venerdì 7 ottobre 2011

SULLA QUESTIONE DI STALIN E SULLA QUESTIONE DELLA NATURA SOCIALE DELLA CINA DI OGGI


di Costanzo Preve

Lettera aperta a Domenico Losurdo


1. Venerdì 23 settembre 2011 nella mitica “Sezione Trentanove” di Torino, luogo storico del comunismo critico torinese, Domenico Losurdo ha presentato e discusso il suo saggio su Stalin (Cfr. Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008). Avrei voluto essere presente, ma non lo ero per (leggeri) motivi di salute. Un amico fraterno ma ha dettagliatamente riportato il giorno dopo l’esposizione e la discussione, e mi ha detto che Losurdo ha fatto ripetutamente il mio nome, chiarendo le nostre differenze di valutazione, particolarmente su due punti cruciali, la questione di Stalin e la questione della connotazione della natura sociale della Cina del 2011. Tutto questo merita un chiarimento ed un approfondimento, soprattutto per i lettori estranei alla disputa, che hanno però il diritto a precisazioni.
2. A suo tempo, ho letto con estrema attenzione il saggio di Losurdo, e anche saggi in qualche modo favorevoli alla figura di Stalin (Cfr. Gianni Rocca, Stalin, Mondadori, Milano 1988, ma soprattutto Ludo Martens, Stalin. Un altro punto di vista, Zambon, Bologna 2005). Colgo l’occasione per comunicare urbi et orbi che da almeno vent’anni (da quando è sciaguratamente crollata l’URSS, il cui ruolo geopolitico era provvidenziale – ed ora cominciano ad accorgersene persino coloro che non sono mai stati “comunisti”) ho modificato il mio punto di vista su Stalin.
In gioventù ho sostanzialmente condiviso la teoria trotzkista e trotzkisteggiante di Stalin non solo come dittatore sanguinario, ma anche come seppellitore della rivoluzione d’Ottobre e capo di una banda di burocrati corrotti, teoria che si univa a una interpretazione della rivoluzione culturale cinese (1966-1968) come casino anarcoide antiburocratico e libertario. Sciocchezze, è vero, ma purtroppo sciocchezze condivise da una parte importante della mia sventurata generazione. Ora però ho cambiato opinione. Meglio tardi che mai. Se Losurdo mi confonde con gli antistaliniani isterici, tipo la signora Rossanda o il signor Bertinotti, ebbene si sbaglia, ed è mio diritto chiarire le cose.
3. Mi spiace auto citarmi, ma sono costretto a farlo. Mi sono ampiamente occupato in passato della questione di Stalin (Cfr. Stalin tra comunismo e geopolitica, in “Eurasia”, 2/2005, pp. 117-137) e della questione dell’eredità politica di Mao in Cina (Cfr. Ritorno a Confucio?, in “Eurasia”, 1/2006, pp. 113-131).
Sono pressoché sicuro che Losurdo non conosce questi testi, perché la sinistra, in base a un pensiero “magico” (Kolakowski), silenzia, diffama ed esorcizza tutto quanto proviene da fonti non del tutto politicamente corrette. Del resto Losurdo è anche lui stato vittima di questo silenziamento magico-totemico-sciamanico, perché ci sono stati individui che hanno protestato per il semplice fatto che del suo libro si fosse “parlato”, sia pure criticamente, sul “Manifesto” e su “Liberazione”. Figuriamoci allora la rivista “Eurasia”!
Rimandando Losurdo alla lettura diretta di questi testi, mi trovo costretto a riassumerli “per difendere il mio onore”. Mi si critichi pure, ma mi si critichi per quanto ho detto, non in base al “sentito dire” caratteristico della sub-cultura pettegola e settaria di “sinistra”.
4. A mio avviso, Stalin si è trovato di fronte a dei compiti immani di costruzione di un sistema sociale alternativo al capitalismo, con una teoria (il marxismo non solo di Kautsky, ma anche di Lenin) assolutamente inapplicabile, e che si trattava allora non tanto di “applicare”, ma di “neutralizzare”, sia pure nella forma del dogmatismo pubblico e della abrogazione silenziosa.
Il “marxismo” si basava infatti su di una premessa del tutto mitica e inapplicabile, la teoria della capacità strategica di autogoverno politico “consiliare” e di autogestione economica “gestionale” diretta da parte della classe operaia e proletaria. Epistemologicamente parlando, si tratta di una teoria meno fondata scientificamente dello Spirito Santo. Stalin ha preso atto tacitamente di questa palese e manifesta incapacità “consiliare”, ed è allora passato “ad una neutralizzazione del marxismo, in quanto l’escatologia neoclassista del marxismo originario era incompatibile con la costruzione di un dispotismo egualitario del lavoro e con la costruzione di un impero territoriale eurasiatico ad un tempo ideologico e geopolitico.
La cosiddetta “sistematizzazione” scolastica del marxismo di Stalin (materialismo dialettico come metafisica atea della materia basata sul principio gnoseologico neokantiano del rispecchiamento, e materialismo storico come successione obbligata di cinque stadi della storia universale) è in realtà una indispensabile neutralizzazione. Si tratta di un punto teorico fondamentale che in genere sfugge sia agli staliniani che agli anti-staliniani, invischiati in un impossibile tentativo, di segno opposto ma convergente, di calcolare la vicinanza o la lontananza di Stalin da Marx (Cfr. “Eurasia”, 2/2005, p. 125).
5. Il mio giudizio storico su Stalin prescinde quindi completamente dal solito approccio della vicinanza a Marx (staliniani) o della lontananza da Marx (trotzkisti, luxemburghiani, bordighiani, comunisti dei consigli). Stalin non poteva applicare concretamente una teoria completamente inapplicabile (perché originariamente concepita da Marx a partire dai punti alti dello sviluppo capitalistico), e l’ha tacitamente abrogata neutralizzandola nella forma religiosa, probabilmente obbligata, della dogmatizzazione sacrale.
Al contrario, l’esempio del trotzkismo dimostra ad abundantiam che cosa vuol dire erigere la teoria di Marx in una “metafisica parallela” che non incontra mai la storia reale, ma solo la storia virtuale e fantasmatica. I trotzkisti hanno per sessant’anni invocato l’abbattimento dell’orribile burocrazia “staliniana”. Come ho già avuto modo di rilevare ina risposta al senatore Turigliatto , questo modo di vedere assomiglia a quello di chi distrugge le antiestetiche impalcature e i ponteggi che sorreggono un edificio per poterlo “contemplare” meglio, e si accorge troppo tardi che abbattute le impalcature antiestetiche l’intero edificio crolla, perché erano solo queste impalcature che lo tenevano in piedi (si veda la dissoluzione del comunismo storico novecentesco fra il 1985 e il 1992). So bene per esperienza trentennale che mettere un trotzkista di fronte alla fragilità della sua teoria, fondata su presupposti politici indimostrabili (il socialismo armonicamente perfetto senza burocrazia), è assolutamente impossibile. Tanto varrebbe tirare sangue da una rapa. Ma sono costretto a ribadire questa ovvietà.
6. Un problema interconnesso, ma da tenere ben distinto, è la questione “morale” dello stalinismo e della figura di Stalin. Se qualcuno mi ripeterà che la storia è fatta di ferro e di fuoco, e non c’entra nulla con la morale e con le “anime belle” (Hegel) gli risponderò che come professore di filosofia conosco benissimo almeno dieci versioni di questa teoria, ma mi permetto di non condividerla. Penso, in breve, che la morale sia un elemento “materiale” della riproduzione del consenso e della gramsciana “egemonia”. So bene che i tempi di Stalin furono tempi di ferro e di fuoco, ma da essi non si possono “dedurre” le fosse di Katyn, la pulizia etnica nei tre paesi baltici (poiché nessuna teoria “comunista” giustificava l’annessione alla Russia già zarista), l’annessione di Konigsberg alla Russia con il grottesco nome di Kaliningrad, eccetera.
Sull’ondata di processi 1936-1938 condivido addirittura la posizione di Ludo Martens: un delirio di estremismo di “estrema sinistra” che solo uno sciocco in buona fede (questa gliela concedo!) come Trotzki poteva pensare essere una svolta “a destra”.
Il mediocre Kruscev non avrebbe potuto inaugurare la svolta del 1956 (che in definitiva ha portato anche alla delegittimazione del 1991 e all’ubriacone Eltsin) se non ci fosse stata prima la distruzione del clima di libertà di pensiero necessaria come l’aria al socialismo. Nello stesso tempo ribadisco che non voglio essere confuso con i krusceviani in ritardo, con i Bertinotti, con i trotzkisti e con le rossande, che hanno contribuito da “sinistra” alla demonizzazione animistica di Stalin. Il discorso sarebbe appena cominciato, ma chi lo vuole approfondire è invitato a leggere il mio saggio uscito su “Eurasia”, 2/2005.
7. Passando alla questione della Cina, bisogna subito uscire dalla sfera che Hegel chiamava dell’“opinare”. Che Preve opini che la Cina non sia socialista, e che Losurdo invece opini che lo sia, non è affatto rilevante per una discussione seria. Ciò che conta è esplicitare i criteri in base ai quali si danno questi giudizi, e soprattutto sottoporre questi criteri a una discussione che non può essere puramente “identitaria”, che connota cioè un particolare gruppo di riferimento. Sono scettico sul fatto che questo possa avvenire in un ambiente settario e identitario come quello dell’estrema sinistra, disabituato da decenni a una libera discussione sui principi. Ma si può sempre provare.
8. Bisogna soprattutto evitare che si abbandoni il terreno dei concetti marxiani di “modo di produzione” e di “formazione economico-sociale” e si adotti il principio pirandelliano del “così è se vi pare”. E’ questo appunto il terreno dell’hegeliano “opinare”. Prendiamo ad esempio un recente testo paradigmatico che difende la teoria della natura socialista della Cina (Cfr. Il ruggito del dragone, a cura di Roberto Sidoli e Massimo Leoni, con prefazione di Domenico Losurdo, Ed. Aurora, Milano 2011). Da esso si ricavano molti dati interessanti, ma nessun elemento teorico che ci possa aiutare a risolvere la questione.
Si afferma che in Cina è in corso una “lunga marcia verso la prosperità”. Non ne dubito. Sono d’accordo che non importa praticamente che un gatto sia rosso o nero, purché prenda i topi, ma questo saggio detto non contribuisce a chiarire la natura sociale della Cina di oggi. Si parla di diaspora cinese (Casati), di scontro sulle terre rare (Giannuli), della Cina che è oggi al centro del mondo (Ricaldone). Tutto giusto, la sola cosa che manca è una riflessione ispirata alla teoria di Marx. Ora, non dico che essa sia necessaria, anzi forse è fuorviante. Ma allora bisogna dirlo, e non dichiararsi contemporaneamente “comunisti” e ammiratori del “sorpasso” Cina-Stati Uniti. Anche Giovanni Arrighi, nel suo prezioso studio sulla successione dei cicli di accumulazione Genova-Olanda-Inghilterra-USA- Cina (Adam Smith a Pechino), dice cose molto simili, ma non si sogna neppure di parlare di modello socialista che vince contro un modello capitalistico.
Il libro suggerisce che l’elemento principale per connotare la Cina come “nazione sovrana di matrice prevalentemente socialista” sta nella preponderanza macroeconomica della proprietà statale e cooperativa su quella privata. Ma se è così, bisogna avere il coraggio di dire che Lassalle ha avuto ragione contro Marx. Niente in contrario, ma lo si dica. Se il socialismo è l’IRI scritto in ideogrammi cinesi va bene. Nella sua introduzione Losurdo parla di un suo viaggio in Cina (immagino omaggiato come insigne ospite straniero) e parla di benessere ovunque visibile. Ci credo, anche se di tanto in tanto leggiamo di rivolte contadine e operaie, ma anche i visitatori degli USA di un tempo dicevano questo.
9. Sono imbarazzato nel dire questo, perché io sono un amico quasi incondizionato della Cina e del suo ruolo economico e geopolitico, non sono più un ammiratore della rivoluzione culturale e della “banda dei quattro” (lo sono stato, lo riconosco, ma mi sbagliavo e faccio ammenda), e non condivido per nulla gli indipendentismi uiguro e tibetano supportati dalla CIA. Semplicemente, penso in breve che essere amici della Cina e rispettosi della sua evoluzione sociale interna non abbia nessun bisogno di un inutile e rituale “francobollo” socialista applicatogli sopra. La Cina è già meravigliosa geopoliticamente. Perché aggiungergli anche un francobollo “socialista”, se non per essere ufficialmente “riconosciuti” dai suoi dirigenti?
10. Sunteggerò ora brevemente il mio impegnato saggio su “Eurasia”, 1/2006. La Cina proviene da un modo di produzione asiatico, e quindi non le sono applicabili le categorie socio-politiche occidentali, che invece si sono sviluppate attraverso il processo schiavismo-feudalesimo-capitalismo fino ad oggi. Ogni sovrapposizione di categorie nate per capire la Grecia, Roma, il medioevo, lo stato assolutistico moderno, l’illuminismo, eccetera, è fuorviante. Filosoficamente parlando (p. 113), l’oggetto storico tradizionale della filosofia cinese non è mai stata la verità (teorica), ma l’armonia (pratica). Platone non è quindi sovrapponibile a Confucio. L’impostazione maoista della teoria della contraddizione (l’uno si divide sempre in due) risale a una bimillenaria tradizione anti-confuciana, prevalentemente legista e taoista. Sono in questo debitore del mio amico sinologo tedesco (orientale) Ralf Moritz. Dopo la morte di Mao, che fu certamente ostile a Confucio (pensiamo alla campagna contro Confucio-Lin Piao), il ritorno a Confucio segnala la messa al primo posto della “ricerca dell’armonia” dopo gli sconvolgimenti del trentennio 1946-1976.
Personalmente, vedo questo molto di buon occhio. Non ho mai concepito il socialismo alla Sartre (rivoluzione permanente dei gruppi-in-fusione contro il pratico-inerte in preda al parossismo della finalità-progetto), ma l’ho sempre concepito alla Lukacs (stabilizzazione di una vita quotidiana non nel senso di Bakunin, ma di Aristotele e di Hegel). Quindi non ho obiezioni. Ma non vedo perché lo sviluppo capitalistico della Cina, sia pure con la benefica presenza di un controllo statale macroeconomico che i dissidenti filo-americani incoscienti vorrebbero abolire, debba essere tout court connotato come il socialismo del XXI secolo. Se lo si vuol connotare come una benefica correzione di rotta rispetto all’estremismo di tipo staliniano e/o trotzkista sono d’accordo. Ma penso che da noi, in Italia e in Occidente, non abbia più senso ricadere nello “stato-guida”, anche solo simbolico senza più Komintern e Cominform, ma sia molto più utile riprendere una discussione sensata sul socialismo, impossibile finché questa discussione ci sarà “sequestrata” dal jet-set di sinistra tipo “Manifesto”, “Liberazione” e altri giornaletti sedimentati dalla tradizione anarcoide del Sessantotto.
Ma questa è un’altra storia. La vera storia.

