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sabato 16 giugno 2012

Stato Versus Mercato L’Italia stretta fra globalizzazione, Europa unionista e deficit di sovranità nazionale

 

Inseriamo questo contributo di Eugenio Orso sul problema della fine sostanziale della sovranità politica degli Stati nel contesto dell’UE e della globalizzazione capitalstica



di Eugenio Orso

Premessa
Come si evidenzia nel sottotitolo di questo breve saggio politico, l’Italia è finita nella morsa globalizzante neoliberista, stretta com’è fra i processi di globalizzazione, mai interrotti dalla crisi strutturale neocapitalistica, un’Europa aliena e unionista che la sta stritolando imponendo con brutalità i suoi programmi economici, e il drammatico deficit di sovranità nazionale che non consente al paese di decidere, autonomamente, del proprio futuro.
Il presente scritto si articola in due capitoli. Il primo capitolo è introduttivo, ed attraverso un esercizio di storia comparata si tenta di evidenziare la gravità e le potenzialità distruttive della crisi neocapitalistica in Italia. Il secondo capitolo, che costituisce il cuore del saggio, è relativo al rapporto, ormai fin troppo chiaro, fra l’avvento dell’Europa dell’Unione, la riorganizzazione delle sue istituzioni sopranazionali, la creazione della BCE, l’introduzione dell’euro e la perdita di sovranità politica e monetaria degli stati succubi, fra i quali lo stato nazionale italiano. Lo scontro fra il sopranazionale e il nazionale che si sta verificando nel vecchio continente, cioè fra l’Unione europea globalista ed alcuni Stati da “normalizzare” economicamente e socialmente (per ora, l’Italia ela Greciamesse di recente “sotto tutela”), nasce dalla rottura dello storico patto fra il vecchio Stato nazionale dotato di sovranità politica ed il Mercato, da intendersi qui come il grande Capitale in mani private. Il “conflitto” fra i due è iniziato nella seconda metà degli anni settanta del novecento, dopo lo scadere dei cosiddetti trenta gloriosi anni di compromesso, di relativo equilibrio e di moderata emancipazione delle classi subalterne. Tale confronto riflette il tentativo, che sta per riuscire, di anteporre sempre e comunque l’economia ultraliberista, dominata dalle ragioni della finanza, alla decisione politica nazionale sovrana, e di demolire le ultime barriere, in Europa e in occidente, che ancora ostacolano la libera circolazione dei capitali. Si tratta, in sostanza, della continuazione in nuove forme, per molti versi inedite, dell’antico scontro fra la crematistica da un lato, intesa come creazione illimitata di valore monetario e finanziario, e l’etica dall’altro lato, che per sussistere può ammettere soltanto la “buona” economia, subordinata alla decisione politica della comunità. Uno scontro vivo fin dai tempi di Aristotele, che ha attraversato i secoli ed oggi potrebbe risolversi con la vittoria della nuova crematistica. Gli effetti sociali e politici, pesantemente negativi, dell’attuale crisi neocapitalistica e la ricerca di possibili vie d’uscita, per l’Italia riorganizzata in chiave neoliberista e globalista dall’esecutivo Monti, non potranno che portare all’avvio di un processo rivoluzionario, alimentato da un chiaro disegno politico, economico e sociale alternativo, pena l’implosione definitiva della sua società ed il completamento della colonizzazione neoliberista. Al di fuori di una futura via rivoluzionaria per la salvezza, non sembra che esserci un ritorno incruento, peraltro improbabile (se non impossibile), alle politiche neokeynesiane del dopoguerra, che sollecitavano un forte interventismo statale in campo economico, ammettevano la protezione dell’industria nazionale e richiedevano il controllo della moneta, come accadeva nella precedente fase storica, in cui lo stato‐nazione non era nelle attuali condizioni di subordinazione, ed era ancora dotato di un certo grado di autonomia e sovranità. Nel caso di disordini insidiosi e troppo estesi tendenti al caos permanente, di guerra civile e/o di una frantumazione regionalista del paese con il rischio di un contagio destabilizzante del cosiddetto ordine mondiale, l’occupazione globalista effettiva del paese, manu militari utilizzando lo strumento NATO, potrà diventare una drammatica realtà.

