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sabato 16 giugno 2012

Stato Versus Mercato L’Italia stretta fra globalizzazione, Europa unionista e deficit di sovranità nazionale

 

Inseriamo questo contributo di Eugenio Orso sul problema della fine sostanziale della sovranità politica degli Stati nel contesto dell’UE e della globalizzazione capitalstica



di Eugenio Orso

Premessa
Come si evidenzia nel sottotitolo di questo breve saggio politico, l’Italia è finita nella morsa globalizzante neoliberista, stretta com’è fra i processi di globalizzazione, mai interrotti dalla crisi strutturale neocapitalistica, un’Europa aliena e unionista che la sta stritolando imponendo con brutalità i suoi programmi economici, e il drammatico deficit di sovranità nazionale che non consente al paese di decidere, autonomamente, del proprio futuro.
Il presente scritto si articola in due capitoli. Il primo capitolo è introduttivo, ed attraverso un esercizio di storia comparata si tenta di evidenziare la gravità e le potenzialità distruttive della crisi neocapitalistica in Italia. Il secondo capitolo, che costituisce il cuore del saggio, è relativo al rapporto, ormai fin troppo chiaro, fra l’avvento dell’Europa dell’Unione, la riorganizzazione delle sue istituzioni sopranazionali, la creazione della BCE, l’introduzione dell’euro e la perdita di sovranità politica e monetaria degli stati succubi, fra i quali lo stato nazionale italiano. Lo scontro fra il sopranazionale e il nazionale che si sta verificando nel vecchio continente, cioè fra l’Unione europea globalista ed alcuni Stati da “normalizzare” economicamente e socialmente (per ora, l’Italia ela Greciamesse di recente “sotto tutela”), nasce dalla rottura dello storico patto fra il vecchio Stato nazionale dotato di sovranità politica ed il Mercato, da intendersi qui come il grande Capitale in mani private. Il “conflitto” fra i due è iniziato nella seconda metà degli anni settanta del novecento, dopo lo scadere dei cosiddetti trenta gloriosi anni di compromesso, di relativo equilibrio e di moderata emancipazione delle classi subalterne. Tale confronto riflette il tentativo, che sta per riuscire, di anteporre sempre e comunque l’economia ultraliberista, dominata dalle ragioni della finanza, alla decisione politica nazionale sovrana, e di demolire le ultime barriere, in Europa e in occidente, che ancora ostacolano la libera circolazione dei capitali. Si tratta, in sostanza, della continuazione in nuove forme, per molti versi inedite, dell’antico scontro fra la crematistica da un lato, intesa come creazione illimitata di valore monetario e finanziario, e l’etica dall’altro lato, che per sussistere può ammettere soltanto la “buona” economia, subordinata alla decisione politica della comunità. Uno scontro vivo fin dai tempi di Aristotele, che ha attraversato i secoli ed oggi potrebbe risolversi con la vittoria della nuova crematistica. Gli effetti sociali e politici, pesantemente negativi, dell’attuale crisi neocapitalistica e la ricerca di possibili vie d’uscita, per l’Italia riorganizzata in chiave neoliberista e globalista dall’esecutivo Monti, non potranno che portare all’avvio di un processo rivoluzionario, alimentato da un chiaro disegno politico, economico e sociale alternativo, pena l’implosione definitiva della sua società ed il completamento della colonizzazione neoliberista. Al di fuori di una futura via rivoluzionaria per la salvezza, non sembra che esserci un ritorno incruento, peraltro improbabile (se non impossibile), alle politiche neokeynesiane del dopoguerra, che sollecitavano un forte interventismo statale in campo economico, ammettevano la protezione dell’industria nazionale e richiedevano il controllo della moneta, come accadeva nella precedente fase storica, in cui lo stato‐nazione non era nelle attuali condizioni di subordinazione, ed era ancora dotato di un certo grado di autonomia e sovranità. Nel caso di disordini insidiosi e troppo estesi tendenti al caos permanente, di guerra civile e/o di una frantumazione regionalista del paese con il rischio di un contagio destabilizzante del cosiddetto ordine mondiale, l’occupazione globalista effettiva del paese, manu militari utilizzando lo strumento NATO, potrà diventare una drammatica realtà.

La grande crisi e le antiche crisi

In seguito agli effetti economico‐sociali negativi delle misure imposte da governi fantoccio che operano per conto terzi, scopertamente al di fuori di un supposto quadro di legalità democratica, si sente affermare sempre più spesso che l’attuale crisi italiana (a causa dell’ingente debito “sovrano”, dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico che lievitano con lo spread, della caduta del prodotto, dei segnali economici marcatamente depressivi) è la più grave dal dopoguerra, ma spesso si omette di dire che questa crisi è ampiamente indotta dalla dinamiche neocapitalistiche, e serve per l’omologazione dell’Italia al modello di capitalismo ultraliberista anglo‐americano, “evolutosi” nell’ultimo ventennio senza incontrare ostacoli di rilievo, fino a diventare il nuovo capitalismo finanziarizzato del terzo millennio.
Pur sapendo che gli esercizi di storia comparata sono insidiosi, perché talvolta rischiano di portare fuori strada nell’analisi, non possiamo non riconoscere che la penisola, anticamente, ha già vissuto almeno una situazione simile, foriera di gravi rischi e di innumerevoli lutti, e precisamente durante la cosiddetta crisi del terzo secolo (dopo Cristo) che ha investito l’impero romano, e dalla quale l’impero – fino ad allora sufficientemente saldo ed in espansione, soprattutto nel periodo che andava da Ottaviano Augusto a Traiano, o al più a Marco Aurelio – non si è mai più ripreso. Quando scoppiò la crisi del terzo secolo, la penisola era ancora fiorente e rappresentava il cuore del sistema imperiale, ma quando la crisi finì, in termini economici, demografici e sociali le province italiane ne uscirono malconce ed esauste, pronte per entrare nel lungo tunnel della decadenza dell’occidente, durata circa due secoli, e del conseguente trapasso al “nuovo mondo” feudale. La crisi neocapitalistica che oggi investe soprattutto l’Italia e l’Europa, è nel contempo elemento strutturale del Nuovo Capitalismo, senza il quale questo modo storico di produzione non potrebbe reggersi a lungo, e manifestazione del definitivo tramonto, in quanto potenza economica e produttiva, del vecchio continente a rischio di marginalizzazione, con i paesi dell’Europa mediterranea e la stessa Italia che sembrano essere diventati, in quest’ultimo periodo, l’epicentro della crisi stessa, un’area del mondo in cui la “distruzione creatrice” in atto è più evidente e rischia di diventare sanguinosa.
Anche la crisi romana del terzo secolo fu una “distruzione creatrice”, naturalmente rapportata al sistema schiavistico e al sistema (politico) imperiale dell’epoca, e lo fu su vari piani: quello economico e sociale, quello militare, e quello dell’organizzazione dell’impero. Ma dalla crisi del terzo secolo non uscì nulla di buono, perché non sempre ciò che si crea dopo aver distrutto è positivo per le società umane e per gli equilibri sociali, per la stessa tenuta delle istituzioni che si vorrebbero preservare.
Grazie al cinquantennio ricordato come il periodo dell’anarchia militare (dal 235 al 284 dopo Cristo), si passò dal principato augusteo, che rappresentava una forma politica di dominio relativamente “soft”, in grado di mediare fra i poteri (fra i quali il senato aristocratico d’età repubblicana) e le classi sociali (patrizi e plebei, o meglio, honestiores e humiliores), ad una sorta di dominato, o di dispotismo non asiatico fortemente centralizzato, non di rado retto da figure di militari‐avventurieri emergenti (il primo fu Massimino il Trace). L’avvento del dominato imperiale riduceva i già angusti spazi di libertà concessi alla popolazione, mentre l’accresciuta pressione fiscale per affrontare le ingenti spese di guerra (contro i barbari ed i persiani), nel tentativo di rafforzare l’apparato militare e potenziare quello statale, riduceva sul lastrico ampie fasce di popolazione, risparmiando soltanto i grandi latifondisti.
Un po’ come oggi, in Italia, in cui la crescente pressione fiscale colpisce sempre più duramente i redditi da lavoro dipendente e le pensioni (in un paese in cui ci sono undici milioni di poveri, fra i quali moltissimi lavoratori e pensionati, rapidamente cresciuti di numero grazie alla crisi ed alle misure governativo‐europeiste), risparmiando soprattutto i grandi evasori fiscali, i quali nel concreto sono intoccabili perché appartengono alla classe dominante, o rappresentano potentati dell’economia formalmente criminale, che si sviluppa
parallelamente a quella neocapitalistica. L’intangibilità del sistema bancario, che deve essere finanziato e sostenuto a tutti i costi, se del caso sottraendo risorse agli impieghi di natura sociale e produttiva, completa il quadro.
Se la crisi romana del terzo secolo accrebbe la conflittualità sociale, suscitò le rivolte dei dominanti e modificò l’ordine sociale, in Italia ed altrove entro i confini dell’impero, l’attuale crisi neocapitalistica e l’avvento di un governo collaborazionista dell’occupatore del paese, quale è quello di Monti, suscita fuori degli schemi sistemici e del “politicamente corretto” (semi‐)rivolte sociali fino a ieri imprevedibili (Sicilia, trasportatori, tassinari, pescatori, ed in futuro molti altri), mentre la violenza della crisi e delle controriforme montiane accelerano la trasformazione dell’ordine sociale, che procederà, se non incontrerà ostacoli di rilievo, fino alla sua estrema “semplificazione” sociologica in classe globale dominante e classe povera dominata. Per evitare opposizioni di rilievo nel tessuto politico e sociale italiano, e per far procedere speditamente le controriforme pianificate, la classe globale che sostiene Monti ha “comprato” i cartelli elettorali che contano, i sindacati, i vertici delle lobby importanti, assicurandosi il loro appoggio contro gli interessi del popolo italiano (e non di rado dei loro stessi militanti, iscritti ed associati).
La prima e più profonda ragione della spaventosa crisi romana del terzo secolo, la quale ha rimodellato brutalmente la società italica peggiorando le condizioni di vita della massa, risiede nello svuotamento progressivo dei “giacimenti” di braccia per il lavoro schiavo, e più in generale per appropriare risorse, come effetto del raggiungimento della massima espansione militare, territoriale e demografica dell’impero. A ciò corrisponde nel nostro tempo storico, in cui la penisola è nuovamente funestata da una profonda crisi economica, politica e sociale, il progressivo e rapido svuotamento di sovranità dello stato nazionale, che dopo aver raggiunto l’apice della sua autonomia con il fascismo, nel periodo prebellico, ha visto progressivamente ridursi le sue competenze, ed ha perso la prerogativa della decisione politica su molte materie strategiche (moneta, debito pubblico, industria, eccetera), fino a scivolare nelle attuali condizioni di subalternità nei confronti dell’esterno. Questa perdita di sovranità, forse irreversibile, è indotta e accelerata dalle dinamiche neocapitalistiche che hanno influenzato la stessa “costruzione” europea, i parametri di Maastricht, il dominio della BCE e del FMI, ed imposto l’euro ai maggiori paesi dell’Europa occidentale. La rapacità del dominato imperial‐militare romano, che ha impoverito le popolazioni italiche fin dall’età del ferro dei Severi, trova unʹinquietante corrispondenza, oggi, nella rapacità dei globalisti dominanti, i quali, assumendo il controllo degli stati‐nazione privati della loro autonomia, saccheggiano le risorse collettive e de‐emancipano le masse, riducendole a neoplebi. Dovrebbe esser chiara anche al cosiddetto uomo della strada, giunti a questo punto, la vera funzione della UE, della BCE e dell’euro.
Come l’impero che in quegli anni lontani ha mostrato il suo vero volto, riorganizzandosi in dominato dispotico e impoverendo la popolazione, per scaricare sulle classi inferiori l’ingente costo della crisi, economica, sociale e militare del terzo secolo, cosi, oggi, la liberaldemocrazia ci mostra il suo vero volto, autoritario, dispotico, oligarchico, di totale subordinazione alle ragioni della classe dominate globale, e contribuisce ad imporre quelle controriforme, economiche e sociali, che scaricano sui più deboli l’onere della crisi e rimodellano in senso neocapitalistico la società.
Gli italici e le altre popolazioni non sono riusciti, nonostante l’insorgente conflittualità fra i gruppi sociali e le numerose rivolte, ad impedire quella trasformazione dell’ordine costituito che alla fine hanno dovuto subire, fino all’estinzione formale, avvenuta due secoli dopo, dell’impero romano d’occidente. Riusciranno nel prossimo futuro gli italiani, e gli altri popoli dell’Europa mediterranea, ad interrompere il processo in atto, sottraendosi alla morsa del nuovo potere globalista, senza dover attenderne l’estinzione? Al momento attuale, in cui gli eventi sono in pieno corso, si moltiplicano le proteste fuori degli schemi, si attiva la repressione sistemica e la “distruzione creatrice” neocapitalistica subisce un’accelerazione, il futuro è sommamente incerto e la domanda non può ancora trovare una chiara risposta.

