto collegamento con le lotte studentesche degli anni passati. A distanza di anni e con il fatidico senno del poi possiamo dire che fu proprio il prevalere dell’operaismo all’interno dell’autonomia operaia a costituire quel peccato originale che in breve tempo portò prima alla morte dell’autonomia come movimento spontaneo ed autorganizzato dal basso e quindi al costituirsi in seguito di una struttura organizzata verticalmente, l’Autonomia con la A maiuscola. E tuttavia parlare di autonomia operaia allora aveva un senso e senza dubbio era proprio la grande fabbrica fordista (ed il connubio con l’area studentesca) ad essere il luogo più avanzato delle lotte e delle proposte ed era allora altamente percepibile e palpabile la presenza di quella che viene chiamata la coscienza di classe e la conseguente solidarietà e compattezza (nelle differenze!) di tutto il movimento. La storia della fine dell’autonomia e della crisi progressiva da quegli anni ad oggi è nota a tutti ed è stata già tracciata più e più volte e dunque non verrà ripetuta. Di quell’esperienza rimane la grande intuizione della fine delle forme partitiche e dei gruppi, la ricerca creativa di nuove forme di lotta e di nuove strutture e nuove teorie e l’esigenza di cercare una autorganizzazione dell’area attraverso un agire concreto e teso verso l’esterno e la cosiddetta massa. Basta ricordare in tal senso le esperienze delle radio come Radio Onda Rossa a Roma, Radio Alice a Bologna o Radio Sherwood a Padova dove per la prima volta potevano intervenire nelle trasmissioni le persone all’ascolto creando assieme la trasmissione stessa e trasformando in parte attiva il soggetto passivo, oppure alle lotte locali nei quartieri, le occupazioni delle case, le autoriduzioni delle bollette, le spese proletarie sempre nell’ottica del coinvolgimento e della proposizione verso la gente comune. Era un lavoro politico non strutturato in una visione di inquadramento passivo e già predeterminato ma in uno scambio continuo dei ruoli fino al coinvolgimento e la fusione in un'unica soggettività in lotta concreta. Si creava così un collegamento biunivoco di scambio reciproco tra interno ed esterno ed allo stesso tempo si apriva un varco tra massa e sistema in cui si inserivano le lotte e diventavano pratica quotidiana. Fu davvero per molti versi l’ultima intuizione veramente rivoluzionaria, la parte più avanzata di un movimento unico esente da avanguardie.
La convinzione di chi scrive è che questo passaggio sia a tutt’oggi il risultato più rilevante raggiunto dall’area comunista negli ultimi quarant’anni; da allora i passi fatti sono solamente stati passi all’indietro sostanzialmente cancellando e smantellando tutto ciò che era stato raggiunto. Gli stessi centri sociali nati come collettivi in conseguenza ed in continuità di quel lavoro proprio per proseguire sul territorio l’esperienza dell’autonomia sono andati con gli anni ad assumere un carattere autoreferenziale (salvo le debite eccezioni) fino a collassare su sé stessi e ad arrivare a marginalizzarsi e ad essere marginalizzati proprio da quel territorio che doveva essere l’obiettivo principale delle attività dei centri sociali stessi.
Dunque l’abbiamo detto più volte, riprendiamo il discorso dall’autonomia. Riprendere il discorso non significa chiaramente riprendere l’autonomia del 1974 o quella del 1977 e portarla qui come se non ci fossero in mezzo trent’anni.
Quell’autonomia è fallita, un po’ sotto le spinte della repressione violenta dello stato e un po’ sotto il peso dei propri errori e dei propri peccati originari, un po’ per l’implosione delle previsioni e delle visioni operaiste e delle lotte operaie (ma sarebbe più corretto dire in tal senso per la fine stessa della coscienza di classe e della solidarietà di classe all’interno del mondo operaio). Appurato e dato per chiaro una volta per tutte che la classe operaia non esiste più o meglio non esiste più come soggetto politico autocosciente e come soggettività trainante e monolitica ed appurato che l’operaismo è definitivamente tramontato e le ulteriori teorizzazioni nate da quelle ceneri come le varie teorie delle moltitudini di Negri alla prova dei fatti si sono dimostrate inefficienti ed errate non rimane che cercare una nuova soggettività da cui ricominciare. Ora considerato che il marxismo di Marx è una scienza sociale in quanto tale segue le regole della metodologia scientifica il primo passo da compiere è quello di ragionare in termini metodologici e scientifici (ricordando che per Marx l’ideologia era una “falsa rappresentazione” della realtà).
Metodologicamente dunque dobbiamo stabilire che all’interno di un discorso scientifico e attorno ad un nucleo fondativo (e tra le altre cose il marxismo è anche una filosofia fondazionale) si costruiscono poi le varie teorie che vanno progressivamente verificate nella prassi. Il nucleo fondativo del marxismo di Marx è strutturato attorno al proletariato inteso come classe sociale, quindi a parere di chi scrive è fondamentale riprendere come soggettività da analizzare proprio il concetto di proletariato. Cos’è questo proletariato oggi. È evidente che esso non può essere il proletariato di Marx, non è il proletariato di Lenin e non è nemmeno quello degli anni Settanta, e come detto poco sopra non è nemmeno la moltitudine di Negri. Non è possibile a mio parere oggi dare una definizione precisa e circostanziata di proletariato in quanto esso è definibile negativamente (ovvero dicendo quello che non è) ma non positivamente (dicendo quello che è); di una cosa sola si può essere certi, il proletariato contemporaneo vive polverizzato nei mille rivoli e rami di un sistema ultraflessibile e motore primo di un modello culturale ultraindividualista e corporativo che rende il proletariato stesso un fantasma che si aggira per il Centro Capitalista privo della percezione di sé, trasformato in macchina desiderante, desiderante di essere parte stessa di quel sistema che lo schiavizza e tende allo stesso tempo a marginalizzarlo (senza mai escluderlo chiaramente). Conseguenza di questo è che ogni definizione positiva che viene data oggi del proletariato finisce inevitabilmente per diventare un contenitore vuoto in cui si affastellano teorizzazioni prive di riscontro e dunque metodologicamente votate al fallimento alla prova dei fatti. Chi sarà arrivato a leggere fino a questo punto si starà chiedendo dunque il perché del titolo. Perché autonomia proletaria se non è in alcun modo individuabile con l’analisi e l’osservazione un proletariato cosciente di sé e inscrivibile all’interno di una teoria. La risposta sta nella seconda parte del titolo di questo articolo: resistenza comunitaria.