La grande crisi e le antiche crisi

In seguito agli effetti economico‐sociali negativi delle misure imposte da governi fantoccio che operano per conto terzi, scopertamente al di fuori di un supposto quadro di legalità democratica, si sente affermare sempre più spesso che l’attuale crisi italiana (a causa dell’ingente debito “sovrano”, dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico che lievitano con lo spread, della caduta del prodotto, dei segnali economici marcatamente depressivi) è la più grave dal dopoguerra, ma spesso si omette di dire che questa crisi è ampiamente indotta dalla dinamiche neocapitalistiche, e serve per l’omologazione dell’Italia al modello di capitalismo ultraliberista anglo‐americano, “evolutosi” nell’ultimo ventennio senza incontrare ostacoli di rilievo, fino a diventare il nuovo capitalismo finanziarizzato del terzo millennio.
Pur sapendo che gli esercizi di storia comparata sono insidiosi, perché talvolta rischiano di portare fuori strada nell’analisi, non possiamo non riconoscere che la penisola, anticamente, ha già vissuto almeno una situazione simile, foriera di gravi rischi e di innumerevoli lutti, e precisamente durante la cosiddetta crisi del terzo secolo (dopo Cristo) che ha investito l’impero romano, e dalla quale l’impero – fino ad allora sufficientemente saldo ed in espansione, soprattutto nel periodo che andava da Ottaviano Augusto a Traiano, o al più a Marco Aurelio – non si è mai più ripreso. Quando scoppiò la crisi del terzo secolo, la penisola era ancora fiorente e rappresentava il cuore del sistema imperiale, ma quando la crisi finì, in termini economici, demografici e sociali le province italiane ne uscirono malconce ed esauste, pronte per entrare nel lungo tunnel della decadenza dell’occidente, durata circa due secoli, e del conseguente trapasso al “nuovo mondo” feudale. La crisi neocapitalistica che oggi investe soprattutto l’Italia e l’Europa, è nel contempo elemento strutturale del Nuovo Capitalismo, senza il quale questo modo storico di produzione non potrebbe reggersi a lungo, e manifestazione del definitivo tramonto, in quanto potenza economica e produttiva, del vecchio continente a rischio di marginalizzazione, con i paesi dell’Europa mediterranea e la stessa Italia che sembrano essere diventati, in quest’ultimo periodo, l’epicentro della crisi stessa, un’area del mondo in cui la “distruzione creatrice” in atto è più evidente e rischia di diventare sanguinosa.
Anche la crisi romana del terzo secolo fu una “distruzione creatrice”, naturalmente rapportata al sistema schiavistico e al sistema (politico) imperiale dell’epoca, e lo fu su vari piani: quello economico e sociale, quello militare, e quello dell’organizzazione dell’impero. Ma dalla crisi del terzo secolo non uscì nulla di buono, perché non sempre ciò che si crea dopo aver distrutto è positivo per le società umane e per gli equilibri sociali, per la stessa tenuta delle istituzioni che si vorrebbero preservare.
Grazie al cinquantennio ricordato come il periodo dell’anarchia militare (dal 235 al 284 dopo Cristo), si passò dal principato augusteo, che rappresentava una forma politica di dominio relativamente “soft”, in grado di mediare fra i poteri (fra i quali il senato aristocratico d’età repubblicana) e le classi sociali (patrizi e plebei, o meglio, honestiores e humiliores), ad una sorta di dominato, o di dispotismo non asiatico fortemente centralizzato, non di rado retto da figure di militari‐avventurieri emergenti (il primo fu Massimino il Trace). L’avvento del dominato imperiale riduceva i già angusti spazi di libertà concessi alla popolazione, mentre l’accresciuta pressione fiscale per affrontare le ingenti spese di guerra (contro i barbari ed i persiani), nel tentativo di rafforzare l’apparato militare e potenziare quello statale, riduceva sul lastrico ampie fasce di popolazione, risparmiando soltanto i grandi latifondisti.
Un po’ come oggi, in Italia, in cui la crescente pressione fiscale colpisce sempre più duramente i redditi da lavoro dipendente e le pensioni (in un paese in cui ci sono undici milioni di poveri, fra i quali moltissimi lavoratori e pensionati, rapidamente cresciuti di numero grazie alla crisi ed alle misure governativo‐europeiste), risparmiando soprattutto i grandi evasori fiscali, i quali nel concreto sono intoccabili perché appartengono alla classe dominante, o rappresentano potentati dell’economia formalmente criminale, che si sviluppa