Sovranità nazionale e dominio del sopranazionale

L’opposizione, o meglio l’incompatibilità, fra l’affermazione e il mantenimento di una sovranità assoluta degli stati nazionali e la trasmigrazione del potere in entità sopranazionali sempre più potenti e onninvasive, nell’Europa del dopoguerra sembra essersi risolta a favore queste ultime. Non si può ancora sapere se il trionfo del globale sul nazionale, del mondiale sul locale, e soprattutto del Capitale sul Lavoro, sia definitivo, fino all’irreversibilità dei processi in atto, ma è certo che le oligarchie globaliste, supportate dallo strumento militare americano‐NATO e dalla finanza di rapina, hanno vinto un’importante battaglia, sottomettendo in buona misura gli stati, i popoli e le nazioni. La stessa, dissennata tensione, diffusa ad arte, per la “difesa dell’euro” che spiana la strada alle controriforme sociali, e che si giustifica minacciando sciagure inenarrabili in caso di collasso della moneta europea, o semplicemente dell’uscita di uno stato dall’Unione monetaria, costituisce una prova di quanto qui si afferma. Infatti, all’euro si può sacrificare tutto, anche le pensioni, anche la sanità o la scuola pubblica, persino il posto di lavoro fisso e tutelato (unica fonte di sostentamento per la maggioranza), e di questo purtroppo si mostrano convinte, in Italia e altrove, moltissime vittime delle dinamiche neocapitalistiche. Disinformazione mediatica, propaganda ultraliberista e neoliberale, idiotizzazione sociale, “snazionalizzazione” delle coscienze, svalutazione del ruolo dello stato, delle comunità di appartenenza, della socialità e diffusione dell’individualismo anomico, hanno proceduto di pari passo con l’affermazione dei “precetti” economico‐finanziari di questo capitalismo, consentendogli, fino ad ora, di spianare ogni ostacolo sul suo percorso. La grande disputa politica, come dovrebbe essere chiaro a tutti, attualmente è quella fra i sostenitori della sovranità assoluta dello stato nazionale, da un lato, e le oligarchie globaliste che istituiscono nuove forme di governo sopranazionale, dall’altro, in accordo con i loro interessi vitali. La classe dominante globale è oggi sul punto di stravincere il confronto, come provano i casi della Grecia e dell’Italia (ma non soltanto questi), e ciò equivarrebbe anche ad uno storico trionfo (irreversibile?) del Capitale sul Lavoro, perché le politiche sociali, assistenziali, di emancipazione dei lavoratori e di tutela del lavoro sono possibili, come la storia ha ampiamente dimostrato, soltanto in un quadro di ampia autonomia, politica e monetaria, degli stati nazionali. Quello che appare scontato è che non c’è più alcuna possibilità di compromesso fra Stato e Mercato (e la condizione dell’Europa lo testimonia), cioè fra la sovranità nazionale, sul piano politico, monetario ed economico, e il grande Capitale finanziario nelle mani della classe neodominante globale. Gli esecutivi di Monti, in Italia, e di Papademos, in Grecia, sono altrettanti “cani da guardia” del capitale finanziario, ed agiscono scopertamente contro i popoli e gli stati nazionali. Di recente, nella Grecia affidata a quel Papademos di cui Monti è un replicante, il maggior sindacato di polizia ellenico, che agisce nel quadro dello stato‐nazione, ha minacciato di arrestare i funzionari del FMI ed europei presenti sul territorio greco, dichiarando di schierarsi con il popolo contro l’Europa finanziaria dei dominanti e la globalizzazione.
La grande disputa politica fra i sostenitori della sovranità nazionale e i “globalizzatori”, equivale sul piano economico al confronto fra i sostenitori del “compromesso” fra politica ed economia, regolamentando i mercati (o addirittura sopprimendoli, nel caso si assumano posizioni non riformiste) e gli ultraliberisti che teorizzano, e mettono in pratica con successo, la piena autonomia e la superiorità del Mercato.
Ciò che è importante capire, e ribadire una volta di più, è che le due battaglie, quella adifesa dell’autonomia degli stati‐nazione e quella sociale in difesa del welfare, non solo non sono incompatibili – una “di destra” e l’altra “di sinistra”, secondo i vecchi schemi ormai inattuali, ma, al contrario, sono complementari, perché ambedue costituiscono presupposti indispensabili per la libertà, l’autodeterminazione e la giustizia sociale realizzata.
Difendendo l’autonomia dello stato nazionale contro i globalisti e contro quel loro strumento di dominio che è l’Europa dell’Unione, si difendono anche il Lavoro, i diritti dei subalterni (quelli concreti, economici, non quelli astratti e posticci liberaldemocratici), le conquiste economico‐sociali della seconda metà del novecento, i meccanismi redistributivi del reddito a vantaggio dei subordinati. Possiamo perciò affermare che lo stato nazione pienamente sovrano, nelle attuali condizioni storiche, rappresenta l’ultimo baluardo della socialità, dell’etica, dell’equità contro il saccheggio operato dai mercati e l’imposizione di una globalizzazione economica che conviene soltanto ai dominanti.
L’attacco alla sovranità politica e monetaria dello stato‐nazione ha richiesto, per poter essere sferrato con successo, l’avvio di rilevanti trasformazioni culturali, economico‐sociali e politiche che si possono sintetizzare come segue.
[a] Traformazioni antropologicoculturali e dell’ordine sociale.
E’ bene evidenziare che l’attacco allo stato‐nazione, chiarissimo nell’Europa mediterranea, in cui alcune entità statuali sono occupate dagli emissari delle élite globaliste e svuotate di contenuti politici effettivi, è stato reso possibile dallo sconvolgimento dell’ordine sociale precedente e dal grandioso esperimento di manipolazione culturale ed antropologica per la creazione sociale dell’uomo precario, per la flessibilizzazione di massa a partire dal lavoro, per la diffusione della stupidità sociale organizzata. In luogo dell’inclusione domina l’esclusione, dal lavoro e dalla decisione politica, i cittadini consapevoli tendono ad essere sostituiti da “idiotai”, confinati nella dimensione privata dell’esistenza ed espropriati della dimensione politico‐sociale, all’emancipazione si è sostituita la riplebeizzazione di massa, che investe tanto gli operai quanto i ceti medi figli del welfare novecentesco. Senza questi indispensabili presupposti, l’esproprio di sovranità e di socialità in atto avrebbe trovato fortissime resistenze, e probabilmente non potrebbe esser portato a compimento con indubbio successo, come accade di questi tempi. Conditio sine qua non dell’attacco finale alla sovranità nazionale, condotto proprio in questi mesi in Italia e in Grecia, è stato quel processo manipolatorio di massa che ha distrutto le classi del vecchio ordine (espressione del capitalismo del secondo millennio) e neutralizzato l’opposizione sociale, un processo che è in corso da circa un trentennio ed ha ottenuto indiscutibili “successi”. Il mondo culturale borghese, la solidarietà e l’identità della classe operaia, salariata e proletaria, le sicurezze e le “aspettative crescenti” dei ceti medi postbellici stanno scomparendo, anzi, possiamo affermare che in assenza di contrasti fra qualche anno saranno un mero ricordo, materia per gli storici e per una retrospettiva sociologica imbevuta di nostalgismi.
[b] Trasformazioni economiche dopo la rottura definitiva del patto fra Stato e Mercato.