sabato 1 ottobre 2011

Verso una definizione condivisa di comunitarismo Il comunitarismo come etica e come politica




di Costanzo Preve


1. È possibile arrivare ad avere una definizione condivisa di comunitarismo? No, è assolutamente impossibile. È possibile ovviamente proporre alcuni elementi credibili per una sua definizione generica, ma è imHegel,possibile pensare di poter giungere ad un’unica definizione condivisa. E la ragione di questa impossibilità è molto semplice. Comunque lo si intenda, il comunitarismo è una unità di teoria e di pratica (e più esattamente di teoria comunitaria e di pratica solidaristica), e le unità di teoria e di pratica non possono essere definite. Soltanto la teoria, o per ripetizione pleonastica la “teoria teorica” può essere definita con categorie e concetti teorici. Se un “ismo” connota un’unità concreta di teoria e di pratica, questo “ismo” non può essere definito per principio, perché soltanto le forme storiche e sociali concrete della sua messa in pratica hanno in realtà un valore formativo.
Si tratta di un fatto semplice ed intuitivo. E tuttavia è bene averlo sempre ben presente. Hegel aveva ragione quando scrisse che è inutile definire teoricamente il nuoto prima di nuotare. Da un punto di vista astratto, il comunitarismo è soltanto l’astratto contrario polare dell’individualismo e del collettivismo, che in quanto opposti in correlazione essenziale non fanno che rovesciarsi continuamente l’uno nell’altro. Concretamente, soltanto la pratica comunitaria può alla lunga mostrare la sua superiorità rispetto alle pratiche individualistiche e collettivistiche. in realtà un valore normativo.


2. Le definizioni che cercherò di dare in questo capitolo sono pertanto del tutto formali ed astratte. Per sgombrare il terreno da alcuni possibili equivoci inizierà prima dal rapporto fra relativismo ed universalismo, e cioè fra usi particolari e possibilità di una norma universalismo, e cioè fra usi particolari e possibilità di una norma universale di comportamento estendibile in via di principio all’intera umanità, pensata come se fosse un solo soggetto unitario. Passerà poi a discutere una teoria dell’individuo, perché senza una teoria dell’individuo non ci può neppure essere comunitarismo, se non in forme regressive. Terminerò infine con una discussione sul comunitarismo come etica e come politica. E tuttavia. Questo non potrà che restare inevitabilmente astratto, se non è pensato in modo contrastivo all’individualismo ed al collettivismo.


Continua: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2758

lunedì 26 settembre 2011

 Fuori dal debito! Fuori dall’Euro!



di Costanzo Preve




1. Un’organizzazione denominata Rivoluzione Democratica (cfr. sollevazione.blogspot.com) ha convocato a Chianciano per il 22 e 23 ottobre 2011 un incontro nazionale con parola d’ordine: Fuori dal debito! Fuori dall’Euro! Voglio qui riportare il mio contributo (sia pure non richiesto), data l’importanza del tema in questione.


2. Le possibilità concrete di ottenere a breve ed a media scadenza questi due obbiettivi (che condivido nell’essenzialità) sono pressoché nulle. E dicendo nulle intendo proprio dire nulle. In una simile situazione, non potendoci aspettare risultati anche solo parziali a scadenza ragionevole, è il come si devono impostare le rivendicazioni che diventa decisivo. Se esse infatti si impostano male o in modo inappropriato, presto o tardi se ne avranno le conseguenze. Farò fra poco il grottesco esempio del Movimento detto No Global, partito un decennio fa con grandi speranze e finito nel nulla e nel ridicolo. Le cause di questo esito poco glorioso devono essere approfondite.


3. Il settembre 2011 l’Unione Sindacale di Base (USB) è sfilata a Roma con rivendicazioni qualitativamente diverse da quelle della CGIL, Di Pietro, di Vendola, di Bersani e della stessa FIOM. E’ stato posto il problema della cancellazione del debito e della uscita dall’eurozona. Si tratta pur sempre di un’organizzazione che rivendica di avere circa 250.000 membri, e quindi di una forza piccola, ma reale. Si tratta di una relativa novità nella scena politica italiana, in cui l’Unione Europea è fino ad oggi rimasta un feticcio intoccabile, dall’estrema destra all’estrema sinistra “visibili”.


4. Nel numero di settembre 2011 di “Le Monde Diplomatique” (edizione italiana) è uscito un fondamentale articolo dell’economista francese Frèdèric Lordon intitolato “La deglobalizzazione ed i suoi nemici”. Questo testo è importante, perché pone con chiarezza i problemi fondamentali. Rimandando ad esso il lettore, ne svolgerò con autonomia un mio commento personale.


5. Così come la imposta Lordon (e la intendo io) la de globalizzazione non ha nulla a che vedere, e non è quindi una ripresa, di ciò che per un decennio è stato chiamato Movimento No Global. La debolezza strategica del Movimento No Global era di non essere affatto no global (al di là dei riti pittoreschi di piazza, dai lamenti pecoreschi ritmati alle simulazioni del black bloc), ma di essere un movimento no global di estrema sinistra, e cioè una caricatura ultra-global. La stragrande maggioranza delle sue rivendicazioni (per non cadere nell’autarchia, nel protezionismo, nello stato nazionale, eccetera, tutte cose viste a priori come di “ultradestra”) erano ricavate da una radicalizzazione di ultra-sinistra del paradigma neoliberale in politica e neoliberista in economia. Estensione in tutto il mondo dei “veri” diritti umani, abolizione delle frontiere, libera immigrazione, “superamento” del meschino orizzonte della sovranità dello stato nazionale, retorica contro i dittatori (distinti in semplicemente corrotti, ed in corrotti ed anche sanguinari), giovanilizzazione e femminilizzazione dei valori sociali, mitologia del progresso, eccetera. Un programma che sembrava stilato dalle stesse oligarchie liberali. In campo “marxista”, Negri e Hardt scrissero una trilogia che propagandava questa concezione liberista rovesciata (ma un dado rovesciato è sempre un dado), e non a caso questa trilogia divenne popolare presso i due estremi sociali apparentemente antitetici ed in realtà complementari del capitalismo, i centri sociali in basso e l’aristocrazia accademico-universitaria di sinistra in alto.


6. In Italia abbiamo vissuto una variante particolarmente pittoresca e provinciale del movimento no global, con il picconatore Bertinotti che sosteneva che con la globalizzazione spariva l’imperialismo. Il fatto che questa colossale sciocchezza potesse essere presa sul serio segnala la desertificazione del pensiero critico per opera degli apparati ideologici post-moderni mediatici ed universitari. Ed il fatto che il successore più astuto e rigoroso di Bertinotti, il poeta barese Vendola, abbia elettoralmente svuotato sia i “merli” di Ferrero sia i “passeri” di Diliberto, mostra come il non avere preso sul serio in tempo le sciocchezze porta poi a conclusioni distruttive. Quali lezioni trarre dagli esiti grotteschi del movimento no global dieci anni dopo?


7. La prima e pressoché unica lezione consiste nel capire che la sacrosanta lotta alla globalizzazione non può e non deve essere ripetuta e riproposta sulla base ideologica del movimento no global. Lordon chiarisce che i cantori del vecchio movimento no global (ad esempio l’organizzazione Attac, che ha definito la deglobalizzazione un concetto semplificato e superficiale) comincino già ad alzare le barricate, paventando poi “contaminazioni” con il protezionismo dell’eterna “destra”. Fa eccezione l’economista francese Jacques Sapir, che a mio avviso ha impostato le cose nel modo più radicale e anche meno estremistico ed avventuristico possibile: si tentino pure tutte le soluzioni possibili dentro l’euro e l’unità europea, ma se per caso fallissero, allora deve diventare “pensabile” anche l’uscita dall’euro.


8. Inutile dire che una simile prospettiva possibile, anche se posta solo come eventualità praticabile nel caso che tutte le altre opzioni “riformatrici” fallissero, viene virtuosamente rifiutata dal centro e dalla destra liberale. Il fatto è che ormai il liberalismo classico non esiste nemmeno più, divorato dal passaggio dalla sovranità politica alla governance economica. Ma anche la sinistra (con quella appendice patetica ed inutile chiamata “estrema sinistra”) la rifiuta, temendo virtuosamente che “un conflitto di classe venga trasformato in un conflitto di nazioni” (Jean Marie Harribey).


Ecco, questo è lo scoglio. Il voler negare il dato nazionale, rimuovendolo virtuosamente, aveva già portato Attac a passare dalla “anti-globalizzazione” al cosiddetto “altermondialismo”. Ma l’altermondialismo per ora non esiste, ed è una utopia futuribile come il comunismo o il comunitarismo universale. Ma il dato nazionale non significa automaticamente razzismo, protezionismo assoluto, autarchia totale o decrescita virtuosa agro-pastorale, anche se viene ovviamente così diffamato dai cantori (interessati) della cosiddetta irreversibilità della globalizzazione.