Come detto all’inizio si assiste ad una riproposizione da più parti dell’area comunista italiana della parola “comunità”. Noi come rivista e come Comunità Proletarie Resistenti non possiamo che guardare con soddisfazione (e aggiungo anche con un sorriso sardonico) a questa novità assieme ad una profonda preoccupazione di vedere scippato ma soprattutto vanificato il nostro lavoro (per alcuni compagni più che decennale e tra numerose critiche e soprattutto accuse e marginalizzazioni) da un eccessivo uso superficiale del concetto di comunità. Una parola difatti è in sé solo un segno, un involucro dentro cui mettere un significato e a seconda del significato cambia anche il valore ed il concetto stesso. Non è stavolta inutile stare a ripetere che quello che noi come rivista “Comunismo e Comunità” e come Comunità Proletarie Resistenti intendiamo costruire è un tessuto interconnesso di comunità (intese come Gemeinwesen marxiana) aperte di libere individualità legate tra loro da un tessuto connettivo che neutralizzi il passaggio dell’uomo da ente naturale ad ente mercantile. Comunità aperte che sappiano creare una intercapedine, un fulcro che si inserisca tra la massa atomizzata ed indistinta passiva ed il sistema istituzionale, borghese, liberista e capitalista, un modello intuito ed analizzato in parte già anche fuori dal centro capitalista come dimostra la teoria del Terzo Dominio di Abdullah Ocalan (di cui scrissi sempre in queste pagine diverso tempo fa), qualche cosa che non si contrapponga semplicemente allo stato ed al sistema ma sia in grado di inserirsi prima e di sostituirsi ad esso gradualmente (comunità aperte in grado di abbattere tra l’altro anche uno dei falsi miti più dannosi per l’area comunista di questi ultimi decenni ovvero il mito della contrapposizione totale e continua al Capitale, mito creatore di società chiuse in sé stesse ed autoalimentanti e autoreferenziali sostanzialmente innocue per il sistema stesso in quanto escluse da esso e dunque anche dal contatto con la massa, per volontà propria reale o percepita che sia).
Ed il proletariato? E la ripresa del discorso dell’autonomia? Qui sta il nodo centrale di questo breve articolo.
Si è detto poco sopra che il proletariato odierno è un proletariato disperso, polverizzato, non circoscrivibile e soprattutto senza coscienza di sé stesso e dunque ancora più sfuggente alle analisi anche dei più zelanti e dei più volenterosi. In una logica atomista e ultraindividualista in cui l’uomo è ente mercantile potremmo affermare (per molti provocatoriamente) che non esiste un solo proletariato come soggetto monolitico ma in potenza tanti proletariati diversi, tanti quanti sono gli enti mercantili atomizzati raggruppati di volta in volta all’interno di logiche corporative che creano unità di vedute puramente tattiche e contingenti sul momento per poi dissolversi di nuovo una volta raggiunto l’obiettivo a breve termine. In parole povere credo sia sotto gli occhi di tutti che in questi ultimi anni le rivendicazioni all’interno del mondo del lavoro sono sempre state rivendicazioni di tipo corporativo in cui di volta in volta ogni categoria si ritrovava unita per questo o quel motivo avvolta nella sostanziale indifferenza delle altre (e a volte anche con un senso di fastidio) per poi ricadere nell’oblio e nell’apatia passiva a rivendicazione, lotta o protesta finita. E’ proprio la mancanza del tessuto comunitario di cui si accennava prima a creare questo stato di cose e si perpetra e riproduce sostanzialmente nella stessa maniera anche al di fuori del mondo del lavoro in ogni aspetto singolo della vita sociale dell’individuo e della società massificata e atomizzata allo stesso tempo. E dunque in un humus sociale, economico e politico simile che la ricomposizione di tale tessuto all’interno di comunità aperte di libere individualità fungerebbe da catalizzatore, da attrattore per quel proletariato senza coscienza e polverizzato, per quella miriade di potenziali proletariati (o proletari) che si ritroverebbero di nuovo assieme come un'unica soggettività collettiva aperta e non coatta, una unica soggettività non più passiva ma attiva e dunque di nuovo non più potenziale ma in atto e quindi con coscienza di sé.
Ecco il passaggio quindi, autonomia proletaria all’interno delle comunità; comunità autonome connesse tra loro in diversi gradi orizzontali proprio come le maglie di un tessuto, comunità proletarie, autonomia comunitaria, o meglio ancora comunità come autonomia e autonomia come comunità in una relazione biunivoca e sostanzialmente identitaria in cui i due termini (autonomia e comunità) finirebbero per assumere la stessa funzione e lo stesso significato. Come infatti nell’esperienza dell’autonomia di trent’anni fa all’interno delle comunità si ribalterebbe il ruolo degli individui da soggetti passivi a soggetti attivi, soggetti creatori e creativi, soggetti che non subiscono il sistema e dunque cercano di interpretarlo e di adattarsi ad esso cercando di farne parte ma si sostituiscono ad esso assieme creando qualche cosa di nuovo che renderebbe inutile il sistema stesso senza allo stesso tempo autoescludersi da esso ma agendo come un virus all’interno di un organismo vivente, parassitandolo (ovvero sfruttando tutti i varchi e le contraddizioni che esso offre e mostra necessariamente per sua natura) e contemporaneamente modificandolo. Un ribaltamento progressivo dei ruoli in cui il sistema stesso diventerebbe alla fine soggetto passivo. È difatti il principio della delega, della rappresentatività, della volontaria cessione della gestione della propria vita che crea falsa coscienza e passività, che rende l’ente naturale umano soggetto mercantile ovvero consumatore di idee già pronte e preparate dall’esterno. La spinta creatrice spontanea d’altra parte annulla il principio di passività e quindi di mercantilizzazione del pensiero e quindi la dipendenza da qualche cosa che è esterno che non viene più visto a quel punto come punto fisso e quindi ineludibile ed inattaccabile ma come qualche cosa non solo di alieno (altro da sé, in cui il sé diventa declinazione sia di sé stessi che della comunità tutta) ma soprattutto di inutile.
Ma perché “resistenza”? Perché autonomia proletaria come resistenza comunitaria? E’ il caso di demolire un altro mito oramai logoro dell’area comunista italiana ovvero che esista una biunivocità fra rivoluzione e volontà rivoluzionaria. In sostanza non è altro che la sensazione che prima o poi attraversa tutti i compagni ovvero che basta essere comunisti o far parte di un collettivo o di una realtà comunista o anche semplicemente essere all’interno del movimento antagonista per vivere all’interno di un mondo rivoluzionario, più semplicemente essere dei rivoluzionari. È allora davvero il caso di dirlo bene una volta per tutte: nessuno di noi è un rivoluzionario, non c’è alcuna rivoluzione per il momento in atto o in potenza, non c’è alcun palazzo d’inverno da prendere nell’immediato futuro, questa non è un epoca rivoluzionaria. Si tratta sostanzialmente di una conseguenza del mito avanguardista di cui avevo già parlato nell’ultimo articolo; se difatti esiste un avanguardia allora esistono coloro che compongono l’avanguardia ed essi non possono dunque che essere rivoluzionari in quanto l’avanguardia non può che essere rivoluzionaria. Ma questa non è un epoca rivoluzionaria, non ci sono le condizioni nell’immediato per pensare ad alcuna rivoluzione nel Centro Capitalista e se non esiste alcuna rivoluzione allora non può esistere alcun rivoluzionario al pari del principio per cui se non hai delle scarpe da riparare allora non puoi essere un calzolaio e se non sai come coltivare la terra e non hai terra da coltivare allora non puoi essere e definirti un agricoltore. La rivoluzione non c’è, non sappiamo come farla e dunque non siamo rivoluzionari.