Altro elemento che ha creato i presupposti, quantomeno nell’Europa mediterranea “spendacciona” e vulnerabile, per la perdita di sovranità degli stati è la crisi neocapitalistica permanente come elemento strutturale del Nuovo Capitalismo e come strumento di dominio globalista, opportunamente combinata con i vincoli di Maastricht e dell’euro. La bolla del debito pubblico e la sopravvivenza dell’euro rappresentano altrettanti cavalli di troia per l’assoggettamento degli stati, e per la loro occupazione (permanente? Sine die?) senza l’uso di strumenti bellici. L’esperimento greco e la vicenda italiana sono a tali propositi paradigmatici. Gli esecutivi imposti ai due paesi rispondono nel concreto soltanto ad interessi esterni e al comando neocapitalistico della classe globale. Il tutto “insaporito” con slogan neoliberisti, da accettare acriticamente e privi di effetti economico‐sociali positivi: l’indispensabilità della crescita, perniciosa anche dal punto di vista ambientale, la competitività in uno scenario globale di libero movimento dei capitali, l’apertura definitiva al mercato, la “monotonia” del posto fisso e l’inevitabilità della flessibilizzazione del lavoro, eccetera, eccetera. I sistemi che FMI e Banca Mondiale usavano per assoggettare al libero mercato i paesi del terzo mondo (piani di aggiustamento strutturale, ricatto del debito, apertura forzata dei paesi ai capitali finanziari internazionali) sono simili, per certi versi, a quelli che FMI, UE e BCE utilizzano oggi contro i paesi dell’Europa mediterranea, chiamati con disprezzo PIIGS. Si pensi al vero significato del Cresci‐Italia di Monti che accompagna, come un’illusoria carota agitata dal Quisling globalista, le misure più feroci e impoverenti. I veri obbiettivi delle manovre montiane in Italia, e di quelle del suo omologo Papademos in Grecia, sono essenzialmente i seguenti: (1) imporre il modello capitalistico ultraliberista, portato alle estreme conseguenze, che identifica un nuovo modo di produzione sociale, (2) ridurre all’osso l’area dell’intervento statale, compromettendo persino i cosiddetti beni pubblici puri, che solo lo stato può offrire a condizioni ragionevoli (non di mercato), rendendoli accessibili a tutta la popolazione, (3) rischiavizzare il lavoro per ridurlo a mero fattore produttivo (nello specifico italiano, la scomparsa del contratto collettivo nazionale, l’attacco all’art. 18, la probabile “riforma” della CIG, eccetera), (4) accelerare latrasformazione sociale in senso neocapitalistico, riplebeizzando una parte rilevante dei cet medi (in questo senso la “liberalizzazione” delle professioni), fino allo stabilirsi della dicotomia Global class/Pauper class.
[c] Trasformazioni politiche, svuotamento di contenuti effettivi delle istituzioni statuali e assimilazione completa dei cartelli elettorali liberaldemocratici nell’unico Partito della Riproduzione Neocapitalistica.
L’ultimo supporto che si è rivelato indispensabile per “piegare” gli stati nazionali ai voleri della classe globale neodominate è la piena omologazione della cosiddetta classe politica al neoliberalismo ultraliberista, con particolare biasimo per la sinistra, che si sta rivelando in diversi paesi il miglior servo dei globalisti. In Italia, ad esempio, il cosiddetto centro‐destra (con l’esclusione della Lega che agisce per puro calcolo elettoralistico) ha piegato la testa, a partire dallo spaventato ed isolato Berlusconi, ed ha accettato Monti a denti stretti, cedendogli l’esecutivo e garantendogli un appoggio incondizionato. Ma è il Pd, assieme ai centristi che si mostrano entusiasti delle riforme montiane, il sostenitore/servitore più affidabile di questo governo fantoccio, insediato a tempo di record dagli occupatori del paese, dopo le dimissioni di Berlusconi, con la decisiva complicità di Napolitano. Pur appoggiando servilmente l’esecutivo globalista (PdL, Pd, centristi), o contrastandolo fintamente in parlamento senza esiti concreti (Lega, IdV), espropriati dall’alto del controllo del governo del paese e della possibilità di fare una vera opposizione, i cartelli elettorali marginalizzati continuano nella finzione liberaldemocratica e simulano un confronto politico, ormai senza consistenza alcuna. Si va dalle accuse incrociate, quando scoppiano scandali che investono esponenti dell’uno o dell’altro cartello (il caso Penati, l’ex tesoriere della Margherita Lusi, i processi ancora in corso in cui è coinvolto Berlusconi), alle proposte di entente cordiale per la tanto attesa riforma elettorale, la quale, però, potrà trovare concreto riscontro soltanto quando e se i globalisti consentiranno di tornare alle urne.
La finzione, finalmente scoperta e trasformatasi in un’indecorosa recita, è dura a morire. Mai come oggi la situazione italiana offre la prova della fine della dicotomia politica destra/ sinistra, che non ha più alcun senso se la politica è completamente soggetta all’economia finanziaria, e supporta un “governo tecnico” incaricato di imporre il modello capitalistico ultraliberista, approvando pedissequa le sue controriforme.
In conclusione, possiamo affermare che la vittoria del globale sul nazionale, dell’economico sul politico, della finanza sulla socialità, del Capitale sul Lavoro, altro non sono che scontati riflessi della vittoria complessiva del Mercato sullo Stato, una vittoria epocale (ma forse non definitiva, per tutto il secolo) che ha instaurato il dominio sopranazionale della Global class, espropriando le entità statuali della sovranità politica e monetaria e sottomettendole al comando neocapitalistico.
 

venerdì 25 novembre 2011

IL TEMPO DELLA VASELINA 



Fine della Seconda Repubblica? Certamente

Inizio della Terza Repubblica? Forse

di Costanzo Preve

1. Scrivo queste brevi note il 17 novembre 2011 dopo aver seguito con attenzione le dichiarazioni programmatiche del nuovo governo Monti al Senato. Ho già messo in rete due pezzi recenti. Il primo, intitolato Berlusconeide, scritto per gli amici greci e francesi che mi onorano della loro stima, cerca di fare un bilancio antropologico-culturale di quella vera e propria oscenità storica che è stato l’antiberlusconismo, la cui funzione storica di fondo è stata quella di far dimenticare la dipendenza interna (FMI e BCE) ed estera (USA e NATO) a quel conglomerato sociologico di ingenui che in Italia ha preso il nome di “sinistra”. Il secondo, immensamente più importante del primo, perché strutturale e non soltanto congiunturale, ha cercato di mettere a fuoco l’intrecciarsi di due dialettiche, la dialettica vincente della illimitatezza capitalistica e la dialettica perdente della corruzione del movimento storico comunista (nulla a che vedere con il comunismo “ideale eterno”, come avrebbe detto Vico, di cui continuo ad essere un testardo sostenitore filosofico).


Queste note, certo meno importanti delle precedenti, concernono purtroppo solo la chiacchiera politica. Ma dal momento che c’è chi mi ha detto che era contento che mi fossi rimesso a scrivere note politiche (per la verità, esclusivamente grazie a due amici che mi mettono in rete, visto che nessuna rivista “politicamente corretta” e lottizzata fra Destri e Sinistri saprebbe che farsene delle mie riflessioni, che resterebbero nel cassetto) può darsi che possano interessare a qualcuno.


2. Formalmente, la Seconda Repubblica non c’è mai stata, e quindi non ci può neppure essere la Terza. Ma sappiamo che la realtà storica non sa che farsene delle formalità dei costituzionalisti, che si inventano loro quando e dove la Costituzione viene violata e quando no (per questi signori in toga il puttaneggiare di Berlusconi è anticostituzionale, mentre la guerra contro la Libia non lo è). Utilizziamo allora un linguaggio nostro, perché se aspettiamo gli storici contemporaneisti corrotti della continua emergenza resistenziale antifascista in palese assenza di ogni fascismo, possiamo aspettare le Calende Greche.


La Prima Repubblica finisce con Mani Pulite, che fu un colpo di stato giudiziario extraparlamentare operato congiuntamente da fantocci giudiziari di destra (Di Pietro), di centro (Borrelli) e di sinistra (D’Ambrosio, quello del “malore attivo” di Pinelli), e avallato dal circo mediatico unanime, di centro, sinistra (Santoro) e destra (Montanelli).


Si trattava di operare un salto storico, e non solo politico. Chiudere con la Prima Repubblica, consociativa, corrotta, ma anche statalistica e keynesiana, dotata di un minimo di politica estera indipendente (Craxi, Andreotti). Oligarchie internazionali, Panfilo Britannia e banchieri apolidi (Ciampi) fecero il resto. I “comunisti”, che io personalmente chiamo soltanto “picisti” per non sporcare il nobile nome di comunismo, ci saltarono sopra come su di una “gioiosa macchina da guerra” (Occhetto), ansiosi di riciclarsi da venditori e piazzisti della via italiana al socialismo a partityo degli “onesti” rappresentanti delle oligarchie capitalistiche e della NATO (D’Alema nel Kosovo 1999, Napolitano nella Libia 2011). Ho insegnato storia per 35 anni, ma esempi di opportunismo, trasformismo e abiezione come questo non riesco a ricordare.


Berlusconi aveva i soldi per poter coprire il vuoto creato nel potenziale elettorato di centrodestra (ma anche della sinistra craxiana, da cui vengono Frattini e Tremonti) dalla liquidazione per via giudiziaria del personale politico DC, PSI, PSDI, PRI, PLI, la cui base elettorale, ci piaccia o no, era però la maggioranza del paese. Per poter nascondere questo fatto la cultura mediatica e universitaria di “sinistra”, sicura di egemonizzare la loro base di creduloni, si inventò un mito antropologico di origine gobettiano-azionista, quella di Berlusconi come rappresentante della furbizia degli italiani, popolo che la storia aveva privato della riforma protestante e dell’empirismo anglosassone.


E’ la storia della Seconda Repubblica, quella in cui gli italiani sono stati costretti a dividersi in due soli partiti: il partito dei B e il partito degli anti-B. Vorrei ripetere bene questo punto, perché temo che sembri troppo paradossale. In superficie c’erano molti partiti, compresi Pannella, Scilipoti, Cossutta, Bertinotti, Veltroni, eccetera. In profondità c’erano sempre e solo due partiti, i B e gli anti-B. Chi scrive si è precocemente chiamato fuori da questa mascherata fini da metà degli anni Novanta, pagando un modico prezzo in termini di diffamazione (rosso-bruno e altre sciocchezze). Ho imparato molto, soprattutto che molti che ritenevo nemici non lo erano, e molti che ritenevo amici non lo erano. Ma non personalizziamo troppo.


3. Berlusconi è stato indebolito certamente dalle campagne di stampa e dalla sua vergognosa e ingiustificabile vita privata di vecchio satiro incontinente, ma è stato rovesciato e commissionato non certo dalle “dieci domande” della banda De Benedetti-Scalfari, ma dai cosiddetti “mercati”, spread, eccetera. Egli era tollerato fino a che si pensava che potesse attuare quella normalizzazione anglosassone del capitalismo italiano che tutti gli ingenui di origine azionista invocano da un secolo come l’unico modo di guarire un “popolo delle scimmie” originatosi da un “risorgimento senza eroi”. E Berlusconi lo avrebbe anche fatto volentieri (ecco perché elogia Monti, e secondo me è sincero), ma non poteva farlo, per il fatto che doveva pur sempre essere eletto, e nessun tacchino vota per il cenone di Natale, che comincia mettendolo in pentola.


Tutto qui l’enigma Berlusconi? Ma le cose non sono più complesse (la complessità è l’idolo dei confusionari e dei professori universitari)? Ma neppure per sogno, cari amici! Le cose sono semplicissime, e stanno veramente così.


