Dell'inutilità in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale
Intervista di Luigi Tedeschi a Costanzo Preve
(Tedeschi)
 L’avanzare e il perdurare della crisi economica europea, sta 
progressivamente destrutturando la società. La recessione e i decrementi
 del Pil hanno determinato la fuoriuscita dalla produzione di rilevanti 
quote di manodopera dal sistema produttivo. Si allargano a macchia 
d’olio la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato, il lavoro 
nero. Soprattutto, l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani è 
diventato assai difficoltoso. La nostra società diviene sempre più 
decadente, per il venir meno del ricambio generazionale e la mobilità 
sociale. La liberalizzazione dell’economia, dei costumi, della cultura 
di massa, quali fenomeni scaturiti dall’avvento della globalizzazione, 
si rivelano miti virtuali, destinati ad essere smentiti dal disfacimento
 degli equilibri sociali provocato dalla crisi incombente. Se volessimo 
elaborare un bilancio del primo decennio del XXI° secolo, dovremmo 
rilevare che l’avvento della società globalizzata ha avuto solo la 
funzione di distruggere l’eredità sociale e culturale del ‘900, dato che
 i nuovi orizzonti, le nuove opportunità, le grandi sfide del nuovo 
secolo, si sono rivelate elementi di una strategia di ascesa al potere 
di una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito
 della masse sempre più escluse dai processi produttivi. L’emarginazione
 sociale coinvolge interi popoli; esclusione ed emarginazione sono 
fenomeni conseguenti al tramonto di un sistema economico basato sulla 
produzione e di una società fondata su equilibri ispirati al solidarismo
 interclassista. La fuoriuscita dal mondo del lavoro determina negli 
individui un senso di inutilità esistenziale, di estraneazione sociale, 
che conduce alla perdita della autostima di se stessi, ad un non senso 
della propria individualità, ormai non più compatibile con le 
prospettive di sviluppo di una società elitaria, basata sulla 
generalizzata esclusione delle masse non più integrabili nei processi 
evolutivi della società globalizzata. La coscienza della inutilità è 
coeva quindi alla defunzionalizzazione produttiva. Tale condizione umana
 riflette quindi la struttura fondamentale dei rapporti sociali nella 
società capitalista. L’individuo ha coscienza di sé in quanto svolge un 
ruolo produttivo nel contesto economico, altrimenti la sua vita è 
condannata alla emarginazione, alla stregua di un prodotto obsoleto e 
quindi privo di valore economico. La funzione produttiva e il ruolo 
consumistico sono le sostanziali fonti di riconoscimento nella società 
capitalista. Dobbiamo allora credere che è il mercato, con i suoi rialzi
 e ribassi a dare senso alla vita di ognuno. Il lavoro è merce di 
scambio in un mercato che si evolve in una prospettiva selettiva di 
progressiva esclusione dei lavoratori dalla produzione, mai di 
espansione. La disoccupazione diffusa è però un fenomeno che rivela la 
sottoutilizzazione di risorse umane disponibili. Il paradosso 
dell’economia liberista è proprio questo: l’attuale capitalismo genera 
recessione per la propria incapacità di allocazione e razionalizzazione 
della risorse produttive disponibili.
(Preve)
 Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di 
questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il 
secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono 
alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema 
della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli 
ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli 
stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. 