Ma allora cosa siamo? Siamo resistenti, perché questa è un epoca di resistenza, siamo coloro che debbono riprendere il discorso e tentare di ricominciare a portarlo avanti. Ma sia chiaro a tutti non siamo una avanguardia e non esiste alcuna avanguardia di resistenza. La resistenza si può pensare di farla e di trasformarla in qualche cosa di altro e di rivoluzionario solo all’interno di un tessuto comunitario ricostituito, all’interno di una logica di autonomia in cui si riunisca in atto il proletariato disperso ed assente. La resistenza non può che essere come il comunismo comunitaria. Autonomia proletaria per la resistenza comunitaria e viceversa. Diventa quindi chiaro perché si sia deciso di chiamare il nostro collettivo Comunità Proletarie Resistenti. Non è certo una qualifica che ci diamo o ci siamo dati autoincoronandoci avanguardia resistente di qualche cosa o portatori di un verbo di salvezza: Comunità Proletarie Resistenti vuol essere solo un auspicio, un virus appunto che vada diffondendosi spontaneamente attraverso un meccanismo di interconnessioni (un tessuto) creative. Questo è il momento di farlo, questo è il momento di spingere e di alzare un po’ più la voce, questo è il momento. Le elezioni ultime hanno sancito esplicitamente la fine di ogni differenza tra destra e sinistra istituzionali, la sinistra radicale istituzionale è stata e si è annientata ed ora è fuori dai palazzi alla ricerca di nuova verginità all’interno di un movimento che è fermo ed in agonia. Una agonia che dovremmo cominciare ad ammettere sembra irreversibile o troppo avanzata per tentare di rimettere a posto ciò che da troppo tempo non lo è più e continua a peggiorare. La crisi di legittimazione territoriale dei Centri Sociali, l’immobilismo autoreferenziale del movimento antagonista italiano (ma anche di quello buona parte del Centro Capitalista con le solite debite eccezioni che non è necessario stare a ripetere ancora una volta), la cacciata dalle istituzioni della sinistra radicale istituzionale, gli appelli lanciati negli ultimi tempi dopo le elezioni alla solita astratta e tardiva unità dei comunisti rappresentano per chi vuole parlare ed intendere come noi (e con noi) il concetto di autonomia proletaria, di resistenza comunitaria, di comunità, di ripresa del marxismo come scienza sociale, di ripensamento in genere del comunismo e dell’area comunista. C’è una grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. Bene dunque ripartiamo, ripartiamo da zero, e facciamolo ora, queste sono le premesse, il lavoro fatto fino ad oggi è la nostra premessa.
Che fare? Se questa è la premessa, se questa è il nucleo, la struttura da cui partire e da realizzare, che cosa si deve fare per rendere tutto questo realizzabile? È chiaro infatti che è la prassi quotidiana, l’impegno personale e collettivo, le proposte concrete che rendono realizzabile o anche semplicemente verificabile una analisi; è il processo marxiano d’altronde ed anche il semplice buonsenso a ribadirlo.
Cosa propongono dunque le Comunità Proletarie Resistenti, cosa propone chi scrive in questa rivista? La risposta non c’è. Non c’è a questo punto alcun deus ex machina a mettere l’animo in pace di chi sta leggendo queste parole, non c’è il lieto fine o anche semplicemente la chiusura a questo articolo. Chi scrive non sta facendo un decalogo o un manifesto programmatico da esportare;
chi scrive in questa rivista, le Comunità Proletarie Resistenti tutte non sono in cerca di proseliti o di esecutori a cui far mettere in atto ciò che già è stato scritto. Come già detto noi non siamo una avanguardia, né rivoluzionaria né resistente. Non siamo qui a proporci come deus ex machina per tutta l’area comunista e per il movimento antagonista; questo articolo non sono le parole di un oratore da strillare sopra di un pulpito, questa è solo la nostra proposta. La proposta contiene in sé già la risposta alla domanda. Ricucire un tessuto comunitario, riprendere il discorso dell’autonomia, ricreare un blocco proletario resistente significa sostanzialmente uscire là fuori, scendere per le strade e cominciare a guardarsi intorno, abbandonare le mura tranquille e rassicuranti delle sedi partitiche, dei centri sociali, non aspettare più che qualcuno si faccia avanti ma andare a prendere le persone. Come si può farlo? Noi non lo sappiamo, noi navighiamo in mare aperto, cerchiamo e sperimentiamo ogni idea pratica, viviamo dei nostri fallimenti e delle nostre conferme e rimettiamo tutto in gioco. Non può esistere una risposta unica e valida per ogni realtà locale, non può esistere un modello unico di comunità aperta, non può esistere una parola d’ordine che racchiuda in sé ogni granello di quel proletariato polverizzato e anche se ci fosse non sarebbe e non è più compito nostro, compito di chi scrive ora, compito di chi scrive in questa rivista, compito delle Comunità Proletarie Resistenti starlo a dire. Siete voi che ora state leggendo a dovervi spremere le meningi, a fare i passi concreti adesso, a riappropriarvi in prima persona di quella volontà creatrice, a creare quella comunità aperta attiva e pensante, siete voi a dover creare le condizioni per creare quel virus che modifichi attivamente il sistema. Fino a che si continuerà ad aspettare le idee di qualcun altro, ad imitare le azioni e le lotte di altri e fino a che le idee continueranno ad essere tese verso l’autoalimentazione di quella piccola realtà, fino a che un idea una volta verificata sul campo si dimostrerà perdente e nonostante tutto si continuerà a riproporla costantemente senza cercare di nuovo e rimettere in moto un ciclo costante di analisi, teorizzazione e prassi allora tutte queste parole rimarranno lettera morta. Noi la nostra parte la stiamo facendo, non chiediamo a nessuno di seguirci né di applaudirci, non cerchiamo in altri compagni lodi o critiche, il nostro lavoro politico sul territorio è rivolto certamente verso i compagni ma soprattutto verso chi compagno non è, verso la gente comune, verso le loro difficoltà senza premesse o condizioni di adesione. L’adesione deve essere spontanea e frutto di una maturazione che ogni individuo coinvolto mette in moto attraverso il circolo virtuoso che le nostre proposte dovrebbero far partire.
Il momento è questo, ora, la gente è là fuori, non serve altro, non servono ricette. Volete anche voi una autonomia proletaria, volete delle comunità aperte resistenti? Allora chiudete questa rivista, alzatevi dalla sedia ed andatele a fare; noi lo stiamo già facendo.