4. Il governo Monti potrà fare ciò che non avrebbero potuto fare né Berlusconi, né Bersani, e tantomeno i fantocci urlanti tipo Di Pietro e Vendola. Ma non credo che saranno “lacrime e sangue” o “macelleria sociale”. Su questo mi spiace, ma non sono d’accordo con i catastrofisti, gli estremisti ed altri apocalittici. Trattandosi di tecnici (pensiamo a Passera, a Profumo, alla torinesissima Fornero, eccetera), sono certo che sapranno contemperare il loro progetto con una tempistica adeguata. E allora chiediamoci: qual è il loro progetto, per cui sono stati insediati dalle oligarchie post-borghesi che dominano il pianeta, con il loro seguito mercenario di ex-comunisti cinici e nichilisti? Macelleria sociale? No. Lacrime e sangue? No. E che cosa allora? Fino a che non si capirà cosa vogliono è del tutto inutile blaterare. Il mazzo è truccato, le carte sono segnate, e quindi accettare di mettersi a giocare è da incoscienti.


5. Il programma, in nome dell’Europa, è semplicemente la fine della eccezione capitalistica europea e la sua completa omogeneizzazione al modello anglosassone di capitalismo. Il capitalismo europeo, a causa di una doppia spinta dall’alto (Bismarck, Giolitti, De Gaulle, eccetera) e dal basso (movimento operaio e socialista, eccetera) non aveva mai potuto omologarsi in più di un secolo al modello americano del dominio assoluto dell’industria e della finanza, ma era stato costretto ad accettare quelli che le canaglie liberali e liberiste avevano chiamato “lacci e lacciuoli”, e di cui avevano auspicato per un secolo la fine.


Tutta la babbioneria dei tifosi identitari novecenteschi, a partire dal sottoscritto, era stata ipnotizzata dallo scontro tra fascismo e comunismo (quello storico novecentesco, non “ideale eterno” come il mio, che sono un idealista e un umanista esplicito, e mi spiace di far venire un colpo apoplettico a tutti i residui althusseriani e dellavolpiani ancora in servizio permanente effettivo). Ma fascismo e comunismo si sono rivelati due incidenti di percorso nel cammino dialettico del capitalismo mondiale. Altrove ho cercato di spiegare le cause di queste due pittoresche sconfitte, e qui non mi ripeto. Mi limito a ricordare un fatto.


Superati questi due incidenti di percorso, il ceto intellettuale ha certamente intrattenuto per mezzo secolo lo scontro simbolico e virtuale fra anticomunismo in assenza di comunismo e antifascismo in assenza di fascismo trovando chi era disposto a crederci, compreso lo scrivente fra il 1960 e il 1990. Ma oggi cominciamo finalmente a capire, con la torpida lentezza di chi si è fatto abbindolare per ideologismo identitario troppo a lungo, che la posta in gioco era un’altra: la fine della eccezione capitalistica europea e l’omogeneizzazione totale del capitalismo europeo all’unico modello americano.


6. Unico modello? Ma neppure per sogno! C’è anche un altro modello strategico di capitalismo, quello cinese. Ma quello cinese non è esportabile in Europa (nel terzo mondo invece forse sì), perché proviene da una storia particolare, l’innesto del maoismo come prima accumulazione del rapporto di capitale su di un substrato precedente di modo di produzione asiatico. Per questo non è un caso che la Cina diventi sempre di più l’avversario strategico degli USA.


E’ sufficiente studiare la grande strategia geopolitica USA. Su questo i lettori de “La Stampa” sono avvantaggiati, perché dispongono di una “gola profonda” al Dipartimento di Stato USA, Maurizio Molinari, che ci informa quotidianamente della strategia imperiale americana. Gli USA non cessano di provocare la Cina con il Dalai Lama. Karzai, il fantoccio afghano, ha già promesso agli USA basi militari permanenti, che potranno minacciare geopoliticamente sia la Cina che la Russia, essendo insediate nel cuore eurasiatico (lo Heartland dei geopolitici, che i criminali ex-comunisti russi hanno abbandonato consegnandolo agli USA). Gli USA hanno messo una base militare permanente a Darwin in Australia, che nessuno minaccia. Gli USA cercheranno di provocare conflitti sulle isole che fanno da contenzioso geografico fra Cina, Filippine e Vietnam. In Europa, tutte le classi dirigenti europee sono atlantiche, dai baltici ai portoghesi, dagli italiani ai polacchi.


7. Si presti attenzione al “lato esteri” del governo Monti. Alla Difesa va un generale che viene dall’Afghanistan, l’ammiraglio Di Paola, che dal suo teatro afghano di guerra ha accettato con un SMS. Si tratta di un alto stratega NATO, parte di quel gruppo di assassini che ha fatto di Sirte la nuova Guernica del Mediterraneo. Agli Esteri il signor Terzi, ambasciatore a Washington ed ex-ambasciatore a Tel Aviv, uomo fedelissimo agli americani e ai sionisti.


Se ci fosse ancora una “sinistra”, questo verrebbe notato. Ma siccome non c’è più, saranno pochissimi quelli che lo noteranno. La base di fedeli subalterni anti-B se ne frega della politica estera, non la vede neanche, e la sola cosa che gli interessa è quello che gli scribi dell’oligarchia finanziaria chiamano “ricambio antropologico” (cfr. Ceccarelli su “Repubblica” del 17 novembre 2011). Non c’è più il puttaniere, non ci sono più la Gelmini, la Minetti e Scilipoti! Evviva, evviva! Mettete ad alto volume i Carmina Burana! Cantate insieme Bella ciao e l’Inno di Mameli! Viva Napolitano, difensore della Costituzione!


8. Il tempo che verrà non sarà il tempo della macelleria sociale, ma il tempo della vaselina. I “tecnici” sono troppo abili per metterla violentemente in quel posto a Cipputi, come il tizio dell’ombrello disegnato dallo sciocco PD Altan, che ha a suo tempo inventato la Pimpa, ma ha poi messo la sua matita al servizio del Circo Bersani.


Ai lavoratori, ai precari e ai pensionati l’hanno già da tempo messa in quel posto. Mancano ancora i ceti medi, da liberalizzare totalmente, secondo il modello americano. Negli USA gli avvocati ricchi sono ricchi a miliardi, e gli avvocati poveri girano per i bar intorno alle carceri in cerca di clienti. Monti penserà certamente anche a questo, in nome della meritocrazia, dei giovani e delle donne. I rinnegati ex-comunisti lo aiuteranno certamente, fingendo di avere delle “riserve” con i loro elettori fidelizzati. Ora che non c’è più Berlusconi, bisognerà trovare dei nuovi “fascisti” e dei nuovi “populisti”, ma non sarà facile perché Alfano non si presta.


9. E l’opposizione? Certamente vi sarà, ma temo che non abbia senso nutrire troppe illusioni. Il movimento degli indignati? Certo, sono mille volte meglio di quelle vere e proprie prese in giro che sono stati i movimenti pacifista e altermondialista. Almeno costoro se la prendono con le oligarchie finanziarie. Ma in esso sono ancora troppo presenti illusioni alla Beppe Grillo per poterci veramente sperare.


La CGIL? Ma non scherziamo! La Camusso è organicamente legata al gruppo dirigente Bindi-Bersani. Farà un po’ di melina, farà dichiarazioni “severe”, ma ciò che conta è il livello strategico, e questo è assicurato.


La FIOM? Ma non scherziamo! Potrà piacere al “Manifesto”, insieme ai baci gay della Benetton, ma il signor Landini è semplicemente il contraltare del signor Marchionne. Per gente così il mondo comincia e finisce con Marchionne. Ora, il conflitto Landini-Marchionne passa a lato di tutto ciò che conta in Italia.


I signori Diliberto e Ferrero? Ma non scherziamo. Essi hanno un solo problema, salvare la baracca del loro microscopico ceto politico professionale, e possono farlo solamente attaccandosi alle bretelle di Bersani.


Il signor Ferrando e i microgruppi del fondamentalismo comunista? Ma non scherziamo. Costoro vendono sempre la vecchia merce del comunismo storico novecentesco, variante trotzkista (Ferrando) o variante stalinista (Rizzo). Io sono un amante e un cultore dell’archeologia e delle lingue morte, ma solo nei musei e nelle biblioteche.


I sindacati di base? Qui andiamo per fortuna un po’ meglio, perché almeno è gente del tutto al di fuori della grottesca mascherata B e anti-B. Non a caso, sono stati gli unici, insieme agli indignati, che hanno manifestato a Roma il 17 novembre, giorno dell’insediamento dellas giunta dei commissari FMI, BCE, USA e NATO. E’ bene dargliene atto.


10. E tuttavia, il difetto dei sindacati di base sta nel manico. Essi pensano di potersi opporre alla carica di un rinoceronte riproponendo le vecchie ricette economicistiche delle piattaforme sindacali, semplicemente prese sul serio e non usate come forme di manipolazione identitaria. Ma il tempo che ci aspetta è il tempo della vaselina. La giunta della BCE deve privatizzare tutto e liberalizzare tutto, e soprattutto deve applicare il modello della americanizzazione integrale dell’Europa, che copre anche l’appoggio strategico all’impero geopolitico americano. Si ricordi il WOW (uau) della strega Clinton all’annunzio della morte di Gheddafi. Mi ricorda i passi di danza fatti da Hitler dopo la presa di Parigi ricordati da Brecht nel suo diario fotografico.


Il baraccone ideologico che noi stessi abbiamo messo al potere (Gad Lerner, ex Lotta Continua, Adriano Sofri, ex Lotta Continua, Floris e Ballarò, eccetera) è formato da esperti in vaselina e in penetrazione indolore! Altro che il cavalier Banana di Altan e il suo ombrello che la mette in quel posto a Cipputi, il brontolone mormoratore subalterno che ha plasticamente incarnato la sconfitta storica della classe sociale più incapace della storia universale dal tempo degli antichi egizi.


Il tempo della vaselina è cominciato. Quanto tempo durerà non posso saperlo. Non posso escludere fatti nuovi. Per fortuna la storia è imprevedibile, e non assomiglia per nulla a quella caricatura impostaci per mezzo secolo dagli intellettuali storicistici del progresso. Berlusconi sarà probabilmente ricattabile con le sorti in Borsa di Mediaset. Il puttaniere tiene pur sempre famiglia, e deve lasciare ai suoi figli una proprietà ancora in piedi. La marmaglia anti-B che ne ha festeggiato la partenza urlando sconci insulti adesso sarà contenta con l’arrivo del tempo della vaselina. Ma forse la Terza Repubblica ci riserverà alcune sorprese.


Termino con un auspicio gramsciano: pessimismo della ragione, ottimismo della volontà. Bergson + Sorel. Non ci credo molto, tenuto conto della stupidità gregaria e identitaria dei nostri amici. Ma forse, speriamo, i giovani saranno meno cretini.