La globalizzazione è emendabile? Il futuro è ignoto, ma si può già rispondere: per ora, nelle attuali condizioni geopolitiche ed economiche, no. I quattro elementi intrecciati insieme (le sfide della globalizzazione, il giudizio dei mercati, il vincolo dei debiti, la sovranità delle agenzie di rating) ci fanno rispondere di no. E quindi bisognerebbe trarne le conseguenze.


9. Per ragioni che sarebbe lungo e noioso spiegare, mentre mi sono estraniato (e sono stato estraniato) dal dibattito italiano, sono invece attivo e presente nel dibattito greco (articoli, interviste, interventi, eccetera). Ora, tutti conoscono la situazione della Grecia, e di come il problema del debito e dell’eventuale uscita dall’euro sia in Grecia particolarmente acuto ed attuale, molto più che in Italia, dove è ancora per ora largamente “teorico” e virtuale. In Grecia è possibile studiare come in un laboratorio le conseguenze immediate del dibattito sul debito.


Il commissariamento della Grecia, che ha comportato la sua totale perdita di sovranità, ha comportato anche la completa distruzione di tutte le conquiste “socialdemocratiche” conseguite dopo la caduta della giunta dei colonnelli del 1974 (metapolitefsi), svuotando quasi quaranta anni di storia della Grecia moderna. Così come l’Italia dell’agosto 2011 è stata “commissionata” dal duopolio Draghi-Napolitano (un banchiere ed un ex-comunista riciclato), così la Grecia è stata commissionata da una “giunta economica” costituita da tutti partiti (destra, sinistra e centro) favorevoli alla sottomissione ai diktat della banca Centrale Europea e della Germania in primo luogo. A questo punto, come reagire?


Da quanto ho potuto capire partecipando al dibattito, ci sono stati fondamentalmente due modi. In primo luogo la rivendicazione di una autonomia nazionale è stato subito incorporata nel ribellismo ultra-comunista di estrema sinistra, che invita all’abbattimento del capitalismo. In secondo luogo, un modo più patriottico e nazionale, incarnato dal grande musicista Mikis Theodorakis e dal suo movimento, che non porta in piazza bandiere rosse ma soltanto bandiere azzurre greche, e lo fa per non dividere ideologicamente il popolo, che al di fuori di una ristretta oligarchia soffre indipendentemente dalle sue opinioni politiche, filosofiche o religiose.


Nonostante abbia amici soprattutto fra i “sinistri” greci, devo dire che a mio avviso la linea giusta è quella di Theodorakis. Il popolo non deve essere diviso ideologicamente, ma unito in nome della sovranità nazionale e di quella che Lordon e Sapir chiamerebbero deglobalizzazione. Cerchiamo di tirarne la conseguenze “italiane”. Anche in Grecia Theodorakis è stato accusato di essere “rosso-bruno”, di lasciare spazio alla destra, di essere ambiguo, eccetera. Accuse completamente false. Theodorakis ha le carte in regola, sia per la Resistenza (1941-1944), sia per la guerra civile (1946-1949), sia per il “lungo inverno” dell’autoritarismo successivo (1949-1967), sia per l’opposizione alla dittatura dei colonnelli (1967-1974). E’ solo la stupidità settaria che non ha le carte in regola, né in Grecia né in Italia.


10. Passiamo ora all’Italia. Se le considerazione fatte fino ad ora sul fallimento dei no global e degli altermondialisti, sulla deglobalizzazione (Lordon, Sapir), sulla corretta impostazione “nazionale” (non nazionalistica) di Theodorakis in Grecia, eccetera, sono corrette, che cosa fare in Italia?


In primo luogo, non lasciare spazio ai deliranti che dicono che “bisogna fare come in Tunisia”. Gli italiano se ne guarderebbero bene. Dalla Tunisia si scappa e si scapperà ancora a lungo, perché non c’è pane e non c’è lavoro (il che non significa che non fosse ovviamente sacrosanta la rivolta contro Ben Alì!). In questo momento una (non auspicabile) rivolta di tipo tunisino porterebbe soltanto alla fuga del puttaniere Berlusconi ed ad un governo degli “onesti”, e cioè dei funzionari del FMI e della BCE, che porterebbero a termine i programmi di liberalizzazione totale.


In secondo luogo, non bisogna in nessun modo attaccare al programma della deglobalizzazione (perché è ovvio che lo sarebbe sia l’uscita dall’euro che dal debito) i tradizionali (e deliranti) programmi di estrema sinistra, attraverso massimalistiche adunate di refrattari. Mi spiace scendere sui nominativi e sul personale, perché non sarebbe stata questa la mia intenzione. Ma che cosa ci fanno Rizzo, Ferrando e Babini dei CARC? I CARC vogliono la dittatura del proletariato. Ferrando vuole fare come in Tunisia, e lasciamo stare per carità di patria le sua posizioni sulla Libia e sulla Siria, in cui uno scontro tra masse divise da una guerra civile è stato magicamente trasformato in scontro tra le masse unite ed i dittatori burocratico-capitalisti. E Badiale? A mia conoscenza Badiale vuole la decrescita, programma del tutto legittimo, ma che è una fuga in avanti attaccare alla deglobalizzazione. Trattandosi di una sorta di “intergruppi” di estrema sinistra, il solo modo in cui molti vedono l’anticapitalismo, a mio avviso il fallimento è inevitabile. A breve scadenza, fallirebbe anche se ci fossero Gesù, Maometto, Marx e Lenin. Ma almeno porrebbe le basi per una lotta di lunga durata. Così avremo il solito intergruppi estremistico urlante.


A dire queste cose, si passa necessariamente per rompiscatole e guastafeste, ma in definitiva è meglio parlare che tacere.





Torino, settembre 2011

mercoledì 7 settembre 2011

CONSIDERAZIONI SULLA GUERRA DI LIBIA
E SULLA COSIDDETTA “PRIMAVERA ARABA”




di Costanzo Preve

1. Ho recentemente aderito ad una manifestazione e ho firmato un appello per la richiesta di dimissioni di Napolitano, Berlusconi, La Russa e Frattini per violazione della Costituzione a causa del nostro intervento in Libia. So perfettamente che si tratta di un atto simbolico perfettamente inutile. Come ha scritto Brecht, “anche l’ira contro l’ingiustizia rende roca la voce”. Sarebbe facile insolentire l’unanimità guerresca che ha unito sinistra e destra, estrema sinistra ed estrema destra, ex comunisti ed ex fascisti (qui la coppia Napolitano/La Russa è assolutamente impagabile, per chi studiasse il cosiddetto “trasformismo” fuori dai libri di scuola). Cerco di non farmi sopraffare dall’indignazione e mi limito ad offrire qualche spunto per la riflessione.

2. Troppe cose non sono ancora note e si sapranno forse solo nei prossimi anni. Quanto è durata e quando è cominciata la preparazione dei servizi segreti francesi e inglesi in Cirenaica e nella zona berbera della Tripolitania? Quanto è contata la collaborazione fra la strega sionista Hillary Clinton ed il seppellitore del gaullismo Nicolas Sarkozy per spingere il (forse) riluttante Obama a dare il semaforo verde all’intervento armato? Come è stato possibile ingannare Russia e Cina all’ONU per dare via libera all’ipocrita no fly-zone, o quanto invece c’è stata sporca connivenza? Che nel caso ci fosse veramente stata, farebbe cadere tutte le speranze sul BRICS e sulla politica eurasiatista? Vorrei saperne di più, ed invece non lo so.

3. Dal momento che sono uno studioso esperto di storia della filosofia, non cesso di stupirmi per la facilità con cui la legittimazione della guerra è passata dalla dottrina della “guerra giusta” alla dottrina del cosiddetto “intervento umanitario”. Risparmio al lettore possibili dotte ricostruzioni di questa storia. Inizialmente, la guerra giusta era la guerra giustificata dalla necessità di esportare il cristianesimo, ed era pertanto una guerra di “crociata”. Poi la guerra giusta diventò la guerra in difesa della patria invasa (in latino pro aris et focis), ma è chiaro che in questo modo l’attacco preventivo può essere fatto ipocritamente passare per guerra di difesa.
L’apparente successo del pacifismo nell’ultimo cinquantennio non deve trarre in inganno. Esso è sempre stato una protesta contro lo “sterminismo nucleare”, per cui, se si poteva fare una guerra senza l’uso di bombe nucleari, la guerra era rilegittimata (Norberto Bobbio per Iraq 1991 e Jugoslavia 1999). I riti pecoreschi e ipocriti delle cosiddette Marce della Pace di Assisi sono sempre e solo stati cerimonie istituzionali, in cui al belare rituale si accompagnava sempre l’esecrazione per i dittatori e la possibilità di esportare i diritti umani.
Nella storia dell’umanità, è raro che si siano condotte guerre sulla base delle carte fornite dallo stato maggiore nemico. Invece gli ultimi trent’anni ci hanno fatto assistere a questo kafkiano paradosso. I pacifisti belavano richieste ritmate di sostituire alle armi i diritti umani, proprio quando gli stessi produttori di armi scrivevano sui loro missili “peace is our profession”, e i contingenti di invasori venivano ribattezzati “contingenti di pace”.
Tutto questo, ovviamente, è ampiamente noto. Bisogna però chiedersi, al di fuori di tutti gli identitarismi di partito o di schieramento, come sia stato possibile nell’arco di pochi decenni il passaggio della Grande Menzogna, dalla guerra giusta all’intervento umanitario, reso più facile anche dal passaggio dalla leva militare obbligatoria (che richiedeva motivazioni di manipolazione ideologica allargata) al mestiere di professionista delle armi (con donne comprese), che è compatibile con strategie ideologiche meno sofisticate (si pensi alla trasmissione di Sky-tv denominata Herat-Italia, senza dimenticare chi è Murdoch, il miliardario sionista padrone di Sky).

4. Secondo il modello mediatico pubblicitario americano, oggi le guerre vengono “vendute” alla cosiddetta “opinione pubblica” in forma personalizzata, attraverso la personalizzazione diabolica e demonizzante del “Sanguinario Dittatore”. Qui il copione si ripete. Nel 1999 il sanguinario dittatore era il serbo Milosevic (ribattezzato Hitlerovic in una oscena copertina de “l’Espresso”, la nave ammiraglia del gruppo Scalfari-De Benedetti), nel 2003 Saddam Hussein, ed ora nel 2011 il sanguinario dittatore è Gheddafi. Questo ritorno personalizzato del sanguinario dittatore deve far riflettere. Tutto questo è certamente legato al medium televisivo che richiede icone facilmente riconoscibili, ma non basta.
Il dittatore sanguinario è anche un’estrema metamorfosi degenerativa dell’immaginario antifascista della seconda guerra mondiale. L’immaginario antifascista partiva bensì dalla triade diabolica personalizzata dei tre grandi dittatori (nell’ordine di malvagità, Hitler, Mussolini e Franco), ma non si limitava certamente a quest’ultima, perché si aggiungeva il socialismo, il comunismo, la lotta al colonialismo, al razzismo, all’imperialismo, eccetera. Dopo la catastrofe del triennio 1989-1991 e la vittoria tennistica nei circoli universitari del paradigma del Totalitarismo di Hannah Arendt, tutti questi elementi sono stati spazzati via, ed è rimasto soltanto lo stereotipo del sanguinario dittatore, se possibile con le sue ville con i rubinetti d’oro e le vasche Jacuzzi rivestite di pelle umana.
Questo potrebbe in parte spiegare la totale resa della cultura di “sinistra” al modello del sanguinario dittatore. Perfino Samir Amin (Cfr. “il manifesto”, 31 agosto 2011), pur condannando l’intervento NATO e diagnosticando con precisione le ragioni “imperialistiche” della guerra di Libia, sente il bisogno di infierire sullo sconfitto qualificando Gheddafi come “buffone”. Sono contrario a infierire sul vinto, magari con motivazioni pseudo-marxiste. Non mi interessa correggere con la matita blu le ingenuità del Libro Verde o sanzionare gli indubbi elementi kitsch del suo comportamento. Gheddafi è stato ed è un grande patriota ed un combattente antimperialista, panarabo e panafricanista, mille volte superiore ai cani e ai porci che linciano i neri e che hanno vinto esclusivamente per i bombardamenti NATO.

