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sabato 16 giugno 2012

Stato Versus Mercato L’Italia stretta fra globalizzazione, Europa unionista e deficit di sovranità nazionale

 

Inseriamo questo contributo di Eugenio Orso sul problema della fine sostanziale della sovranità politica degli Stati nel contesto dell’UE e della globalizzazione capitalstica



di Eugenio Orso

Premessa
Come si evidenzia nel sottotitolo di questo breve saggio politico, l’Italia è finita nella morsa globalizzante neoliberista, stretta com’è fra i processi di globalizzazione, mai interrotti dalla crisi strutturale neocapitalistica, un’Europa aliena e unionista che la sta stritolando imponendo con brutalità i suoi programmi economici, e il drammatico deficit di sovranità nazionale che non consente al paese di decidere, autonomamente, del proprio futuro.
Il presente scritto si articola in due capitoli. Il primo capitolo è introduttivo, ed attraverso un esercizio di storia comparata si tenta di evidenziare la gravità e le potenzialità distruttive della crisi neocapitalistica in Italia. Il secondo capitolo, che costituisce il cuore del saggio, è relativo al rapporto, ormai fin troppo chiaro, fra l’avvento dell’Europa dell’Unione, la riorganizzazione delle sue istituzioni sopranazionali, la creazione della BCE, l’introduzione dell’euro e la perdita di sovranità politica e monetaria degli stati succubi, fra i quali lo stato nazionale italiano. Lo scontro fra il sopranazionale e il nazionale che si sta verificando nel vecchio continente, cioè fra l’Unione europea globalista ed alcuni Stati da “normalizzare” economicamente e socialmente (per ora, l’Italia ela Greciamesse di recente “sotto tutela”), nasce dalla rottura dello storico patto fra il vecchio Stato nazionale dotato di sovranità politica ed il Mercato, da intendersi qui come il grande Capitale in mani private. Il “conflitto” fra i due è iniziato nella seconda metà degli anni settanta del novecento, dopo lo scadere dei cosiddetti trenta gloriosi anni di compromesso, di relativo equilibrio e di moderata emancipazione delle classi subalterne. Tale confronto riflette il tentativo, che sta per riuscire, di anteporre sempre e comunque l’economia ultraliberista, dominata dalle ragioni della finanza, alla decisione politica nazionale sovrana, e di demolire le ultime barriere, in Europa e in occidente, che ancora ostacolano la libera circolazione dei capitali. Si tratta, in sostanza, della continuazione in nuove forme, per molti versi inedite, dell’antico scontro fra la crematistica da un lato, intesa come creazione illimitata di valore monetario e finanziario, e l’etica dall’altro lato, che per sussistere può ammettere soltanto la “buona” economia, subordinata alla decisione politica della comunità. Uno scontro vivo fin dai tempi di Aristotele, che ha attraversato i secoli ed oggi potrebbe risolversi con la vittoria della nuova crematistica. Gli effetti sociali e politici, pesantemente negativi, dell’attuale crisi neocapitalistica e la ricerca di possibili vie d’uscita, per l’Italia riorganizzata in chiave neoliberista e globalista dall’esecutivo Monti, non potranno che portare all’avvio di un processo rivoluzionario, alimentato da un chiaro disegno politico, economico e sociale alternativo, pena l’implosione definitiva della sua società ed il completamento della colonizzazione neoliberista. Al di fuori di una futura via rivoluzionaria per la salvezza, non sembra che esserci un ritorno incruento, peraltro improbabile (se non impossibile), alle politiche neokeynesiane del dopoguerra, che sollecitavano un forte interventismo statale in campo economico, ammettevano la protezione dell’industria nazionale e richiedevano il controllo della moneta, come accadeva nella precedente fase storica, in cui lo stato‐nazione non era nelle attuali condizioni di subordinazione, ed era ancora dotato di un certo grado di autonomia e sovranità. Nel caso di disordini insidiosi e troppo estesi tendenti al caos permanente, di guerra civile e/o di una frantumazione regionalista del paese con il rischio di un contagio destabilizzante del cosiddetto ordine mondiale, l’occupazione globalista effettiva del paese, manu militari utilizzando lo strumento NATO, potrà diventare una drammatica realtà.

La grande crisi e le antiche crisi

In seguito agli effetti economico‐sociali negativi delle misure imposte da governi fantoccio che operano per conto terzi, scopertamente al di fuori di un supposto quadro di legalità democratica, si sente affermare sempre più spesso che l’attuale crisi italiana (a causa dell’ingente debito “sovrano”, dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico che lievitano con lo spread, della caduta del prodotto, dei segnali economici marcatamente depressivi) è la più grave dal dopoguerra, ma spesso si omette di dire che questa crisi è ampiamente indotta dalla dinamiche neocapitalistiche, e serve per l’omologazione dell’Italia al modello di capitalismo ultraliberista anglo‐americano, “evolutosi” nell’ultimo ventennio senza incontrare ostacoli di rilievo, fino a diventare il nuovo capitalismo finanziarizzato del terzo millennio.
Pur sapendo che gli esercizi di storia comparata sono insidiosi, perché talvolta rischiano di portare fuori strada nell’analisi, non possiamo non riconoscere che la penisola, anticamente, ha già vissuto almeno una situazione simile, foriera di gravi rischi e di innumerevoli lutti, e precisamente durante la cosiddetta crisi del terzo secolo (dopo Cristo) che ha investito l’impero romano, e dalla quale l’impero – fino ad allora sufficientemente saldo ed in espansione, soprattutto nel periodo che andava da Ottaviano Augusto a Traiano, o al più a Marco Aurelio – non si è mai più ripreso. Quando scoppiò la crisi del terzo secolo, la penisola era ancora fiorente e rappresentava il cuore del sistema imperiale, ma quando la crisi finì, in termini economici, demografici e sociali le province italiane ne uscirono malconce ed esauste, pronte per entrare nel lungo tunnel della decadenza dell’occidente, durata circa due secoli, e del conseguente trapasso al “nuovo mondo” feudale. La crisi neocapitalistica che oggi investe soprattutto l’Italia e l’Europa, è nel contempo elemento strutturale del Nuovo Capitalismo, senza il quale questo modo storico di produzione non potrebbe reggersi a lungo, e manifestazione del definitivo tramonto, in quanto potenza economica e produttiva, del vecchio continente a rischio di marginalizzazione, con i paesi dell’Europa mediterranea e la stessa Italia che sembrano essere diventati, in quest’ultimo periodo, l’epicentro della crisi stessa, un’area del mondo in cui la “distruzione creatrice” in atto è più evidente e rischia di diventare sanguinosa.
Anche la crisi romana del terzo secolo fu una “distruzione creatrice”, naturalmente rapportata al sistema schiavistico e al sistema (politico) imperiale dell’epoca, e lo fu su vari piani: quello economico e sociale, quello militare, e quello dell’organizzazione dell’impero. Ma dalla crisi del terzo secolo non uscì nulla di buono, perché non sempre ciò che si crea dopo aver distrutto è positivo per le società umane e per gli equilibri sociali, per la stessa tenuta delle istituzioni che si vorrebbero preservare.
Grazie al cinquantennio ricordato come il periodo dell’anarchia militare (dal 235 al 284 dopo Cristo), si passò dal principato augusteo, che rappresentava una forma politica di dominio relativamente “soft”, in grado di mediare fra i poteri (fra i quali il senato aristocratico d’età repubblicana) e le classi sociali (patrizi e plebei, o meglio, honestiores e humiliores), ad una sorta di dominato, o di dispotismo non asiatico fortemente centralizzato, non di rado retto da figure di militari‐avventurieri emergenti (il primo fu Massimino il Trace). L’avvento del dominato imperiale riduceva i già angusti spazi di libertà concessi alla popolazione, mentre l’accresciuta pressione fiscale per affrontare le ingenti spese di guerra (contro i barbari ed i persiani), nel tentativo di rafforzare l’apparato militare e potenziare quello statale, riduceva sul lastrico ampie fasce di popolazione, risparmiando soltanto i grandi latifondisti.
Un po’ come oggi, in Italia, in cui la crescente pressione fiscale colpisce sempre più duramente i redditi da lavoro dipendente e le pensioni (in un paese in cui ci sono undici milioni di poveri, fra i quali moltissimi lavoratori e pensionati, rapidamente cresciuti di numero grazie alla crisi ed alle misure governativo‐europeiste), risparmiando soprattutto i grandi evasori fiscali, i quali nel concreto sono intoccabili perché appartengono alla classe dominante, o rappresentano potentati dell’economia formalmente criminale, che si sviluppa
parallelamente a quella neocapitalistica. L’intangibilità del sistema bancario, che deve essere finanziato e sostenuto a tutti i costi, se del caso sottraendo risorse agli impieghi di natura sociale e produttiva, completa il quadro.
Se la crisi romana del terzo secolo accrebbe la conflittualità sociale, suscitò le rivolte dei dominanti e modificò l’ordine sociale, in Italia ed altrove entro i confini dell’impero, l’attuale crisi neocapitalistica e l’avvento di un governo collaborazionista dell’occupatore del paese, quale è quello di Monti, suscita fuori degli schemi sistemici e del “politicamente corretto” (semi‐)rivolte sociali fino a ieri imprevedibili (Sicilia, trasportatori, tassinari, pescatori, ed in futuro molti altri), mentre la violenza della crisi e delle controriforme montiane accelerano la trasformazione dell’ordine sociale, che procederà, se non incontrerà ostacoli di rilievo, fino alla sua estrema “semplificazione” sociologica in classe globale dominante e classe povera dominata. Per evitare opposizioni di rilievo nel tessuto politico e sociale italiano, e per far procedere speditamente le controriforme pianificate, la classe globale che sostiene Monti ha “comprato” i cartelli elettorali che contano, i sindacati, i vertici delle lobby importanti, assicurandosi il loro appoggio contro gli interessi del popolo italiano (e non di rado dei loro stessi militanti, iscritti ed associati).
La prima e più profonda ragione della spaventosa crisi romana del terzo secolo, la quale ha rimodellato brutalmente la società italica peggiorando le condizioni di vita della massa, risiede nello svuotamento progressivo dei “giacimenti” di braccia per il lavoro schiavo, e più in generale per appropriare risorse, come effetto del raggiungimento della massima espansione militare, territoriale e demografica dell’impero. A ciò corrisponde nel nostro tempo storico, in cui la penisola è nuovamente funestata da una profonda crisi economica, politica e sociale, il progressivo e rapido svuotamento di sovranità dello stato nazionale, che dopo aver raggiunto l’apice della sua autonomia con il fascismo, nel periodo prebellico, ha visto progressivamente ridursi le sue competenze, ed ha perso la prerogativa della decisione politica su molte materie strategiche (moneta, debito pubblico, industria, eccetera), fino a scivolare nelle attuali condizioni di subalternità nei confronti dell’esterno. Questa perdita di sovranità, forse irreversibile, è indotta e accelerata dalle dinamiche neocapitalistiche che hanno influenzato la stessa “costruzione” europea, i parametri di Maastricht, il dominio della BCE e del FMI, ed imposto l’euro ai maggiori paesi dell’Europa occidentale. La rapacità del dominato imperial‐militare romano, che ha impoverito le popolazioni italiche fin dall’età del ferro dei Severi, trova unʹinquietante corrispondenza, oggi, nella rapacità dei globalisti dominanti, i quali, assumendo il controllo degli stati‐nazione privati della loro autonomia, saccheggiano le risorse collettive e de‐emancipano le masse, riducendole a neoplebi. Dovrebbe esser chiara anche al cosiddetto uomo della strada, giunti a questo punto, la vera funzione della UE, della BCE e dell’euro.
Come l’impero che in quegli anni lontani ha mostrato il suo vero volto, riorganizzandosi in dominato dispotico e impoverendo la popolazione, per scaricare sulle classi inferiori l’ingente costo della crisi, economica, sociale e militare del terzo secolo, cosi, oggi, la liberaldemocrazia ci mostra il suo vero volto, autoritario, dispotico, oligarchico, di totale subordinazione alle ragioni della classe dominate globale, e contribuisce ad imporre quelle controriforme, economiche e sociali, che scaricano sui più deboli l’onere della crisi e rimodellano in senso neocapitalistico la società.
Gli italici e le altre popolazioni non sono riusciti, nonostante l’insorgente conflittualità fra i gruppi sociali e le numerose rivolte, ad impedire quella trasformazione dell’ordine costituito che alla fine hanno dovuto subire, fino all’estinzione formale, avvenuta due secoli dopo, dell’impero romano d’occidente. Riusciranno nel prossimo futuro gli italiani, e gli altri popoli dell’Europa mediterranea, ad interrompere il processo in atto, sottraendosi alla morsa del nuovo potere globalista, senza dover attenderne l’estinzione? Al momento attuale, in cui gli eventi sono in pieno corso, si moltiplicano le proteste fuori degli schemi, si attiva la repressione sistemica e la “distruzione creatrice” neocapitalistica subisce un’accelerazione, il futuro è sommamente incerto e la domanda non può ancora trovare una chiara risposta.