Torino, 17 novembre 2011

domenica 30 ottobre 2011

 

Gli scenari politici internazionali della crisi sistemica 

 



Intervento di Piero Pagliani  all’assemblea sul debito e sull’euro di Chianciano Terme sabato 22 ottobre.

Piero Pagliani

1. Capitale e Potere: l’origine della crisi 1
2. Politica e finanza: tra storica collaborazione e storico conflitto 4
3. Capitale e Potere: i paradossi politici della loro aggiunzione 8
4. Ipotesi di resistenza all’autocolonizzazione dei Paesi europei 11
Serie economiche 18

1. Capitale e Potere: l’origine della crisi

Poche settimane or sono, in pieno attacco all’euro, “La Repubblica” mentre
da una parte terrorizzava i suoi lettori parlando della caduta nell’abisso delle
borse e persino dell’oro, dall’altra li invitava surrettiziamente ad investire in
titoli a lungo termine del debito pubblico della Germania e degli Stati Uniti,
ultimi rifugi al riparo dalla bufera planetaria.
Ma come? D’accordo la Germania, ma gli Stati Uniti? Il Paese più indebitato
del mondo da che mondo è mondo?
D’acchito la perplessità è d’obbligo. Eppure, per lo meno sul breve periodo
(ma difficilmente sul medio e a maggior ragione sul lungo - e qui sta una
parte del trucco degli imbonitori) i titoli di debito pubblico di questi Paesi
potrebbero veramente essere un affare sicuro.

Fino a quando?

Fino a quando regge la credibilità degli Stati Uniti come superpotenza
dominante sul piano militare, politico e diplomatico mondiale, anche se non
sul piano economico, dato che è dalla fine degli anni Cinquanta del secolo
scorso che gli USA hanno perso questo primato (o, come si diceva una volta,
non sono più l’opificio del mondo). I Paesi dominanti sul piano economico
devono allora essere “contenuti” o associati all’impero come viceré sub
dominanti, come nel caso, per l’appunto, della Germania.
Questa frattura tra il dominio economico e il dominio politico-militare è poco
comprensibile se ci si attiene alla divisione meccanica strutturasovrastruttura.
E’ molto più comprensibile se invece si assume l’ottica leninista dell’analisi dell’intreccio 
tra le contraddizioni sociali e quelle intercapitalistiche.
A quel punto la rinnovata lente analitica ci permette di scoprire un ulteriore
problema: il predominio economico e quello sui mezzi di pagamento mondiali,
entrambi appannaggio della Cina, oltre a non coincidere col predominio
politico-militare non coincidono nemmeno col predominio finanziario. Le
principali piazze finanziarie del mondo rimangono infatti la City di Londra, a
due passi da Downing Street, e Wall Street che sta a quattro ore di macchina
dalla Casa Bianca1. In altri termini la finanza internazionale più che la sirena
dei cosiddetti “fondamentali economici” sembra stare ad ascoltare quella del
potere territoriale. Non è un problema da poco per chi non riesce ad affrancarsi 
da una visione meccanica del rapporto tra la cosiddetta “struttura” e la cosiddetta “sovrastruttura”.

1 Detto incidentalmente, può sembrare un mistero la stessa importanza attuale della City di
Londra, a più di un secolo abbondante da quando la Gran Bretagna perse il titolo di “opificio
del mondo” e a sessant’anni dalla perdita di ogni supremazia territoriale e finanziaria a favore
degli Stati Uniti. Un mistero che non si risolve con gli “zurück zu Marx” e nemmeno con i
ritorni fideistici a Lenin, ma che obbliga a rinnovare gli strumenti analitici. Ovviamente
esistono anche le scorciatoie sciagurate e spesso repellenti che risolvono tutto coi complotti:
della massoneria, degli ebrei, della massoneria giudaica, della massoneria britannica, della
massoneria giudaica britannica, e via intrecciando combinazioni di idiozie che a volte non si
vergognano nemmeno di citare i rettiliani o i Protocolli dei Savi di Sion, per poi dire che è vero
che sono tutte scemenze, per carità di Dio, ma che in fondo in fondo sono segnali di qualcosa
di vero. Ma quel che è peggio è che ci sono persone per bene che ci mettono un po’ troppo a
capire che questi signori bisogna accompagnarli gentilmente alla porta.


Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2847

mercoledì 16 febbraio 2011

Eurocrack



di Vladimiro Giacchè

1. La crisi del debito sovrano è parte integrante della crisi generale iniziata nel 2007
Il primo aspetto da sottolineare è questo: la crisi del debito che infuria in Europa dalla primavera del 2010 non è qualcosa di diverso dalla crisi che a partire dal 2007 ha sconvolto l’economia e la finanza internazionali.

È un’ulteriore fase di quella crisi. Fa parte cioè della fine della bubble èpoque, ossia della crescita drogata con la finanza e con il debito che ha caratterizzato le economie dei Paesi occidentali negli ultimi trent’anni (in parte compensando, e così rendendo socialmente accettabile, un marcato declino della crescita e dei redditi da lavoro). Nel 2007 è iniziata a manifestarsi, con sempre maggiore perentorietà, l’insostenibilità di quel modello di “crescita” imperniato sul capitale produttivo d’interesse. La crisi, che ha seriamente minacciato – per la prima volta dal 1929 – l’intero sistema finanziario internazionale, è stata tamponata con una “socializzazione delle perdite” che non ha precedenti per entità nella storia: nel giugno 2009 il Financial Stability Report della Bank of England rivelò che i sussidi e le garanzie offerti dalle banche centrali e dai governi degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’area dell’euro a sostegno del sistema bancario ammontavano alla cifra spaventosa di 14.000 miliardi di dollari. Si tratta – precisava lo stesso rapporto – di una cifra equivalente a circa il 50% del prodotto interno lordo di quei paesi.

A fronte di questo impegno gigantesco, i problemi di fondo dell’attuale fase di sviluppo del capitalismo non sono stati risolti. Il sistema finanziario globale non è saltato, ma nella gran parte dei paesi occidentali l’economia non si è affatto ripresa come desiderato. La distruzione di capitale è stata ingentissima, e ancora oggi, la disoccupazione è prossima al 10% sia negli Stati Uniti che in Europa (e in molti Paesi va ben al di là di queste cifre). Inoltre l’entità complessiva del debito (pubblico + prviato) non è diminuita. In compenso, è aumentata la proporzione del debito pubblico sul totale. Questo si deve in parte ai salvataggi di Stato di cui sopra, ma anche al fatto che la crisi ha diminuito le entrate fiscali e fatto crescere, invece, le spese per ammortizzatori sociali. Di conseguenza, oggi nel mirino non ci sono più le grandi banche, ma gli Stati. Chi è più esposto al rischio di fallimento? Ovviamente le possibili classifiche dipendono dal criterio che si sceglie: per entità assoluta del deficit il record spetta agli Stati Uniti (con un deficit annuo di 1.230 miliardi di dollari nel 2010, pari all’8% del prodotto interno lordo); se invece si prende l’entità del debito pubblico complessivo rispetto al pil vince il Giappone, che ha superato il 200%; se poi prendiamo la somma di debito pubblico e debito privato il record mondiale è della Gran Bretagna, con il 469% del Pil. I principali candidati al default dovrebbero essere questi (e non è affatto escluso che a breve la loro candidatura sia accettata con entusiasmo da mercati finanziari e speculatori). Sta di fatto, però, che la crisi del debito è scoppiata in Europa. Anche per questo, però, ci sono buone ragioni, che non possono essere ridotte alle “congiure” (che tra l’altro dovrebbero essere chiamate col loro nome: ossia “cartelli”) di qualche hedge fund statunitense.

2. La crisi del debito sovrano è scoppiata in Europa a causa di limiti strutturali dell’Unione Europea
I motivi dello scoppio in Europa della crisi del debito affondano le loro radici nel processo di costruzione dell’Europa, nella sua architettura istituzionale, e nelle loro finalità. In termini più brutali, la crisi è scoppiata in Europa perché l’Unione Europea è l’Europa dei capitali. Vediamo perché.
La crisi scoppiata nel 2007 ha evidenziato, e aggravato, un’accentuata divergenza tra le economie della zona euro: in termini di crescita, di inflazione, di squilibrio delle bilance commerciali e di incremento del debito pubblico. Stiamo assistendo ad una crisi che colpisce in misura molto diversa i paesi dell’Unione, con i più deboli tra essi ormai impossibilitati ad adoperare la leva delle svalutazioni competitive per raddrizzare le loro economie. E che quindi rischiano di avvitarsi in una spirale drammatica: crisi economica, debito fuori controllo (anche per la riduzione delle entrate fiscali a causa della crisi) e necessità di una terapia d’urto contro il debito che ha l’effetto di aggravare la crisi.
L’Unione Europea non è in grado di impedire che si producano situazioni del genere. Questo perché c’è l’unione monetaria, ma non esiste una politica economica integrata a livello europeo. E non può esserci, per un motivo ben preciso: perché una politica economica comune è impossibile in assenza di una politica fiscale comune. E le politiche fiscali dei Paesi dell’Unione sono tutt’altro che omogenee. Anche perché il Trattato di Lisbona prevede che sull’armonizzazione delle politiche fiscali (come del resto sulle politiche sociali) l’Unione possa decidere soltanto all’unanimità. Conseguenza: è sufficiente che sia contrario anche un solo Paese (che magari non fa neppure parte della zona dell’euro) per impedire che l’Unione Europea armonizzi le diverse legislazioni fiscali.
All’origine di questa situazione vi sono un presupposto ideologico e un motivo che ha direttamente a che fare con concreti interessi di classe. Il presupposto ideologico è l’idea neoliberistica secondo cui il “libero agire delle forze di mercato”, unito al coordinamento delle politiche monetarie e di bilancio, sarebbe la ricetta giusta per conseguire la crescita economica. Su questa idea sono stati costruiti tutti i trattati, almeno da Maastricht in poi. Il motivo legato a specifici interessi di classe è rappresentato dagli interessi delle imprese: le quali, proprio grazie all’assenza di regole fiscali comuni (ossia di regole uniformi di tassazione), hanno potuto fare arbitraggio fiscale, creando o spostando filiali operative nei Paesi in cui la fiscalità era più conveniente (vedi alla voce Irlanda). Questo a sua volta ha ingenerato una concorrenza al ribasso tra le fiscalità e quindi una tendenziale riduzione delle tasse medie sulle imprese su scala europea.
Tutto questo ha avuto effetti perversi di breve e di lungo periodo. Quelli di breve - siccome i vincoli di Maastricht imponevano comunque soglie basse di deficit - sono consistiti in un aggravio del carico fiscale sulle persone fisiche (ed in particolare sui lavoratori dipendenti) e in una riduzione delle prestazioni sociali erogate dagli Stati, indebolendo anche per questa via la domanda interna nei Paesi dell’Unione. I frutti avvelenati di lungo periodo, invece, li stiamo gustando adesso, e consistono nell’impossibilità concreta di una politica economica comune: anche per Paesi che hanno una moneta comune, e anche in presenza di una crisi devastante.
La realtà è che oggi l’Unione Europea, proprio in quanto è un’Europa ritagliata a misura delle esigenze dei capitali, è priva di strumenti per affrontare adeguatamente la crisi. In queste condizioni, la moneta unica può diventare una palla al piede per chi l’ha adottata: perché, in assenza di politiche economiche comuni, e di iniziative centralizzate di riequilibrio economico e trasferimento tra le regioni, ogni Stato è lasciato solo con i propri problemi senza potersi giovare di svalutazioni competitive.
Nei casi di crisi del debito sovrano che si sono presentati dalla primavera dello scorso anno in Europa (e che avrebbero potuto essere governati con ben altra facilità senza le caratteristiche della costruzione europea che abbiamo visto sopra), l’Unione Europea non è riuscita a far altro – dopo estenuanti trattative – che sostenere i titoli di Stato del Paese interessato, in parte attraverso nuovi prestiti (spesso assai onerosi in termini di interessi), in parte attraverso l’acquisto sul mercato dei relativi titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea. Tutto questo in cambio di manovre di drastica riduzione della spesa pubblica da parte degli Stati interessati, a cominciare dalle spese sociali e per le pensioni. Dal punto di vista del capitale, è la quadratura del cerchio: significa né più né meno che far pagare la crisi ai lavoratori (attivi e in pensione). Ma al tempo stesso, anche se i “leader” europei non mostrano di averlo capito, è la ricetta per la fine dell’euro e per la catastrofe economica. Vediamo perché.