Comunismo e Comunità N. 1

lunedì 7 febbraio 2011

Foucault e la post-modernità


Eduard Wolken

Attorno alla figura di Michel Foucault si è costruita, negli ultimi decenni, un vero e proprio “culto”, una attenzione dovuta alla capacità del pensatore francese di esercitare, sin dagli esordi della sua attività di studioso, un’azione “magistrale” in una molteplicità di campi e di discipline: dalla psichiatria, alla storia della sessualità, dal pensiero politico fino all’etica, intesa come studio dei saperi e delle discipline mediante le quali “governare il sé”. In parte – specie se andiamo al momento aurorale di questa fama, cioè al 1968 e all’impatto che gli eventi legati a questa data esercitarono sul costume e sulle mentalità – essa andava a integrare l’azione di altri filosofi o psicologi, non meno importanti e famosi: basti pensare a Louis Althusser o a Lacan. In parte essa riuscì ad attrarre l’interesse di un pubblico vastissimo formato non solo da specialisti, incuriosito dalla capacità del maestro francese di innovare la terminologia politica (pensiamo soprattutto a lemmi come “ governamentalità”, biopotere, biopolitica) rovesciando le prospettive dell’analisi politologica e l’approccio stesso ai fenomeni legati alla politica.
In Italia l’attenzione per Foucault si può dire che sia costante ed ininterrotta da più di trent’anni: dall’attenzione critica di Massimo Cacciari negli anni settanta, fino alle opere di Agamben e di Negri che al pensatore d’oltralpe debbono parte del loro bagaglio filosofico. Di tutto ciò reca testimonianza la costante pubblicazione o ripubblicazione dei testi più importanti di Foucault e soprattutto, per quanto ci interessa più da vicino, la pubblicazione dei Corsi tenuti al College de France, in particolare “Nascita della bio-politica” (Corso del 1978 – 79) . Le lezioni di questo anno accademico intendevano chiarire la misura di alcune importanti trasformazioni che avevano modificato lo Stato moderno e il ruolo che, a partire dal settecento, era stato preso dall’economia politica sullo sfondo nel nascente liberalismo.
La governamentalità liberale e la razionalizzazione delle pratiche governative che a questa corrente di pensiero si ispira, andava progressivamente integrandosi con l’economia politica. Mentre in precedenza il potere regio era stato limitato dal diritto che, dall’esterno, intendeva regolarne l’arbitrio, a partire dal diciottesimo secolo l’economia politica comincia a costituire un dispositivo interno al potere tale, che chi governa dovrà cercare di costruire un equilibrio fra regolazione politica e mercato. Se l’obiettivo è rispettare la “natura” economica, cioè le leggi economiche che dovranno condurre all’abbondanza e al benessere, sarà importante non solo ciò che la governamentalità farà, ma anche ciò che essa, autolimitandosi, deciderà di non fare per non impedire il libero dispiegarsi dell’economia stessa. Molto interessante diviene, a questo punto, quel rovesciamento prospettico che Foucault opera nella disanima del rapporto fra potere e Stato nell’epoca del liberalismo. Sappiamo che il pensatore francese intendeva il potere non già come una “sostanza” posseduta dai governanti ed esercitata sui governati, ma come reticolo di micro-poteri operanti sin dal livello minimo della società (relazioni fra i sessi, scuola, lavoro). Il potere è una relazione funzionale che attraversa i corpi, e quindi il liberalismo è orientato a far sì che i cittadini producano e riproducano una serie di pratiche e di comportamenti funzionali al conseguimento del benessere collettivo. Il liberalismo suscita la libertà ma allo stesso tempo non può che misurarsi con il crescente stato di insicurezza e di precarietà generati da questa libertà diffusa. Di centrale importanza è a questo punto il mercato: « che è la macchina che consuma libertà e funziona grazie ad essa, ed il governo è l’azione che tale libertà pone in essere, producendo al contempo il sistema delle protezioni dai pericoli» . La governamentalità liberale eserciterà progressivamente un’azione sempre più estesa e capillare di controllo della conformità sociale ai dettami del mercato e il Panopticon di Bentham ne rappresenta in un certo senso il paradigma. Col tempo, la governamentalità liberale darà vita all’homo oeconomicus e la biopolitica troverà il proprio coronamento «con l’effetto di trasferire il modello del mercato a tutte le sfere dell’esistenza, ivi comprese le più intime, private, soggettive» . Tutto ciò non viene da Foucault analizzato per deprecare una massificazione omologante e repressiva, ma, come accennavamo poc’anzi, con l’intento di indicare via di fuga dal controllo che le soggettività, in quanto creatrici del proprio contesto sociale, possono sempre attuare. È a questo punto che si apre il discorso sugli sviluppi e le innovazioni che il pensiero di Foucault (che non si è mai considerato marxista) ha esercitato su alcune correnti del pensiero post – moderno, in particolare Giorgio Agamben e Antonio Negri.