5. La vergogna della cultura di sinistra a proposito della guerra di Libia è stata tale da essere quasi difficile da descrivere. Tutti si sono fatti babbionare dalla retorica sulla “primavera araba” sponsorizzata dall’emiro del Qatar e da Al Jazeera. Il fatto è che questa “cultura di sinistra” (esemplare è il giornale “il manifesto”, di cui “Liberazione” è soltanto una variante sindacalistica) è ormai soltanto una variante radicale dell’individualismo di sinistra post-sessantottino, indubbiamente post-borghese, ma anche e soprattutto ultra-capitalistica.
In questa vergogna si è particolarmente distinto il trotzkismo, in tutte le sue varianti, da Sinistra Critica al Partito Comunista dei Lavoratori (Ferrando) al Partito di Alternativa Comunista (Ricci). Tutti costoro hanno inneggiato alla stupenda rivolta delle masse libiche, che essendo però prive di un buon partito rivoluzionario trotzkista, hanno visto “scippata” la loro magnifica vittoria dall’intervento NATO.
Qui la coglionaggine dottrinaria ha celebrato in solitudine il suo massimo trionfo. I residui dogmatici del trotzkismo vogliono sempre una rivoluzione “pura”, anzi purissima, perché se non è pura è sempre bonapartista, burocratica, “campista” (Castro, Chavez, eccetera). Questi sventurati mi ricordano un frustrato che, non potendo sposare la donna più bella del mondo, la sola che avrebbe voluto sposare, si rinchiude in bagno a masturbarsi sognando questa Venere ideale. Miserabili! La NATO, i sionisti e gli USA massacrano un combattente antimperialista, e questi sciocchi inneggiano alla caduta del dittatore sanguinario!

6. Non ce l’ho assolutamente con Napolitano e gli ex PCI. Si sono riciclati bene, nel 1956 erano con l’URSS ed oggi nel 2011 sono con gli USA. Dal momento che non li ho mai stimati in precedenza, non mi hanno neppure deluso. I soli che hanno mantenuto un atteggiamento onesto sono stati i collaboratori de “l’Ernesto” (oggi Marx XXI), ma costoro sono gli stessi che per anti-berlusconismo vogliono allearsi con Bersani e Napolitano, cioè con i bombardatori della Libia. Lo spieghino ai loro militanti, e se riescono a farlo bisogna concludere che i loro militanti non sono militanti, ma militonti.
Il vero problema è quello di fare ipotesi sulle cosiddette “primavere arabe”. Come ha detto argutamente Zygmunt Bauman in una intervista a La Stampa, la cosa interessante sarà l’estate araba, perché la primavera è già passata. Per ora siamo nel campo delle ipotesi. Credo che in un certo senso il 2011 arabo sia, venti anni dopo, il corrispondente del 1991 sovietico. Il 1991 sovietico chiudeva il ciclo delle rivoluzioni comuniste novecentesche nel loro aspetto di rivoluzioni operaie e proletarie (burocraticamente degenerate o meno, questa è un’altra storia), attraverso una maestosa controrivoluzione restauratrice delle nuove classi medie cresciute all’interno dello stesso apparato formalmente “comunista”. Il 2011 arabo chiude il ciclo delle rivoluzioni nazionaliste arabe a partire dal 1945 (nasserismo egiziano, gheddafismo libico, baathismo iracheno e siriano, eccetera), in cui le nuove classi borghesi favorite dallo stesso dispotismo partitico-militare precedente si sono ora autonomizzate, e cercano un rapporto diretto e non militarmente mediato con la grande globalizzazione finanziaria capitalistica.
Mi sbaglio? Sono troppo pessimista? Il futuro ce lo dirà presto.

Torino, 3 settembre 2011

lunedì 29 agosto 2011

Ricostruire il Partito Comunista?




di Costanzo Preve

Ho iniziato a scrivere questo modesto testo politico senza pretese il giorno di ferragosto 2011, dopo aver letto alcuni commenti sulla doppia stangata chiamata eufemisticamente “manovra”, e dopo aver letto alcuni testi interessanti, come ad esempio AAVV, Ricostruire il partito comunista, Max XXI – AAVV, Il ruggito del dragone, Ed. Aurora – J. Salem, Lenin e la Rivoluzione, Ed. Nemesis.

Dopo aver letto gli argomenti in favore della ricostruzione di un partito comunista come presupposto “leninista” di una strategia anticapitalista ed in favore di un giudizio sulla natura “socialista” della Cina, e dopo averli presi sul serio senza il solito atteggiamento sprezzante e spregiativo dell’estremismo di sinistra, vorrei rifiutarli educatamente e proporre una prospettiva diversa. So bene che l’abituale ricatto retorico della sinistra è l’eterno “ma tu cosa proponi?”. Bene, risponderò, ma propongo un’altra cosa, e la chiarirò. Il problema preliminare è questo: dove stanno andando le classi dominanti? Credo che sia una domanda integralmente “marxiana”. Prima di dare le risposte giuste bisogna prima fare le domande giuste. Si può rispondere in due modi. Primo: neppure le classi dominanti sanno dove stanno andando, stanno navigando a vista verso la catastrofe (sociale, ecologica, eccetera, a seconda delle opinioni). Secondo: stanno andando in una direzione ben precisa, e bisogna sapere quale. In base alla risposta che darò, ne risulta che l’ipotesi di ricostruire un partito comunista mi sembra una risposta strategicamente errata, in quanto l’analogia storica del futuro possibile e prevedibile ci porta verso un nuovo 1789 (unificazione del nuovo Terzo Stato) piuttosto che verso il 1917 (costruzione del partito comunista del proletariato e dei contadini poveri). Aggiungerò tre Appendici, A, B e C. L’appendice A sarà dedicata ad una mia esperienza personale vissuta nel 1989. L’appendice B sarà dedicata alle due “pesti” della sinistra italiana, il manipulitismo e l’antiberlusconismo. L’appendice C alla riflessione sulle ragioni del fallimento di quell’aborto Ricostruire il Partito Comunistastrategico chiamato Partito della Rifondazione Comunista in Italia.

1. RIFLESSIONI COMPARATIVE SULL’ATTUALE CRISI INIZIATA NEL 2008



Ho letto molte riflessioni sulle ragioni dell’attuale crisi, da David Harvey a Vladimiro Giacché, da Luciano Gallino a Bernard Conte, eccetera, laddove il chiacchiericcio pettegolo antiberlusconiano non mi ha mai fatto né caldo né freddo. Il solo modo per orientarmi (essendo un filosofo e uno storico, e non un economista) è stato quello analogico, con un esame comparativo con le due grandi crisi precedenti (grande depressione 1873-1896 e grande crisi del 1929). So bene che l’analogia storica è ingannatrice, perché tipico della storia è il produrre novità qualitative, che rendono di fatto impossibile la previsione, sia pure tendenziale. Sono d’accordo con Hegel, per cui la civetta della conoscenza filosofica della totalità giunge solo al crepuscolo. A differenza di Marx (di cui peraltro continuo a considerarmi un allievo critico) non credo che si possa prevedere il futuro del capitalismo, neppure in modo tendenziale. In breve, penso si tratti di una illusione positivistica, per cui la storia è trattata come se fosse simile ad una scienza della natura, tipo la fisica, che in effetti rende possibile la previsione, sia pure solo probabilistica (meccanica quantistica, eccetera). Credo anche che questa illusione positivistica derivi paradossalmente da un presupposto messianico-escatologico, che pretende di conoscere e di anticipare l’esito finale della storia. E qui mi fermo, perché so che troppa filosofia annoia il lettore medio.

Non conosco storie soddisfacenti del capitalismo. Non mi convince la teoria di Ernest Mandel sulle “onde lunghe”. Stimo molto Giovanni Arrighi, ma non mi convince la sua teoria della periodizzazione del capitalismo (fase genovese, fase olandese, fase inglese, fase americana, ed infine Adam Smith a Pechino). Tutte le teorie delle “fasi” non mi convincono. La storia non procede mediante fasi. Non ho mai neppure creduto alla teoria staliniana dei cinque stadi (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, ed infine comunismo mondiale a base proletaria). Il capitalismo non è nato per ragioni di fasi, ma è nato per una finestra storica congiunturale (Inghilterra del Settecento), che avrebbe potuto anche non presentarsi. Eccetera, eccetera. Credo però ad una unità dialettica trascendentale di una “storia ideale eterna”, nel senso di Vico, Fichte, Hegel e Marx. Risparmio al lettore i dettagli, che richiederebbero mille pagine, e che i miei affezionati lettori già conoscono. Con Vico, credo all’equazione verum ipsum factum, che tradotta in linguaggio comune significa che la sola verità filosofica possibile consiste in un bilancio del presente storico inteso come progressiva autocoscienza della libertà di un soggetto, laddove il resto è certezza (fisica, chimica e biologia), esattezza (matematica e veridicità artistica). Di conseguenza, la verità non può mai essere “certificabile” (e con questo, per farla corta, respingo cortesemente Cartesio e Kant). La verità è frutto di prassi storica trasformatrice (Fichte), di allargamento della lotta per il riconoscimento (Hegel) e di perseguimento dell’obiettivo possibile di una società comunitaria senza classi (Marx). Ancora una volta, mi scuso per l’intermezzo filosofico, ma come il Menico dei Promessi Sposi che giocava a rimbalzello perché era bravo nel fare volare le pietre sull’acqua, ognuno fa sempre quello che sa fare meglio. Ma passiamo ad un esame analogico delle tre grandi crisi.

La prima grande crisi, chiamata Grande Depressione, fece ammutolire Marx, mentre Engels scrisse che stava crollando sotto i nostri occhi la produzione capitalistica (prefazione alla Miseria della Filosofia di Marx, salvo errore, cito a memoria). Ovviamente non era così. Essa fu “superata” con l’imperialismo colonialistico, la spartizione dell’Africa, il riarmo navale, la corsa al petrolio, le innovazioni di processo (taylorismo e fordismo) e di prodotto (chimica, elettricità, automobili, eccetera). Essa produsse anche come “danno collaterale” la formazione dei partiti socialisti e dei sindacati operai. Il “marxismo”, formazione ideologica a base positivistica elaborata nel ventennio 1875-1895 congiuntamente da Engels e da Kautsky sulla base di una compresenza fra “ortodossia e fini” (Matthyas) e progressiva integrazione nel capitalismo, nacque su committenza pressoché diretta della socialdemocrazia tedesca. La compresenza di ortodossia dei fini (le prediche della domenica) e progressiva integrazione burocratica (Michels, eccetera) creò un piano inclinato che portò poi al 1914, il grande macello. Parentesi. La proposta di Diliberto delle tre unità (unità dei comunisti, unità della sinistra, ed infine unità democratica, contro Berlusconi, ovviamente) è un esempio di ortodossia dei fini (teniamo fermo il comunismo) e di integrazione nel sistema politico (ci uniamo con Bersani, Veltroni e Napolitano perché è il solo modo elettorale di rientrare in parlamento). Ma su questo dirò dopo. Per il momento torniamo alle cose serie.

La grande crisi del 1929 fu superata soltanto dalla seconda guerra mondiale e dalla grande corsa agli armamenti. Sottoprodotto sociale di questa soluzione bellica furono i “trenta anni gloriosi” 1945-1975 di cui ha parlato Hobsbawm. Appare oggi chiaro che il periodo storico del welfare non è per nulla stato un “avvicinamento riformistico” al socialismo, ma un momento del tutto congiunturale, ed in quanto congiunturale revocabile (ed infatti oggi revocato). Ho insegnato per 35 anni storia su manuali menzogneri che sostenevano che la crisi del 1929 era stata “superata” dal New Deal di Roosevelt e dal “compromesso” keynesiano-fordista. Non c’è maggior stupido di chi si fa ingannare, per pigrizia intellettuale o per conformismo identitario di “sinistra”.