3. La crisi del debito sovrano fornisce l’occasione ideale per distruggere il welfare europeo, scaricando i costi della crisi addosso ai lavoratori
Il ritornello è ormai lo stesso da mesi. Eccolo, nelle parole del Financial Times del 10 maggio 2010: “gran parte dell’Unione Europea vive al di sopra dei suoi mezzi”, e “se gli Europei non accettano misure di austerità adesso, probabilmente dovranno affrontare qualcosa di più scioccante: default del debito sovrano e collassi bancari”. Il Washington Post dello stesso giorno specificava: “I problemi sorgono da tutte le prestazioni assistenziali (indennità di disoccupazione, assistenza agli anziani, assicurazioni sanitarie) oggi garantite dagli Stati”. Pochi giorni dopo, il 15 maggio, anche il Sole 24 Ore emetteva la sua sentenza: “il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”.
Sarebbe fin troppo facile ricordare a questi Soloni della disciplina di bilancio che si erano ben guardati dal lanciare analoghi allarmi quando – appena due anni prima – gli stati sborsavano migliaia di miliardi per salvare banche e società finanziarie. È però più utile dimostrare che spesso i problemi delle finanze pubbliche dipendono proprio da questi salvataggi. Emblematico il caso dell’Irlanda, dove è successo esattamente questo: 1) lo Stato ha salvato le due maggiori banche del Paese, travolte dalla crisi immobiliare, con iniezioni di capitale per decine di miliardi di euro; 2) questo ha fatto esplodere il deficit pubblico, che è schizzato al 32% del pil su base annua (il limite di Maastricht è al 3%); 3) contemporaneamente, sono state assunte misure di austerity che hanno precipitato il Paese in deflazione; 4) la crisi bancaria si è approfondita anche per questo motivo: e sono risultati necessari altri soldi, che lo Stato irlandese non era in grado di pagare; 5) di qui la necessità di un soccorso internazionale (un prestito di 85 miliardi di euro, un terzo dei quali destinato alle banche), a fronte di una severissima manovra di bilancio su 4 anni (tagli alla spesa pubblica e ai servizi sociali per 15 miliardi di euro, 25.000 impiegati pubblici a casa, neoassunti con uno stipendio del 10% inferiore e così via). La morale di tutta questa storia è molto semplice: il governo irlandese ha dato i soldi alle banche e i lavoratori irlandesi pagano il conto.
Più in generale, oggi l’attacco al welfare significa sgonfiare la bolla del debito comprimendo la quota di salario indiretto (le prestazioni sociali) e differito (le pensioni), oltre a privatizzare funzioni fin qui svolte dallo Stato a beneficio delle imprese private. Né più né meno di questo.

4. La formula “finanziamento agli Stati in crisi in cambio della distruzione del welfare” non funziona, e crea le premesse per l’implosione dell’Eurozona
Si può facilmente comprendere che questa strategia affascini buona parte delle classi dominanti del nostro continente (e non solo). Esattamente per gli stessi motivi essa deve essere avversata con forza dai comunisti. Ma c’è un ulteriore motivo per avversarla: questa strategia non è soltanto ingiusta, essa è fallimentare anche sul piano economico. Il punto è che la sola vera arma in grado di abbattere il debito pubblico di un Paese è la crescita economica: che comporta aumento delle entrate fiscali e minori spese per misure di assistenza (alle imprese e alle famiglie). Se non c’è crescita, se il prodotto interno lordo anziché crescere diminuisce, è inevitabile che cresca il rapporto tra deficit e pil - e quindi anche lo stock del debito che si viene accumulando. Ora, se si adottano misure di restrizione della finanza pubblica per abbattere il deficit in una situazione in cui la crescita già non c’è, il risultato inevitabile sarà una recessione. È quanto già oggi sta accadendo in Grecia e Irlanda. La verità è che in questi Paesi la prospettiva più probabile è comunque quella di una ristrutturazione del debito sovrano. Che però a questo punto avverrà dopo anni di depressione e di agonia economica. Nel frattempo, le banche private (francesi e tedesche nel caso della Grecia, inglesi e tedesche nel caso dell’Irlanda), avranno avuto tutto il tempo di vendere parte delle loro obbligazioni greche e irlandesi alla Banca Centrale Europea, senza scontare le perdite che avrebbero dovuto (giustamente) sostenere qualora alla ristrutturazione si fosse arrivati subito.
Ma allarghiamo lo sguardo. Immaginiamo che misure fortemente restrittive della spesa pubblica vengano adottate contemporaneamente da tutti i Paesi di una regione del mondo fortemente integrata economicamente, qual è l’Unione Europea: e nei mesi scorsi gli Stati dell’Unione Europea hanno in effetti deliberato tagli alla spesa pubblica per più di 300 miliardi di euro. In tal caso lo scenario sarà probabilmente depressivo: per il semplice motivo che il calo della domanda interna in ciascun Paese si tradurrà immediatamente anche in un calo delle esportazioni reciproche tra i diversi Paesi. Lo ha rilevato anche Paul Krugman il 12 gennaio scorso sul New York Times: i tagli sincronizzati alla spesa pubblica che si stanno attuando in Europa sono tali da “lasciare gran parte dell’Europa in una situazione di depressione profonda per gli anni a venire”. È ben difficile pensare che la stessa moneta unica possa resistere in uno scenario di questo tipo.
Ma in fondo basterebbe che il numero degli Stati in crisi aumentasse, per rendere le disponibilità delle BCE e del Fondo di sostegno finanziario (European Financial Stability Facility, EFSF) faticosamente messo in piedi negli ultimi mesi del tutto insufficienti a tamponare una crisi. Probabilmente, sarebbe sufficiente una seria crisi della Spagna per far saltare tutto il meccanismo e innescare reazioni a catena dall’esito imprevedibile. È probabilmente questo il motivo per cui la Germania, per la prima volta, ha cercato di anticipare la crisi del Portogallo offrendo aiuto (pur non avendo le proprie banche esposte significativamente): perché sa che dopo il Portogallo il prossimo candidato al default è la Spagna.

5. L’Italia a un bivio?
È il caso di spendere qualche parola anche sul caso italiano, rimasto sinora sullo sfondo, soprattutto a motivo del silenziatore che il governo ha posto alle notizie poco tranquillizzanti che filtravano da Bruxelles. Negli ultimi tempi Tremonti ha tenuto un profilo molto basso sull’argomento, limitandosi a ottenere qualche titolo sulla sua proposta di un bond europeo (avversata dalla Germania, e comunque non risolutiva). Ma la situazione è grave. È infatti evidente l’intento della Germania di far coincidere nei tempi l’accordo a livello europeo sull’entità della dotazione dell’EFSF con la fissazione di nuove regole, più stringenti di quelle negoziate a Maastricht, sul rientro dai debiti eccessivi, ossia eccedenti il 60% del pil. Come è noto, il debito pubblico italiano, grazie ai governi di Craxi-Andreotti-Forlani e poi alle leggi pro-evasione dei governi Berlusconi, veleggia sul 116% del pil. Sono già più volte trapelate indiscrezioni su regole quali l’obbligo di far diminuire il debito del 5% annuo (che costringerebbero a un avanzo di bilancio della stessa entità), e anche le cifre dei miliardi di riduzione del debito da realizzare. L’ultima, uscita poche settimane fa dalla Commissione Europea, parla di 130 miliardi in tre anni: una cifra folle. Non è un caso che già più volte un economista ben informato quale Paolo Savona abbia esplicitamente espresso la necessità che l’Italia pensi ad un “Piano B”, ossia a “uscire dall’euro avendo preordinato decisioni e alleanze internazionali per superare la fase critica senza incorrere nel rischio di perdere la sovranità fiscale residua e di incappare in una deflazione”; ritenendo tale prospettiva comunque preferibile al “Piano A”, cioè restare nell’euro a tutti i costi, soprattutto in presenza di un cambiamento in peggio delle regole del gioco (Il Foglio, 18 gennaio).
Se, come sembra, queste opzioni sono sul tappeto, è estremamente grave che su tutto questo, per evidente dolo da parte del governo e per la consueta “distrazione” dell’opposizione parlamentare, non avvenga da subito un dibattito pubblico.
Credo che i comunisti, oltre a sollecitare l’apertura di questo confronto, dovrebbero tenere fermo ad alcuni punti essenziali:
1) la più intransigente opposizione ad ogni ulteriore attacco a qualunque titolo al welfare (che andrà invece potenziato attingendo risorse all’enorme bacino dell’evasione fiscale, stimata in 120 miliardi di euro annui per il nostro Paese);
2) la più intransigente opposizione ad ogni modifica peggiorativa del già pessimo Trattato di Maastricht (non sarà fuori di luogo rammentare che tra le ragioni della bassa crescita del nostro Paese negli ultimi anni un ruolo non secondario ha giocato proprio l’insufficiente entità degli investimenti pubblici, ridotti al fine di mantenere il deficit sotto controllo): si tratta di una materia in cui vale la regola dell’unanimità, e l’Italia dovrà votare contro;
3) il rilancio della parola d’ordine dell’Europa dei popoli contro l’Europa dei capitali, per un’Europa che preveda
a. una fiscalità comune e standard comuni ed elevati di protezione dei lavoratori (invertendo la competizione al ribasso nelle politiche fiscali e sociali che ha caratterizzato gli ultimi anni);
b. una politica economica integrata, che includa il rilancio dei grandi progetti infrastrutturali pubblici a livello europeo e trasferimenti di fondi da regioni ricche a meno ricche;
nella consapevolezza che questo obiettivo rappresenta l’unica alternativa concreta alla fine dell’euro e alla disgregazione dell’Unione Europea;
4) la necessità di una battaglia per l’uscita dall’Unione Europea (e quindi dall’euro) qualora i Trattati siano modificati in modo tale da imporre al nostro Paese politiche di ulteriori tagli della spesa pubblica e delle prestazioni sociali, che comporterebbero un ulteriore decennio di stagnazione economica, oltre a polverizzare le conquiste di decenni di battaglie dei lavoratori.