Comunismo e Comunità N. 3

giovedì 3 febbraio 2011

HUEY NEWTON: DAL NAZIONALISMO AFRO-AMERICANO ALL'INTERCOMUNITARISMO RIVOLUZIONARIO




Matteo Brumini

“Nel 1966 definimmo il nostro partito un partito nazionalista nero. Chiamavamo noi stessi nazionalisti neri perché pensavamo che il concetto di nazione fosse la risposta. Poco dopo decidemmo che ciò di cui avevamo bisogno era il nazionalismo rivoluzionario, cioè nazionalismo più socialismo. Dopo aver analizzato le condizioni un po' più a fondo, trovammo che questo era impraticabile e persino contraddittorio. Quindi, arrivammo a un più alto livello di coscienza. Vedemmo che per essere liberi dovevamo annientare il ceto dominante e perciò dovevamo unirci con i popoli del mondo. Così ci chiamammo internazionalisti. Cercammo solidarietà dai popoli della terra. Ma cosa accadde? Trovammo che a causa del fatto che ogni cosa è in uno stato costante di trasformazione, a causa dello sviluppo della tecnologia, a causa dello sviluppo dei mass media, a causa della potenza di fuoco degli imperialisti, e a causa del fatto che gli Stati Uniti non sono più una nazione ma un impero, le nazioni non potevano più esistere, perché non avevano più i criteri rispondenti al concetto di nazione. La loro autodeterminazione, determinazione economica e determinazione culturale, era stata trasformata dal ceto dirigente imperialista. Non erano più nazioni. Trovammo che per essere internazionalisti dovevamo essere anche nazionalisti, o almeno riconoscere il concetto di nazione. Internazionalismo, se capisco la parola vuol dire interrelazione tra un gruppo di nazioni, ma dato che non esiste alcuna nazione, e dato che in realtà gli Stati Uniti sono un impero, è impossibile per noi essere internazionalisti. Tali trasformazioni e tali fenomeni ci richiedono di chiamarci “intercomunitaristi”, perché le nazioni si sono trasformate in comunità del mondo. Ora il Black Panther Party nega l'internazionalismo e sostiene l'intercomunitarismo.”