Sovranità nazionale e dominio del sopranazionale

L’opposizione, o meglio l’incompatibilità, fra l’affermazione e il mantenimento di una sovranità assoluta degli stati nazionali e la trasmigrazione del potere in entità sopranazionali sempre più potenti e onninvasive, nell’Europa del dopoguerra sembra essersi risolta a favore queste ultime. Non si può ancora sapere se il trionfo del globale sul nazionale, del mondiale sul locale, e soprattutto del Capitale sul Lavoro, sia definitivo, fino all’irreversibilità dei processi in atto, ma è certo che le oligarchie globaliste, supportate dallo strumento militare americano‐NATO e dalla finanza di rapina, hanno vinto un’importante battaglia, sottomettendo in buona misura gli stati, i popoli e le nazioni. La stessa, dissennata tensione, diffusa ad arte, per la “difesa dell’euro” che spiana la strada alle controriforme sociali, e che si giustifica minacciando sciagure inenarrabili in caso di collasso della moneta europea, o semplicemente dell’uscita di uno stato dall’Unione monetaria, costituisce una prova di quanto qui si afferma. Infatti, all’euro si può sacrificare tutto, anche le pensioni, anche la sanità o la scuola pubblica, persino il posto di lavoro fisso e tutelato (unica fonte di sostentamento per la maggioranza), e di questo purtroppo si mostrano convinte, in Italia e altrove, moltissime vittime delle dinamiche neocapitalistiche. Disinformazione mediatica, propaganda ultraliberista e neoliberale, idiotizzazione sociale, “snazionalizzazione” delle coscienze, svalutazione del ruolo dello stato, delle comunità di appartenenza, della socialità e diffusione dell’individualismo anomico, hanno proceduto di pari passo con l’affermazione dei “precetti” economico‐finanziari di questo capitalismo, consentendogli, fino ad ora, di spianare ogni ostacolo sul suo percorso. La grande disputa politica, come dovrebbe essere chiaro a tutti, attualmente è quella fra i sostenitori della sovranità assoluta dello stato nazionale, da un lato, e le oligarchie globaliste che istituiscono nuove forme di governo sopranazionale, dall’altro, in accordo con i loro interessi vitali. La classe dominante globale è oggi sul punto di stravincere il confronto, come provano i casi della Grecia e dell’Italia (ma non soltanto questi), e ciò equivarrebbe anche ad uno storico trionfo (irreversibile?) del Capitale sul Lavoro, perché le politiche sociali, assistenziali, di emancipazione dei lavoratori e di tutela del lavoro sono possibili, come la storia ha ampiamente dimostrato, soltanto in un quadro di ampia autonomia, politica e monetaria, degli stati nazionali. Quello che appare scontato è che non c’è più alcuna possibilità di compromesso fra Stato e Mercato (e la condizione dell’Europa lo testimonia), cioè fra la sovranità nazionale, sul piano politico, monetario ed economico, e il grande Capitale finanziario nelle mani della classe neodominante globale. Gli esecutivi di Monti, in Italia, e di Papademos, in Grecia, sono altrettanti “cani da guardia” del capitale finanziario, ed agiscono scopertamente contro i popoli e gli stati nazionali. Di recente, nella Grecia affidata a quel Papademos di cui Monti è un replicante, il maggior sindacato di polizia ellenico, che agisce nel quadro dello stato‐nazione, ha minacciato di arrestare i funzionari del FMI ed europei presenti sul territorio greco, dichiarando di schierarsi con il popolo contro l’Europa finanziaria dei dominanti e la globalizzazione.
La grande disputa politica fra i sostenitori della sovranità nazionale e i “globalizzatori”, equivale sul piano economico al confronto fra i sostenitori del “compromesso” fra politica ed economia, regolamentando i mercati (o addirittura sopprimendoli, nel caso si assumano posizioni non riformiste) e gli ultraliberisti che teorizzano, e mettono in pratica con successo, la piena autonomia e la superiorità del Mercato.
Ciò che è importante capire, e ribadire una volta di più, è che le due battaglie, quella adifesa dell’autonomia degli stati‐nazione e quella sociale in difesa del welfare, non solo non sono incompatibili – una “di destra” e l’altra “di sinistra”, secondo i vecchi schemi ormai inattuali, ma, al contrario, sono complementari, perché ambedue costituiscono presupposti indispensabili per la libertà, l’autodeterminazione e la giustizia sociale realizzata.
Difendendo l’autonomia dello stato nazionale contro i globalisti e contro quel loro strumento di dominio che è l’Europa dell’Unione, si difendono anche il Lavoro, i diritti dei subalterni (quelli concreti, economici, non quelli astratti e posticci liberaldemocratici), le conquiste economico‐sociali della seconda metà del novecento, i meccanismi redistributivi del reddito a vantaggio dei subordinati. Possiamo perciò affermare che lo stato nazione pienamente sovrano, nelle attuali condizioni storiche, rappresenta l’ultimo baluardo della socialità, dell’etica, dell’equità contro il saccheggio operato dai mercati e l’imposizione di una globalizzazione economica che conviene soltanto ai dominanti.
L’attacco alla sovranità politica e monetaria dello stato‐nazione ha richiesto, per poter essere sferrato con successo, l’avvio di rilevanti trasformazioni culturali, economico‐sociali e politiche che si possono sintetizzare come segue.
[a] Traformazioni antropologicoculturali e dell’ordine sociale.
E’ bene evidenziare che l’attacco allo stato‐nazione, chiarissimo nell’Europa mediterranea, in cui alcune entità statuali sono occupate dagli emissari delle élite globaliste e svuotate di contenuti politici effettivi, è stato reso possibile dallo sconvolgimento dell’ordine sociale precedente e dal grandioso esperimento di manipolazione culturale ed antropologica per la creazione sociale dell’uomo precario, per la flessibilizzazione di massa a partire dal lavoro, per la diffusione della stupidità sociale organizzata. In luogo dell’inclusione domina l’esclusione, dal lavoro e dalla decisione politica, i cittadini consapevoli tendono ad essere sostituiti da “idiotai”, confinati nella dimensione privata dell’esistenza ed espropriati della dimensione politico‐sociale, all’emancipazione si è sostituita la riplebeizzazione di massa, che investe tanto gli operai quanto i ceti medi figli del welfare novecentesco. Senza questi indispensabili presupposti, l’esproprio di sovranità e di socialità in atto avrebbe trovato fortissime resistenze, e probabilmente non potrebbe esser portato a compimento con indubbio successo, come accade di questi tempi. Conditio sine qua non dell’attacco finale alla sovranità nazionale, condotto proprio in questi mesi in Italia e in Grecia, è stato quel processo manipolatorio di massa che ha distrutto le classi del vecchio ordine (espressione del capitalismo del secondo millennio) e neutralizzato l’opposizione sociale, un processo che è in corso da circa un trentennio ed ha ottenuto indiscutibili “successi”. Il mondo culturale borghese, la solidarietà e l’identità della classe operaia, salariata e proletaria, le sicurezze e le “aspettative crescenti” dei ceti medi postbellici stanno scomparendo, anzi, possiamo affermare che in assenza di contrasti fra qualche anno saranno un mero ricordo, materia per gli storici e per una retrospettiva sociologica imbevuta di nostalgismi.
[b] Trasformazioni economiche dopo la rottura definitiva del patto fra Stato e Mercato.