parallelamente a quella neocapitalistica. L’intangibilità del sistema bancario, che deve essere finanziato e sostenuto a tutti i costi, se del caso sottraendo risorse agli impieghi di natura sociale e produttiva, completa il quadro.
Se la crisi romana del terzo secolo accrebbe la conflittualità sociale, suscitò le rivolte dei dominanti e modificò l’ordine sociale, in Italia ed altrove entro i confini dell’impero, l’attuale crisi neocapitalistica e l’avvento di un governo collaborazionista dell’occupatore del paese, quale è quello di Monti, suscita fuori degli schemi sistemici e del “politicamente corretto” (semi‐)rivolte sociali fino a ieri imprevedibili (Sicilia, trasportatori, tassinari, pescatori, ed in futuro molti altri), mentre la violenza della crisi e delle controriforme montiane accelerano la trasformazione dell’ordine sociale, che procederà, se non incontrerà ostacoli di rilievo, fino alla sua estrema “semplificazione” sociologica in classe globale dominante e classe povera dominata. Per evitare opposizioni di rilievo nel tessuto politico e sociale italiano, e per far procedere speditamente le controriforme pianificate, la classe globale che sostiene Monti ha “comprato” i cartelli elettorali che contano, i sindacati, i vertici delle lobby importanti, assicurandosi il loro appoggio contro gli interessi del popolo italiano (e non di rado dei loro stessi militanti, iscritti ed associati).
La prima e più profonda ragione della spaventosa crisi romana del terzo secolo, la quale ha rimodellato brutalmente la società italica peggiorando le condizioni di vita della massa, risiede nello svuotamento progressivo dei “giacimenti” di braccia per il lavoro schiavo, e più in generale per appropriare risorse, come effetto del raggiungimento della massima espansione militare, territoriale e demografica dell’impero. A ciò corrisponde nel nostro tempo storico, in cui la penisola è nuovamente funestata da una profonda crisi economica, politica e sociale, il progressivo e rapido svuotamento di sovranità dello stato nazionale, che dopo aver raggiunto l’apice della sua autonomia con il fascismo, nel periodo prebellico, ha visto progressivamente ridursi le sue competenze, ed ha perso la prerogativa della decisione politica su molte materie strategiche (moneta, debito pubblico, industria, eccetera), fino a scivolare nelle attuali condizioni di subalternità nei confronti dell’esterno. Questa perdita di sovranità, forse irreversibile, è indotta e accelerata dalle dinamiche neocapitalistiche che hanno influenzato la stessa “costruzione” europea, i parametri di Maastricht, il dominio della BCE e del FMI, ed imposto l’euro ai maggiori paesi dell’Europa occidentale. La rapacità del dominato imperial‐militare romano, che ha impoverito le popolazioni italiche fin dall’età del ferro dei Severi, trova unʹinquietante corrispondenza, oggi, nella rapacità dei globalisti dominanti, i quali, assumendo il controllo degli stati‐nazione privati della loro autonomia, saccheggiano le risorse collettive e de‐emancipano le masse, riducendole a neoplebi. Dovrebbe esser chiara anche al cosiddetto uomo della strada, giunti a questo punto, la vera funzione della UE, della BCE e dell’euro.
Come l’impero che in quegli anni lontani ha mostrato il suo vero volto, riorganizzandosi in dominato dispotico e impoverendo la popolazione, per scaricare sulle classi inferiori l’ingente costo della crisi, economica, sociale e militare del terzo secolo, cosi, oggi, la liberaldemocrazia ci mostra il suo vero volto, autoritario, dispotico, oligarchico, di totale subordinazione alle ragioni della classe dominate globale, e contribuisce ad imporre quelle controriforme, economiche e sociali, che scaricano sui più deboli l’onere della crisi e rimodellano in senso neocapitalistico la società.
Gli italici e le altre popolazioni non sono riusciti, nonostante l’insorgente conflittualità fra i gruppi sociali e le numerose rivolte, ad impedire quella trasformazione dell’ordine costituito che alla fine hanno dovuto subire, fino all’estinzione formale, avvenuta due secoli dopo, dell’impero romano d’occidente. Riusciranno nel prossimo futuro gli italiani, e gli altri popoli dell’Europa mediterranea, ad interrompere il processo in atto, sottraendosi alla morsa del nuovo potere globalista, senza dover attenderne l’estinzione? Al momento attuale, in cui gli eventi sono in pieno corso, si moltiplicano le proteste fuori degli schemi, si attiva la repressione sistemica e la “distruzione creatrice” neocapitalistica subisce un’accelerazione, il futuro è sommamente incerto e la domanda non può ancora trovare una chiara risposta.