In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento 
dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario 
complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento 
temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a 
punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del 
Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il 
coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè 
dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati 
all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è 
l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato 
capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni 
tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa 
se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da 
tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non 
importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di 
“sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere 
usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed 
Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre 
alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione
 filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, 
curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di 
scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione 
allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due
 secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio 
storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio 
temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio 
dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed 
inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli 
inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non 
vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera, 
perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso 
sensato appare inutile. Già Hegel aveva a suo tempo rilevato che 
1’ateismo non consisteva nella negazione formale, materiale e “cosale” 
di Dio, ma nella perdita di interesse verso la verità. Ai suoi tempi, 
però, questa diagnosi infausta era prematura, perchè l’interesse verso 
la verità comunitario-sociale (l’unica esistente, il resto essendo 
certezza, esattezza, veridicità, corrispondenza, eccetera), sia pure 
deformata dal suo uso ideologico, avrebbe avuto ancora un secolo e mezzo
 davanti a sé, il secolo e mezzo della civiltà borghese e della sua 
volonterosa ma inefficace contestazione proletaria. Al tempo di Hegel 
era impensabile che, appena aperta la televisione per le ultime notizie,
 la prima frase gridata dal mezzobusto lottizzato fosse “i mercati sono 
euforici”, oppure “i mercati sono nervosi”. Di fronte a questa 
quotidiana realtà, alienata ed antropomorfizzata insieme, Kafka appare 
un sobrio epistemologo popperiano. In secondo luogo, tu suggerisci un 
tema che dovrebbe interessare i sociologi e gli storici per i prossimi 
cento anni, e cioè che si sta formando a livello globale una nuova 
elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito delle masse 
sempre più escluse dai processi produttivi. In proposito, sfugge agli 
analisti universitari (anche i ceti universitari, gonfiati 
sproporzionatamente negli ultimi decenni per “assorbire” i miserabili 
contestatori sessantottini, sono in preda al processo di inutilità e 
decadenza) che questa nuova classe in formazione non è più la vecchia 
borghesia, sulla cui definizione multiforme erano “tarati” i concetti 
del pensiero politico degli ultimi due secoli. Siamo di fronte ad una 
vera e propria novità storica, in linguaggio hegeliano una nuova epoca 
di “gestazione e di trapasso”. Il vecchio apparato concettuale non serve
 più, ma i ceti universitari delle facoltà di filosofia e scienze 
sociali (non parlo qui di facoltà più serie come biologia, medicina ed 
ingegneria) sono ormai dei cani da guardia destinati ad impedire lo 
sviluppo di una nuova concettualizzazione, essendo appunto “pagati” per 
parlare solo di olocausto, diritti umani, dittatori baffuti e barbuti e 
legittimazione dei riti elettorali svuotati di ogni residua sovranità. 
Essi non possono impedire lo sviluppo di una nuova necessaria 
concettualizzazione, ma possono ritardarla, intorbidire le acque, 
concionare su concetti vuoti come “qualunquismo” o meglio ancora 
“populismo”, eccetera. In terzo luogo, infine, la sensazione di 
inutilità, che ha come sua base strutturale ovviamente la “superfluità” 
demografica della forza-lavoro valorizzabile dal capitale finanziario, 
si ripercuote inevitabilmente nella sensazione di inutilità e di 
superfluità dell’argomentazione filosofica e culturale. Il divorzio fra 
realtà e “virtualità”, infatti, c’è sempre stato, ma oggi sta 
raggiungendo vertici da record. Il cattolico Formigoni si tuffa da 
yacths di speculatori milionari, derubricati ad “amici privati”, il 
banchiere Monti regna in nome della limitazione dello spread, e la 
“cassetta delle menzogne” (idest la televisione) ha trasformato i 
sionisti in campioni della democrazia, l’esemplare Siria di Assad in 
regno hitleriano di un feroce dittatore, e non è un caso che il fenomeno
 di Beppe Grillo, battezzato sfrontatamente come “populismo”, sia in 
realtà sintomo evidente di disperazione politica. Piuttosto di questi 
politici e di questi economisti, meglio un attore, ma sarebbero ancora 
meglio degli scimpanzè e degli oranghi. E’ infatti assolutamente 
insensato pensare che una società possa riprodursi sulla base del 
mercato, con i suoi rialzi ed i suoi ribassi, eretto ad unico criterio 
della sensatezza globale. A chi rivolgersi? Ratzinger predica bene, fa 
riferimento alla filosofia aristotelica della natura umana (la migliore 
mai prodotta), ma continua a prendersela con lo spettro del comunismo, 
nel frattempo defunto da almeno un ventennio, ed a avallare il peggio 
del politicamente corretto in circolazione. Il Dalai Lama, erroneamente 
spacciato per “guida spirituale”, agisce scopertamente come un agente 
USA anti-cinese, e tutti fingono che sia soltanto l’eterna incarnazione 
della saggezza orientale. Il giornale “La Repubblica” ed il suo laicismo
 azionista al servizio delle oligarchie bancarie ha sciaguratamente 
forgiato un’intera generazione di semicolti subalterni, maggioritari in 
quella patetica nicchia sociale dei laureati recenti, dei prof di scuola
 secondaria e dei ceti universitari autoreferenziali, di fronte a cui le
 plebi di Padre Pio appaiano per contrasto un gruppo di pensosi 
intellettuali illuministi.  Ma, evidentemente, il discorso è appena incominciato.