Altro elemento che ha creato i presupposti, quantomeno nell’Europa mediterranea “spendacciona” e vulnerabile, per la perdita di sovranità degli stati è la crisi neocapitalistica permanente come elemento strutturale del Nuovo Capitalismo e come strumento di dominio globalista, opportunamente combinata con i vincoli di Maastricht e dell’euro. La bolla del debito pubblico e la sopravvivenza dell’euro rappresentano altrettanti cavalli di troia per l’assoggettamento degli stati, e per la loro occupazione (permanente? Sine die?) senza l’uso di strumenti bellici. L’esperimento greco e la vicenda italiana sono a tali propositi paradigmatici. Gli esecutivi imposti ai due paesi rispondono nel concreto soltanto ad interessi esterni e al comando neocapitalistico della classe globale. Il tutto “insaporito” con slogan neoliberisti, da accettare acriticamente e privi di effetti economico‐sociali positivi: l’indispensabilità della crescita, perniciosa anche dal punto di vista ambientale, la competitività in uno scenario globale di libero movimento dei capitali, l’apertura definitiva al mercato, la “monotonia” del posto fisso e l’inevitabilità della flessibilizzazione del lavoro, eccetera, eccetera. I sistemi che FMI e Banca Mondiale usavano per assoggettare al libero mercato i paesi del terzo mondo (piani di aggiustamento strutturale, ricatto del debito, apertura forzata dei paesi ai capitali finanziari internazionali) sono simili, per certi versi, a quelli che FMI, UE e BCE utilizzano oggi contro i paesi dell’Europa mediterranea, chiamati con disprezzo PIIGS. Si pensi al vero significato del Cresci‐Italia di Monti che accompagna, come un’illusoria carota agitata dal Quisling globalista, le misure più feroci e impoverenti. I veri obbiettivi delle manovre montiane in Italia, e di quelle del suo omologo Papademos in Grecia, sono essenzialmente i seguenti: (1) imporre il modello capitalistico ultraliberista, portato alle estreme conseguenze, che identifica un nuovo modo di produzione sociale, (2) ridurre all’osso l’area dell’intervento statale, compromettendo persino i cosiddetti beni pubblici puri, che solo lo stato può offrire a condizioni ragionevoli (non di mercato), rendendoli accessibili a tutta la popolazione, (3) rischiavizzare il lavoro per ridurlo a mero fattore produttivo (nello specifico italiano, la scomparsa del contratto collettivo nazionale, l’attacco all’art. 18, la probabile “riforma” della CIG, eccetera), (4) accelerare latrasformazione sociale in senso neocapitalistico, riplebeizzando una parte rilevante dei cet medi (in questo senso la “liberalizzazione” delle professioni), fino allo stabilirsi della dicotomia Global class/Pauper class.
[c] Trasformazioni politiche, svuotamento di contenuti effettivi delle istituzioni statuali e assimilazione completa dei cartelli elettorali liberaldemocratici nell’unico Partito della Riproduzione Neocapitalistica.
L’ultimo supporto che si è rivelato indispensabile per “piegare” gli stati nazionali ai voleri della classe globale neodominate è la piena omologazione della cosiddetta classe politica al neoliberalismo ultraliberista, con particolare biasimo per la sinistra, che si sta rivelando in diversi paesi il miglior servo dei globalisti. In Italia, ad esempio, il cosiddetto centro‐destra (con l’esclusione della Lega che agisce per puro calcolo elettoralistico) ha piegato la testa, a partire dallo spaventato ed isolato Berlusconi, ed ha accettato Monti a denti stretti, cedendogli l’esecutivo e garantendogli un appoggio incondizionato. Ma è il Pd, assieme ai centristi che si mostrano entusiasti delle riforme montiane, il sostenitore/servitore più affidabile di questo governo fantoccio, insediato a tempo di record dagli occupatori del paese, dopo le dimissioni di Berlusconi, con la decisiva complicità di Napolitano. Pur appoggiando servilmente l’esecutivo globalista (PdL, Pd, centristi), o contrastandolo fintamente in parlamento senza esiti concreti (Lega, IdV), espropriati dall’alto del controllo del governo del paese e della possibilità di fare una vera opposizione, i cartelli elettorali marginalizzati continuano nella finzione liberaldemocratica e simulano un confronto politico, ormai senza consistenza alcuna. Si va dalle accuse incrociate, quando scoppiano scandali che investono esponenti dell’uno o dell’altro cartello (il caso Penati, l’ex tesoriere della Margherita Lusi, i processi ancora in corso in cui è coinvolto Berlusconi), alle proposte di entente cordiale per la tanto attesa riforma elettorale, la quale, però, potrà trovare concreto riscontro soltanto quando e se i globalisti consentiranno di tornare alle urne.
La finzione, finalmente scoperta e trasformatasi in un’indecorosa recita, è dura a morire. Mai come oggi la situazione italiana offre la prova della fine della dicotomia politica destra/ sinistra, che non ha più alcun senso se la politica è completamente soggetta all’economia finanziaria, e supporta un “governo tecnico” incaricato di imporre il modello capitalistico ultraliberista, approvando pedissequa le sue controriforme.
In conclusione, possiamo affermare che la vittoria del globale sul nazionale, dell’economico sul politico, della finanza sulla socialità, del Capitale sul Lavoro, altro non sono che scontati riflessi della vittoria complessiva del Mercato sullo Stato, una vittoria epocale (ma forse non definitiva, per tutto il secolo) che ha instaurato il dominio sopranazionale della Global class, espropriando le entità statuali della sovranità politica e monetaria e sottomettendole al comando neocapitalistico.
 

giovedì 6 gennaio 2011

Comunismo, Comunità, Classe

 



di Maurizio Neri

«Ma non scoppiano forse tutte le sommosse, senza eccezione, nel disperato

isolamento dell’uomo dalla comunità (Gemeinwesen)?» Karl Marx, 1844

Riflessioni e proposte per promuovere il dibattito, per la costruzione del Movimento Anticapitalista.


Questo saggio vuole contribuire a delineare i tratti del pensiero del Comunismo Comunitario inserendosi nel discorso iniziato nelle pagine di Comunitarismo diversi anni fa in due diversi saggi sul comunitarismo.1

I due articoli in questione rappresentano una importante e lucida ricostruzione delle varie influenze del pensiero comunitarista italiano e riescono a cogliere come i termini «comunità» e «comunitarismo» siano stati utilizzati dalle più eterogenee forze politiche a dai più diversi Autori. Ritengo però che il volersi rifare ad analisi ed elaborazioni fatte da altri, o il voler ricondurre il proprio agire politico a quello di movimenti del passato, rappresentino entrambi un limite.

Segue:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=1280

martedì 7 dicembre 2010

COMUNISMO E LIBERAZIONE NAZIONALE



Popolo e nazione

Una delle contraddizioni apparentemente più inspiegabili di questi anni è la coincidenza tra crisi delle grandi visioni del mondo globali e ideologiche, con le relative appartenenze politico-culturali, e il manifestarsi di ondate nazionaliste che ripropongono una forte appartenenza etnico-culturale e una riproposizione delle "radici" di individui e collettività territorialmente fondate.
Di fronte a questa contraddizione che assume caratteri così inediti la sinistra ha certamente necessità di una rifondazione che riguardi anche l’analisi del problema nazionale ed etnico-culturale.
Non sono del tutto persuaso che a questo proposito il vero limite della cultura marxista sia quello di essersi limitata a un approccio di classe ed economicista. I diversi movimenti che si sono ispirati al socialismo e al comunismo hanno avuto impostazioni complesse e differenziate sul tema nazionalitario, ed è troppo facile ridurre il marxismo alla sua vulgata superficiale o propagandistica.
Il comunismo prima di Marx rifiutava il concetto di nazione (vedi Fourier) perché lo identificava con gli Stati borghesi allora esistenti, divisi e belligeranti. Veniva contrapposto un universalismo dei popoli che si opponeva ai patriottismi. In seguito, con Marx ed Engels viene sottoposta a critica la "triviale retorica" della fratellanza universale dei popoli, e si sceglie una analisi che storicizza il rapporto tra i popoli e tra popolo e nazione, legandolo al contesto dei rapporti sociali. Nello stesso tempo i fondatori del socialismo scientifico erano convinti che gli antagonismi nazionali dei popoli fossero un fenomeno arcaico, destinato a scomparire con lo sviluppo della borghesia, e ancor di più con il dominio del proletariato.

Operai senza patria

Il comunismo marxista ha quindi accolto plurali interpretazioni del concetto di nazione. Innanzitutto vi è la convinzione che gli operai non hanno patria. Le lotte nazionali (contro la borghesia nazionale del proprio paese) sono per il "Manifesto del partito comunista" decisive per sconfiggere l’avversario di classe, ma in un contesto "internazionalista".
Nell’Ottocento di Marx le nazioni tendono a coincidere con confini decisi dai ceti dominanti e "forti" dei paesi capitalistici, e lo scenario che si propone allo sguardo è quello di guerre nazionali con evidenti motivazioni economiche1.
Per il marxismo classico, dunque, le nazioni coincidono con le frontiere statali (distinguendo, poi, tra nazioni storiche e non), e l’attenzione è rivolta solo marginalmente all’appartenenza etnico-culturale dei popoli. Inoltre, Marx aveva grande ammirazione per il delinearsi di un pianeta in comunicazione complessiva, affascinato da un mondo che poteva entrare in collegamento da un continente all’altro: di qui l’enfatizzazione, "storicamente determinata", dell’internazionalismo, più che del nazionalismo2. Ma, non va dimenticato, alla parola internazionalismo veniva aggiunto, nella vulgata leninista, il termine "proletario", ad indicare non un privilegio del contatto/incontro tra Stati, ma tra classi subalterne dei vari paesi. Un afflato unificante che aveva un esplicito contenuto di "modernizzazione", contro vecchi e sanguinosi colonialismi, contro le politiche imperiali del capitalismo, contro le frontiere artificiosamente costruite dalle borghesie nazionali.
È quasi banale ricordare come oggi la situazione assuma contorni profondamente nuovi. Lo Stato-nazione è in declino, si propone con forza l’interdipendenza o l’ipotesi di un governo mondiale. Ma, al contrario di quanto auspicava il marxismo e il comunismo, questo declino degli Stati-nazione e questo collegamento universale tra paesi avviene tutto in un contesto di omogeneizzazione e di tendenziale cancellazione delle differenze e delle diversità, sotto il dominio del più forte (i paesi maggiormente industrializzati e dotati di un potente e sofisticato armamento bellico).

Per un territorio autogovernato

I movimenti di liberazione nazionale diventano oggi una forma decisiva del conflitto contemporaneo proprio perché mettono in discussione non sono il dominio sul e nel proprio territorio, ma anche i confini nazionali prodotti da guerre e rapporti di forza nel corso della storia. Viene recuperato un pezzo dell’identità collettiva (l’appartenenza etnico-culturale) e ciò in contraddizione con le frontiere nazionale/statali date.
Indubbiamente vi è qualcosa di ambiguo e di pericoloso in una enfatizzazione del nazionalismo, anche in chiave di liberazione. I movimenti nazionalitari possono essere la premessa (e in passato è spesso stato così) per ulteriori ostilità anche armate tra gruppi vicini in contrapposizione atavica, oggi comode pedine per gli stravolgimenti degli equilibri mondiali scossi dal crollo del blocco sovietico.
Esiste un approccio reazionario e regressivo al nazionalismo, ed esiste un approccio dinamico e fecondo (la rivendicazione di un territorio autoregolato, autogovernato, autocentrato). Il rispetto e la valorizzazione delle differenze culturali, talora legate alle questioni etniche, può scivolare facilmente in una moderna forma di razzismo, che frammenta e disgrega ulteriormente, che risveglia attriti facilmente strumentali a giochi di potere e di classe. L’ombra di un neo-fascismo e di un neo-nazismo (magari sotto altre spoglie e colori) che muova da una radicalizzazione delle contrapposizioni etnico-nazionaliste non è affatto improbabile o fantastica.
Eppure, in una prospettiva comunista, sarebbe assolutamente inadeguato un giudizio liquidatorio od unilaterale sui fenomeni nazionalitari di questi anni. Né si può evitare di distinguere tra Stato-nazione e nazione come aggregato etnico-politico-culturale. L’Intifada palestinese, come ha scritto il noto cronista di "Time" Lance Morrow, dal 1987 non è riuscita a conquistarsi uno Stato, ma sta costruendo una nazione: un significativo esempio della portata di lotte e movimenti su base etnico-culturale.

L’incontenibile ricchezza delle diversità


Le potenzialità positive di un rinnovato espandersi di movimenti di liberazione nazionale sta anche nella controtendenza rispetto alla dissoluzione delle regole del diritto internazionale e alla crisi delle Nazioni Unite. Da tempo si pone il problema di rifondare il diritto internazionale e la stessa ONU, e tanto più è urgente oggi dopo che il tracollo economico-militare, e poi lo scioglimento dell’Unione Sovietica ha fatto saltare unilateralmente Yalta con la motivazione, imperdonabilmente ingenua, di favorire una nuova prospettiva di pacifici ed equilibrati rapporti internazionali. In realtà al mondo di Yalta si è sostituito un mondo in cui l’occidente a guida statunitense ripropone la sua tradizionale politica di potenza sotto le spoglie di un governo mondiale, sulla pelle di popoli e culture, adducendo in molti casi il pretesto del destino del pianeta (destino energetico, economico, politico: così è stato con la guerra del Golfo). Un governo mondiale già operante, che marginalizza completamente le opposizioni nazionali e sostituisce all’idea (pur discutibile e limitata) di un "parlamento mondiale" la pratica di un esecutivo planetario degli esecutivi nazionali. È dunque di piena attualità ridiscutere di autodeterminazione dei popoli, di movimenti di liberazione nazionale, di internazionalismo.
Una rifondata critica comunista può valorizzare anche in quest’ambito il meglio del proprio patrimonio e saper mutare rigidità e vecchi schemi assumendo temi e fondamenti di altre culture e altri movimenti. Mentre una sinistra omologata e perdente propone di contrapporre alle disintegrazioni nazionaliste l’integrazione in organismi sovranazionali come la Nato, una sinistra capace di superare le compatibilità esistenti e la subalternità al dato deve stimolare e accogliere le controtendenze che promuovono la ricchezza delle diversità, incontenibili e irriducibili, in un quadro di rapporti pacifici e non violenti tra popoli ed etnie.