Sovranità nazionale e dominio del sopranazionale

L’opposizione, o meglio l’incompatibilità, fra l’affermazione e il mantenimento di una sovranità assoluta degli stati nazionali e la trasmigrazione del potere in entità sopranazionali sempre più potenti e onninvasive, nell’Europa del dopoguerra sembra essersi risolta a favore queste ultime. Non si può ancora sapere se il trionfo del globale sul nazionale, del mondiale sul locale, e soprattutto del Capitale sul Lavoro, sia definitivo, fino all’irreversibilità dei processi in atto, ma è certo che le oligarchie globaliste, supportate dallo strumento militare americano‐NATO e dalla finanza di rapina, hanno vinto un’importante battaglia, sottomettendo in buona misura gli stati, i popoli e le nazioni. La stessa, dissennata tensione, diffusa ad arte, per la “difesa dell’euro” che spiana la strada alle controriforme sociali, e che si giustifica minacciando sciagure inenarrabili in caso di collasso della moneta europea, o semplicemente dell’uscita di uno stato dall’Unione monetaria, costituisce una prova di quanto qui si afferma. Infatti, all’euro si può sacrificare tutto, anche le pensioni, anche la sanità o la scuola pubblica, persino il posto di lavoro fisso e tutelato (unica fonte di sostentamento per la maggioranza), e di questo purtroppo si mostrano convinte, in Italia e altrove, moltissime vittime delle dinamiche neocapitalistiche. Disinformazione mediatica, propaganda ultraliberista e neoliberale, idiotizzazione sociale, “snazionalizzazione” delle coscienze, svalutazione del ruolo dello stato, delle comunità di appartenenza, della socialità e diffusione dell’individualismo anomico, hanno proceduto di pari passo con l’affermazione dei “precetti” economico‐finanziari di questo capitalismo, consentendogli, fino ad ora, di spianare ogni ostacolo sul suo percorso. La grande disputa politica, come dovrebbe essere chiaro a tutti, attualmente è quella fra i sostenitori della sovranità assoluta dello stato nazionale, da un lato, e le oligarchie globaliste che istituiscono nuove forme di governo sopranazionale, dall’altro, in accordo con i loro interessi vitali. La classe dominante globale è oggi sul punto di stravincere il confronto, come provano i casi della Grecia e dell’Italia (ma non soltanto questi), e ciò equivarrebbe anche ad uno storico trionfo (irreversibile?) del Capitale sul Lavoro, perché le politiche sociali, assistenziali, di emancipazione dei lavoratori e di tutela del lavoro sono possibili, come la storia ha ampiamente dimostrato, soltanto in un quadro di ampia autonomia, politica e monetaria, degli stati nazionali. Quello che appare scontato è che non c’è più alcuna possibilità di compromesso fra Stato e Mercato (e la condizione dell’Europa lo testimonia), cioè fra la sovranità nazionale, sul piano politico, monetario ed economico, e il grande Capitale finanziario nelle mani della classe neodominante globale. Gli esecutivi di Monti, in Italia, e di Papademos, in Grecia, sono altrettanti “cani da guardia” del capitale finanziario, ed agiscono scopertamente contro i popoli e gli stati nazionali. Di recente, nella Grecia affidata a quel Papademos di cui Monti è un replicante, il maggior sindacato di polizia ellenico, che agisce nel quadro dello stato‐nazione, ha minacciato di arrestare i funzionari del FMI ed europei presenti sul territorio greco, dichiarando di schierarsi con il popolo contro l’Europa finanziaria dei dominanti e la globalizzazione.
La grande disputa politica fra i sostenitori della sovranità nazionale e i “globalizzatori”, equivale sul piano economico al confronto fra i sostenitori del “compromesso” fra politica ed economia, regolamentando i mercati (o addirittura sopprimendoli, nel caso si assumano posizioni non riformiste) e gli ultraliberisti che teorizzano, e mettono in pratica con successo, la piena autonomia e la superiorità del Mercato.
Ciò che è importante capire, e ribadire una volta di più, è che le due battaglie, quella adifesa dell’autonomia degli stati‐nazione e quella sociale in difesa del welfare, non solo non sono incompatibili – una “di destra” e l’altra “di sinistra”, secondo i vecchi schemi ormai inattuali, ma, al contrario, sono complementari, perché ambedue costituiscono presupposti indispensabili per la libertà, l’autodeterminazione e la giustizia sociale realizzata.
Difendendo l’autonomia dello stato nazionale contro i globalisti e contro quel loro strumento di dominio che è l’Europa dell’Unione, si difendono anche il Lavoro, i diritti dei subalterni (quelli concreti, economici, non quelli astratti e posticci liberaldemocratici), le conquiste economico‐sociali della seconda metà del novecento, i meccanismi redistributivi del reddito a vantaggio dei subordinati. Possiamo perciò affermare che lo stato nazione pienamente sovrano, nelle attuali condizioni storiche, rappresenta l’ultimo baluardo della socialità, dell’etica, dell’equità contro il saccheggio operato dai mercati e l’imposizione di una globalizzazione economica che conviene soltanto ai dominanti.
L’attacco alla sovranità politica e monetaria dello stato‐nazione ha richiesto, per poter essere sferrato con successo, l’avvio di rilevanti trasformazioni culturali, economico‐sociali e politiche che si possono sintetizzare come segue.
[a] Traformazioni antropologicoculturali e dell’ordine sociale.
E’ bene evidenziare che l’attacco allo stato‐nazione, chiarissimo nell’Europa mediterranea, in cui alcune entità statuali sono occupate dagli emissari delle élite globaliste e svuotate di contenuti politici effettivi, è stato reso possibile dallo sconvolgimento dell’ordine sociale precedente e dal grandioso esperimento di manipolazione culturale ed antropologica per la creazione sociale dell’uomo precario, per la flessibilizzazione di massa a partire dal lavoro, per la diffusione della stupidità sociale organizzata. In luogo dell’inclusione domina l’esclusione, dal lavoro e dalla decisione politica, i cittadini consapevoli tendono ad essere sostituiti da “idiotai”, confinati nella dimensione privata dell’esistenza ed espropriati della dimensione politico‐sociale, all’emancipazione si è sostituita la riplebeizzazione di massa, che investe tanto gli operai quanto i ceti medi figli del welfare novecentesco. Senza questi indispensabili presupposti, l’esproprio di sovranità e di socialità in atto avrebbe trovato fortissime resistenze, e probabilmente non potrebbe esser portato a compimento con indubbio successo, come accade di questi tempi. Conditio sine qua non dell’attacco finale alla sovranità nazionale, condotto proprio in questi mesi in Italia e in Grecia, è stato quel processo manipolatorio di massa che ha distrutto le classi del vecchio ordine (espressione del capitalismo del secondo millennio) e neutralizzato l’opposizione sociale, un processo che è in corso da circa un trentennio ed ha ottenuto indiscutibili “successi”. Il mondo culturale borghese, la solidarietà e l’identità della classe operaia, salariata e proletaria, le sicurezze e le “aspettative crescenti” dei ceti medi postbellici stanno scomparendo, anzi, possiamo affermare che in assenza di contrasti fra qualche anno saranno un mero ricordo, materia per gli storici e per una retrospettiva sociologica imbevuta di nostalgismi.
[b] Trasformazioni economiche dopo la rottura definitiva del patto fra Stato e Mercato.