Infine, venne la dissoluzione dell’esperimento sociale (sotto cupola geodesica protetta, per usare l’espressione di Jameson) del comunismo storico novecentesco (1917-1991). In vent’anni, il chiacchiericcio di sinistra non ha mai cercato di darne una spiegazione “strutturale” (vedi Marx), ma si è accontentato di versioni postmoderne della teoria del “totalitarismo” di Hannah Arendt. A modo mio, ho fatto l’ipotesi (cfr. C. Preve, La quarta guerra mondiale) di una grande e maestosa controrivoluzione sociale dei ceti medi sovietici (e cinesi) contro un dispotismo sociale operaio e proletario nel frattempo esauritosi come base sociale ed ideologica. Nessuno ha mai neppure battuto un colpo, in quanto erano tutti impegnati a prendere sul serio Negri, Bertinotti, Vendola, Ingrao e la signora Rossanda. E così abbiamo sbattuto il muso contro la crisi apertasi nel 2008, senza che nessuno provasse neppure lontanamente a fare ipotesi su verso dove stiano andando le oligarchie finanziarie che ci governano. Proviamo a fare qualche ipotesi.

2. DOVE VANNO LE OLIGARCHIE FINANZIARIE CHE CI GOVERNANO



A questa domanda si può rispondere in due modi. Primo: non lo sanno neppure loro, vivono giorno per giorno senza prospettive, come la famosa nave Titanic. Le facoltà di economia hanno smesso da tempo di produrre una scienza sociale, e fanno soltanto estrapolazioni matematiche. Le facoltà di filosofia vivono di odio verso i geci e Hegel, e raccontano ai futuri disoccupati che il mondo è privo di senso, bisogna accettarlo così com’è, ogni utopia finirebbe necessariamente in terrore, e l’unica ontologia che si può fare è quella del telefonino e dei social network. In definitiva, la diagnosi è quella di Rosa Luxemburg: in mancanza di socialismo, avremo la barbarie, e la rovina comune delle classi in lotta. Non ci credo. Si tratterebbe sempre di una teoria della fine della storia, soltanto pessimistica e non ottimistica (i domani che cantano).

Secondo, ed è la mia risposta, possiamo almeno ipotizzare dove stiano andando le oligarchie finanziarie. Ovviamente, esse non devono essere antropomorfizzate inventandoci un inesistente complotto coordinato alla Spectre (James Bond). E’ evidente che la globalizzazione finanziaria si fonda sulla fine della sovranità monetaria degli Stati nazionali. E’ evidente che la Costituzione italiana non esiste più, da quando l’agente americano Giorgio Napolitano ha spinto il riluttante e ricattabile puttaniere Berlusconi all’aggressione contro la Libia di Gheddafi (travestita da garanzia di una no fly zone, in cui invece a fly sono i bombardieri NATO), alla faccia del fatto che l’Italia ripudia le guerre. E’ evidente che il cosiddetto “giudizio dei mercati” è una foglia di fico per lo smantellamento di ciò che restava del welfare della prima repubblica (1946-1992). Molte cose sono evidenti, e mi sembrerebbe un retorico spreco di carta soffermarmici sopra. Andiamo invece al dunque. Ed il dunque è: dove stiamo andando?

Stiamo andando verso una polarizzazione estrema verso un polo oligarchico, da un lato, ed un immenso e politicamente espropriato “terzo stato”, dall’altro. E tuttavia, le oligarchie sanno bene che è necessario un “cuscinetto di grasso” sociale fra i due poli, per evitare che possa verificarsi uno scontro diretto fra i pochissimi, ed i moltissimi abbandonati alla insicurezza della vita e al lavoro sottopagato, flessibile e precario. Fra le oligarchie e questo nuovo immenso “terzo stato” (che sarebbe improprio definire in termini di imborghesimento del proletariato o proletarizzazione della piccola borghesia, categorie sociologiche a mio avviso sorpassate) bisogna favorire la costituzione di un gruppo sociale che, sulla scorta della proposta linguistica di Eugenio Orso, definirei new global middle class (uso l’inglese perché è la nuova lingua dei padroni, come avvenne prima per il greco, poi per il latino ed infine per il francese). A questo nuovo gruppo sociale bisognerà pur sempre dare qualche privilegio, in modo che non si rivolti contro l’oligarchia. Su questo non ho le idee chiare. Se ci fossero ancora dei sociologi, io chiederei a loro, ma so bene che ormai Wright Mills e Christopher Lasch sono morti, e restano soltanto animali accademici tronfi ed autoreferenziali. Ma adesso è giunta l’ora di chiarire perché a mio avviso la parola d’ordine non può essere quella di rifare il partito comunista.

3. FUNZIONE STORICA DEL PARTITO COMUNISTA



Laddove oggi c’è la tendenza a valorizzare Marx come “profeta della globalizzazione” e di sputare su Lenin, io non seguo questa tendenza, e sono d’accordo con il libro di Salem. Oggi demonizzare Lenin, con la scusa che dopo è venuto Stalin (che non demonizzo, ma neppure rivaluto seguendo le orme di Domenico Losurdo, di Ludo Martens e del partito comunista greco) significa in realtà demonizzare lo stesso concetto di prassi rivoluzionaria. Altra cosa, invece, è condividere tutto quello che Lenin ha detto e scritto. Ad esempio, io non condivido la riduzione della filosofia ad ideologia ed il cosiddetto “materialismo dialettico”. Dio me ne scampi e liberi! Condivido invece la piena legittimità della rivoluzione del 1917. Ma il lettore non sarà tanto interessato a sapere che cosa pensa il signor Preve della storia del Novecento, quanto arrivare al cuore della questione. Arriviamoci.

Il partito comunista, in tutte le sue versioni (qui staliniani, trotzkisti e maoisti concordano, pur bastonandosi e piccozzandosi ferocemente fra loro) è stato concepito per la rivoluzione proletaria sia pure “allargata” ad alleanze varie (contadini, piccola borghesia, persino “borghesia nazionale”, eccetera). E’ impensabile un partito comunista senza centralità della classe operaia, salariata e proletaria, di cui si nega peraltro la “rivoluzionarietà diretta”, priva di un coordinamento partitico. Qui non c’è differenza “teorica” fra Diliberto, Ferrando e Lotta Comunista. Mi scuso per la semplificazione, ma a volte facilita la discussione. Le attuali oligarchie finanziarie al potere non si limitano infatti a “proletarizzare” i ceti medi. Se li proletarizzassero, si potrebbe dire che ci vuole un partito comunista. Ma il processo che si svolge sotto i nostri occhi e ben più complesso e maestoso. In Cina, in India ed in Brasile (ed ora anche nei paesi arabi, con la cosiddetta “primavera araba”, che solo un inguaribile ingenuo potrebbe pensare abbia una natura rivoluzionaria, laddove si tratta della semplice presa del potere di una borghesia sunnita occidentalista) si sta formando finalmente una classe media globale, la cui parte superiore, alleata con le oligarchie finanziarie, eserciterà una funzione controrivoluzionaria di fronte alla quale i codini nobiliari del 1789 sembreranno tutti dei Thomas Munzer. La parte inferiore dei ceti medi, numericamente di gran lunga prevalente, cadrà in questo nuovo “terzo stato”. Essa non ha bisogno di un partito comunista, e soprattutto non ha bisogno di portarsi dietro il sanguinoso contenzioso sul bilancio storico del comunismo novecentesco. Su questo Diliberto e Ferrero non saranno mai d’accordo, perché per il primo il più grande rivoluzionario è stato Lenin, e per il secondo Raniero Panzieri. Si pensa forse di poter “assemblare” Mauro Gemma e Marco Ferrando?

Ma non sta neppure qui il punto essenziale. E qui, pur sapendo che è come bestemmiare in chiesa, sono costretto a porre il problema del superamento della dicotomia Destra/Sinistra, anche se per le orecchie pie e politicamente corrette del “sinistro” medio, questo può dare luogo al sospetto di “infiltrazione fascista”.

4. NOTE SULLA DICOTOMIA SINISTRA/DESTRA



Non riprenderò qui per ragioni di spazio le argomentazioni da me sviluppate in un quindicennio (e quale quindicennio!) sul superamento della dicotomia Destra/Sinistra. Lascerò perdere la filosofia e la storia che stanno alla base di questa dicotomia, e svilupperò un solo argomento, di tipo politico. Seguendo il noto “rasoio di Occam”, credo che un solo argomento basterà, se è convincente.

Chi si situa all’interno della dicotomia Sinistra/Destra, concluderà necessariamente non tanto che il comunismo è “l’estrema sinistra” o la “vera sinistra”, ma che il comunismo è la parte più coerente, rigorosa ed organizzata della sinistra stessa. A questo punto, ne discenderà ‘gravitazionalmente (uso questo avverbio volutamente) che bisognerà’ allearsi con la “sinistra moderata” (ed addirittura con il centro-sinistra) contro la Destra, come se si fosse ancora al tempo dei fronti popolari contro il fascismo (1934-36). E’ questa la ragione simbolica del mantenimento ideologico dell’antifascismo in assenza totale, palese e manifesta di fascismo. Ci deve essere sempre un “fascista”, o almeno un suo succedaneo simbolico (prima Fanfani, poi Craxi, infine Berlusconi). Ricordo ancora i cialtroni di Lotta Continua che parlavano di “fanfascismo”.

Questa forza ideologica gravitazionale impedirà di comprendere l’omologazione strutturale del quadro politico nell’epoca della terza grande crisi capitalistica. Bisognerà trovare sempre argomenti per dire che Bersani, Veltroni e Fassino sono “meglio” (o “meno peggio”) di Tremonti, Bossi e Berlusconi. Il menopeggismo sostituisce l’analisi gramsciana delle classi, per obsoleta che in parte possa essere. Ma il menopeggismo è un lento veleno mitridatico. Il cittadino diventa un “consumatore” di offerte politiche, ed è esattamente il modello inglese ed americano, cui sin tratta di omologarci.

Se la dicotomia Destra/Sinistra facesse soltanto acqua sul piano storico e filosofico, la lascerei stare per ragioni di quieto vivere. In fondo, non è divertente farsi dare del “fascista” da una marmaglia fanatizzata. Ma si tratta di un vero “ostacolo epistemologico” (mi scuso per il termine supercolto). Se siamo di sinistra, bisognerà allearsi con Bersani contro Berlusconi, e con la Marcegaglia e Montezemolo contro Bossi e Tremonti. Bisognerà sempre trovare dei “fascisti” da qualche parte, come se fossimo al tempo del film di Ugo Tognazzi “Vogliamo i colonnelli”. In questo modo il terzo stato non potrà mai essere politicamente ricomposto, perché lo si scinderà ideologicamente in una falsa contrapposizione simbolica, che ricorda i guelfi ed i ghibellini, e soprattutto non si comprenderà mai l’omologazione strutturale dei ceti politici professionali di “sinistra” in Europa all’interno del nuovo capitalismo finanziario e del neoliberalismo. Tutte le chiacchiere di Diliberto e Ferrero, sfrondate dei riferimenti simbolici identitari, si riducono a tirare per la giacca Bersani, la Bindi e la Camusso.

Sarei molto dispiaciuto se quanto sto dicendo venisse catalogato sprezzantemente sotto la voce “estremismo” o “minoritarismo”. Sono stato estremista in gioventù, ma non lo sono più da almeno vent’anni. Ho gusti “conservatori” nelle arti figurative, in filosofia, in letteratura ed in musica. Il succo del mio discorso è un altro. Se andassimo verso un nuovo 1917, sarei per ricostruire un partito comunista, anche perché da allievo di Marx mantengo un anticapitalismo radicale. Ma in base al ragionamento fatto sulla base analogico-comparativa delle tre grandi crisi del capitalismo (1873, 1929 e 2008) mi sembra che andiamo invece più probabilmente verso un nuovo 1789, e si tratta piuttosto di unificare il nuovo “terzo stato” contro le oligarchie ed il loro clero (il clero regolare, accademico-universitario, ed il clero secolare, mediatico-televisivo). Questa unificazione non può avvenire riproponendogli tutti i vecchi contenziosi “marxisti”.