Fabio giovannini

1 Vedi su questi aspetti il saggio di Luigi Cortesi, Il socialismo e la guerra, in Aa.Vv., Guerre e pace nel mondo contemporaneo, Istituto Universitario Orientale, Napoli, 1985.
2 Vedi Renato Monteleone, Marxismo, internazionalismo e questione nazionale, Loescher, Torino, 1982.

lunedì 15 novembre 2010


COMUNITARISMO E UNIVERSALISMO: PROSPETTIVE DI ALTERNATIVA E DI RESISTENZA ALL'IMPERIALISMO AMERICANO




Intervista con il Prof. Costanzo Preve: a cura di L.Tedeschi (tratto da ITALICUM, numero 9-10 settembre-ottobre 2004)


D.Gli elementi caratterizzanti l'attuale fase storico politica dominata dall'impero americano e conseguentemente dal capitalismo, non sono più costituiti dalla dicotomia destra/sinistra, bensì dalla contrapposizione tra gli USA e i popoli e le nazioni che si oppongono al dominio americano.
Al modello capitalista si vuole contrapporre il comunitarismo, quale "difesa dello stato-nazione indipendente concepito in modo nazionalitario e non nazionalista, razzista e imperialista". Dato l'attuale "nichilismo nazionale" e la quasi assenza di valori e costumi identitari specialmente in Europa, quali sono i fondamenti filosofici e politici di un comunitarismo inteso quale modello politico e culturale diverso e migliore dell'individualismo liberale?

R.Mentre 1'impero americano ed il tipo di "turbocapitalimo" che esso sostiene ed organizza sul piano geopolitico esistono e sono corpose realtà storiche e politiche, un "comunitarismo" che sappia essere ad un tempo anti-imperialista e democratico non esiste invece ancora, ed in questo momento resta ancora in larga misura un orizzonte astrattamente possibile. Vi è qui dunque una dolorosa asimmetria.
Così come la conosciamo storicamente la dicotomia Destra/Sinistra non è affatto universale come si pensa, ma è prevalentemente europea e latino-americana. In estrema sintesi essa e già passata attraverso tre fasi storiche fondamentali. In una prima fase (I789-1914 circa) questa dicotomia si è sovrapposta al conflitto sociale, politico ed economico fra democratici prima e socialisti poi (sinistra) ed un fronte vario e nobile di conservatori e di liberali (destra). In una seconda fase (1914-1991 circa) questa dicotomia si è sovrapposta allo scontro, prima soltanto sociale e poi geopolitico, fra il comunismo storico novecentesco ed i suoi alleati (sinistra) ed un fronte vario e mobile che ha visto a volte in conflitto ed a volte alleati i fascismi storici ed il liberalismo capitalistico (destra). Siamo però ormai in una terza fase storica, in cui si è formato un "pensiero unico" capitalistico ed imperialistico, cui il "politicamente corretto" di sinistra è quasi completamente subordinato ed asservito. Il vettore culturale e giornalistico principale di questo asservimento, che non è ancora purtroppo colto come tale da gran parte delle classi e dei gruppi dominati, è stato la trasformazione metabolica della sciagurata generazione del Sessantotto. La critica originariamente di "sinistra" al socialismo autoritario, burocratico e gerarchico di tipo sovietico si è dialetticamente rovesciata in appoggio culturale di "destra" all'impero americano, visto come società libertaria e multiculturale delle sconfinate possibilità individuali. La connessione fra queste due posizioni unilaterali rovesciatesi l'una nell'altra è evidente per una coscienza filosofica dialetticamente bene educata, ma non lo è per gli incoscienti educati ai miti operaistici del monoclassismo sociologico proletario rovesciatosi oggi in sciagurato mito imperiale messianico armato e bombardatore. Il "nichilismo nazionale" denunciato nella domanda è reale, ed è a sua volta frutto della confluenza di due componenti, la componente di "destra" del capitalismo cosmopolitico e senza patria rivolto unicamente ai profitti e particolarmente agli interessi erogati dal capitale finanziario transnazionale, e la componente di "sinistra" critica dello stato borghese nazionale in nome di una sintesi di monoclassismo sociologico proletario globalizzato (il che spiega il perché della facile riconversione di questa componente al mito della globalizzazione) e di critica anarchica della morale borghese tradizionale, particolarmente familiare e sessuale (il che spiega perchè costoro stiano oggi in prima fila nell'imporre a colpi di bombardamenti strategici i costumi sessuali occidentali alle renitenti società "musulmane". La Francia (ed in parte i paesi scandinavi) è oggi il solo paese europeo che resiste, sia pure debolmente, al nichilismo nazionale europeo. Dio la benedica. In questa sacrosanta e benemerita resistenza è troppo debole e residuale per innescare oggi una vera inversione di tendenza su scala europea. E qui, in poche parole, risiede il 70% del dramma storico di oggi.

Segue: http://comunitarismo.it/comu_univ.htm

sabato 6 novembre 2010

Intervista a Costanzo Preve



a cura di Franco Romanò

 
Nell’ampia intervista che pubblichiamo, s'insiste sui punti nevralgici della
Trilogia: Storia dell’etica, Storia della dialettica e Storia del materialismo,
scritti dal filosofo torinese e tutti pubblicati dall’editore Petite Plaisance. In
essa Preve suggerisce alcune linee per un bilancio teorico del socialismo
reale, da lui definito comunismo novecentesco. Prendendo spunto dalla
critica di Lucáks al materialismo dialettico e dalla sua positiva intuizione
dell’ontologia dell’essere sociale, Preve individua nella sovrapposizione
fra dialettica logica e dialettica storica, uno dei motivi della sconfitta
comunismo novecentesco, che l’autore vede fortemente inquinato da
residui positivisti. In tale contesto Preve interpreta il marxismo come
filosofia della prassi e non della natura, interpretazione avanzata per la
prima volta da Gentile e fatta propria da Gramsci.
Da questa convinzione nasce la riflessione su Marx, da Preve considerato
un filosofo idealista che ha prodotto una teoria strutturalista del modo di
produzione capitalistico, servendosi della dialettica hegeliana e
applicandola al nuovo oggetto sociale. Critico nei confronti di tutte le
correnti di pensiero marxiste che tendono ad allentare il legame fra Marx
ed Hegel e a negare l’importanza del concetto di alienazione, Preve
considera Marx un pensatore tradizionale che risale alle radici greche della
filosofia e reagisce alla mancanza di etica comunitaria del moderno
capitalismo, così come il pensiero filosofico greco aveva reagito
all’avanzare della società schiavista. Nella parte finale dell’intervista la
riflessione filosofica s’intreccia a questioni riguardanti la crisi economica
attuale, il venir meno della correlazione dialettica necessaria fra
proletariato e borghesia e altri temi di più stretta attualità, come i nuovi
soggetti sociali, l’area dei cosiddetti nuovi diritti e le aspettative suscitate
dalla presidenza Obama.

Segue:  http://comunitarismo.it/Intervista%20a%20Costanzo%20Preve.pdf

martedì 12 ottobre 2010

Il comunismo? Ipotesi plausibile. 
I comunisti? Dio ce ne scampi





di Costanzo Preve - 08/06/2006     


La Storia Reale ed il Culto della Talpa

Segue 2

(6) Bene, ho elencato sei fattori storici. Sebbene la chiacchiera ideologica irresponsabile mi dipinga come anti-operaio, e non lo sono per nulla, ci avrei aggiunto volentieri (anzi volentierissimo) anche le lotte operaie, se però queste ultime oggi nel mondo ci fossero, al di là di poco rilevanti anche se rispettabilissimi scioperi contrattuali. Non è colpa mia se il movimento operaio nei paesi occidentali ha smesso di essere un fattore storico-politico anticapitalistico ed anti-imperialistico e si è dato direzioni sindacali favorevoli a bombardare la Jugoslavia nel 1999 e l’Irak nel 2003, giungendo a berciare che i veri “resistenti” a Bagdad sono coloro che sono andati a votare. Prendersela con Preve mi sembra veramente demenziale.


Se le cose stanno così, allora, e se i sei fattori storici che ho indicato sono tutti estranei al “comunismo” nel senso di Marx, eretico e/o ortodosso che sia, che senso ha allora mettersi nell’ottica oggi di formare organizzazioni neo-comuniste, che non potrebbero necessariamente che essere ideologicamente cementate da una particolare ideologia di appartenenza basata su di una particolare ed esclusiva interpretazione di Marx?

Le ragioni che sconsigliano questa scelta sono molte, ma qui ho a disposizione solo un articolo, e non un libro intero. Mi limiterò a ricordarne solo due, una teorica ed una pratico-politica. Esaminiamole separatamente.

7. La ragione teorica principale che sconsiglia la formazione di gruppi neo-comunisti sta nel fatto che il neo-comunismo, comunque definito, presuppone una salda interpretazione filosofico-scientifica di Marx.

Ma essa non esiste. E allora gridare “bussola! bussola!”, e poi prendere il mare senza bussola, e credere che al posto della bussola ci possa essere la soggettiva volontà al sacrificio è da incoscienti.

Una parentesi marxiana. In Marx ci sono almeno due modelli diversi di anticapitalismo. Il modello maggioritario occidentale, basato sullo stato comunista dei lavoratori, ed un modello minoritario che definirei di “socialismo comunitario”, anticipato da Marx in una famosa lettera a Vera Zassulich in cui faceva l’ipotesi che la comunità russa del mir potesse evolvere direttamente verso la produzione comunista senza dover ad ogni costo passare per la via dello sviluppo capitalistico totale.

Sia lo stato comunista dei lavoratori sia il socialismo comunitario sono modelli evocati da Marx. Il primo modello è stato tentato dal comunismo storico novecentesco recentemente defunto (1917-1991), e chi mi legge sa bene che non credo nella favoletta trotzkista per cui come modello andava bene, ma purtroppo la cattiva burocrazia ha rovinato tutto e possiamo allora provarci una seconda volta, ma senza burocrazia, perché l’automatismo informatico potrà farne a meno. Si continui pure con questa litania, anche se è meglio Alice nel paese delle meraviglie.

Il secondo modello non è mai stato tentato, e non è affatto detto che riuscirebbe. Comunque, meglio tentare questa prospettiva che intestardirsi a riprovare sempre la prima, smentita trecento volte. Questo modello implica economia della decrescita, vincoli ecologici forti, libertà e democrazia, valorizzazione delle etnie comunitarie e dei piccoli popoli, dagli aymarà della Bolivia ai baschi, eccetera.