Tratto da:marx21.it

lunedì 14 febbraio 2011

L’ ANOMALIA NELL’ ANOMALIA ITALIANA


 
DI EUGENIO ORSO

Si discute da molto tempo sulla cosiddetta anomalia italiana, si dice che l’Italia è un paese “anomalo” prendendo come termine di paragone i paesi dell’Europa occidentale, oppure tutti i paesi che si definisco capitalisticamente sviluppati.

Questa anomalia investirebbe ogni aspetto, dalla vita politica all’economia, dall’etica alla socialità, dall’atteggiamento dei singoli verso la collettività ai rapporti di lavoro, e costituirebbe più un motivo di imbarazzo che di vanto, com’è ovvio.

Di recente, la rivista online Overleft ha pubblicato un lungo editoriale dedicato proprio a questo fenomeno, dal titolo “Esiste l’anomalia italiana?”



Si tratta dell’ennesimo dibattito sul tema, in cui il direttore della rivista, Franco Romanò, apre la discussione ricordandoci che non si tratta di questione recente ed inedita, ma che il problema dell’anomalia italiana è cosa vecchia, ed è stata posto fin dai tempi di Gobetti e di Gramsci, agli inizi del Novecento, per citare soltanto due fra le molte personalità che se ne sono occupate, in anni diversi e da diverse angolazioni. L’ennesimo dibattito sulla spinosa e storica questione, del quale non ci si può occupare dettagliatamente in questa sede, non è che l’ultimo della serie, ma può offrire lo spunto per discutere di alcuni recenti [ed inquietanti] aspetti che ha assunto l’”anomalia italiana”, partendo dall’individuazione di un’”anomalia nell’anomalia” che oggi è pienamente osservabile e che si lega alla situazione politica nazionale.

Prescindendo dalla vergogna di essere italiani, moderatamente diffusa nel paese, e dalla relativa indifferenza nei confronti dei simboli nazionali ad esclusione dalla nazionale di calcio, l'Italia è il paese dell'Europa occidentale nella posizione di massima sudditanza nei confronti della UE, della BCE, del FMI e della classe globale, nonché quello più degradato, che mostra agli altri paesi europei occidentali l'immagine desolante del loro futuro.

Se la Fiom oggi si muove in scandalosa solitudine nella difesa di diritti elementari, minimi, già di per sé insufficienti e pur tuttavia messi in discussione giorno dopo giorno – come si afferma giustamente nel dibattito pubblicato in rete da Overleft –, ciò dipende dallo stato in cui è ridotta la popolazione italiana, dopo un trentennio di corruzione diffusa, di scandali, di svendite ai globalisti delle grandi attività produttive nazionali, di flessibilizzazione/ precarizzazione del lavoro [e di tutta l’esperienza esistenziale dei singoli] e di azione socialmente e culturalmente idiotizzante, da parte di quella "industria della menzogna televisiva" che non è esclusivamente berlusconiana.

Per quanto riguarda la domanda sull’esistenza della presunta anomalia italiana, che costituisce il titolo del documento pubblicato dalla rivista online di Romanò, se con questa espressione – Anomalia Italiana – non si intende suscitare un articolato dibattito storico che parte dall’risorgimento o dall’Unità d’Italia, oppure dagli inizi dello scorso secolo, ma si intende la particolare condizione di diminuzione della sovranità nazionale e di sudditanza verso l’esterno che stiamo vivendo oggi, combinata con il degrado umano e culturale del paese, la risposta non può essere che positiva.

Gli elementi principali della cosiddetta anomalia italiana sono quindi due, e presentano grossomodo lo stesso peso specifico, considerando però che il primo ha favorito la diffusione del secondo e lo stesso degrado della politica nazionale:


1) La perdita di sovranità politica e monetaria dello stato italiano e la conseguente mancanza di autonomia dei governi, soggetti alla dittatura UE/ BCE/ FMI, e quindi ai voleri dei dominanti globalisti occidentali, e la conseguente imposizione dei vincoli derivanti dall’adozione dell’euro, che non ha incontrato grandi resistenze. In Italia l’asservimento ai “poteri esterni” e l’accettazione conseguente di una sovranità limitata, soggetta a questi poteri ed alle dinamiche del Libero Mercato Globale, rappresentano da tempo altrettante evidenze, con un atteggiamento di sudditanza verso l’esterno che investe tutto lo spettro politico sistemico nazionale – da Berlusconi a Bersani e D’Alema – rivelandoci una sostanziale unità, in termini di politiche e di obbiettivi, dell’unico Partito della Riproduzione Capitalistica. In altri termini, ci si può scannare sulla legittimità del “bunga-bunga”o sull’opportunità delle orge in Arcore, con tanto di prostitute e ruffiani, ma non sull’intangibile Società di Mercato che non conosce confini – e non riconosce le autonomie statuali – e sul diritto degli Investitori e dei loro rappresentanti [vedi ad esempio Marchionne] di imporre condizioni capestro per continuare le produzioni in loco.

2) La flessibilizzazione e l’idiotizzazione di ampie fasce della popolazione della penisola, frutto di un processo iniziato da circa un trentennio e non ancora concluso, che ha visto l’estensione nella società del lavoro flessibile e precario ed il recente attacco al lavoro dipendente “regolare”, la diffusione incontrollata ma voluta di spazzatura mediatica, l’imposizione di “stili di vita” assurdi e debilitanti, la disinformazione sistematica, l’applicazione dei media della tecnica di distrazione di Noam Chomsky per nascondere i gravi problemi politici e sociali, e via elencando.


Quanto precede spiegherebbe bene, fra l’altro, il degrado della vita politica a tutti i livelli e la crescente acquiescenza di un’opinione pubblica che sembra anestetizzata ed insensibile davanti a questo fenomeno in continua espansione.

Una prova dell’”anomalia italiana” ci è offerta dal fatto che il consenso a Berlusconi, e alla Lega che lo puntella a qualsiasi costo etico e sociale, non diminuisce significativamente, nonostante tutto quello che è accaduto e che sta ancora accadendo in questi giorni.

Sembra che non ci siano chiare spiegazioni per il fatto che nessuno, in questo paese, reagisce con la dovuta forza davanti ad un’azione di governo che supporta la distruzione dei posti di lavoro e dei diritti dei lavoratori, davanti alle evidenti collusioni fra politica sistemica ed economia informalmente e formalmente [ossia penalmente] criminale, dinanzi all’evidenza di un individuo, che purtroppo ricopre la carica di presidente del consiglio, il quale si trastulla nelle continue orge “private”, circondato dal malaffare dei ruffiani [in qualche caso, ruffiani-giornalisti], impone le sue prostitute nei consigli regionali o le premia con incarichi ministeriali, scaricandone il mantenimento sulla spesa pubblica, non rispetta le più elementari regole etiche di condotta ed utilizza a scopi personali i poteri del governo, da lui presieduto, per emanare leggi ad personam.

Se non esistesse quella Procura di Milano che oggi lo indaga per concussione e prostituzione minorile, e Ilda Bocassini vivesse all’estero, ad esempio in Australia, a migliaia di chilometri da qui, ciò che fatto Berlusconi per il suo sollazzo e il suo potere personale [in ciò, puntellato caparbiamente dalla Lega], e ciò che non ha fatto per un paese che sprofonda, non scomparirebbero di certo, ma resterebbero come prove evidenti della sostanza del suo miserabile “regime”.

Per quanto molti giornalisti ed intellettuali di sistema non riescono a spiegare questa “anomalia nell’anomalia”, o non vogliono farlo, è chiaro che non si tratta di un fenomeno intelleggibile, ma bensì di un fenomeno assolutamente spiegabile, pur con le dovute cautele e almeno per quanto riguarda lo scrivente.

Nel tentativo di spiegare questa ”anomalia nell’anomalia”, si può utilizzare una metafora astronomica per farsi meglio comprendere.

Nel sistema solare esterno i pianeti non sono rocciosi come la terra, ma veri e propri giganti gassosi, secondo un'espressione diffusa che nasce dalla letteratura di anticipazione scientifica e non dalla scienza vera e propria.

Come tali, sono costituiti da un nucleo, che è essenziale per la loro formazione e quindi per la loro stessa esistenza, e da strati formati da gas, o da gas compressi allo stato liquido, che costituiscono la maggior parte della loro massa.

La materia di cui sono fatti questi pianeti diventa più densa procedendo verso la parte interna, ma essendo i cosiddetti giganti gassosi ricchi di elementi leggeri, come l’idrogeno e l’elio, sono le basse temperature e la minore intensità del vento solare a trattenere questi elementi, impedendogli di disperdersi nello spazio.

Così, il cosiddetto zoccolo duro del consenso berlusconiano ed anche di quello leghista – corrispondente al nucleo roccioso dei giganti gassosi intorno al quale gli stessi si sono formati – è costituito dalla vasta area dell’evasione fiscale e contributiva, e perciò tale consenso si sostanzia, fin dalle origini, nello scambio fondato sull’illegalità “evasione ampiamente tollerata [e dunque protetta] in cambio del voto”, con il voto degli evasori del nord conteso fra il cartello berlusconiano [prima FI, dopo PDL e domani chissà] e la Lega bossiana.

E’ ovvio che la grande massa di voti ricevuti da Berlusconi e dalla Lega non è esaurita dai voti degli evasori, appartenenti a ben noti gruppi sociali relativamente numerosi ma pur sempre minoritari nella società italiana.

Quella che ipocritamente è definita la “piccola” evasione fiscale rappresenta un cancro, anche se non l’unico, per l’Italia, poiché mettendo insieme le “piccole” cifre, sommandole a quelle espresse dalla grande evasione, si ottengono almeno 150 miliardi di euro l’anno, se non 200 miliardi ed oltre, con un trend storico che mostra la continua crescita degli ultimi anni, pur nella persistenza di un PIL stagnante e del declino produttivo.