(Tedeschi)
 Il mercato globale si è affermato attraverso il dominio del mercato 
finanziario sulla economia produttiva: la crescita economica non è la 
sua ragion d’essere né tantomeno il suo fine ultimo. In tale contesto, 
lo sviluppo produttivo si manifesta nei tempi e nei luoghi determinati 
dalle strategie della speculazione finanziaria. Quindi esso è di per sé 
un fenomeno indotto, momentaneo e precario, a cui poi fanno riscontro 
crisi e sottosviluppo non risolvibili secondo i canoni delle dottrine 
economiche novecentesche. Le stesse crisi, non hanno la loro causa nei 
cicli economici ricorrenti, ma semmai nelle bolle finanziarie 
ricorrenti, in eventi cioè estranei alle dinamiche della produzione. La 
globalizzazione ha prodotto insieme ai mercati globali, anche problemi e
 crisi globali, data l’interconnessione tra le economie e i mercati di 
tutto il mondo. La attuale crisi sistemica ha generato decrementi di 
produzione e di consumo assai rilevanti, decrescita degli investimenti e
 rarefazione della liquidità. Certo è che la fine del welfare, il lavoro
 precario, le delocalizzazioni produttive, hanno profondamente inciso 
sulle capacità di consumo e di risparmio delle masse. Pertanto, nel 
prossimo futuro sarà di attualità il problema della esistenza di masse 
non più utilizzabili nella produzione e non più dotate di capacità di 
consumo. La condizione di inutilità degli individui si va estendendo 
alle masse globali di lavoratori - consumatori obsoleti e destinati alla
 rottamazione. Tale problematica è esposta nel libro di M. Della Luna 
“Oligarchia per popoli superflui, Koiné Nuove Edizioni 2010”. Infatti, 
mentre nei secoli passati l’incremento della popolazione era incentivato
 dai sovrani di stati che necessitavano di soldati, agricoltori e 
cittadini produttori che pagassero imposte, oggi, l’aumento della 
popolazione mondiale, unito alla recessione produttiva e al decremento 
delle risorse naturali, ha creato una nuova categoria antropologica: 
quella dei popoli superflui. Superflui perché non integrabili nel 
sistema economico e bisognosi di mezzi di sostentamento, in tempi di 
destrutturazione dello stato sociale. Al di là delle ipotesi 
catastrofiste (per fortuna poco praticabili), quali quelle di guerre 
nucleari o epidemie provocate allo scopo di decrementare la popolazione 
mondiale, altre soluzioni mi sembrano credibili. E’ infatti ipotizzabile
 l’erogazione pubblica di sussidi minimi di sostentamento per 
assicurare, assieme alla sopravvivenza materiale delle masse, anche 
quella del mercato, garantendogli un adeguato livello di consumi. In 
tale tragico scenario, gran parte dell’umanità vivrebbe in una 
condizione di dipendenze economico - esistenziale assimilabile alla 
schiavitù. Ma la situazione descritta sarebbe possibile qualora si 
prestasse fede al dogma liberista della autoreferenza totalitaria della 
economia capitalista. Masse asservite e ridotte alla condizione di 
perpetua, emergenziale sopravvivenza, sono incapaci di rivoluzioni, 
qualora le cause dei fenomeni rivoluzionari fossero solo di ordine 
economico. Al contrario, i motivi del mancato riconoscimento sociale, e 
della ribellione verso un ordine costituito perché moralmente ingiusto, 
sono di ordine politico - sociale, perché nascono dalla volontà comune 
di partecipazione politica e dalla visione (magari utopica), di una 
diversa strutturazione della società che sia in grado di sviluppare 
risorse, onde creare una più equa e diffusa ripartizione della 
ricchezza. La crisi della attuale liberaldemocrazia di ispirazione 
anglosassone è quella di un ordine che non può e non vuole sviluppare 
risorse, perché il suo scopo ultimo è quello si preservare un sistema 
finanziario di per sé condannato al fallimento. 