Se è così, però, e se la via del socialismo comunitario e democratico con forti elementi di cosiddetta “economia mista” non coincide con la via già provata dello stato comunista dei lavoratori a nazionalizzazione integrale dei mezzi di produzione, allora perché fare un partitino neocomunista? Il partitino comunista, sia pure inizialmente fatto solo di venti persone (e questo per me non sarebbe un argomento contrario, perché si parte sempre in pochi, ed il fatto di crescere o meno è legato alla correttezza della propria cultura politica - ho detto cultura politica, non linea politica), è uno strumento solo per la prima via, non per la seconda. La seconda via, se ci fosse realmente l’intenzione di percorrerla, (ed attenzione, è la via di Hamas e di Morales, non importa se le premesse religiose sono le stesse oppure no), non è compatibile con un partitino neocomunista.

8. La ragione pratico-politica che sconsiglia la via del partitino neocomunista riguarda la nicchia settaria e vocazionalmente minoritaria dell’ambiente che si ripromette questo programma neocomunista.

Questa nicchia la conosciamo bene tutti. E’ una nicchia di fanatici identitari a base ideologica che si definisce in base ad una piattaforma ideologica che non intende in nessun modo mettere in discussione. Ci sono i neobordighisti, i neotrotzkisti, i neotogliattiani, i neostalinisti, i neooperaisti, i neoanarchici, eccetera, e tutti sono determinati a difendere fanaticamente il loro spazietto, perché tutti sono convinti di difendere la Verità Rivelata contro la contaminazione di bande verminose di piccolo-borghesi, traditori, infiltrati fascisti ed altri mostri alla Goya. Tutto quello che fanno è prevedibile. E’ prevedibile che il gruppo di Ferrando si spacchi fra trotzkisti puri e parlamentari tattici. E’ prevedibile che i no-global si spacchino fra Casarini e Caruso e fra basisti attivisti e pagliacci del circo bertinottiano. Eccetera, eccetera. Questa nicchia è composta da individui in buona parte (non tutti, evidentemente, vi sono anche persone splendide, anche se poche) talmente ideologizzati da distruggere tutti i rapporti umani non ideologizzabili, che appunto per questo non possono apparire come “modelli di comunismo”, e cioè di vita normale, solidale e fraterna per gli altri. Io conosco bene questo ambiente. Quando cominci a non condividere più le scelte tattiche (e non dico strategiche, che almeno capirci, ma proprio tattiche!) si rompono amicizie, si alzano gossip diffamatori, e si alza tutta la demenziale merda ideologica.

Mi chiedo che senso abbia ripetere sempre questo inferno.

A mia conoscenza, solo i maniaci del gioco d’azzardo si incaponiscono nel ripetere ossessivamente questi scenari perfettamente prevedibili.

9. Naturalmente, il problema del “comunismo” resta completamente legittimo, e bisogna allora capire in che senso.

E qui mi spiace per il lettore esclusivamente assuefatto ai fumi ideologici inebrianti, ma ci vuole un po’ di sana filosofia integralmente filosofica.

I concetti non si consumano, mentre le parole che li esprimono e li connotano si consumano con il loro uso nella storia. Lungi dall’essere polarmente opposti, come ritengono tutti i dilettanti, idealismo e materialismo esprimono due realtà largamente complementari, l’idealismo quella della permanenza dei concetti e il materialismo quella del loro consumo “materiale” nella storia. Il concetto di comunismo (e trascuro qui i suoi vari significati, la cui elencazione telegrafica prenderebbe l’intero numero della rivista) è immutabile, e significa contestazione radicale alla logica distruttiva e reificante (reificante = la cosa al posto dell’uomo) della produzione capitalistica, In questo senso il comunismo è forte oggi come ieri, e lo sarà domani. I concetti della filosofia politica sono indistruttibili, fino a quando almeno permane la realtà storica di riferimento che connotano. Le parole però si possono consumare fino a diventare irriconoscibili. Pensiamo al “comunismo” di Pol Pot, o al comunismo di Occhetto, D’Alema, Cossutta e Bertinotti, a metà fra “chi vi paga?”, quote rosa, guerra e bombardamenti all’uranio impoverito, foto ghignanti con il generale americano Clark, nepotismo familistico e bande politicamente corrette e radical chic dei terrazzi romaneschi per ex-proletari con le pezze al sedere. Il “comunismo” come concetto resta immutato, ma il comunismo come parola sprofonda in un lago di sangue, fango e merda.

Eppure il comunismo come concetto, nel senso reale e razionale di Hegel e del suo allievo barbuto Marx, resta sempre attuale. E resta attuale il socialismo, nonostante Craxi e Solana, il laburismo nonostante Blair, eccetera. Ma, appunto, bisogna distinguere con grande chiarezza fra il comunismo, che appunto è in crisi profonda (direbbe Nenni, il movimento per ora non si muove) e il programma di ricostituzione di partitini o gruppuscoli di tipo neocomunista. Sì al primo, no ai secondi. Bastano per ora a mio avviso movimenti democratico-comunitari (tipo i NO-TAV della Val di Susa, cui va il mio più totale e sincero appoggio), movimenti di solidarietà internazionalistica (tipo solidarietà a Irak e Palestina, eccetera) ed infine reti di cultura e dialogo politico. Parlo ovviamente del presente. Non escludo infatti in futuro che, ove nascessero movimenti sistemici che ponessero veramente i due problemi fondamentali per l’Europa (modello economico alternativo al capitale finanziario e soprattutto espulsione delle basi militari USA dall’Europa), movimenti oggi inesistenti e che a mio avviso non sarebbero facilitati dalla semplice esistenza di partitini neocomunisti di nicchia, non si possa seriamente porre il problema della costituzione di una forza politica. Alla Lenin 1903, io ne sarei favorevole, in quanto non sono un anarchico. Ma anche in questo caso ritengo più probabile che si dovrebbe costituire una forza di socialismo comunitario (alla Chavez, per intendersi, anche se con meno caudillismo, che l’Europa non amerebbe), piuttosto che un’inutile replicazione dopo cent’anni del modello partitico di Lenin, modello che si basava su di una interpretazione di Marx che considero obsoleta, non perché fosse falsa allora (allora anzi era sensata, più di quella di Kautsky, e mille volte di più delle confusioni operaistiche alla Luxemburg), ma perché oggi non funzionerebbe più, in una situazione di terziarizzazione economica e di tramonto relativo della produzione industriale di fabbrica. In paesi come il Nepal, in cui c’è un problema di riforma agraria radicale contro il latifondo e la monarchia semifeudale, credo che il modello della guerra partigiana maoista di lunga durata sia razionale e positivo, ed infatti io ne sono solidale (per quanto ne so, ovviamente). Ma l’Italia non è il Nepal e l’Europa non è il subcontinente indiano.

10. Vorrei concludere ritornando alla questione del partitino neocomunista, in cui la pretesa “eresia” non sarebbe che la micro-ortodossia di riferimento identitario del gruppo.

Mi chiedo come sia potuta nascere l’idea che il sottoscritto, Costanzo Preve, potesse essere il guru, il teorico, l’ispiratore di un simile progetto neocomunista. E’ necessario rassicurare tutti i CARC del mondo. Preve non si è mai sognato di candidarsi ad una simile funzione. Se avessi voluto fare il consigliere del principe, mi sarei arruffianato prima con il PCI, e poi con Cossutta e Bertinotti, imparando il gergo di mutua assicurazione di fedeltà di cordata e di sottomissione al capo con i dialetti necessari (continuista togliattiano-antifascista con Cossutta e sindacalista-massimalista-frou-frou-femminista-transessuale con Bertinotti).

Pensavo che scrivendo tonnellate di carta, di cui alcuni quintali utilizzabili ed alcuni chili ben riusciti, avrei dissipato ogni equivoco. Errore. Io ritengo di stare vivendo in una crisi epocale di transizione (diciamo così, 1980-2020), in cui come Mosè non vedrò nessuna terra promessa e mi è sufficiente non essere finito come i pidocchetti sessantottini miei coetanei, passati dalle rauche grida di morte ai baschi neri al leccaggio del sedere dell’impero americano e del sionismo. Lo considero una grande vittoria della mia vita, e mi basta ed avanza. I CARC si rassicurino, e tornino a scambiare la loro disponibilità soggettiva ai sacrifici dell’anticapitalismo militante con il possesso di una teoria scientifica di orientamento storico. Prima o poi, capiranno anche loro che non basta un martire per fare giusta una causa.

11. Per finire, un educato consiglio ai miei compagni ed amici di “Eretica”.

 Chi crede di poter essere eretico e contemporaneamente far politica nel piccolo mondo di nicchia intergruppi del rissoso neocomunismo settario è proprio fuori dal mondo. Chi vuole relazionarsi con questo piccolo mondo rissoso deve assolutamente compatibilizzarsi col PCES, e cioè con il Politicamente Corretto di Estrema Sinistra. Ti vuoi relazionare con i CARC? Bene, togliti dalla testa le tue velleità eretiche. Dovrai accettare due dogmi del PCES, e cioè il laicismo, per cui se qualcuno crede in Dio o in Allah crede in nemici del proletariato ateo e materialista, e l’antifascismo in assenza completa di fascismo (defunto nel 1945, e dopo risuscitato solo come golpismo imperiale americano, e quindi non come fascismo vero e proprio).

Chi pensa di essere eretico accettando l’ortodossia del politicamente corretto di estrema sinistra non è un vero eretico. E’ un eretico alla mortadella, un Prodi che si porta la borsa da solo anziché avere uno schiavetto strapagato che lo fa. Si pensa forse che essere eretici consista nel fare dotte dissertazioni su Sartre criticando il già più volte seppellito Stalin mentre si accettano tutti i tabù della nicchia? Io non parlo di me. Personalmente non mi ritengo un eretico, e non so neppure esattamente che cosa voglia dire questa parola in assenza totale di ortodossia, nel frattempo morta, sepolta e dissolta. Parlo a chi invece vuole essere eretico e su questa “eresia” rifondare il suo “nuovo comunismo”. Questo altro comunismo, come tutti indistintamente gli altrismi, ha il difetto di tutti gli altrismi, e cioè di non potersi determinare mai se non come vaga negatività. Non siamo questo, non siamo quest’altro. Siamo “altri”. E allora, come diceva Marx a proposito dei “socialisti feudali” del suo tempo, quando la gente vedrà che sul sedere avete stampati i vecchi soliti stemmi del comunismo storico novecentesco, eretici o ortodossi che siano, scapperà a gambe levate, perché non vuole tornare a recitare i vecchi copioni politicamente corretti di estrema sinistra, con i bordighisti che con matematica certezza si scinderanno in due e i trotzkisti che con altrettanto matematica certezza si scinderanno in quattro, mentre Luxuria, Caruso, la Menapace, Gennaro Migliore, eccetera, almeno andranno in pensione con trattamenti d’oro e potranno pagarsi tutte le badanti moldave che vorranno.