Questa appena letta è una delle dichiarazioni meno note di Huey Newton ed allo stesso tempo una delle più fraintese e delle più contestate nel dibattito politico interno al Black Liberation Movement.
Queste parole sono anche il riassunto politico ideale del cammino teorico e dialettico del fondatore, leader e maggior teorico del partito rivoluzionario più importante e radicato sul territorio statunitense negli anni Settanta, quel Black Panther Party che nel 1967 appena un anno dopo la sua prima apparizione sulla scena politica statunitense J. Edgar Hoover allora direttore dell'FBI definì “la più grande minaccia alla sicurezza interna degli Stati Uniti”.
Da queste parole parte e si sviluppa questo articolo che riprendendo e basandosi sugli studi a riguardo di Alvaro Reyes vuole approfondire il percorso teorico che portò Newton da posizioni di semplice nazionalismo a posizioni rivoluzionarie per approdare infine a quello che lo stesso Newton chiamò con un neologismo “intercommunalism” e che in Italia è stato tradotto con il termine “intercomunitarismo”. Tale scelta non è chiaramente casuale ma utilizzando le parole di Mauro Trotta “vuole sottolineare il suo valore di creazione di comunità aperte e in relazione tra loro, in modo da evitare i fraintendimenti che potrebbe provocare la parola “intercomunalismo”, la cui radice in italiano rimanderebbe al comune, al comunale, che può essere inteso come istituzione pubblica, piuttosto che come comunità”. Subito dunque appare evidente la centralità del concetto di comunità nel discorso di Newton, centralità tanto più profonda quando si abbia una visione complessiva della sua teoria e di come tale concetto costituisca la pars costruens di tutta la sua architettura dialettica.
Va premesso prima di continuare comunque che Newton aldilà dell'interesse indubbio dei suoi studi e delle sue analisi non fu mai in grado di produrre un singolo lavoro organico sul tema dell'intercomunitarismo; di formazione intellettuale autodidatta Newton produsse sempre in maniera sporadica e non approfondita; altrettanto importante è sottolineare come il percorso teorico e storico di Newton sia necessariamente legato biunivocamente alla storia e al cammino politico della comunità nera statunitense nel periodo che va dagli anni Cinquanta sino agli anni Settanta, decennio quest'ultimo in cui si insinua l'apice della forza politica e rivoluzionaria del BPP e della vivacità intellettuale di Newton.
Il Black Panther Party for Self-Defence nasce e si rivela alla società statunitense il 2 maggio 1967 impugnando fucili sulla scalinata del Capitol Building di Sacramento in California, esigendo l'autodeterminazione per i neri negli Stati Uniti e promettendo di proteggere la comunità nera dalla brutalità della polizia. Se il BPP tuttavia si rivela così fulmineamente nella scena rivoluzionaria statunitense il concetto di autodeterminazione della nazione nera all'interno degli Stati Uniti nasce e si sviluppa gradualmente negli anni precedenti all'interno di tutto il calderone politico denominato Black Liberation Movement.
Alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, mentre gran parte della società bianca statunitense rimaneva impermeabile agli eventi che stavano rapidamente cambiando il mondo (il maggio francese, la decolonizzazione e l'ascesa del terzomondismo), molti nella comunità nera iniziarono a infiammarsi “per un orgoglio di “razza” nuovamente ritrovato che cominciò a solidificarsi dopo la diffusione di notizie e fatti relativi alla liberazione del Ghana nel 1956. Tutti presi da questo entusiasmo molti nella comunità nera si imbarcarono in “movimenti per la libertà” in casa propria, il cui inizio oramai convenzionalmente si colloca nell'ottobre del 1958 con il lancio del boicottaggio contro gli autobus di Montgomery. L'influenza che le notizie dal Ghana ebbero sui fatti di Montgomery fu presto superata dall'instaurazione di rapporti diretti tra il movimento radicale nero negli Usa e quelli che venivano visti come loro alleati nel Terzo Mondo” (Reyes). La sintesi ripresa fra l'altro anche da Eldridge Cleaver (altro noto teorico ed esponente del BPP che spesso si scontrò con le teorie di Newton) fra ciò che era interno (Montgomery) e ciò che era esterno (la decolonizzazione e il terzomondismo) portò una parte consistente della comunità nera a forme di lotta e di consapevolezza politica che andavano oltre la lotta per i diritti civili polarizzata attorno alla figura di Martin Luther King e si radicalizzò in molteplici forme sotto l'ampia bandiera del Black Liberation Movement. Oltre i diritti civili nacque dunque una lotta direttamente e immediatamente analoga nella percezione e nell'analisi a quelle del Terzo Mondo; “la lotta di un popolo colonizzato che combatteva con l'obiettivo finale della liberazione nazionale” (Reyes). Il motto del BLM era “la lotta di una nazione all'interno di una nazione”.
La contiguità teorica con il terzomondismo portava con sé la scoperta da parte del BLM dei pilastri stessi del pensiero terzomondista; una linea politica che passava per Fanon e quindi per Lenin e Stalin ed una linea dei mezzi militanti che passava per Guevara e Mao.
È proprio dal contatto con gli scritti di quest'ultimo che Newton compie il primo gradino del proprio percorso teorico. Come molti dei suoi compagni di partito, Newton era un grande ammiratore di Mao ma mentre il partito continuava a muoversi in un percorso di tipo nazionalista terzomondista rivoluzionario sotto la spinta delle teorie fanoniane già durante il suo periodo di detenzione dalla cella Newton insisteva sul fatto che il Bpp doveva seguire l'esempio ed il pensiero del presidente Mao. Ovviamente non si trattava solamente di insistere sugli scritti di carattere strategico-militare ma di qualcosa che andava a rielaborare il concetto stesso di materialismo dialettico. Il punto centrale di questa rielaborazione proviene dall'influenza profonda che ha in Newton il saggio di Mao Sulla Contraddizione, nel quale si afferma sin dalle prime righe: “La legge della contraddizione tra le cose, cioè la legge dell'unità degli opposti, è la legge fondamentale del materialismo dialettico”. Non è difficile leggere l'eco di queste parole rileggendo alcuni passaggi fondamentali degli scritti di Newton di questo periodo: “la contraddizione è il principio regolatore dell'universo: dona movimento alla materia”; oppure: “ la contraddizione, o lo sforzo dell'inferiore di arrivare a soggiogare ciò che lo controlla, dà movimento”; e ancora: “l'interna lotta degli opposti basata sulla loro unità fa sì che la materia riceva il movimento come parte del processo di sviluppo”.
Il perché Newton insista tanto in questo periodo sul concetto di contraddizione è rivelato ancora una volta dalle parole stesse di quest'ultimo subito dopo il rilascio di prigione nel maggio del 1970 in una dichiarazione: “Ogni conclusione o azione particolare che noi pensiamo sia la rivoluzione è in realtà reazione, perché la rivoluzione è un processo di sviluppo”.
Sostanzialmente Newton stava cercando di trovare una terza via tra le due correnti principali che animavano il dibattito interno alla sinistra rivoluzionaria statunitense di quegli anni; da una parte le organizzazioni marxiste-leniniste che a parere di Newton erano arrivate a considerare impossibile qualsiasi possibilità di rivoluzione, e dall'altra la fazione scissionista del BPP capeggiata da Eldridge Cleaver che sempre a parere di Newton considerava condizione necessaria e sufficiente per l'innesco della rivoluzione la “presa del fucile” da parte delle masse popolari. Per Newton queste due posizioni condividevano la premessa sbagliata all'interno del marxismo classico che ci fosse uno sviluppo uniforme all'interno delle contraddizioni che avrebbe permesso di tracciare conclusioni predeterminate e risolutive di qualsiasi contraddizione. Newton dunque tentava di spingere i membri del BPP e le masse popolari a pensare alla rivoluzione come a un processo senza una fine determinata.
Conseguenza di questa nuova analisi del materialismo dialettico fu per Newton la critica all'insistenza sulla natura coloniale della situazione degli afro-americani negli Stati Uniti. Gli sviluppi interni al capitalismo avevano necessariamente modificato per Newton la natura del dominio. Newton voleva spostare il focus dell'analisi non sullo status coloniale dei neri americani ma sulla comprensione che era la trasformazione continua del processo capitalistico a rendere possibile lo sfruttamento. Riprendendo le parole di Reyes su questo passaggio per Newton “il nuovo imperialismo era un imperialismo che non si accontentava più del dominio su soggetti colonizzati lontani e aveva invece rivolto la sua forza verso l'interno, verso la “madrepatria” stessa, un processo che Newton più tardi avrebbe etichettato come “una variante imperialistica dell'imperialismo””.