(Preve)Tu
 ti poni una domanda inquietante: la gente oggi è diventata incapace di 
rivoluzioni? Fai anche l’ipotesi, da prendere certamente in 
considerazione, che questa radicale incapacità trasformatrice (non 
importa se riformista o rivoluzionaria) possa essere dovuta non certo ad
 una salarializzazione spinta della società, ma proprio al suo 
contrario, la generalizzazione di sussidi minimi di sopravvivenza per 
mantenere da un lato la pace sociale, dall’altro livelli sufficienti di 
consumo, sia pure parassitario. Lo storico Eric Hobsbawm, nato nel 1917,
 ha ormai 95 anni. Intervistato da un miliardario sionista italiano, 
giornalista per snobismo e per diletto, che gli chiede con una punta di 
malignità se sia ancora “comunista”, Hobsbawn risponde: “Il comunismo 
non esiste più. Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se non
 credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista, io sono 
marxista perchè penso che non ci sarà stabilità finchè il capitalismo 
non si trasformerà in qualcosa di irriconoscibile dal capitalismo che 
conosciamo oggi. E sono leale alla memoria in quello che ho creduto e 
che fu un grande movimento anche in Italia” (cfr. La Stampa, 1/7/12). A 
proposito del fatto che il comunismo non esiste più mi permetto una 
serie di brevi considerazioni. Il modello politico-sociale del comunismo
 storico novecentesco realmente esistito (il cosiddetto “socialismo 
reale”) non esiste veramente più, ed è crollato per ragioni 
assolutamente endogene (un pò come il regime signorile feudale in 
Europa), demolito da una maestosa e feroce controrivoluzione 
occidentalistica dei nuovi ceti medi “socialisti”, che hanno però finito
 con il consegnare l’intero potere economico ad una casta di 
baroni-ladri. Il comunismo storico novecentesco è stato l’espressione di
 una sorta di democrazia plebeo-totalitaria (l’ossimoro è voluto, perchè
 indica una contraddizione oggettiva) di operai di fabbrica e di 
contadini poveri, due gruppi sociali ad egemonia complessiva a scadenza 
breve, come gli yoghurt. I gruppetti politici comunisti residuali negli 
attuali paesi capitalistici, senza praticamente alcuna eccezione, non 
sono più gruppi rivoluzionari a legittimazione marxista, ma sono residui
 sociologici inseriti nella dicotomia Sinistra/Destra, e per ciò stesso 
del tutto incapaci di affrontare una fase storica nuova in cui la 
dicotomia Sinistra/Destra ha perso ogni significato. Il “comunismo 
ideale eterno”, per usare un termine di Giambattista Vico, non è finito 
perchè esprime una ricerca comunitaria di verità e di giustizia sociale 
di tipo non storico ma metastorico. Non era questo ovviamente che 
pensava Marx, che avrebbe respinto con disprezzo ed irrisione questa 
formulazione, in quanto Marx pensava che il comunismo fosse un prodotto 
processuale immanente allo stesso sviluppo del modo di produzione 
capitalistico. In termini popperiani, questa legittima e 
ragionevolissima ipotesi scientifica è stata smentita nell’ultimo secolo
 e mezzo, e mi sembra disonesto non riconoscerlo apertamente. 
L’espressione di Hobsbawn, “essere leali alla speranza di una 
rivoluzione” mi sembra affascinante, ed io la adotto interamente. A 
differenza di Hobsbawn, io penso invece che avverrà, ma probabilmente 
non in tempi storici vicini, in quanto devono maturare delle condizioni 
globali ancora largamente immature. Esiste un blog in Italia denominato 
“sollevazione”, critico dell’euro e del governo Monti, che incita ad una
 sollevazione popolare sulla base della rivendicazione di un profilo 
commista di estrema sinistra. Nonostante le ottime intenzioni soggettive
 di costoro, molto migliori dei semplici fiancheggiatori del sistema 
politico, resta dura a morire l’idea della sollevazione di estrema 
sinistra, un’idea ricalcata sulla base dell’analogia con un periodo 
storico trascorso. La difficoltà nel “pensare” la rivoluzione 
anticapitalistica che pur sarebbe necessaria sta nel fatto che la 
globalizzazione per ora consente solo fenomeni storici “locali”, che 
possono anche abbattere governi dispotici precedenti, ma che poi restano
 inseriti, incastrati ed ingabbiati nel sistema economico 
internazionale, che agisce in funzione di ricatto permanente. E’ questa 
impensabilità che fa da sottofondo allo scetticismo di Hobsbawrn. 