                                                                 APPENDICE A

RICORDO PERSONALE DI UNA TRAGICOMICA ESPERIENZA DEL 1989



In filosofia io sono un Signor Qualcuno, e non mi interessa se questo viene riconosciuto o no dagli oi polloi (traduzione consigliata dal greco: i polli, nel senso di galline). Ma in politica io sono un Signor Nessuno, lo so perfettamente, e tanto basta. Ma voglio qui ricordare una tragicomica esperienza dell’ormai lontano 1989. Negli anni Ottanta mi avvicinai prima ad una rivista politica intitolata Unità Proletaria, diretta da Attilio Mangano e da Luigi Cortesi, e poi ad un piccolo centro culturale dipendente da Democrazia Proletaria denominato “Punto Rosso”, tuttora esistente. Si trattava di un matrimonio di interesse reciproco: essi mi offrivano la possibilità di pubblicare e di far conoscere le mie elucubrazioni filosofiche “marxiste” (Althusser, Bloch, Lukacs, eccetera), ed io offrivo loro una collaborazione gratuita, disinteressata e non pagata. Poi un dirigente di Democrazia Proletaria (inutile il nome, si dice il peccato, non il peccatore) mi propose di cooptarmi nella Direzione Nazionale di questo partito, perché potessi fare interventi “colti” considerati “marxisti”. Avrei dovuto rifiutare, ma ero ancora nella fase “militante” della mia vita. I dirigenti politici, in genere, amano gli intellettuali-pagliacci in veste non tanto di commissari politici quanto di cappellani, cioè di “clero teorico”, purché non osino mettere le zampe sulla “linea politica”, che considerano loro monopolio assoluto, un po’ come il denaro per i capitalisti. Cooptato nella Direzione Nazionale, rifiutai subito il ruolo di intellettuale-pagliaccio ornamentale, e mi indirizzai verso il problema proibito della linea politica. Democrazia Proletaria era una vera Armata Brancaleone (nel senso del film di Gassman), con al vertice un pagliaccio mediatico (Mario Capanna, precursore di Fausto Bertinotti e di Nichi Vendola) ed alla base un carnevale di femministe, ecologisti e pacifisti. Dal momento che il PCI di Occhetto stava liquidando il comunismo, mi sembrò opportuno proporre una linea politica tendente a ricostruire un piccolo partito comunista esplicito.

Non l’avessi mai fatto! Da intellettuale-pagliaccio supercolto diventai immediatamente un fastidioso rompiballe, che rompeva i delicati equilibri interni fra “movimentisti” e “partitisti”. E tuttavia, proposi delle tesi politiche che furono costretti a pubblicare nel Bollettino di Democrazia Proletaria. In esse sostenevo che l’individuazione in Craxi del nemico principale (il grassone, il corrottone, il mangione, eccetera) era una sciocchezza, e che la ricomposizione delle oligarchie italiane avveniva diversamente. Certo, non potevo prevedere Mani Pulite, ma mi si dovrebbe dare atto di una mia politica preveggenza. Da qualche parte, in qualche emeroteca, queste tesi potrebbero ancora trovarsi. Nello stesso tempo, mi misi a collaborare con il gruppo cossuttiano “Marxismo Oggi”, perché intuivo che da lì sarebbe nato qualcosa. Poi, per fortuna, mi ammalai gravemente, ma sopravvissi. In questo modo potei evitare di fare l’esperienza mefitica e grottesca di Rifondazione Comunista, perché, essendo assente per malattia, non fui “cooptato” nella sua ridicola Direzione. E’ proprio il caso di dire che non tutto il male viene per nuocere. Diventai così uno studioso indipendente, senza alcun legame partitico, precondizione assoluta per poter pensare liberamente, senza dover commisurare quanto si pensa alle compatibilità ferree della linea politica stabilita dai babbioni del ceto politico professionale di “sinistra”.

Allora (1989) pensavo sinceramente che fosse necessario ricostruire un partito comunista. Oggi, ventidue anni dopo (2011) non lo penso invece più, per le ragioni esposte precedentemente. Ma ringrazio l’esperienza fatta, perché ci ho sicuramente imparato molto.

                                                                  APPENDICE B

LE DUE GRANDI PESTI DELLA SINISTRA ITALIANA: MANIPULITISMO E ANTIBERLUSCONISMO



Il codice teorico identitario del picismo italiano (termine con cui cerco di connotare la continuità del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD) si basava su una sorta di storicismo progressistico, convinto di “navigare con il vento della storia”. Trascuro le critiche alla Walter Benjamin di questa pappa positivistica. Togliatti mantenne “l’ortodossia dei fini” in termine di ideologia identitaria di partito “comunista”, facilitando l’inserimento del partito nella società italiana e nel suo miracolo economico (evidente dopo il 1958). Ammetto apertamente che fino al 1974 circa (dopo non più) il PCI continuò ad esercitare un ruolo sociale e culturale complessivamente positivo, e non voglio che mi si confonda con i nostalgici della rivoluzione mancata nel 1945 o nel 1948 o con ogni tipo di estremismo operaista e/o bordighista (con tutto il rispetto per Bordiga, che si mangiava in insalata il gregge conformista e pecoresco degli “intellettuali organici” PCI). Ma qui non c’è tempo di approfondire la questione. Credo che colui che ci capì di più fu il cattolico integralista Augusto Del Noce, che fece la diagnosi più esatta di tutte, ed anche la più dialettica (anzi, l’unica dialettica), quella della trasformazione progressiva dello storicismo (a base relativistica e nichilistica, se gli si toglie la base ontologica presente in Hegel ed abbozzata, ma solo abbozzata, nella mirabile Ontologia dell’ultimo Lukacs) in adesione alla società postmoderna radicale dei consumi. In ogni caso, arriviamo subito per brevità al 1989-91. Con il crollo della Casa Madre il vecchio personale picista dovette riconvertirsi in fretta e furia. Se prima erano il sacerdozio della via italiana al socialismo e dell’eurocomunismo, ora dovevano diventare il personale politico di mediazione “politica” del capitale finanziario e dell’impero militare americano (D’Alema con il Kosovo 1999, Napolitano con la Libia 2011). Data la pittoresca ignoranza degli italiani non fu neppure necessario “gestire” una riconversione ideologica esplicita (tipo Bad Godesberg tedesca 1959). Il popolo di Beppe Grillo, Nanni Moretti e Nichi Vendola non è popolo di teorici, basta lo sghignazzo di “Linus” e del “Manifesto”. La riconversione fu progressivamente compiuta prima con il Manipulitismo e poi con l’Antiberlusconismo. Trattiamoli separatamente.

Alcuni anni fa mi trovai a Milano in un dibattito pubblico con Gherardo Colombo, uno dei più noti magistrati del pool di Mani Pulite. Un interlocutore cortese, educato e colto. In sua presenza esposi in forma cortese e non polemica la mia tesi storico-politica di fondo, per cui a mio avviso Mani Pulite, pur formalmente legale e costituzionale (a differenza della guerra di D’Alema in Kosovo 1999 e di Napolitano in Libia 2011), era di fatto stato un colpo di Stato giudiziario extraparlamentare che aveva distrutto una prima repubblica italiana certamente corrotta, ma anche assistenziale e proporzionalistica, la cui conseguenza era stata paradossalmente quella di facilitare l’avvento di Berlusconi, che grazie al suo denaro aveva potuto “ereditare” gran parte dell’elettorato DC ed anche PSI. Avrei anche potuto parlare turco. Il cortese Colombo non contrappose una sua lettura storica alternativa alla mia, ma parlò di “obbligatorietà dell’azione penale”, che l’aveva costretto a colpire Chiesa, Craxi e tutti i mangioni. Ora, io non mettevo assolutamente in discussione che i reati di corruzione e di concussione richiedono l’obbligatorietà dell’azione penale, e lo ammettevo apertamente. Soltanto, desideravo che il tema non venisse soltanto discusso in modo giudiziario, ma storico. Ma fu come passare dal turco al mongolo parlato e stretto. A distanza di quasi vent’anni, non esiste ancora un bilancio storico di Mani Pulite (fanno parziale eccezione due saggi di Filippo Fiandrotti e di Giovanni Di Martino, sconosciuti agli oi polloi). Resta invece il fuoco di diversione mediatica sulle ruberie della casta, sui prezzi politici dei ristoranti parlamentari e su tutte le pittoresche miserie degli straccioni del ceto politico professionale, che essendo al servizio delle oligarchie al potere, vogliono anche loro poter raccogliere le briciole dei loro banchetti in termini di barche a vela o di culi di adolescenti ambiziose, come già avveniva per gli schiavi ed i liberti delle oligarchie schiavistiche romane. In ogni caso, la riduzione giudiziaria della storia italiana è un fenomeno grottesco che richiederebbe Swift e Rabelais, ed ammetto di non esserne all’altezza.

E passiamo ora al berlusconismo, anzi all’antiberlusconismo. Un tempo si diceva che il nazionalismo era l’ultimo rifugio delle canaglie. Ma il nazionalismo era Freud, Darwin e Einstein in confronto con il concerto antiberlusconiano dell’ultimo ventennio. Spieghiamoci meglio. Il nano di Arcore si prestava meravigliosamente a diventare il bersaglio satirico privilegiato di una “sinistra” decerebrata ed ormai del tutto incapace di analisi strutturale. Il puttaniere di Arcore, amico di Emilio Fede, era un personaggio da commedia dell’arte postmoderna che faceva sentire superiori tutti i coglioncelli di sinistra che a suo tempo Stefano Benni aveva definito Gente di una certa Kual Kultura (con il kappa). Lui è ricco, è vero, ma noi siamo più intelligenti, perché abbiamo letto Proust in tedesco con sottotitoli in polacco. Una banda di contemporaneisti sacerdoti della perennità dell’antifascismo in conclamata e palese assenza di fascismo usò termini come “telefascismo”, riesumando il “popolo delle scimmie” di gobettiana memoria. Per dirla con uno spaghetti-western, Dio perdona, ma io no! Per venti anni, il popolo di sinistra e il suo ceto politico giudiziario-giornalistico cercò di far fuori Berlusconi con il conflitto di interessi, le puttane, le minorenni, i soldi di Veronica e di De Benedetti, eccetera. Alla severa analisi di Gramsci si sostituì la pochade delle operette pecorecce degli anni Cinquanta. Il giornale-partito di “Repubblica” fu in questo all’avanguardia, perché doveva riconvertire ideologicamente gli ex babbioni picisti in neobabbioni scalfariani. Ma se Berlusconi cadrà (e probabilmente cadrà) non sarà certamente per gli scandali pecorecci di un vecchio maniaco dotato di Viagra, ma per le bastonate della manovra commissionata dai “mercati finanziari” dell’estate 2011. Certo, i pagliacci di sinistra rivendicheranno il merito di averlo fatto cadere, ma potranno ingannare soltanto i loro militanti-babbioni, Sarà il massacro dei ceti medi a far tramontare il nano di Arcore, non certo la signora Boccassini. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Ma come scrisse Spinoza, non bisogna né ridere né piangere, ma capire.

Detto in linguaggio medioevale, continuare a non capire il manipulitismo e l’antiberlusconismo non è più un peccato dell’intelletto, ma della volontà. Non si vuole capire. E si continui a non capire, se vi fa piacere. E’ impossibile raddrizzare le gambe ai cani.

                                                                    APPENDICE C

BILANCIO DELLA TRISTE STORIA DI RIFONDAZIONE COMUNISTA




Dopo la grande dissoluzione del triennio 1989-91 neppure Marx e Lenin sarebbero riusciti a “rifondare” politicamente il comunismo (si parla qui di rifondazione politica, perché quella teorica è più facile, basta contrastare il capitalismo). Figuriamoci se potevano riuscirci pagliacci politici mediocri come il cinico familista Armando Cossutta o il narcisista dilettante Fausto Bertinotti. Il teatro greco ci ha offerto tre tipi di azione scenica, la tragedia, la commedia ed il dramma satiresco. Rifondazione fu sempre e solo un dramma satiresco.