Ebbene, sono proprio gli appartenenti a questi gruppi – commercio, piccola e media industria, un certo artigianato e parte dei professionisti – che insieme ai patrimonializzati, ai piccoli redditieri ed ereditieri, agli speculatori di piccolo e medio calibro costituiscono la base elettorale più fedele e più consapevole per Berlusconi e per la Lega , in quanto sono mossi esclusivamente dalla volontà di difendere a qualsiasi costo le proprie fortune personali e i propri privilegi, a scapito della maggioranza della società italiana che è soggetta ad una fiscalità spietata.

Come precisato, questi gruppi sociali possono offrire un consenso stabile al berlusconismo e al leghismo in diretta relazione con la necessità di difendere i loro interessi particolari, in conflitto con quelli della restante parte del paese – che deve subire un’elevata fiscalità senza alcun beneficio anche a causa dell’evasione fiscale concessa a queste minoranze – e senza che in ciò vi sia in loro alcuna traccia di idealità, nonostante i roboanti proclami propagandistici di Berlusconi, che ancor oggi osa ergesi ridicolmente a difensore “delle libertà” contro il comunismo, oppure la presunta difesa dei diritti dei “popoli del nord” contro i soprusi dello stato centralista millantata da Bossi.

Per giustificare l’ingiustificabile, se facciamo un rapido tour in rete sapendo in partenza, però, dove andare a parare, in certi siti [mascherati da studi politico-strategici] possiamo leggere autentiche bestialità, in difesa di questo avvilente stato di cose.

Ci sono soggetti in evidente malafade che spacciano i predetti gruppi per le autentiche e salvifiche “forze produttive nazionali” – ben sapendo, ad esempio, che la PMI è soltanto il risultato della frammentazione del tessuto produttivo in una miriade di piccole unità, deboli e non di rado inefficienti, alimentata dalla scomparsa della grande industria e dell’intervento pubblico – ed osano tacciare apertamente la maggioranza della popolazione italiana, costretta a sopportare buona parte del peso economico, sociale e fiscale del declino in atto, di parassitismo, poiché legata per i tre quarti alla “spesa pubblica” e non piegata alle logiche del Mercato!

Tralasciando questa penosa e miserabile pubblicistica in rete, che fa eco a Libero, al Giornale e alla Padania ed è volta a nascondere la vera sostanza del consenso berlusconiano-leghista, ciò che conta è rilevare che da sole, le minoranze di evasori, di patrimonializzati, di redditieri e di piccoli speculatori [supposti “ceti produttivi”, in particolare del nord della penisola], non possono offrire a Berlusconi e alla Lega che la parte più stabile del voto, insufficiente, però, a garantire un ampio e decisivo successo elettorale, simile a quello del 2008.

Il resto del consenso è espresso da ben altri gruppi, che è bene cercare di individuare per sommi capi ma con una certa precisione.

Come nel caso dei pianeti gassosi, che devono una parte rilevante della massa ad elementi leggeri, così Berlusconi e i leghisti devono una parte significativa dei voti che incamerano a gruppi “esterni” al loro nucleo, o “zoccolo duro”, elettorale, orientato da ben precisi interessi economici.

Per quanto riguarda Berlusconi, il voto degli idiotizzati, dei soggetti culturalmente deboli e degli incolti riveste fin dagli esordi una grande importanza, a tal punto che si può affermare che il successo di Silvio Berlusconi, quale ologramma mediatico dietro il quale si nascondono precisi interessi, è in parte significativa basato sull’ignoranza, sulla manipolazione e sull’arretramento culturale.

Per questi individui, il consenso espresso si fonda su convinzioni fallaci, indotte attraverso la manipolazione ed approfittando della loro situazione di debolezza culturale, e quindi non si sostanzia in precisi interessi economici, che anzi, dovrebbe indurli a negare il voto a Berlusconi [ed ovviamente anche alla Lega].

Non a caso l’industria mediatica berlusconiana ha contribuito a produrre queste “soggettività deboli” e manipolate, essenziali per integrare con il loro consenso quello degli evasori, degli speculatori e dei furbi.

La produzione di quelle che in questa sede sono state definite soggettività deboli – con un progressivo impoverimento culturale ed economico per il paese, nella contemporanea crescita degli squilibri sociali – è in corso da circa tre decenni, e quindi da prima dell’affermazione come forza politica parlamentare della Lega bossiana e della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi.

Anche la Lega Nord ha beneficiato del voto ignorante ed idiota [definiamolo pure così], e si è spinta fino ad inventare una patria nordista, la “Padania”, diffondendo artatamente una forma grottesca di pseudo-nazionalismo nel settentrione.

Il panorama culturale e sociale che si è presentato ai tempi del passaggio dalla cosiddetta prima repubblica alla seconda, era gia profondamente diverso da quello che ha caratterizzato gli anni cinquanta, sessanta e settanta del Novecento, ed i “bacini elettorali” del consenso ai quali hanno potuto attingere, fin dal loro esordio, Berlusconi e Bossi socialmente e qualitativamente non erano più esattamente quelli dei vecchi partiti di massa, dalla DC al PCI e dal PCI al MSI.

Altre componenti elettorali, divise a nord fra berlusconiani e leghisti, sono rappresentate dalle partite IVA più marginali, maggiormente esposte alla crisi e all’impoverimento, quelle che ipocritamente si definiscono parasubordinate, cioè le partite IVA e le posizioni di coloro che non sono dei veri “professionisti”, dotati di una sostanziale autonomia nel definire i ritmi di lavoro ed i compensi – anche se in molti casi sono loro stessi a credere di esserlo, illudendosi di occupare ruoli sociali che nei fatti non occupano – ma semplici lavoratori dipendenti non stabilizzati e quindi svantaggiati, i quali dipendono da pochi committenti che gli impongono le condizioni e decidono, perciò, del loro futuro.

Per quanto riguarda il successo ottenuto della Lega, ha pesato molto in questi ultimi venti anni un generico voto di protesta antipolitico, non troppo “maturo” e consapevole né ben definito socialmente, che non di rado l’ha beneficiata nel settentrione del paese, riassorbendo un po’ di astensionismo elettorale.

Del voto antipolitico ha beneficiato ampiamente lo stesso Berlusconi, e questo è accaduto subito dopo il disastro di Mani pulite e la distruzione dei vecchi partiti.

Berlusconi è stato, fra l’altro, molto abile nel giocare la carta propagandistica dell’anticomunismo in assenza di comunismo – paventando un pericolo rosso sempre in agguato ma ormai non più reale –, soprattutto all’inizio della sua parabola, quando erano ancora “caldi” i cadaveri dell’Unione Sovietica e del vecchio PCI.

La conclamata “fine della lotta di classe”, in seguito alla vittoria del modello di capitalismo liberaldemocratico-mercatista, ha liberato forze che in altre età capitalistiche hanno assunto connotati critici o apertamente antagonisti nei confronti del sistema.

Se per Berlusconi hanno votato i disoccupati siciliani, nell’illusione diffusa dal piazzista di Arcore della risoluzione integrale dei problemi del paese, compreso lo storico divario nord-sud che tuttora permane con la tendenza ad approfondirsi, e nell’inganno del milione di posti di lavoro creati letteralmente dal nulla [un po’ come fanno le banche con la moneta “contabile” …], nel settentrione gli operai hanno votato per la Lega bossiana in quanto orfani di rappresentanza politica e abbandonati da una sinistra debole, prona davanti al liberismo e disponibile alla sudditanza nei confronti dei grandi interessi globalistico-finanziari esterni al paese.

Infine, sia Berlusconi sia la Lega – e qui non si può non dare ragione ad una certa sinistra individualistica, liberista e parlamentare – hanno giocato molto sulla Paura, sotto vari aspetti, a partire da una generica paura del futuro suscitata dalla fine delle aspettative crescenti capitalistiche e dal declino economico italiano, fino ad arrivare alla “paura dell’altro”, dell’allos, dello straniero e del diverso, e la Paura ha avuto un peso maggiore, nei successi elettorali berlusconiano-leghisti, di un generico richiamo alla “Libertà”, per quanto riguarda il berlusconismo, e della conclamata [ma pelosa] “difesa dei diritti dei popoli del nord”, per quanto attiene a Bossi e alla Lega.

Appare chiaro che vi sono molti elementi comuni – tutti negativi – fra il berlusconismo ed il leghismo, i quali si possono riassumere come segue: illegalità derivante da un consenso “primario” fondato sull’evasione fiscale, idiotizzazione della popolazione e degrado culturale come veicoli per il successo elettorale, misconoscimento dello stato comatoso dell’economia nazionale e nascondimento della questione sociale, adesione nei fatti alla visione liberista e smantellamento dello stato sociale, pulsioni eversive nei confronti dell’assetto istituzionale della repubblica italiana e della costituzione, diffusione della Paura nel corpo elettorale per consolidare il proprio potere, e si potrebbe proseguire nell’elencazione, ma è bene fermarsi qui per ragioni di spazio.

Se nel caso metaforico dei giganti gassosi del sistema solare esterno gli elementi leggeri che li costituiscono sono trattenuti dalle basse temperature e dalla minore intensità del vento solare, ciò che contribuisce a trattenere il consenso di questi gruppi esterni allo “zoccolo duro” elettorale berlusconiano e leghista [corrispondente al nucleo dei giganti gassosi], non è esclusivamente quel ”idiotismo socialmente organizzato” che ostacola cambiamenti di rilievo, ma è l’assenza di vere alternative politiche, che si accompagna al timore diffuso che comunque, dopo Berlusconi, la situazione economica del paese non potrà che peggiorare.

Oltre all’equazione perversa, fondata sull’illegalità, che possiamo esprimere come “consenso elettorale = licenza di evadere il fisco”, e all’idiotizzazione di parte significativa della popolazione, che di questi tempi da sole potrebbero non bastare, l’esecutivo Berlusconi-Lega si regge grazie alla compresenza nella società italiana di quattro elementi principali: 1) l’assenza di vere alternative politiche all’interno del sistema percepita dal corpo elettorale, 2) l’impossibilità di riacquisire la necessaria sovranità politica e monetaria per cercare di arrestare il declino, 3) il crescente terrore che l’azione speculativa dei Mercati ed Investitori si rivolga con decisione contro l’Italia, 4) la soggezione apparentemente senza scampo alle imposizioni di Unione Europea, FMI e BCE.

Il risultato pratico di questa situazione è che il degrado culturale, economico e sociale del paese continua, favorito dalla relativa “inamovibilità” di Berlusconi che contribuisce, assieme ad una Lega sempre più influente e con il concorso di un’opposizione parlamentare inaffidabile e inefficace, ad alimentarlo, allontanando nel tempo, sine die, ogni prospettiva di cambiamento.

In ciò risiede, essenzialmente, l’ulteriore anomalia nell’”anomalia italiana”.