L’utopia si concretizza soltanto attraverso una prospettiva, ed è 
appunto l’impensabilità della prospettiva il principale fattore del 
senso di inutilità così diffuso. Predicare astrattamente contro 
l’inutilità diventerà così inutile come l’inutilità stessa fino a quando
 non saranno finalmente visibili socialmente passi in avanti nella 
limitazione di questo capitalismo cannibale.
(Tedeschi)
 La crisi avanza, incombe sulla nostra vita quotidiana, svuotando di 
senso le nostre certezze. La progressiva espropriazione della vita 
comunitaria, familiare, intimo - personale, provocata dal dominio del 
mercatismo, che invade la società e la coinvolge nella sua crisi 
sistemica, è esplicativa di una condizione esistenziale sempre più 
instabile e precaria, perché subordinata alla sopravvivenza economica. 
Il fenomeno dell’accentuarsi quotidiano della recessione economica, 
della disoccupazione, dello spread, della pressione fiscale, è 
sintomatico di una crisi più profonda, che coinvolge totalmente la 
nostra vita, in quanto è essa stessa ad essere dipendente da un sistema 
economico e politico in progressivo disfacimento. Tuttavia, la 
stagnazione della situazione politica, il dirigismo burocratico e cinico
 della UE (assieme al governo tecnico di Monti), perché fenomeni di 
ribellione e dissenso al sistema sono quasi inesistenti, se si 
eccettuano i movimenti minoritari e velleitari quali il grillismo e 
altri similari europei. Lo stesso astensionismo massificato assume più 
il significato di una estraneazione collettiva dalla politica, assai più
 vicina alla resa senza condizioni, più che quello di un dissenso di 
massa. Costatiamo quindi che nella società è assente una presa di 
coscienza comune di una situazione di emergenza sia economica che 
politico - sociale, dovuta ad una società in crisi sistemica, che può 
solo produrre altre crisi, quando alla destrutturazione di un sistema 
non fa riscontro alcuna alternativa, magari futuribile, ma possibile. Si
 manifesta nella odierna società una coscienza collettiva di tipo 
adattativo alla situazione di precarietà materiale ed esistenziale, ad 
uno stato di crisi sedimentato nelle coscienze come una condizione di 
perenne instabilità in cui si possa solo sopravvivere. Questa 
estraneazione dalla sfera sociale, comporta il rifugio in un egoismo 
collettivo in cui, da una parte le classi più elevate tentano di 
integrarsi in un processo di trasformazione da cui vengono 
progressivamente escluse, dall’altra, quelle più deboli si affannano a 
sopravvivere alla crisi. Tutti tentano di “imbucasi” ad un simposio a 
cui non sono stati invitati dalla global class. La società è prigioniera
 dell’eterno presente. Si eternizzano in una sfera astorica e asociale 
le condizioni individuali del nostro presente. Il lavoro, l’avvenire dei
 giovani, gli affetti personali, i rapporti sociali, vengono vissuti 
come se questa condizione di crisi fosse una condizione perenne, in 
trasformabile, data l’impossibilità di sviluppi e mutamenti rispetto 
alla quotidianità ottusa di questo granitico, eterno presente. Tale 
fenomeno è spiegabile alla luce dell’etica individualista su cui si è 
costruita la psicologia collettiva del mondo contemporaneo. Il culto 
dell’individualità odierna, è il risultato di un atteggiamento 
narcisistico collettivo, più o meno inconscio, di personalità che hanno 
coscienza di sé nella misura in cui ottengono riconoscimento, in primis 
in base alla loro funzione svolta nel sistema economico, e dalla 
condizione sociale che ne deriva. Solo nell’eterno presente ci si può 
illudere di avere riconoscimento, e di preservare le proprie meschine ed
 egoistiche certezze, in un mondo diverso chissà? Non si considera che 
l’eterno presente è conseguenza della mancanza di senso della storia. 
L’economia attraversa fasi di stagnazione e recessione, ciclica. La 
storia, al contrario non ammette periodi di stagnazione, né tanto meno è
 concepibile una sua recessione al passato. L’eterno presente è una 
falsa coscienza della storia imposta da un ordine capitalista ormai 
fuori della storia. La storia invece continua a produrre mutamenti, a 
generare nuove situazioni di cui occorre prendere coscienza. 
Interpretare l’avvenire alla luce dell’eterno presente è un non senso. 