Nel libro sopraindicato Ricostruire il partito comunista gli autori (Diliberto, Giacché, Sorini e Catone) citano in proposito un certo Tortorella, che giustificò nel 1991 la sua non adesione a Rifondazione con la scusa che era “eclettica”. Fausto BertinottiCominciare dalla sovrastruttura (il presunto eclettismo di Rifondazione) e non dalla struttura (il suo ruolo ventennale nel sistema politico italiano dopo Mani Pulite) è una vergogna. Se si vuole discutere di Rifondazione non si può cominciare dal suo (innegabile) eclettismo, ma dal suo ruolo politico strutturale oggettivo. In nessun momento Rifondazione fu mai una “rifondazione comunista”. Essa fu sempre una “decompressione comunista”, il cui ruolo fu sempre quello di gestire la “decompressione” di ex comunisti orfani del togliattismo e del berlinguerismo. Il suo ruolo fu sempre quello di gestire ferreamente dall’alto un confusionario massimalismo in basso, tenendolo sempre ben stretto alla Casa Madre PCI-PDS-DS-PD. Tenendolo ben stretto attraverso le “risorse ideologiche” del manipolitismo e dell’antiberlusconismo. Altro che eclettismo! La storia ridicola ed irrilevante di questo partitino finì idealmente con l’espulsione dell’onesto senatore Turigliatto per avere votato contro i “crediti di guerra” (ricordiamo Liebknecht nel 1914!). Le contorsioni ideologiche del narcisista Bertinotti non sono rilevanti, ma solo pittoresche.

Il fallimento di Rifondazione ci consegna intatta l’esigenza di costruzione di una forza politica anticapitalistica. Ne sono perfettamente consapevole. Ma chi non ha ancora capito la funzione di Vendola come “copertura poetica” del PD è al di fuori di ogni possibile discussione storica e politica.

venerdì 15 luglio 2011

Dall’insurrezione all’anti-rivoluzione 
(libere riflessioni sulla “primavera araba” del 2011)



di Costanzo Preve

Ha scritto Romano Prodi (cfr. “La Stampa”, 18-4-11): “Io vedo nelle rivolte arabe lo scoppio di società fatte di giovani, disoccupati e colti incompatibili con governi tirannici”. Si tratta di un modello. neoliberale di spiegazione assolutamente maggioritario veicolato sia dai giornalisti che dai cosiddetti “esperti” di politica e geopolitica, in cui domina il modello della dicotomia Libertà/Dittatura. La tesi che vorrei proporre al lettore (ovviamente con mille cautele e dispostissimo a ritirarla se non dovesse reggere alle critiche serie) è che – se questo fosse vero ma non è detto che lo sia – non si tratterebbe tanto di rivoluzioni, e neppure di controrivoluzioni, ma di vere è proprie anti-rivoluzioni. Converrà però spiegarsi meglio, per non lasciare adito a pittoreschi equivoci.

Personalmente, tendo a definire i movimenti politici e sociali che hanno portato alla dissoluzione dei paesi socialisti europei e dell’URSS fra il 1988 ed il 1992 (simili in questo al mutamento strutturale della Cina dopo il 1976) delle vere e proprie contro-rivoluzioni nel senso classico della teoria politica moderna. So bene che esiste una resistenza, quando non una vera e propria riluttanza, nell’accettare questa connotazione, che non implica affatto (è bene ribadirlo subito contro ogni possibile pittoresco equivoco) un giudizio positivo di approvazione per lo stalinismo evoluto poi dopo il 1956 in “socialismo reale”.

Niente di tutto questo. Si tratta invece di una connotazione storico-politica relativamente “neutrale”, che si oppone educatamente ad altre connotazioni possibili. Esaminiamone quindi alcune in modo “contrastivo”.

In primo luogo, considero impropria per gli eventi del 1988-1992 la connotazione di “rivoluzioni liberali”. Questa connotazione indica un insieme di fenomeni. storici ben precisi, che hanno caratterizzato l’Ottocento europeo, in cui il liberalismo (unito o meno con il liberalismo economico, ma non coincidente con esso, secondo la lezione di Croce in polemica con Einaudi) si è contrapposto in modo rivoluzionario all’ancien régime ed al bonapartismo, in un’alleanza instabile con la democrazia (suffragio universale, eccetera), destinata a rompersi a fine Ottocento. Sono state queste, e solo queste, le “rivoluzioni liberali”. Il capitalismo selvaggio imposto sulle macerie del socialismo reale dopo il 1992 non ha mai avuto niente di “liberale’’, al di fuori dell’ideologia della Fondazione Soros, ed è un insulto retroattivo per i liberali dell’Ottocento usare per questi corrotti mafiosi questo nobile appellativo.

In secondo luogo, considero impropria per gli eventi del 1988-1992 (si tratta di un processo quinquennale e non solo di un “evento magico” tipo caduta del muro di Berlino) la connotazione di “restaurazione”, o per, così dire di restaurazione borghese-capitalistica. È assolutamente sicuro che il capitalismo è stato restaurato, ma non si è trattato di restaurazione di un capitalismo vetero-borghese (che avrebbe implicato la formazione organizzata di un polo opposto, popolare-proletario), ma di un capitalismo di tipo nuovo ed inedito, di un capitalismo selvaggio di tipo americano del tutto post-borghese (e quindi post-proletario). La riconversione di gran parte della struttura burocratico-partitica excomunista in nuova classe oligarchica selvaggia non ha infatti “restaurato” la precedente “borghesia” di tipo europeo, sostanzialmente distrutta nel ventennio 1920-1940 in URSS e nel ventennio 1945-1965 nell’Est europeo ed in Cina, ma ha “instaurato” una nuova classe dominante sostanzialmente criminale, e del tutto post-borghese. Si studino sociologicamente i comportamenti dei “nuovi russi” in vacanza a Rimini ed in Versilia, e quanto dico apparirà meno surrealistico.

La connotazione meno peggiore (in attesa di una connotazione migliore, che forse esiste già, ma di cui non sono a conoscenza) degli eventi 1988-1992 è quella di maestosa controrivoluzione sociale dei nuovi ceti medi sovietici (e cinesi), con la presa del potere finale di una nuova classe di capitalisti criminali del tutto post-borghesi. Esiste una riluttanza psicologica ad accettare questa connotazione, perché si pensa che per definizione una controrivoluzione debba essere un fatto elitario e minoritario, e non possa avere una base di massa. Si tratta di un vecchio pregiudizio di “sinistra”, che rende impossibile la comprensione di tutti gli eventi storici che non si conformino a pigri modelli consueti. In realtà sia le rivoluzioni che le controrivoluzioni possono entrambe avere consistenti basi di massa. Gli eventi che hanno portato al seppellimento del comunismo storico novecentesco in URSS, in Cina e nei paesi dell’Est europei sono stati indubbiamente controrivoluzionari, perché hanno distrutto le basi economiche e sociali delle precedenti rivoluzioni (oggi ribattezzate dagli intellettuali servi del circo accademico deliri totalitari), ma hanno avuto certamente basi di massa. Nell’assenza politica più totale e grottesca della classe operaia di fabbrica propriamente detta, e nella smentita del mito

sociologico proletario secolare, i nuovi ceti medi si sono messi in movimento dando vita ad una maestosa controrivoluzione.

È del tutto chiaro che questo approccio, giusto o sbagliato che sia, non può essere applicato alla cosiddetta “primavera araba” del 2011. Qui non c’era nessun capitalismo da “restaurare” o se vogliamo da “instaurare”, e neppure nessuna rivoluzione liberale da compiere perché la globalizzazione capitalistica e l’impero militare interventista USA hanno già da tempo distrutto e metabolizzato ogni forma di “liberalismo” precedente. Bisogna quindi andare in cerca – e non sarà facile – di un approccio diverso.

Scrivendo fra la fine di aprile e l’inizio di maggio 2011, e quindi in “tempo reale”, é difficile fare un bilancio serio e credibile di quello che le emittenti televisive CNN ed Al Jazira hanno battezzato “risveglio arabo” (arab awakening). Il pericolo di dire affrettate sciocchezze non può essere facilmente scongiurato. Dopo quattro mesi (gennaio-aprile 2011), e con mille cautele, mi sembra di poter dire che questo ciclo di insurrezioni non sta dando luogo in alcun modo (per ora, almeno) ad una prospettiva rivoluzionaria, termine che limiterei ferreamente e rigorosamente non certo ad una poco rilevante “circolazione delle élites”, quanto ad una modificazione radicale dei rapporti di classe e soprattutto ad una diversa e meno ingiusta e diseguale distribuzione della ricchezza. Queste insurrezioni (perché di insurrezioni certamente si è trattato, ed in Libia di una vera e propria guerra civile organizzata) danno purtroppo luogo non a rivoluzioni, ma a vere e proprie antirivoluzioni, tendenti ad impedire o a rendere più difficili se non impossibili eventuali vere rivoluzioni future. Chi trova eccessivo, ingiusto ed ingeneroso questo giudizio ha l’onere della spiegazione del perché queste insurrezioni sembrano tanto facilmente “recuperabili” dal modello oligarchico-occidentale di democrazia elettorale, dall’asfissiante retorica “arancione” dei blog e di twitter e soprattutto dal patronato della signora Hilary Clinton e del suo interventismo umanitario. E’ legittimo il sospetto che insurrezioni sponsorizzate da Cameron, Sarkozy, la NATO ed il Dipartimento di Stato non siano poi così “rivoluzionarie” come potevano sembrare. Per questo, trascurando casi interessanti ma marginali come lo Yemen o il Bahrein, mi limiterò prima ad alcune considerazioni sociologico-politiche generali, poi ad un rapido esame dedicato a quattro casi (Tunisia, Egitto, Libia e Siria), ed infine al bandolo della matassa geopolitica di tutto questo, che individuo in un saggio dell’apologeta dell’impero americano Parag Khanna, autore di un libro significativamente intitolato “come governare il mondo” (How to run the world).

Non c’è dubbio che l’intero mondo arabo nell’ultimo mezzo secolo sia stato caratterizzato non solo da una dinamica demografica imponente, tipica delle società tradizionali ad altissima natalità e non ancora colpite dal malthussianesimo

occidentalistico, ma anche da una intensa scolarizzazione giovanile di massa. La scolarizzazione giovanile di massa non connota soltanto modelli economici “sviluppisti” (il giovane arabo e turco studia da ingegnere in percentuale incomparabilmente superiore alla media dei suoi coetanei europei o americani) ma anche una fisiologica e benemerita

domanda di promozione sociale individuale. Le conseguenze però sono esattamente le stesse che ci sono da noi, ovviamente ingigantite e moltiplicate dal basso livello di sviluppo e del consumo interno: una gigantesca disoccupazione giovanile di massa. Da noi però ci sono i redditi dei genitori e dei nonni che attutiscono il disagio della disoccupazione giovanile e la relativa tenuta (per ora) del welfare, due elementi assenti nei paesi arabi (non parlo qui degli emirati petroliferi o dell’Arabia Saudita). Sono questi gli elementi esplosivi della società araba, e non certo generici “dittatori” (Ben Ali, Mubarak, Gheddafi, Assad„ eccetera), come sembra suggerire il pacioso ciclista emiliano Romano Prodi. Il fatto che il modello del capitalismo finanziario globalizzato costruito sulle macerie del comunismo storico novecentesco non produce occupazione, ma solo speculazione finanziarie. Non è certamente permettendo che la plebe tunisina possa ballare sui letti d’oro della moglie cleptocrate di Ben Alì che il problema strutturale può essere risolto. Ma questo ci porta alla necessità di fare almeno un tentativo di analisi differenziata paese per paese.

L’’insurrezione tunisina è stata una cosa seria, ed è costata centinaia di morti. Si è trattato di un’insurrezione popolare, al principio combattuta non solo dagli apparati di repressione, ma anche dai ceti medi della capitale Tunisi. Nonostante il circo mediatico abbia propalato l’idea che la sua “causa” debba essere cercata nelle ruberie cleptocratiche della famiglia mafiosa allargata di Ben Ali, tutti gli analisti seri sono stati concordi nel fare risalire le vere cause nelle misure economiche del Fondo Monetario Internazionale.