Altro elemento che ha creato i presupposti, quantomeno nell’Europa mediterranea “spendacciona” e vulnerabile, per la perdita di sovranità degli stati è la crisi neocapitalistica permanente come elemento strutturale del Nuovo Capitalismo e come strumento di dominio globalista, opportunamente combinata con i vincoli di Maastricht e dell’euro. La bolla del debito pubblico e la sopravvivenza dell’euro rappresentano altrettanti cavalli di troia per l’assoggettamento degli stati, e per la loro occupazione (permanente? Sine die?) senza l’uso di strumenti bellici. L’esperimento greco e la vicenda italiana sono a tali propositi paradigmatici. Gli esecutivi imposti ai due paesi rispondono nel concreto soltanto ad interessi esterni e al comando neocapitalistico della classe globale. Il tutto “insaporito” con slogan neoliberisti, da accettare acriticamente e privi di effetti economico‐sociali positivi: l’indispensabilità della crescita, perniciosa anche dal punto di vista ambientale, la competitività in uno scenario globale di libero movimento dei capitali, l’apertura definitiva al mercato, la “monotonia” del posto fisso e l’inevitabilità della flessibilizzazione del lavoro, eccetera, eccetera. I sistemi che FMI e Banca Mondiale usavano per assoggettare al libero mercato i paesi del terzo mondo (piani di aggiustamento strutturale, ricatto del debito, apertura forzata dei paesi ai capitali finanziari internazionali) sono simili, per certi versi, a quelli che FMI, UE e BCE utilizzano oggi contro i paesi dell’Europa mediterranea, chiamati con disprezzo PIIGS. Si pensi al vero significato del Cresci‐Italia di Monti che accompagna, come un’illusoria carota agitata dal Quisling globalista, le misure più feroci e impoverenti. I veri obbiettivi delle manovre montiane in Italia, e di quelle del suo omologo Papademos in Grecia, sono essenzialmente i seguenti: (1) imporre il modello capitalistico ultraliberista, portato alle estreme conseguenze, che identifica un nuovo modo di produzione sociale, (2) ridurre all’osso l’area dell’intervento statale, compromettendo persino i cosiddetti beni pubblici puri, che solo lo stato può offrire a condizioni ragionevoli (non di mercato), rendendoli accessibili a tutta la popolazione, (3) rischiavizzare il lavoro per ridurlo a mero fattore produttivo (nello specifico italiano, la scomparsa del contratto collettivo nazionale, l’attacco all’art. 18, la probabile “riforma” della CIG, eccetera), (4) accelerare latrasformazione sociale in senso neocapitalistico, riplebeizzando una parte rilevante dei cet medi (in questo senso la “liberalizzazione” delle professioni), fino allo stabilirsi della dicotomia Global class/Pauper class.
[c] Trasformazioni politiche, svuotamento di contenuti effettivi delle istituzioni statuali e assimilazione completa dei cartelli elettorali liberaldemocratici nell’unico Partito della Riproduzione Neocapitalistica.
L’ultimo supporto che si è rivelato indispensabile per “piegare” gli stati nazionali ai voleri della classe globale neodominate è la piena omologazione della cosiddetta classe politica al neoliberalismo ultraliberista, con particolare biasimo per la sinistra, che si sta rivelando in diversi paesi il miglior servo dei globalisti. In Italia, ad esempio, il cosiddetto centro‐destra (con l’esclusione della Lega che agisce per puro calcolo elettoralistico) ha piegato la testa, a partire dallo spaventato ed isolato Berlusconi, ed ha accettato Monti a denti stretti, cedendogli l’esecutivo e garantendogli un appoggio incondizionato. Ma è il Pd, assieme ai centristi che si mostrano entusiasti delle riforme montiane, il sostenitore/servitore più affidabile di questo governo fantoccio, insediato a tempo di record dagli occupatori del paese, dopo le dimissioni di Berlusconi, con la decisiva complicità di Napolitano. Pur appoggiando servilmente l’esecutivo globalista (PdL, Pd, centristi), o contrastandolo fintamente in parlamento senza esiti concreti (Lega, IdV), espropriati dall’alto del controllo del governo del paese e della possibilità di fare una vera opposizione, i cartelli elettorali marginalizzati continuano nella finzione liberaldemocratica e simulano un confronto politico, ormai senza consistenza alcuna. Si va dalle accuse incrociate, quando scoppiano scandali che investono esponenti dell’uno o dell’altro cartello (il caso Penati, l’ex tesoriere della Margherita Lusi, i processi ancora in corso in cui è coinvolto Berlusconi), alle proposte di entente cordiale per la tanto attesa riforma elettorale, la quale, però, potrà trovare concreto riscontro soltanto quando e se i globalisti consentiranno di tornare alle urne.
La finzione, finalmente scoperta e trasformatasi in un’indecorosa recita, è dura a morire. Mai come oggi la situazione italiana offre la prova della fine della dicotomia politica destra/ sinistra, che non ha più alcun senso se la politica è completamente soggetta all’economia finanziaria, e supporta un “governo tecnico” incaricato di imporre il modello capitalistico ultraliberista, approvando pedissequa le sue controriforme.
In conclusione, possiamo affermare che la vittoria del globale sul nazionale, dell’economico sul politico, della finanza sulla socialità, del Capitale sul Lavoro, altro non sono che scontati riflessi della vittoria complessiva del Mercato sullo Stato, una vittoria epocale (ma forse non definitiva, per tutto il secolo) che ha instaurato il dominio sopranazionale della Global class, espropriando le entità statuali della sovranità politica e monetaria e sottomettendole al comando neocapitalistico.
 

mercoledì 11 gennaio 2012

Più Europa o meno Europa? Meno Europa, e perché.




di Costanzo Preve






1. Il progetto di un'Europa politicamente e culturalmente unita è, in quanto tale, qualcosa di nobile. Esso trova le sue radici in una lunga storia, in cui peraltro le discontinuità ed i conflitti sono almeno altrettanto grandi della continuità e dell'affinità. Il discorso culturali visti con sulle cosiddette "radici comuni" dell'Europa è molto diffuso, ma a seconda dei punti di vista diventa un gioco di aggiunte e di esclusioni. I credenti insistono sulle "radici cristiane" dell'Europa, mentre i laici cercano di toglierle in tutti i modi, ed insistono invece su temi a loro cari, come la rivoluzione scientifica e l'illuminismo. Dal momento che non sono per ora di moda nel difficile mondo dei ceti intellettuali politicamente corretti, Hegel e Marx sono però esclusi, in quanto sono ancora scritti sulla "lavagna dei cattivi".