POST-SCRIPTUM

Sul numero 2 di “Eretica” c’è un attacco nominativo nei miei confronti firmalo CARC (un’entità collettiva, modo meraviglioso di nascondere l’identità intellettuale personale in un complesso anonimo). Agli attacchi del gossip informatico non rispondo mai per principio, perché si fondano sul principio dell’anonimità e dello pseudonimo, lo stesso principio della mafia, camorra e ndrangheta. Qui però l’attacco nominativo è firmato, sia pure da una sigla collettiva, ed è bene allora che chiarisca le cose nominativamente, non tanto per il CARC (il cui argomento surreale di fondo è che io intendo praticare una libertà che la borghesia non concede ai proletari-bravi, in questo modo siete sulla strada buona per rifondare il comunismo oggi), quanto perché si solleva il tema della mia pericolosa collaborazione e contiguità con riviste ed editori di “destra”, tema indubbiamente d’interesse generale e che merita una risposta scritta e chiara, visto che da tempo il mormorio malevolo di chi mi accusa (generalmente senza leggermi, e qui siamo al di sotto dei metodi inquisitori classici, che almeno leggevano attentamente coloro che volevano processare) si accompagna all’assordante e sgradevole silenzio di chi mi conosce bene, e dovrebbe avere avuto da tempo il buon senso e la generosità di difendermi. Ma al peggio non c’è mai limite. Ed allora cerchiamo di tornare sulla questione, senza sottrarci a nessuna domanda imbarazzante. Io non sono infatti per nulla imbarazzato, in quanto ritengo di avere la coscienza a posto su tutti i piani, etico, politico e culturale.

Da alcuni anni scrivo anche sui muri che considero ormai obsoleta la contrapposizione fra Destra e Sinistra, diventata una protesi artificiale di una realtà elettorale manipolata virtuale che deve impedire la visibilità della nuova contraddizione fondamentale dei nostri tempi (o almeno di quella che ritengo tale), la contraddizione fra l’imperialismo americano e il resto dei popoli del mondo. Con questo non ritengo affatto finite le contraddizioni sociali di classe (non attribuitemi questa idiozia, per favore!), ma le ritengo, per dirla alla Althusser, “surdeterminate” per ora a questa contraddizione principale, per cui, se proprio un “fronte popolare” si deve fare (ed io sono retrospettivamente favorevole a questa tattica degli anni trenta, e contrario al “classe contro classe” o al proletariato contro tutti di tipo trotzkisteggiante), si deve fare oggi contro l’impero americano. Dopo si vedrà. Chiarisco ancora contro il lettore malevolo e prevenuto che io non dico affatto che la dicotomia Destra/Sinistra sia finita dovunque e per sempre. Non lo penso affatto. Qui da noi è finita, ed il PCI-DS D’Alema è del tutto intercambiabile con il MSI-AN Fini, e sia la mussolineria (a destra) che la bertinotteria (a sinistra) sono semplicemente guardie plebee subalterne che portano voti ad un’identica politica di subalternità agli USA. Nel mondo considero positive e da appoggiare sia forze indiscutibilmente di sinistra (partigiani in Nepal, Chavez in Venezuela, Morales in Bolivia, eccetera) sia forze che la bertinotteria politicamente corretta considererebbe di “destra” (Hamas in Palestina, Ahmadinejad in Iran, eccetera). Inoltre per il futuro non mi pronuncio. Non escludo infatti che la dicotomia potrebbe anche rivitalizzarsi, ma per ora non ne vedo le condizioni.

Torniamo a noi. Ho sempre scritto che non credo più nella dicotomia, ma evidentemente non sono stato preso sul serio. In Italia prevale infatti una lunga durata di ipocrisia gesuitica e di divorzio programmatico fra parole e fatti.

D’Alema partecipa salmodiando alla marcia Perugia-Assisi negli stessi giorni in cui bombarda Belgrado al servizio della strategia geopolitica USA di occupazione dei Balcani fingendo un genocidio inesistente e certificato come inesistente dagli osservatori OSCE. Toni Negri esalta la distruzione teurgica di moltitudini comuniste incazzate mentre nello stesso tempo è portato in palmo di mano dai giornali dell’oligarchia americana, che capiscono bene come i suoi deliri non sono per nulla pericolosi. In questo baccanale di schizofrenia fra parole e fatti si è pensato che anche il povero Preve abbia detto questo, ma senza crederci veramente.

Il politicamente corretto permette infatti certe enormità solo agli artisti tipo Giorgio Gaber, in quanto si dà per scontato che l’artista sia geniale ma pazzo, e soprattutto irresponsabile.

E invece io lo penso veramente. Di conseguenza, per me le edizioni Settimo Sigillo ed All’insegna del Veltro sono esattamente come, né più né meno, le edizioni Manifestolibri o Editori Riuniti. oppure se vogliamo Rizzoli e Mondadori. Se potessi pubblicare da Rizzoli e Mondadori lo farei certamente, perché hanno un’ottima catena distributiva ed un buon ufficio stampa per le recensioni e gli invii gratuiti, e nessuno mi criticherebbe. Eppure Rizzoli pubblica la Fallaci e Mondadori pubblica Magdi Allam. Vorrei allora che tutti i vigilanti che mi criticano rispondessero a questa semplice e precisa domanda: ove il termine “fascismo” significasse negatività assoluta e totale, sono più “fascisti” oggi (ripeto, oggi) Julius Evola e David Irving oppure Oriana Fallaci e Magdi Allam? E allora perché diavolo ve la prendete con il Settimo Sigillo e con All’insegna del Veltro e non con la Rizzoli e con la Mondadori?

Naturalmente io so bene perché, e fra poco lo chiarirò. Ma per ora sono costretto ad aprire una sgradevole parentesi personale su come io vedo il famoso “fascismo”, non perché abbia la minima importanza, ma perché il rumore di fondo del gossip diffamatorio ha imbarazzato quelle poche decine di persone alla cui stima tengo (non sono di più, e non mi interessa che siano di più).

Sono nato nel 1943. Il fascismo è finito quando avevo due anni, e quindi non ho mai avuto il problema di scegliere se essere fascista o antifascista come la generazione di mio padre e mia madre. A 18 anni circa, nei primi anni sessanta, sono divenuto “comunista” nel doppio senso dell’utopia universalistica dell’emancipazione di Marx e del fascino della spiegazione “scientifica” della società. Da allora non ho cambiato mai idea. Il solo “antifascismo” politico che ho praticato è stato l’appoggio semiclandestino alla resistenza greca contro i colonnelli 1967-1974. La guerra civile simulata a bastonate in Italia non mi ha mai interessato e l’ho sempre considerata un diversivo con cui le vere classi dominanti post-fasciste mandavano allo sbaraglio giovani ingannati. Se sono antifascista? Certo che lo sono. Sono antifascista nel doppio senso di essere democratico, e cioè per le libertà democratiche sia individuali che collettive, e di essere anticolonialista ed antimperialista, cioè idealmente e retrospettivamente a fianco dei libici 1930, degli etiopici 1935, dei greci 1940 e degli jugoslavi 1941, e non certamente degli invasori fascisti, anche se fra di essi c’erano i miei genitori ed i miei zii. In quanto all’antisemitismo, dirò solo due cose. Primo, mi auguro (anche se non posso saperlo, sono tutti eroi a casa propria) che avrei avuto il coraggio di salvare famiglie ebree nascoste, tipo Perlasca e Palatucci, anche se non mi interesserebbero riconoscimenti dello stato sionista di oggi. Secondo, viva l’esercito sovietico di Stalin che ha liberato Auschwitz nel 1945 (sovietico, non americano come lascia credere il furbastro DS politicamente corretto Benigni)! Con questo, spero di non essere più costretto a simili cerimonie del tutto prive di interesse, io servo la divinità della Sincerità e della Ricerca, non la divinità del Pararsi il Culo.

Ma torniamo al problema. Come mai, se oggi il “fascismo” sono la Fallaci e Magdi Allam (e cioè gli editori Rizzoli e Mondadori), e non Evola o Irving, si fa tanto casino? Forse che Preve, se pubblica da un editore, deve condividere (o è sospettato che condivida) tutti i titoli in catalogo oppure le eventuali idee politiche dell’editore? Neppure l’inquisizione spagnola sarebbe giunta a tanto. E allora, quali sono le radici teorico-simboliche di tutto questo? Qui bisogna andare sul filosofico, cari amici. E le radici sono almeno due, e cioè l’Immaginario Paranoico, prima, ed il Pensiero Magico, poi. Esaminiamole separatamente.

Iniziamo dall’Immaginario Paranoico. Dal momento che il fascismo propriamente detto è finito in Europa nel 1945, e dopo ci sono stati soltanto dei regimi golpisti tipo CIA, cui il termine “fascismo” non calza storiograficamente troppo (colonnelli greci, golpisti turchi, eccetera), siamo stati per più di sessant'anni (1945-2006) di fronte ad un Antifascismo senza Fascismo (anche qui, non sottovaluto affatto gli apparati golpisti ideologicamente neofascisti, che erano però semplici guardie plebee di forze al potere ufficialmente antifasciste e postfasciste). Questo teatro dell’assurdo aveva ovviamente la sua razionalità, da parte azionista di tramandare la condanna crociana e gobettiana del fascismo come male assoluto, e da parte comunista di legittimare se stessi come la parte più risoluta del fronte antifascista. Si è allora costruito un Immaginario Paranoico quadruplice della Cospirazione (fascista), dell’Infiltrazione (fascista), della Contaminazione (fascista), ed infine del Tradimento (di tutti coloro che a “sinistra” non accettavano questo immaginario paranoico). Non sto ovviamente dicendo che non ci siano state delle infiltrazioni e delle cospirazioni. Ci sono state, è ovvio. Ma da questo all’immaginario paranoico ce ne passa.

Passiamo al Pensiero Magico. E’ questa una categoria presente nella storia del Marxismo di Kolakowski (terzo volume, Sugarco, Milano). Secondo Kolakowski (ed io concordo) i comunisti poststaliniani novecenteschi erano caratterizzati da un pensiero magico, per cui l’impurità della fonte contamina anche i contenuti che vengono espressi. Di qui il fatto che se le critiche a Stalin vengono fatte da una fonte impura (liberali, trotzkisti, eccetera) sono ritenute false e frutto di manipolazioni CIA o Quarta Internazionale, mentre se le stesse identiche critiche vengono fatte nel 1956 dal papa-babbione della ditta autorizzata Krusciov allora tutti si stracciano le vesti gridando ipocritamente: “Ma come è stato possibile? Ma come mai non l’abbiamo saputo prima?”, ed altre porcherie del genere.

Oggi la buffonata si ripete, anche se quello che un tempo era tragedia oggi è farsa. Il mio appoggio ad una moderata geopolitica euroasiatica è lo stesso del signor Sorini sull’Ernesto” e del signor Chevènement nel socialismo francese, ma se lo scrivo sulla benemerita (capito: benemerita) rivista di Mutti “Eurasia” allora diventa un’infiltrazione della mummia egizia del defunto Thiriart. E allora ditemi, cari sapientoni: dove potrei scrivere e pubblicare le stesse idee? Sull’Unità? Sul Manifesto? Su Liberazione? Ma per favore, come dice il comico Ezio Greggio!

Chi per caso avesse letto i miei due libri di filosofia pubblicati dal Settimo Sigillo (Filosofia del Presente e Per un buon uso dell’universalismo) noterà che il contenuto è perfettamente compatibile, se fossimo in una situazione culturale normale, non solo con la Mondadori e con la Rizzoli, ma addirittura con la filosofia ufficialmente professata da Manifestolibri e dagli Editori Riuniti: uso critico di Marx, razionalismo filosofico, anticapitalismo integralmente democratico, anticolonialismo, antiimperialismo, estraneità radicale alla cultura tradizionalmente definita di “destra”. Leggere per credere, E allora, perché tutto questo casino?