La storia non ha altri fini che quelli che l’uomo si propone di 
realizzare e pertanto sarà proprio la coscienza insopprimibile dell’uomo
 come essere storico a determinare il superamento della attuale crisi, 
quale alienazione dell’uomo nell’eterno presente. Da quanto precede, si 
comprende anche la necessità storica della presente crisi, quale momento
 di superamento di un presente che è “eterno” perché non è storico.
(Preve)Non
 sono un esperto di politologia o di sociologia elettorale, ma 
personalmente assimilo i due fenomeni dell’astensionismo e del 
grillismo. Con questo non intendo unirmi a1 coro gracchiante dei 
“responsabili” aderenti ai vecchi partiti. Dovendo scegliere, con la 
pistola alla testa, fra Grillo da un lato, e Bersani, Vendola, Di 
Pietro, Casini ed Alfano dall’altro, voterei certamente Grillo, che è 
certamente un guitto, ma almeno non ha dirette responsabilità per lo 
svuotamento della decisione democratica. Tuttavia sono rimasto molto 
colpito dal fatto che nelle recenti elezioni del giugno 2012 in Grecia, 
dove pure si prendevano decisioni strategiche sul futuro del paese 
l’astensione sia arrivata al quaranta per cento. In Italia non si decide
 più nulla da un pezzo, perchè esiste una sorta di giunta militarizzata 
di economisti con garante un ex-comunista disilluso del comunismo, che 
in una recente intervista su “Repubblica” rimprovera post mortem a 
Berlinguer di avere ancora creduto che ci potesse essere una società 
“alternativa” al mercato capitalistico. Ma in Grecia si decideva 
effettivamente qualcosa di strategico, ed a mio avviso il fronte di 
sinistra di Syriza vi giocava esattamente lo stesso ruolo anti-euro del 
partito di Marine Le Pen in Francia, anche se questa ovvia verità è 
nascosta da mille sigilli per chi si ostina ad orientarsi sul mercato 
politico in nome della dicotomia obsoleta Destra-Sinistra. Ho letto 
recentemente in una bellissima intervista autobiografica di Alain de 
Benoist una frase di Bergson del 1936 che non conoscevo: “Su dieci 
errori politici, nove consistono semplicemente nel continuare ancora nel
 credere vero ciò che ha cessato di esserlo”. Bisognerebbe ricordarlo ai
 politologi. E’ quindi inutile condannare moralisticamente gli 
astensionisti oppure coloro che si rifugiano nel grillismo. Essi 
prendono semplicemente atto della radicale inutilità della tensione 
politica. Il vero problema, tuttavia, sta nell’immaginare come possa 
continuare nel tempo e riprodursi una società tenuta insieme soltanto 
dal legame del mercato, in cui la decisione politica comunitaria ha di 
fatto cessato di esistere. Per il momento questa è una relativa novità 
storico-politica, che deve ancora stabilizzarsi. Una società del genere è
 la prima società umana completamente priva di “grande narrazione”, e 
cioè di racconto identitario. Già Hegel, a proposito dell’Inghilterra, 
si era meravigliato che potesse esistere una “nazione civile senza 
metafisica”. Benchè abbia insegnato storia e filosofia nei licei per 
trentacinque anni, solo recentemente mi è parso di capire il significato
 della sentenza di Hegel. Infatti la mescolanza tipicamente inglese di 
empirismo, scetticismo ed utilitarismo non è una filosofia come le 
altre, ma è una anti-filosofia radicale, che ha effettivamente 
anticipato la concezione attuale delle oligarchie anglosassoni, cui 
l’Europa si è interamente allineata negli ultimi venti anni. Siamo 
effettivamente arrivati ad essere, ed a vantarci di essere, “un popolo 
civile senza metafisica”. L’attuale globalizzazione senza metafisica è 
comunque intrecciata al messianesimo americano vetero testamentario, che
 appunto non è una filosofia di tipo greco, ma una secolarizzazione 
religiosa di origine calvinista. Questo fa anche venir meno la vecchia 
mobilità sociale ascendente e discendente, sostituita da una mobilità 
individualistica senza alto né basso, al di fuori della capacità di 
consumo. Ma la mobilità non è più la vecchia mobilità ascendente, che 
era stata per più di un secolo la grande ideologia di legittimazione 
della borghesia classica. Gli atomi sradicati si muovono in uno spazio 
mercantile senza alto né basso, in cui il vecchio significato 
comunitario della vita è integralmente sostituito dalla capacità di 
acquisto e di vendita delle proprie capacità lavorative. Come ho già 
fatto notare in precedenza, il vero problema non sta nel constatare 
questo processo, che è sotto gli occhi di tutti anche se per ora 
oscurato dai meccanismi mediatici, editoriali ed universitari, ma nel 
prospettare lo scenario allargato di questa situazione. L’accesso al 
consumo dei giganteschi strati medio-bassi in India, Cina, Brasile, 
eccetera può certamente rinviare di decenni una crisi generalizzata di 
senso storico e politico. Un mondo globalizzato senza metafisica, si 
accompagna ovviamente a sempre più virulente identità religiose, in cui 
la cosiddetta arretratezza e la cosiddetta intolleranza sono 
semplicemente il risvolto pseudo-comunitario della completa mancanza di 
senso. Le facoltà di filosofia sono già nel loro complesso interamente 
“normalizzate” in una koinè che può essere definita, in termini di 
scetticismo sofisticato, di relativismo multicolore e di nichilismo 
tranquillizzante. Ma quanto questo possa durare nessuno può veramente 
saperlo.