Le generazioni trainanti dell'unificazione politica dell'Europa sono state soprattutto due. La prima è composta da coloro che hanno vissuto il trauma della prima guerra mondiale, e sono ormai tutti defunti (Adenauer, De Gasperi, Schumann, eccetera). La seconda è composta da coloro, oggi ormai quasi centenari, che hanno vissuto il trauma della seconda guerra mondiale (il tedesco Schmidt, l'italiano Ciampi, eccetera). E’ allora del tutto chiaro il loro movente psicologico, che possiamo tranquillamente riconoscere come nobile: mai più il macello sanguinoso della prima guerra mondiale! Mai più il macello sanguinoso della seconda guerra mondiale! Pace ed unità fra i popoli europei!


E tuttavia, anche la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni. L'aver cancellato Hegel e Marx come padri filosofici dell'Europa comporta anche la cancellazione della dialettica storica, e la sua sostituzione con l'innocuo moralismo kantiano e con le buone intenzioni retoriche.


In questa fine del 2011 i nodi sono giunti al pettine. L'unificazione economica europea è stata un atto di irresponsabile avventurismo storico. E allora non intestardiamoci nell'errore. Facciamo un passo indietro, finché siamo ancora in tempo.






2. In primo luogo, l'Europa non è un popolo o una nazione. Non esiste una nazione europea. Non esiste un popolo europeo. Chi prende in giro la bossiana Padania, dicendo che non esiste, ha effettivamente ragione (e anche io penso che la Padania non esista, già il Veneto ed il Friuli esistono molto di più), ma ha poi torto se pensa che invece l'Europa esista. Per dirla con Metternich, l'Europa è solo un'espressione geografica. L'Italia invece non lo è.


Un progetto politico, anche nobile, non può costituire una nazione. Ci vuole il consenso dal basso dei suoi cittadini. L'esempio della Bosnia dovrebbe insegnare qualcosa, se si volesse ancora imparare, e non fossimo nelle mani di manipolatori mediatici e di bombardatori Nato, con i loro vergognosi finti magistrati dell'Aia. I serbi e i croati non volevano stare insieme, e i musulmani da soli non potevano obbligarli. Un esempio contrario è la Svizzera, che infatti è un'unica nazione multiculturale. I ticinesi non sono stati costretti a stare con i tedeschi ed i francesi in una grottesca "elezione maggioritaria", ma sono in stragrande maggioranza d'accordo a starci insieme. E potremmo fare molti altri esempi.


Paradossalmente, il solo che ha parlato di "Europa nazione" è stato il nazionalsocialista belga Jean Thiriart. Chiedetelo ai miei due amici Franco Cardini e Claudio Mutti, che da giovani ci hanno creduto. Ma il progetto era semplicemente politico, e non aveva vere radici nazionali. In un primo momento, si trattava di sbattere fuori dall'Europa sia gli Usa che l'Urss. In un secondo momento, suicidatasi l'Urss a causa del nichilismo antropologico dei "comunisti", si trattava solo di sbattere fuori gli Usa (si tratta del progetto eurasiatico, che peraltro io condivido nel suo aspetto geopolitico). Ma, ancora una volta, le nazioni non si possono inventare.


Paradossalmente, da circa trent'anni il ceto universitario ha scoperto che le nazioni non esistono, che sono state inventate in epoca romantica da poeti e scrittori, e che sono semplici "comunità immaginarie". Naturalmente, non è affatto vero. Le nazioni esistono, i popoli esistono, e soltanto le oligarchie finanziarie ed i loro intellettuali asserviti vorrebbero distruggerle. Non dimentichiamoci mai che, secondo la corretta impostazione di Bourdieu, gli intellettuali come gruppo sociale sono un gruppo dominato interno alla classe dominante. Gli intellettuali universitari hanno un guinzaglio lungo, perché devono dare l'impressione di essere liberi opinatori, certo molto più lungo di poliziotti, militari, diplomatici, eccetera, ma hanno sempre un guinzaglio, anche se lungo. Se il gruppo dominante della classe dominante, e cioè le oligarchie finanziarie globalizzate a guida imperialistica Usa, decidono che si deve archiviare lo Stato nazionale sovrano sulla moneta, è solo questione di tempo perché i pagliacci del circo universitario "scoprano" che le nazioni sono solo "comunità immaginarie".


Ma ovviamente non è così. Le nazioni ed i popoli non si clonano dall'alto con una decisione economica. Nessuna Bce e nessuna giunta tecnocratica Monti potrà mai farlo.






3. Inoltre, il continente europeo è occupato da basi militari Usa, dotate di armamento nucleare, a quasi settant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Non ci può essere democrazia ad Atene con una guarnigione spartana insediata stabilmente sull'Acropoli. Non ci può essere democrazia in Europa con le decisioni strategiche di politica internazionale prese in un diverso continente. La strategia imperiale Usa decide sovranamente di invadere l'Afghanistan, e gli europei sono tenuti a mandarci i loro soldati, per di più pagando le spese. Gli Usa decidono di aggredire la Serbia (1999), la Libia (2011), di tenere sotto pressione il Libano, la Siria, l'Iran, eccetera, ed i pagliacci europei seguono.