La successiva conseguenza radicale dell'analisi di Newton era dunque la scomparsa delle nazioni. È questo uno dei passaggi fondamentali del suo pensiero ed uno dei punti cruciali su cui come è facile intuire più si divise la comunità interna al partito e su cui Reyes nei suoi studi da una interpretazione vicina alle teorie negriane. Vale dunque approfondire questo punto. Chiaramente l'annuncio da parte di Newton ai suoi compagni di partito che le nazioni avevano cessato di esistere fu accolta con sgomento e riserva; va tenuto conto infatti come detto sopra che il BPP nasceva all'interno di un movimento più generale di rinascimento del nazionalismo afro-americano sino ad arrivare al concetto già citato di “nazione nella nazione”. Ma cosa intendeva Newton con questa affermazione? In cosa a parere di chi scrive essa si scosta dalle teorie negriane? Molto brevemente Newton definiva nazione quello spazio territoriale che permetteva di individuare quella che Schmitt definisce “la distinzione amico-nemico”. In questo contesto non va dimenticata l'importanza che aveva all'interno del BPP il contributo di Stokeley Carmichael sul Black Power e riassunto nelle parole di Cleaver: “Il Black Power deve essere visto come una proiezione della sovranità, una sovranità embrionale che il popolo nero può rendere attuale per il fatto che può fare distinzioni tra se stesso e gli altri, tra se stesso e i propri nemici, in breve, tra la madrepatria bianca americana e la colonia nera”.
Dunque a partire da queste premesse è facile capire che quando Newton scrisse che “le nazioni non esistono più” stava semplicemente concludendo che lo spazio territoriale per la distinzione amico-nemico era scomparsa. Il mutamento all'interno del capitalismo apportato dalle nuove tecnologie militari e per il trasporto e dallo sviluppo massmediatico ha creato secondo Newton un capitalismo integrato a livello globale. Dunque non era più possibile per le forze anticolonialiste e antimperialiste liberare semplicemente e spazialmente un determinato territorio o nazione attraverso l'uso della forza. Il senso della scomparsa delle nazioni per Newton è tutto qui; di certo per Newton non erano di certo scomparse le differenze culturali e dunque non erano di certo scomparse le istanze per i popoli di ricerca di una nazionalità attraverso la lotta di liberazione fisica né infine che quest'ultima non poteva più essere messa in una relazione proporzionale con la possibile effettiva liberazione. Semplicemente cadevano con la “scomparsa delle nazioni” anche tutte le condizioni di necessarietà e sufficienza che fino ad ora la liberazione territoriale aveva portato con sé.

Il successivo passaggio di Newton a questo punto è l'affondo contro l'idea di persistenza dell'entità statale. La classe dominante, a causa del suo desiderio di mantenere un controllo sempre crescente sulle capacità produttive della popolazione mondiale, aveva “messo sotto assedio tutte le comunità del mondo, dominando le istituzioni a tal punto che il popolo non aveva più al proprio servizio le istituzioni nella propria terra” (Newton). Si era imposto secondo Newton un “non-stato”, strettamente reazionario, che serviva a mantenere il dominio capitalistico. Le conseguenze di questo passaggio nella elaborazione di Newton sono devastanti per qualsiasi visione socialista potenziale all'interno del nuovo sistema capitalista; “Crediamo che per come stanno le cose oggi il socialismo negli Stati Uniti non ci sarà mai. Perché? Non ci sarà mai perché non può esserci. Attualmente non può esistere in nessun posto del mondo. Il socialismo richiederebbe uno stato socialista, e se non esiste lo stato, come può esistere il socialismo?”