Lo so bene perché. Finché chiacchieri dottamente su Marx, Engels, Hegel e Althusser non rompi i coglioni a nessuno e non infrangi le regole ferree del Politicamente Corretto, dell’Immaginario Paranoico e del Pensiero Magico. Ma quando cominci a diventare un critico di questa Trinità, allora sì che sei veramente un “eretico”. Ebbene, in questo senso eretico lo sono, lo rivendico, e con questo tolgo il disturbo e vi saluto.

Fonte: http://www.comunitarismo.it 

Il comunismo? Ipotesi plausibile. 

I comunisti? Dio ce ne scampi



 
di Costanzo Preve - 08/06/2006     

La Storia Reale ed il Culto della Talpa

1. Mi è stato chiesto di aprire una discussione teorica e filosofica sul comunismo. L’ho già fatto in passato forse una decina di volte. E’ impossibile, e so bene, e lo dico in anticipo, che non serve assolutamente a niente. Anche questa volta, sarà come le precedenti. Non partirà nessuna discussione. E questo per una ragione strutturale e ben precisa. Le discussioni, per essere tali, e non essere solo ridicole caricature, devono essere senza rete, a 180 gradi, e porre quelli che Cartesio chiamava “dubbi iperbolici”, in quanto i soli dubbi metodici non sono veri dubbi, ma solo momenti fisiologici interni a qualsiasi ragionamento che non sia una rissa per ubriaconi. Chi vuole discutere sul comunismo senza mettere preventivamente anche in discussione l’opportunità nella presente fase storica di costituire un’organizzazione politica neocomunista, e dà invece per scontata e preliminare questa decisione, non può discutere sul comunismo. Ci sarà solo quella che il marxista tedesco Christoph Hein chiama la quinta operazione, quella che fissa il risultato ancora prima di effettuare il calcolo, a differenza delle quattro operazioni normali (addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione).

Ho abbandonato da almeno un decennio il mondo della quinta operazione, che è sempre stata l’oggetto del primo esame di matematica cui dovevi sottoporti per laurearti in “intellettualismo organico”, la laurea degli intellettuali buoni, quelli “organici” al movimento operaio e comunista, da distinguere dagli intellettuali cattivi, quelli pagati dai padroni e/o in preda ad anarchismo piccolo-borghese o alla pretesa borghese di libertà incondizionata. Libertà, sia detto fra parentesi, che permise a suo tempo a Marx di scrivere quello che pensava, al di fuori della committenza di gruppi blanquisti o di gruppetti anarchici o bakuniniani.

Dunque, deve essere chiaro che discutere significa soltanto discutere senza rete, senza quinta operazione e senza predeterminazione in anticipo degli esiti. La discussione gruppuscolare neocomunista di nicchia non ha questi requisiti, perché il presupposto identitario di appartenenza, fatto passare per necessità di prassi di impegno “pratico”, lo impedisce. Fatta questa indispensabile premessa, fingiamo ancora una volta (ma sarà l’ultima) che una discussione sul comunismo sia possibile.

2. In un discorso tenuto a Milano il 14 maggio 1966 Pietro Nenni diede questa definizione geniale ed insuperabile: “La prova del movimento si dà muovendosi”. Ed infatti è proprio così.

Prima di definire nel 1875 in modo assolutamente vago e politicamente indeterminato il comunismo del futuro come la società in cui ognuno darà secondo le sue capacità e riceverà (da chi? - nota mia) secondo i suoi bisogni, nel 1844 Marx definì nennianamente il comunismo come quel movimento reale che aboliva lo stato di cose presenti. La definizione è talmente vaga che persino un presenzialista dilettante come Bertinotti ha potuto metterla sulle tessere del suo partitino. Tuttavia, assumiamola qui come la definizione classica di comunismo da cui partire. E’ infatti una buona definizione, perché inserisce il comunismo nel movimento temporale della storia reale, togliendolo dal precedente significato di progetto artificiale politico (Platone) o religioso (Gesù di Nazareth, Tommaso Moro, eccetera).

Bene, sono passati da allora quasi due secoli, e per ora questo movimento sembra entrato sottoterra come un fiume carsico. Alla superficie si vedono soltanto un 80% di movimenti capitalistici ed imperialistici di globalizzazione, ed un 20% di movimenti anti-globalizzazione (da Chavez ad Ahmadinejad), che non sembrano però avere nulla di comunista nel senso di Marx,

Insomma, può essere imbarazzante dirlo, ma se il comunismo è un movimento reale (Marx) e la prova del movimento si dà muovendosi, pare che il comunismo per adesso non si stia muovendo.

Partiamo allora da questo fatto, il lettore dovrà ammettere che si tratta di un fatto storico, e non di una opinione piccolo-borghese anarcoide di chi vuole usare la sua libertà di pensiero che la borghesia nega ai proletari (contributo dei CARC alla discussione sul marxismo).

3. I seguaci della religione totemica della Talpa, erroneamente confusa con il metodo di Marx, hanno però già pronta la loro risposta: in apparenza sembra che poco si muova, ma vediamo che la resistenza irachena continua a combattere, Hamas vince le elezioni in Palestina e Morales le vince in Bolivia, eccetera; ben scavato, vecchia Talpa!

La religione totemica della Talpa consiste in ciò, che le normali resistenze al capitalismo, all’imperialismo e alla globalizzazione vengono pensate in questo modo totemico-talpesco come momenti di avvicinamento al Grande Giorno del Comunismo. Allora, o ci poniamo un dubbio iperbolico o ci rifugiamo nel totemismo. Ora, essendo un sostenitore della permanenza antropologica del sacro, dei simboli e della religione, e quindi anche del totemismo, e ritenendo l’unificazione filosofica dell’intera umanità nel materialismo dialettico l’esito di una buona ubriacatura di vodka, non ho nulla contro il totem della Talpa, che anzi preferisco al totem dell’Orso degli speculatori di borsa, del totem del Lupo dei fascisti turchi o del totem della Pecora dei pacifisti salmodianti e belanti. Nello stesso tempo, il metodo critico di Marx deve essere applicato anche a se stesso, cosa che i gruppi religiosi marxisti non fanno.

Proviamo a farlo.


4.
Mi spiace usare la paroletta “io”, che Gadda a suo tempo definì “il più odioso dei pronomi”, ma per chiarezza verso il lettore non mi nasconderò dietro il ridicolo e pomposo anonimato della terza persona, in cui empirici personaggi staliniani, trotzkisti o bordighisti, usando il linguaggio impersonale, si fingono (e si illudono grottescamente di essere) il corso maestoso della storia universale cosmopolitica. Preferisco che il lettore legga “io”, e relativizzando me che scrivo relativizzi anche di conseguenza se stesso. Se invece ritiene di incarnare il Proletariato allora è meglio che chiudiamo tutto e ci diamo ad una sana partita a carte.

Io penso, detto in breve, che la questione del comunismo non è chiusa, la storia ovviamente non è finita, le classi, i popoli, le nazioni e gli individui oppressi esistono sempre, la loro resistenza continua, sia sempre più giusto appoggiarla, e sia anche opportuno organizzarsi per farlo.

Considerandomi anche un allievo indipendente di Marx (non solo, ovviamente, guai all’uomo di un solo libro, sia esso la Bibbia, il Corano o Marx!), ritengo sempre aperta la questione del comunismo sia sul piano pratico, anticapitalista ed anti-imperialista, sia su quello teorico. Se qualcuno

pensa che io “sia passato dall’altra parte”, tipo Sofri o Ferrara, vada a sputare il suo veleno altrove, incrementando il ben noto settarismo suicida dei gruppetti paranoici della nicchia identitaria, che mentre si beccano come i capponi di Renzo Tramaglino pensano di essere agenti della storia universale.

Penso anche, però, ed ancora più decisamente, che oggi (e cioè nella nostra situazione storica presente) la formazione di gruppi politici neocomunisti (poco importa se si dichiarano ortodossi, eretici, eredossi o ortetici, eccetera) non sia opportuna, sia tempo perso, e sia non solo inutile ma anche dannosa. E per finire, il termine “eresia” è per me privo di significato, perché l’Ortodossia e l’Eresia vivono insieme, lottano insieme e muoiono insieme. Si può essere infatti eretici solo in presenza di ortodossi. Ma dove sono oggi gli ortodossi? Non li vedo più. Chi non si è accorto che gli ortodossi nel mondo intero sono morti nel decennio 1985-1995 è al di qua di qualunque seria discussione teorica, ed è dunque l’“eretico” di nulla, come avviene nelle comiche, in cui l’attore continua a litigare con veemenza e non si rende conto che l’altro è già da tempo uscito dalla stanza. Ma passiamo ora ad alcune considerazioni sull’attualità politica che possano sostenere almeno in parte quanto ho appena detto.

5. Facciamo una breve analisi politico-geografica delle forze che in questo febbraio 2006 si oppongono all’imperialismo americano, principale nemico del popolo e delle classi oppresse del mondo, e ci accorgeremo che il comunismo è inesistente, a meno che siamo seguaci del Culto della Talpa e siamo convinti che anche se non si vede, in realtà sta scavando sotto di noi, in compagnia di Maura Cossutta, Vladimir Luxuria e Vittorio Agnoletto:

(1) La resistenza irachena. Essa resta il principale fattore geopolitico internazionale di resistenza all’imperialismo americano. Senza di essa, la belva si sarebbe già probabilmente scatenata verso altri obbiettivi. In proposito, mi rifiuto di avere nei suoi confronti un approccio ideologico che sarebbe sempre una forma di presunzione occidentalistica. Essa può essere laica o religiosa, questo non mi riguarda. Si tratta di una resistenza nazionale, patriottica e popolare. Il “tifare per i nostri” è stato tipico dell’approccio di “sinistra” del periodo 1960-90. II “Manifesto” fa ancora così: noi siamo per Abu Mazen, perché è laico, e siamo contro Hamas perché crede in Dio, che notoriamente non esiste (ah!ah!), mentre solo il signor Ingrao e la signora Rossanda esistono.

(2) Gli stati “comunisti” tipo Cuba
.
Essi devono a mio avviso essere sostenuti incondizionatamente (e non a condizione che permettano il boicottaggio interno che li distruggerebbe in sei mesi, come sostiene irresponsabilmente la bertinotteria politicamente corretta), ma non certo perché siano caratterizzati da un “inizio di comunismo” secondo Marx (il comunismo secondo Marx implica la massima libertà di opinione e di organizzazione politica), ma perché sono un baluardo della resistenza contro l’imperialismo. Introdurre il cosiddetto “pluralismo” sindacale e politico, come vorrebbe il teatro bertinottiano delle marionette, significherebbe ucciderli, perché il Dipartimento di Stato ci fionderebbe subito i suoi agenti. Chi non lo capisce o è in malafede (ceto politico, ONG corrottissime, giornalisti politicamente corretti, eccetera) o è un analfabeta politico, e dovrebbe essere invitato ad occuparsi d’altro.

(3) Movimenti populistici ispirati dal socialismo comunitario.
Ad esempio Chavez in Venezuela e Morales in Bolivia, eccetera. Sono da appoggiare incondizionatamente, ma non sono comunisti e non hanno bisogno di grilli parlanti di tipo “comunista”, che in nome di copioni tattici dogmatici stilati più di mezzo secolo fa li condurrebbero con il loro estremismo idiota alla peggiore rovina, dicendo che soltanto le classi esistono, mentre le nazioni, i popoli e gli individui sono solo mistificazioni piccolo-borghesi.