Per il circo mediatico e la corporazione universitaria questo non è un problema, e le basi nucleari Usa sono di fatto invisibili. Ma il fatto che siano invisibili per questi corrotti non significa che siano inesistenti, e questo sarebbe un bel problema per la corrente filosofica dei cosiddetti "nuovi realisti" (new realists), se per questi paludati pagliacci il "realismo", e cioè la realtà esterna esistente oggettivamente, non si limitasse al cosiddetto "populismo mediatico" di Berlusconi e della sua corte di sicofanti e puttane.


Eppure, si vorrebbe fare l'Europa senza sovranità geopolitica. Ipocritamente ci prendono in giro dicendoci che, una volta fatta l'Europa, potremo contare di più anche rispetto agli Usa. Sfacciati mentitori! Il congedare le basi Usa in Europa non può essere l’esito finale di un processo, ma solo un presupposto per poter parlare di sovranità europea. Un bambino lo capirebbe, purché non imbonito e corrotto da giornalisti, opinionisti superpagati e professori universitari boriosi.


Ad un'espressione geografica che non era né un popolo né una nazione, e che per di più è occupata da basi militari straniere, si è voluto imporre una unificazione economica avventuristica. Fermiamoci prima che sia troppo tardi.






4. Molti degli oligarchi si sono accorti che l'Europa economica non può funzionare. Il gioielliere Bulgari (cfr. Repubblica, 6/12/2011) scrive che "la ricetta oggi non è tanto come salvare l'euro, ma come salvarci dall'euro". Non si poteva dire meglio, ma lo scandalo è che debbano essere gli oligarchi a dirlo, perché la "sinistra" degenerata è passata dal culto del socialismo sovietico al culto dei "grandi insiemi commerciali" globalizzati (e questo tutta la sinistra, e non solo certo Bersani, Napolitano e Veltroni, ma anche Vendola, Ferrero e Diliberto, ansiosi di tornare in un parlamento commissionato e svuotato di ogni sovranità ). Il santone degli economisti Joseph Stilglitz è ancora più chiaro di Bulgari: "gli economisti su entrambe le sponde dell'Atlantico non discutono più se l'euro sopravviverà, ma come far sì che il suo crollo provochi il minor sconquasso possibile" (cfr. Repubblica, 7/12/2011). Faccio notare che queste due sentenze oracolari dell'oligarchia (Bulgari e Stilglitz) sono state entrambe pubblicate da un quotidiano che nelle altre pagine urla che per salvare l'euro gli italiani sono chiamati a fare sacrifici terribili in termini di welfare ed età pensionabile.


È spiegabile questa palese schizofrenia, che fa a pugni con quella logica formale (le opposizioni reali senza contraddizione) che gli intellettuali dell'oligarchia contrappongono virtuosamente alla maledetta logica dialettica (con contraddizioni) di Hegel e Marx?


Io credo di sì, e cercherò di spiegare perché.






5. Noi siamo dominati da una oligarchia completamente fuori controllo. E fuori controllo perché si è sottomessa volontariamente, per avidità e rancore verso la plebaglia pezzente e le sue richieste di welfare e benessere, ad un meccanismo anonimo ed impersonale di accumulazione incontrollata del capitale finanziario. Nell'ultimo trentennio essa ha saputo incorporare nelle sue tecniche di dominio vecchi rappresentanti politici della plebaglia pezzente, esperti in manipolazione, demagogia e gestione della storica babbionaggine dei subordinati trinariciuti (in Italia curiosamente definiti "comunisti", sit venia verbo). Essa ha incorporato sia il circo mediatico, in particolare televisivo, sia il circo intellettuale, in particolare universitario. Essa ha metabolizzato le vecchie identità di destra e sinistra in una nuova metamorfica identità, il Politicamente Corretto, nuovo conformismo sociale flessibile (culto religioso della Shoah ad espiazione perpetua, americanismo mimetico di schiavi e proconsoli vari, diritti umani a bombardamento incorporato, liberalizzazione del costume, confinamento della religione ad assistenza di drogati, malati, poveracci e al pentimento di ripugnanti assassini, vedi il caso Erica di Novi Ligure, colpevolizzazione delle masse politicamente scorrette come leghisti, fascisti, nazisti, eccetera). Il mercenariato "comunista" (preferisco chiamarlo scandalosamente così piuttosto che esorcizzare l'orrore con il rassicurante e deviante termine di ex-comunisti) è stato un esempio di quello che i teorici delle élites (Mosca, Pareto e Michels, ma particolarmente Pareto) hanno a suo tempo definito come un processo di circolazione e di rinnovamento delle élites stesse.






6. Questi figuri ci porteranno nel baratro non tanto perché siano soggettivamente malvagi (anche se in molti casi lo sono), ma perché si sono consegnati mani e piedi ad un meccanismo riproduttivo fuori controllo, una religione idolatrica di economisti che ha sostituito la vecchia religione artigianale monoteistica di preti, pretini, pretori, pastori, rabbini, ulema, bonzi, stregoni sioux, oggi convocati spesso in riunioni di babbioni salmodianti, non si sa se più ipocriti o cretini (o tutti e due).