(Tedeschi)
 La coscienza dell’inutilità sociale ed esistenziale dell’uomo 
contemporaneo non è che la proiezione massificata di un mondo economico e
 politico virtuale che rivela nella crisi il vuoto di senso, cioè la sua
 incontestabile inutilità. Così come inutile si è dimostrata la classe 
politica,  acquiescente e complice delle manovre perpetrate dalla UE a 
danno degli stati. Si consideri l’euro. Che cosa è l’euro? E’ una moneta
 virtuale, che non rispecchia le condizioni economiche e politiche dei 
paesi della UE, una valuta imposta da una BCE senza uno stato che ne 
garantisca la solvibilità e la sussistenza, da una BCE composta da 
organismi tecnici non elettivi, non rappresentativi della volontà 
popolare. L’euro è stato definito da alcuni non una moneta unica, ma un 
 sistema di cambi fissi, dato che  nell’Eurozona, la valuta è comune, 
mentre il debito pubblico grava sulle finanze degli stati. A cosa serve 
l’euro? Con l’euro si è fermato lo sviluppo economico, si sono dimezzati
 il potere d’acquisto e i risparmi dei cittadini, si è imposta una 
politica di austerity che ha distrutto lo stato sociale e ha diffuso la 
precarietà del lavoro. Sono state distrutte le conquiste sociali, le 
certezze, mentre l’unificazione monetaria ha incrementato la 
speculazione finanziaria che sta determinando il fallimento degli stati.
 L’euro, anziché integrare i popoli, li ha condannati ad una 
competizione sfrenata che ha condotto ad enormi sperequazioni economiche
 tra popoli del nord e del sud europeo. Liberarci dall’euro 
significherebbe liberarci dalla schiavitù del debito imposta dalla 
speculazione finanziaria, utile ai propri profitti, ma inutile e dannosa
 ai popoli. Gli stati sono stati incoraggiati ad indebitarsi, anziché a 
sviluppare ala propria economia, e classi politiche corrotte hanno 
goduto del consenso di masse anestetizzate da un benessere virtuale e 
precario. Farla finita con l’euro però comporterebbe riforme sistemiche 
negli stati e nell’ambito europeo. Ma gli stati europei non dispongono 
di classi politiche adeguate a tali eventi di emergenza rivoluzionaria, 
Tali concetti sono tuttora impensabili per la stragrande maggioranza 
degli europei.
(Preve)
 Con questa quarta ed ultima domanda mi solleciti a parlare dell’euro, 
cosa però che faccio malvolentieri perché, detto in linguaggio popolare,
 “non ci capisco niente”. Altre volte nelle nostre conversazioni ne 
abbiamo già parlato, in genere molto negativamente. Continuare 
testardamente con l’euro oppure farla finita con l’euro è infatti una 
sorta di atto di fede per tutti coloro che non sono specialisti di 
economia. Personalmente, pur non dominando la materia, mi riconosco 
nelle opinioni di economisti come Bagnai e Brancaccio, che sono critici 
radicali dell’euro, e nello stesso tempo non voglio nascondere di essere
 spaventato dalle campagne di terrore indotte quotidianamente dalla 
televisione e dai giornali, che annunciano apocalissi in caso di crollo 
dell’euro. Fanno sul serio o minacciano soltanto? Siamo nel 2012. 