(4) Movimenti religiosi popolari.
Ad esempio Hamas in Palestina ed Ahmadinejad in Iran (Dio benedica entrambi!). Sono da appoggiare incondizionatamente, ma non c’entrano assolutamente nulla con il comunismo.

(5) Stati-nazione che hanno una funzione geopolitica positiva.
So che qui verrò insolentito dai puristi della rivoluzione classista immacolata, ma fra essi metto in parte la Russia di Putin (sempre meglio degli “arancioni” pazzi e filo-americani), la benemerita giunta militare del Myanmar, che Budda conservi a lungo, la Siria del benemerito Assad, e persino l’orribile Cina dell’accumulazione capitalistica selvaggia, nella misura in cui è pur sempre un fattore geo-politico indipendente dagli USA.

(6) La parte minoritaria anti-imperialista dei movimenti no-global, da cui escludo ovviamente tutti i pagliacci mediatico-parlamentari incorporati nei meccanismi occidentali politicamente corretti.

 Segue 2

lunedì 11 ottobre 2010


IL COMUNISMO E LA QUESTIONE NAZIONALE




 

di Maurizio Neri

Queste riflessioni nascono dalla necessità di analizzare lo stato presente di cose e di fare qualche ipotesi e previsione sui possibili sviluppi del comunismo.

Dopo la caduta dell’Urss il capitalismo ha potuto fare quel balzo in avanti nell’estensione del suo modello di produzione e di conseguente ridispiegamento delle sue potenzialità di circolazione di capitali e merci che va sotto il nome di "globalizzazione".

La globalizzazione è divenuta in poco tempo la parola d’ordine assunta da ogni analista per descrivere un mondo nuovo, reticolare, intessuto ed innervato da rapporti economici che in una sorta di Tela di Penelope avvolgono il pianeta.

Esiste, però, a parere di chi scrive uno "sviluppo ineguale" del capitalismo globalizzatore che non ha la stessa composizione e natura, a seconda che si tratti dell’Occidente e dei paesi che hanno marciato alla sua stessa velocità nella strutturazione dei rapporti di produzione e le periferie dell’Impero che in molti casi sono ancora ferme ad un capitalismo di stampo ottocentesco basato su forme di produzione legate ad una manodopera ridotta in condizione di sfruttamento prossime allo schiavismo.

Quando parliamo della globalizzazione dovremmo fare attenzione a non confondere la situazione di chi ha e detiene il potere di mutare le forme di produzione (paesi ricchi)e di chi le subisce passivamente (paesi poveri) adattando le proprie risorse umane alle necessità produttive dei primi.

Partendo da questo assunto la conseguenza è che molti paesi hanno saltato il passaggio dal proto-capitalismo alla formazione di un tessuto economico che contempli una divisione in classi così come concepita da Marx nei paesi ad avanzato sviluppo industriale con una borghesia imprenditoriale ed una classe operaia in contrapposizione con la prima.

Tutto questo è assente nei paesi "periferici" dove al più si rinviene una borghesia "compradora" locale di natura oligarchica legata a centri di potere internazionali, ma che in termini di sviluppo dei rapporti di produzione è ancora arcaica , legata a fattori come il possesso di terra o a traffici spesso di natura illegale che le permettono di mantenere una posizione di comando "interna" tramite la corruzione.

Molti di questi paesi che negli anni sessanta e settanta avevano lottato per la loro indipendenza dai regimi coloniali che dall’Ottocento avevano stabilito un regime di dipendenza diretta con molti paesi europei, sono stati "riassorbiti" da un nuovo colonialismo soprattutto grazie alla sconfitta del campo socialista.

In Africa, in Asia ed anche in Sudamerica, dove la lotta dei movimenti di liberazione, di ispirazione comunista e socialista, è stata sconfitta dagli apparati militari nazionali legati a doppio filo con gli Usa, ovunque si è registrata o la caduta dei regimi che avevano preso il potere dopo la liberazione oppure ad un loro progressivo riallineamento alle direttive del nemico di ieri.

Per alcuni, penso al Vietnam, ma non è l’unico caso, si è trattato del classico "bere o affogare" poiché oggi l’essere esclusi dal consesso del commercio internazionale equivale ad una condanna a morte, come hanno dimostrato i drammatici casi di Cuba, Irak, Iran e tanti altri paesi, affamati da anni di embargo.

Le cause di questo fenomeno sono molteplici, non ultima la caduta dell’URSS e del Comecon che garantiva un interscambio, seppur minimo, tra i paesi socialisti, ma quel che colpisce oggi è che non esiste allo stato un "modello socio - economico" che un Paese possa oggi adottare in alternativa al capitalismo che possa avere la chance di durare più di un giorno.

Non esistendo più il paese di "riferimento", l’Unione Sovietica, oggi Russia, prossima ad entrare addirittura nella Nato, non esistendo una "sinistra" in Europa che sappia ancora declinare il socialismo come via alternativa al capitalismo, se non con istanze confuse e contraddittorie, allo stato l’opposizione all’imperialismo è interpretata su base nazionale, religiosa ed identitaria come rifiuto della dominazione altrui in casa propria.

Come si pongono i comunisti davanti a questi fenomeni nuovi, frutto anch’essi della esasperata dominazione non solo economica, ma culturale, militare ed antropologica che l’Occidente produce e sussume nel termine di "comunità internazionale"?

Oscillano paurosamente tra incomprensioni di fondo dettate dal mancato riconoscimento della "questione nazionale" come fattore di mobilitazione da indirizzare su posizioni comuniste per vecchie interpretazioni legate alla "demonizzazione" di tutto ciò che è la complessità dei fattori culturali, psicologici , religiosi, che compongono la questione nazionale, lette come meri artifizi sovrastrutturali che inficiano l’unita’ dei lavoratori su base universale.

Bisognerebbe, però, ricordare che ogni volta che negli anni sessanta e settanta i movimenti comunisti, socialisti ,anticoloniali ed antiimperialisti hanno vinto, da Cuba al Vietnam dall' Algeria al Congo lo hanno fatto perché hanno saputo interpretare alla luce del comunismo/socialismo le aspirazioni ed i caratteri costitutivi di un "determinato paese". Ciò non ha impedito, di certo, a Guevara che coniò il famoso "Patria o Muerte" di andare a combattere, da convinto internazionalista qual’era, in Africa per liberare quei popoli dalla schiavitù imposta da regimi fantoccio al soldo degli occidentali ed a molti movimenti di liberazione nazionale dell’epoca di lottare in stretta collaborazione internazionalista.

A scanso di equivoci la diatriba tra quelli che auspicano il "socialismo in un solo paese" o quelli che parlano di "rivoluzione globale" la trovo assai poco pertinente ed anche fuori tempo massimo, essendo legata da una fase storica ben determinata e circoscritta e sicuramente non attuale, ma se dovessi esprimere il mio parere sulla questione allora opterei per un’altra formulazione di prospettiva.

Se quanto da me esposto sinora ha una conseguenza questa non può che essere che nell’epoca della globalizzazione e probabilmente a causa di essa e degli effetti che essa comporta e determina, la questione della "identità" o questione "comunitaria "è diventata ineludibile per chiunque voglia fare politica sulla base di una futura opzione comunista senza scadere nell’"astrattismo".

Ciò vuol dire che il Comunismo, che rimane sempre la ricerca di una società nella quale non esista più lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dovrà, comunque, avere sviluppi diversi a seconda dei paesi nei quali otterrà il consenso. Sviluppi e cammini diversi, non esiti diversi, che si raccordino strettamente alla questione nazionale vista come elemento di crescita progressista della comunità dei lavoratori, individui liberati e solidali, ma non deracinès dal contesto identitario nel quale operano e svolgono il loro ruolo di classe. Diversi Socialismi in diversi paesi uniti da una solidarietà internazionalista che li faccia procedere uniti quando sarà il momento di affrontare la prevedibile reazione capitalista.

La ricchezza di espressioni che le diverse forme potranno apportare al Comunismo, tenendo ben saldo l’obiettivo finale ed irrinunciabile della liberazione dell’ Uomo da ogni forma di sfruttamento basata sul lavoro salariato, è essenziale per dare ossigeno all’ asfittica idea comunista, oggi in crisi e minoritaria in tutto il mondo.

Per questo motivo la partecipazione dei comunisti alle istanze di liberazione dei popoli , all’interno di un fronte vasto e articolato, anche eterogeneo ed a guida borghese, è essenziale in molti paesi "periferici", perché ogni passo in avanti nella liberazione di un popolo dalla catena imperiale è una chance in più per il Socialismo soprattutto se saprà interpretare al meglio la cultura e l’ identità peculiare della propria realtà alla luce dei suoi obiettivi di emancipazione. Basta accorgersene.

mercoledì 6 ottobre 2010

Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale

 

di Costanzo Preve
 Considerazioni politiche e filosofiche
1. Introduzione. Sul nemico principale. Commento di una recente formulazione di Alain de Benoist
2. Le mort saisit le vif (Marx). Il peso inerziale ormai insopportabile della storia tricentenaria del profilo della filosofia politica moderna e della sua variante subalterna postmoderna
3. Il primato dello struzzo. Lo struzzo come animale totemico-tribale del passaggio dal realismo storico-politico al moralismo ostensivo testimoniale
4. L’imbecillità socialmente organizzata. Per una nuova teoria degli intellettuali e delle strutture ideologiche
5. Il nemico principale in economia: il capitalismo e la società di mercato
6. Il nemico principale in politica: il liberalismo
7. Il nemico principale in filosofia: l’individualismo
8. Il nemico principale nella società: la borghesia
9. Il nemico principale in geopolitica: gli Stati Uniti d’America
10. Conclusione. Verso un radicale riorientamento gestaltico nella visione complessiva del mondo storico e politico

http://www.comunismoecomunita.org/?p=1571

venerdì 1 ottobre 2010

Impero, imperialismo, stati-nazione e classi 





di Piero Pagliani




«Gli inglesi risero molto quando io aprii il mio speech osservando che il nostro amico Lafargue, ecc…, che ha eliminato le nazionalità, ci ha rivolto il discorso in Francese, vale a dire in una lingua che i nove decimi dell’uditorio non capivano. Accennai inoltre che lui, affatto inconsapevolmente, sembra che voglia intendere sotto il termine negazione delle nazionalità il loro assorbimento nella nazione modello francese.»

Lettera di Marx a Engels, 20 giugno 1866



1. A partire dal collasso dell’Unione Sovietica abbiamo assistito impotenti a una serie impressionante di violenze planetarie da parte degli Stati Uniti con il seguito, spesso, dei suoi alleati: l’aggressione premeditata alla Serbia, l’invasione dell’Iraq, l’invasione dell’Afghanistan. E possiamo già assistere ad atti di guerra, magari su “invito” dei cosiddetti “legittimi governanti”, come i bombardamenti sul Pakistan, le manovre nello Yemen e tra poco in Somalia come promesso da Barack Obama dopo l’attentato farsa del volo Amsterdam-Detroit (basta aprire un atlante e si capisce immediatamente perché gli USA sono così interessati a questi due Paesi: controllano il Golfo di Aden, transito marittimo fondamentale, specialmente per le rotte petrolifere).

Continua qui:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=850