Ripensamento del materialismo dialettico attraverso il processo di contraddizione, fine delle nazioni come spazio territoriale di demarcazione tra interno e esterno e affermazione del non-stato avevano portato Newton a teorizzare un nuovo corso per il capitalismo globale. La difficoltà di Newton ora era definire e delineare a partire dalle conseguenze sovra esposte cosa fosse questo nuovo capitalismo. La risposta venne dalla concezione e dalla teorizzazione di intercomunitarismo reazionario.
Va prima di tutto precisato, e qui sta la debolezza della speculazione di Newton, che quest'ultimo non sistemizzò mai in maniera organica il concetto di intercomunitarismo reazionario ma la elaborò partendo da una intuizione. Di nuovo mi rifaccio alle parole di Reyes: “...quando accendeva la tv era bombardato dal famoso spot della Coca Cola pieno di facce asiatiche, africane e latino americane che cantavano “Mi piacerebbe comprare una coca per il mondo”. Newton presto giunse alla conclusione che queste pubblicità non erano semplicemente il risultato di una campagna accattivante; erano piuttosto segnali di un cambiamento in corso e a un livello molto più profondo” (Reyes).
Le innovazioni tecnologiche avevano minimizzato il bisogno di materie prime e di lavoro industriale e dall'altra parte avevano saturato i mercati nazionali, e una volta saturi il nuovo capitalismo aveva trovato proprio attraverso lo sviluppo delle nuove tecnologie di creare nuovi mercati in tutto il mondo. Chiunque al mondo secondo Newton oramai consapevolmente o meno “stava per comprare una coca” (Newton).
In questo contesto si era reso necessario trasformare il mondo intero in un unica comunità integrata di produttori e consumatori, la classe dirigente statunitense aveva trasformato l'imperialismo americano in un qualche cosa di nuovo, una nuova forma di imperialismo che Newton chiama intercomunitarismo reazionario. Qui si colloca uno dei passaggi più famosi del pensiero di Newton:
“nessuno è fuori dal sistema. A causa della tecnologia il mondo è ora così piccolo che tutti noi siamo una serie di comunità disperse, ma siamo sotto assedio da parte del circolo interno reazionario degli Stati Uniti” (Newton).
All'interno di questa prospettiva dunque era evidente per Newton che essendo cambiato strutturalmente l'imperialismo egemonico statunitense in un intercomunitarismo reazionario era cambiata anche o doveva cambiare la lotta antimperialista e di liberazione delle comunità umane globali. Il cambiamento era di grado e non più di genere tra quello che accadeva ad esempio alla comunità afro-americana all'interno degli Stati Uniti e quello che accadeva alle altre comunità sparse per il mondo. Il pensiero rivoluzionario andava articolato non più come una gamma di differenze tra liberazioni nazionali dai diversi sovrani ma come scala di differenze all'interno della lotta di liberazione da un singolo sovrano globale incarnato dal ceto dominante statunitense.
Dunque coerentemente che fare? Newton individua nella creazione di un intercomunitarismo reazionario la chiave di volta all'interno del principio dinamico di contraddizione per creare e sostenere un intercomunitarismo rivoluzionario; “Ci sono soltanto due classi: miliardi di noi e pochi di loro. Qualunque siano le differenze nei livelli di oppressione, dagli operai industriali e tecnici ai milioni di poveri del Terzo Mondo, la maggioranza del popolo della terra è diventata una classe di dominati”.

Indubbiamente, almeno per chi scrive, il pensiero di Newton offre proprio per il suo carattere di speculazione intuitiva e suggestiva una vasta gamma di riflessioni e di opportunità di nuove speculazioni eppure nella sua intuitività sta la sua debolezza. Newton pur arrivando a concettualizzare l'intercomunitarismo rivoluzionario non si soffermerà mai nel corso della sua vita breve sul concetto stesso di comunità. Non vi sono indicazioni chiare ed organiche su cosa e come vada concepita la Comunità in sé e le varie comunità umane; pur riconoscendo le differenze culturali ed antropologiche tra le varie comunità sparse per il mondo anche dopo “la fine delle nazioni” e l'affermazione del “non-Stato” non cercherà mai di articolare come queste differenze vadano o possano andare ad incidere all'interno delle relazioni intercomunitarie. La conseguenza di questa manchevolezza ha creato il paradosso per cui esiste nella speculazione di Newton un concetto intercomunitario forte e una mancanza altrettanto forte sulla determinazione del concetto comunitario interno. Conseguentemente nel discorso risulta più centrata ed importante l'intercomunitarismo reazionario rispetto a quello rivoluzionario che ne risulta solo abbozzato.
Non a caso dopo la teorizzazione intorno all'intercomunitarismo Newton si concentrerà non tanto sulle prospettive rivoluzionarie quanto su come vivere all'interno di una situazione rivoluzionaria saltando così l'anello fondamentale di congiunzione tra status quo e possibilità futura.
Qui si inseriscono i concetti di suicidio reazionario e di suicidio rivoluzionario. Innanzitutto, Newton insisteva molto sul fatto che la retorica della violenza degli anni Sessanta era la conseguenza di una incapacità di tenere nella giusta considerazione il potere della trasformazione portando così a misurare il valore rivoluzionario di ogni azione proporzionalmente al suo potenziale distruttivo. Newton in contrapposizione utilizza la metafora della posizione del drago nelle arti marziali, colpire simultaneamente sia davanti che dietro in modo da distruggere ciò che c'è di vecchio ma allo stesso tempo creare un movimento verso il futuro. La rivoluzione per Newton va considerata come un suicidio, una morte del sé e allo stesso tempo una nuova possibilità e un processo di cambiamento. Da qui le definizioni di suicidio reazionario e suicidio rivoluzionario; la loro differenza “sta nella speranza e nel desiderio. Sperando e desiderando, il suicida rivoluzionario sceglie la vita; egli è, secondo le parole di Nietzsche, “una freccia desiderante un altro approdo”. Entrambi i suicidi disprezzano la tirannia, ma il rivoluzionario è insieme uno che disprezza fortemente e anche uno che adora fortemente...il suicida reazionario deve imparare, come suo fratello il rivoluzionario ha imparato, che il deserto non è un circolo. È una spirale. Quando siamo passati attraverso il deserto, niente sarà più lo stesso”. È forse proprio questo primato della volontà affermativa che caratterizza intuitivamente il concetto di intercomunitarismo rivoluzionario e che a parere di chi scrive circoscrive in parte l'idea di comunità di Newton.
Di certo questa volontà creatrice e questo primato della creazione sulla distruzione all'interno del concetto comunitario è riscontrabile anche oggi in altre realtà temporalmente lontane da quella di Newton, la ritroviamo nel concetto di Terzo Dominio di Ocalan come nello zapatismo, nelle fabbriche autogestite argentine come nel Prachanda Path.
Nello scrivere questo articolo in diversi punti mi sono ritrovato ad essere critico verso la spinta intuitiva di Newton e a riscontrare in parte il superamento di alcune delle posizioni di partenza, nell'articolo in parte ho cercato di mettere in evidenza questi punti, in altri casi ho preferito lasciare spazio all'esposizione. Questo per precisare che il pensiero di Huey Newton non va a parere di chi scrive preso come una visione profetica di un comunismo comunitario o intercomunitario quanto come una cerniera possibile, un ponte poco battuto tra gli anni Settanta e noi uscendo dagli schemi molto più analizzati e dibattuti dell'autonomia.

Pubblicato su Comunismo e Comunità n. 3