Nonostante gli apparenti mutamenti, politici, le classi politiche 
oligarchiche italiane sono le stesse del 1915, e del 1940. Sarebbe 
troppo lungo scendere nei dettagli di questi elementi di continuità che 
vanno molto al di là delle differenze superficiali fra il regime 
liberale, il regime fascista ed il regime democratico. In proposito, i 
manuali di storia contemporanea sono ingannatori, perchè ad esempio non 
informano sulla continuità della geopolitica di espansione nei Balcani 
nel 1915 e nel 1940, in modo che lo studente medio è in generale 
convinto che la guerra del 1915 sia stata fatta per Trento e Trieste, 
città la cui “italianità” non era messa in dubbio da nessuno, ed anzi 
era fiorente sul piano culturale e letterario. Dico questo perchè gli 
italiani hanno già dovuto pagare due volte, nel 1915 e nel 1940, per un 
azzardo pokeristico (del tutto secondario se da parte di Salandra o di 
Mussolini), e questa mi pare la terza volta. Di fronte alla sempre 
maggiore evidenza che l’euro non è stata una buona idea, ma è anzi stato
 un errore storico e strategico, molti si rifugiano in una vera e 
propria “fuga in avanti”: l’Europa non ha una sovranità politica 
unitaria, ha solo una moneta comune senza stato, adesso bisogna andare 
verso uno stato europeo unitario. A mio avviso sarebbe non solo un 
errore, ma un vero e proprio crimine, e cercherò brevemente di spiegare 
il perché. Uno stato presuppone una nazione, una nazione europea non 
esiste e non esisterà mai, al massimo l’Europa sarà una “macroregione”, 
del tipo del Friuli e della Slovenia. Parlare di “unità nella diversità”
 è pura retorica per borsisti Erasmus. Non ci può essere una vera unità 
politica senza nazione. Possibile che i casi lampanti della 
Cecoslovacchia e della Jugoslavia (per non parlare dell’Unione 
Sovietica) non insegnino proprio nulla? Se mi pagassero un tanto a 
pagina (come facevano con Alessandro Dumas) per scrivere un saggio sulla
 presunta eredità culturale unitaria dell’Europa (che a mio avviso non 
esiste, e non potrebbe esistere comunque dopo lo tsunami della 
globalizzazione finanziaria) non avrei alcuna difficoltà a partorire un 
migliaio di pagine ipocrite ed artificiali. Ma quando si sventolano le 
bandiere, sia pure per ragioni soltanto sportive, si sventolano solo le 
bandiere nazionali. Vi immaginate dei tifosi che sventolano la bandiera 
europea? E poi la Russia fa parte dell’Europa oppure no? Se sì, l’Europa
 finisce a Vladivostok, ed è dunque un’unità geograficamente 
eurasiatica. Se invece no, bisogna artificialmente estendere l’Europa a 
Tallinn e Kiev, ed escluderne Mosca, accettando invece l’integrazione 
europea ideale con gli USA, il Canada ed Israele. Le contraddizioni 
potrebbero continuare. L’euro è stata quindi una cattiva idea, e pensare
 di salvarlo con la fuga in avanti di un unico stato-nazione europeo 
inesistente è un’idea ancora peggiore, sulla quale sembrano unirsi sia 
l’ex-destra sia l’ex-sinistra, in assenza di identità culturali e 
politiche. I rapporti culturali fra nazioni europee erano migliori 
quando non si era ancora creata l’isteria delle nazioni cicale o 
spendaccione e delle nazioni virtuose. E’ già difficile far passare 
l’idea della solidarietà sul debito sovrano all’interno di una sola 
nazione (il caso della Lega Nord insegna, e non può essere ridotto al 
folklore snobistico con cui la analizza il giornale “Repubblica”), e chi
 pensa che questo sia possibile in futuro per una evidente non-nazione 
come l’Europa mente a sé ed agli altri. Quello che ha prodotto l’Euro è 
sotto gli occhi di tutti, e cioè la svalutazione del lavoro salariato e 
lo smantellamento progressivo degli elementi di welfare. Pensare che nel
 prossimo futuro la tempesta passerà è da mentitori o da incoscienti. 
Dall’euro bisognerà uscire, ed il modo di uscirne sarà il principale 
indicatore storico-politico del prossimo futuro. Sarà un vero 
dopoguerra, cui nessuno di noi potrà sottrarsi.

 