Quest'Europa, quindi, è fuori controllo. A scadenza storica, passati i tempi nervosi dell'attualità politica, l'euro sarà servito alle oligarchie a distruggere 150 anni di risultati, sia pure modesti e miseri, di riformismo socialista e "borghese". Gramsci non avrebbe mai potuto immaginare che questo sarebbe stato fatto, in un'inedita combinazione di tragedia, commedia e dramma satiresco, con la collaborazione attiva di alcuni mostri da lui stesso evocati, come D'Alema e Napolitano. Ma chi conosce la storia di Frankenstein non dovrebbe stupirsi.


Soltanto la dialettica, hegeliana e poi marxiana, può spiegare questo processo. Per questo la dialettica è esorcizzata, sia in alto (i sofisticati intellettuali) sia in basso (la plebaglia ansiosa di linciare prima Craxi e poi Berlusconi). Ma forse la giunta Monti, arrivata al potere con un vero golpe freddo (la minaccia al Berlusca di far fuori le sue aziende in borsa) innescherà un processo di ripensamento. Non ci spero molto, perché conosco la stupidità dei miei polli. Ma cerchiamo di crederci.

giovedì 13 ottobre 2011




Riunione del Comitato promotore dell'appello

Il comitato promotore del'assemblea del 1° ottobre, si è riunito martedì 11 ottobre per fare un primo bilancio dell'assemblea e indicare una prima tabella di marcia del percorso avviato.
Le valutazioni sull'assemblea al teatro Ambra Jovinelli sono state tutte positive sia per la partecipazione numerica che per lo spirito unitario dell'iniziativa. E' un segnale di controtendenza importante che ben si coniuga con i contenuti dell'incontro e del percorso messosi in moto con l'appello "Dobbiamo fermarli".
Che la prima assemblea sia andata molto bene è un punto di partenza incoraggiante ma non sufficiente.
Per questo motivo è indispensabile avviare il percorso sui passaggi indicati e condivisi nel documento finale approvato dall'assemblea del 1° ottobre.

Il comitato promotore invita tutte e tutti gli aderenti all'appello Dobbiamo Fermarli a:

- rispettare lo spirito unitario che anima il comitato promotore nazionale anche a livello locale, cercando in tutti i modi di far convergere le/i singoli, le forze organizzate e i soggetti che hanno condiviso l'appello e i cinque punti del programma. E' un passaggio un po' più difficile in alcune realtà ma che va esperito con convinzione a tutti i livelli;

- convocare entro il 20 novembre le assemblee locali dei firmatari dell'appello e di quelli che via via ne stanno condividendo il progetto. La costruzione dei coordinamenti locali, è un passaggio fondamentale.
Le assemblee locali dovranno approfondire la discussione e l'elaborazione sui cinque punti del programma e cominciare a immaginare l'articolazione locale del lancio della campagna nazionale “Noi il debito non lo paghiamo”. A tale scopo è stata approntata una bozza di testo di una petizione popolare, come strumento per i banchetti e il lavoro di massa sulle parole d'ordine della campagna. L'approvazione definitiva del testo è in via di discussione ma è a buon punto

- per sabato 17 dicembre sarà convocata una nuova assemblea nazionale nella quale le/i portavoce designate/i dai coordinamenti locali relazioneranno sui risultati delle assemblee e dei coordinamenti locali. Al termine dell'assemblea verrà lanciata la campagna nazionale vera e propria in tutti i suoi aspetti.
- tra il 15 e il 30 novembre verrà organizzato un seminario di approfondimento con esperti (economisti, giuristi) sulle proposte che verranno avanzate nella campagna (sul non pagamento del debito, sul referendum contro i diktat della Bce, ecc.)

- sono stati creati tre gruppi di lavoro: uno che preparerà il seminario con gli economisti (F. Russo, M. Casadio, P. Pagliani); uno che curerà l'organizzazione (F. Burattini, E. Papi); uno che curerà la comunicazione (S. Bianchi, J. Venier, G. Chiesa, S. Cararo).




                                              Relativamente alla manifestazione del 15 Ottobre

Il comitato promotore valuta positivamente che l'indicazione di contestazione della Banca d'Italia e della Bce messa in campo già dal 26 settembre con la conferenza stampa di presentazione dell'assemblea del 1° ottobre e della campagna “Noi il debito non lo paghiamo” realizzata proprio a ridosso della sede della Banca d'Italia, sia diventata una indicazione di massa e condivisa da settori crescenti dei movimenti sociali, sindacali e giovanili.
L'assemblea del 1° Ottobre ha deciso la partecipazione alla manifestazione del 15 Ottobre contro quello che ha definito il “governo unico delle banche” sia a livello nazionale che europeo. Ritiene che la piattaforma della manifestazione sia inadeguata rispetto alla realtà del conflitto sociale e alle responsabilità della crisi. La mobilitazione europea del 15 Ottobre ha infatti un chiaro segno anticapitalista che nella convocazione italiana è venuto attenuandosi in modo evidente.
Staremo in piazza con un nostro spezzone unitario e rappresentativo di tutte le realtà che hanno aderito all'appello con un camion con amplificazione e con lo striscione: “Contro l'Europa delle banche – Noi il debito non lo paghiamo – Dobbiamo Fermarli”.



L'appuntamento è alle ore 12.30 davanti al museo di Palazzo Massimo (angolo tra Piazza dei Cinquecento e Piazza della Repubblica - vedi foto-mappa qui sotto).
Il nostro striscione sarà nel corteo fino alla sua conclusione in piazza San Giovanni ma sosterremo le iniziative che intenderanno dare forza, conflittualità e continuità alla giornata di mobilitazione europea del 15 Ottobre.