Questa insurrezione ha conseguito il risultato, che mi guardo bene dal disprezzare, di ottenere una ferma costituzionale di tipo democratico e liberale, in cui si possono e si potranno costituire partiti di ogni tipo, da quello islamico a quello trotzkista.

Ma questa forma liberal-democratica non può ovviamente risolvere nessuno dei problemi strutturali della società tunisina. La grande fuga in massa verso la Francia via Lampedusa lo dimostra ampiamente. I disoccupati sanno perfettamente che resteranno disoccupati, e che non saranno i processi al capro espiatorio Ben Alì ed alla sua famiglia mafiosa allargata a dare loro pane e lavoro. Bisogna allora studiare la situazione tunisina da vicino nei prossimi mesi ed anni, per poter verificare se le forme politiche liberal-democratiche possono facilitare una riaggregazione politica comunitaria del popolo tunisino che non si identifichi con l’Islam politico, tradizionalmente debole in Tunisia. Mi sia permesso educatamente di dubitarne, ma chi vivrà vedrà.

Secondo cifre ufficiali, la repressione del regime di Mubarak in Egitto ha fatto 846 morti. È una cifra imponente, tenuto conto del fatto che l’Egitto è un paese moderno, sviluppato e socialmente articolato. Dal momento che la mia conoscenza dell’Egitto passa anche attraverso i romanzi del Premio Nobel Naguib Mahfuz, ricordo i suoi personaggi che tornano a casa storpiati dalla polizia segreta sia nel caso in cui fossero comunisti sia nel caso che fossero islamisti. Qui il ciclista Romano Prodi ha ragione. Un simile sistema non può durare all’infinito in presenza di una società per nulla tribale (come in Libia o nello Yemen), ma colta ed articolata. E tuttavia in Egitto, così come in Tunisia, i problemi strutturali della povertà e della disoccupazione non possono essere risolti con le chiacchiere della signora Clinton.

I Fratelli Musulmani egiziani non sono certo simili ad Al Qaeda di Bin Laden, ma sono una sorta di Democrazia Cristiana seriamente assistenziale, e pertanto non assimilabili con il modello puramente volontaristico del “capitalismo compassionevole” USA, foglia di fico oscena per il rifiuto di finanziare un welfare state di tipo europeo. Non conosco El Baradei, ma il fuoco unanime di sbarramento contro di lui aperto congiuntamente dagli USA e dai vertici dell’esercito egiziano mi fa pensare che sarebbe la soluzione migliore per il popolo egiziano. Il popolo egiziano è un grande popolo, colto e civile, e non credo proprio che sarà facile nei prossimi mesi ed anni prenderlo in giro con riforme cosmetiche di facciata o con semplici processi contro la famiglia allargata di Mubarak. Staremo a vedere.

A proposito della Siria, non vorrei dare adito ad equivoci. Sono completamente a favore del mantenimento al potere del partito Baath, anche se ovviamente non entro nel merito sulle riforme politiche che dovrà fare. I suoi oppositori, fondamentalisti musulmani o blogger occidentalisti, non sono in alcun modo un’alternativa migliore, ma peggiore. Non a caso gli USA e Sarkozy li appoggiano, insieme con l’Arabia Saudita ed Al Jazira, mentre forze politiche serie di cui mi fido (il palestinese Hamas, il libanese Hezbollah, il benemerito governo iraniano di Ahmadinejad) appoggiano il governo del Baath. Non si può sapere tutto, ed essere esperti di tutto. Io non sono un arabista, ma uno storico ed un filosofo. Non credo a cause buone sostenute dai cattivi. Il futuro ci dirà di più.

Ma è della Libia che bisogna soprattutto parlare perchè la Libia è anche un nostro problema. Avevamo firmato un patto di amicizia con il governo libico di Gheddafi, e lo abbiamo vergognosamente stracciato, mostrando ancora una volta agli occhi del mondo la nostra patetica e vergognosa inaffidabilità.

Il giornalista italiano Fulvio Grimaldi, uomo dal cattivo carattere e dal lessico inutilmente provocatorio ed estremista, con cui ho avuto a suo tempo una pittoresca polemica, ha avuto il coraggio giornalistico, umano e civile, di andare in Libia e di raccontare gli eventi “dalla parte di Gheddafi”, a differenza dei cronisti arruolati (embedded), pronti subito a correre trafelati dagli insorti di Bengasi ed a paragonare Misurata a Serajevo, anticamera simbolica sicura per un interventismo ancora più “muscolare” dei bombardamenti NATO. Non posso che lodarlo incondizionatamente e solidarizzare con lui. Il corretto atteggiamento di Grimaldi si contrappone alla posizione dell’ex-comunista Giorgio Napolitano, passato dall’obbedienza geopolitica sovietica all’obbedienza geopolitica USA, e che ha addirittura “premuto” su Berlusconi, indebolito dai suoi senili scandali puttaneschi perchè intervenisse ancora più decisamente a fianco della NATO, che ha sostituito il vecchio “sol dell’avvenire”. E Grimaldi si contrappone anche alla posizione di confusionari estremisti, come il trotzkista Marco Ferrando o l’anti-imperialista Moreno Pasquinelli, che si sono arrampicati grottescamente sugli specchi per conciliare l’appoggio agli insorti libici, dichiarati a priori “rivoluzionari”, ed il fatto che questi ultimi invocano a gran voce i bombardamenti NATO ed USA. Per carità di patria non approfondisco l’osceno “‘tifare” per gli insorti libici del “Manifesto”, del “Punto Rosso”, della signora Rossanda, dei signori Dario Fo e Franca Rame, eccetera. Il problema è infatti ampio, e coincide con la decadenza irreversibile di una intera teoria politica, che ha sostituito la lotta di classe ed il mito sociologico proletario con l’antiberlusconismo giudiziario urlato e con la lotta contro gli eterni dittatori totalitari. Il fatto è che questa gente, pur essendo spiritualmente morti, non sono stati seppelliti, e possono fare come gli zombies, che escono di notte per terrorizzare i viventi. Costoro sono egemonici nell’apparato mediatico detto impropriamente di “sinistra”, ed in questo modo possono silenziare i loro oppositori e confinarli nella galassia sotterranea dei blog. Meno male, comunque, che questi blog esistono, ma non possono che essere una soluzione provvisoria. Prima o poi, bisognerà riuscire a passare ai quotidiani, ai settimanali, alle case editrici. Il vergognoso monopolio di fogli come il “Manifesto” dovrà essere infranto.

Non intendo certo fare qui l’apologia di Gheddafi. Il suo governo quarantennale, indubbiamente carismatico-paternalistitco-dispotico, ha avuto luci ed ombre, come del resto qualsiasi governo quarantennale. Ma ha sviluppato economicamente e socialmente la Libia, e non ha mai ceduto su questioni essenziali di sovranità nazionale. L’occidente ha sempre saputo che Gheddafi non era dei ‘“suoi”, ed infatti lo ha colpito alla prima occasione. Colgo l’occasione per affermare pubblicamente di solidarizzare totalmente con il legittimo governo di Gheddafi, del tutto indipendentemente da come finiranno le cose, che non posso certo prevedere. Ho appoggiato l’onesta proposta di mediazione del benemerito presidente venezuelano Chávez. Ho appoggiato l’onesta proposta di mediazione dell’Unità Africana, organo indubbiamente più legittimo della NATO e degli USA, cui l’Europa vile si è subito accodata. Ma chi vivrà vedrà.

Gli avvenimenti arabi devono però essere l’occasione per un inquadramento più generale nella situazione geopolitica mondiale. Il recante Forum svizzero di Davos (cfr. Federico Rampini in “Repubblica”, 27-1-11) ha verificato sulla base di corredi statistici amplissimi che “in ciascuna nazione del mondo si allarga il baratro fra ricchi e poveri”. È questa la logica inesorabile del neoliberismo, dal reaganismo americano al New Labour di Tony Blair al mercatismo di Deng Hsiao Ping e dei suoi successori. Il sistema politico ha il ruolo di avallare l’approfondimento di queste diseguaglianze. In termini di allargamento delle diseguaglianze, le società occidentali si sono omologate ad India, Cina e Indonesia.

Si tratta del fenomeno che l’economista francese di Bordeaux Bernard Conte ha definito “terzomondizzazione del pianeta”. È interessante che i paperoni oligarchi di Davos circondati da giornalisti servi e da professori universitari corrivi, constatino questi dati che un tempo erano appannaggio dei contestatori più estremisti, nel frattempo approdati al disincanto post-moderno, alla teologia dei diritti umani, ai bombardamenti umanitari ed al canto rituale di “Bella Ciao”.

Come governare un simile sistema irrazionale ed impazzito? Ma il semplice ricorso alla cosiddetta “esportazione del modello occidentalistico” non basta, e non coglie a mio avviso il cuore del problema. Il modello occidentalistico è basato sul privilegio, ed in quanto tale non è esportabile. Non c’’è abbastanza grasso che cola per tutti. Come abbiamo visto, la dinamica della globalizzazione capitalistica finanziaria non è tanto l’occidentalizzazione del mondo, quanto la terzomondizzazione del pianeta. Un mondo del genere può essere governato soltanto “organizzando il Caos”.

Ma come organizzare il Caos? Ce lo spiega il politologo americano Parag Khanna, recensito entusiasticamente dal giornalista neo-conservatore Maurizio Molinari (cfr. “La Stampa”, 27-3-11), in un suo libro intitolato “Come Governare il mondo” (How to run the world). Il mondo si governa organizzando sapientemente il caos, ed il caos si organizza trasformando gli attuali cento stati mondiali, usciti dalla storia degli ultimi tre secoli e dal colonialismo europeo dell’Ottocento, in duemila o tremila a base etnica e tribale. In effetti è l’Uovo di Colombo. Più sono deboli e numerosi gli stati, più gli USA potranno governarli meglio. Gli esempi che fa Khanna sono numerosi. La Libia dovrebbe essere divisa nelle tre precedenti provincie ottomane, la Tripolitania, la Cirenaica ed il Fezzan. L’Afganistan non è che un pezzo della vecchia Persia multietnica , e potrebbe essere diviso fra Pashtun, Tagiki ed Uzbeki. Il Sudan è già stato diviso fra Nord e Sud, ma si può fare ancora di più (Darfur, eccetera). L’Etiopia è già stata divisa fra Etiopia ed Eritrea, ma si può ancora fare di più (amarici ed oromo galla, eccetera). La Nigeria è divisibile fra un Sud cristiano ed un Nord musulmano, erede dell’impero Hausa. I’Irak è divisibile fra arabi e curdi, sunniti e sciiti. Ed in prospettiva, si possono dividere a pezzi ancora molti stati, la Cina (Tibet. e Sinkiang), la Birmania-Myanmar, eccetera.

Parag Khanna ha perfettamente ragione. Se fossi un ben pagato consulente del Dipartimento di Stato USA, scriverei esattamente le cose che scrive lui. Occorre organizzare il Caos, perchè solo organizzando il caos si può continuare a governare, soprattutto in assenza di un credibile modello politico universalistico e comunitario. Uomini come Khanna sono facilitati dal fatto che coloro che dovrebbero opporsi ai loro piani sono come gattini ciechi e come uccellini implumi, invischiati nelle ideologie impotenti del politicamente corretto e dell’interventismo umanitario. Con avversari come Dario Fo e Rossana Rossanda Khanna ha vinto prima ancora di sedersi al tavolo da gioco. Ci vuole infatti un pensiero che recuperi il concetto strategico di “nemico principale”, applicato alla politica, all’economia ed alla geopolitica. Ho scritto in proposito un testo, allegato al numero 2 della rivista torinese “Socialismo XXI”, una rivista che si situa apertamente al di là della dicotomia Destra/Sinistra. Ad esso rimando il rettore interessato. Certo, non si tratta di una chiave universale che apre tutte le porte, e che esenti dall’analisi concreta della situazione concreta. Ma si tratta di una proposta di orientamento di fondo. In caso contrario, continueremo a pasticciare nel fango di chi appoggia contemporaneamente i ribelli arabi ed i bombardamenti NATO, violando non solo il principio aristotelico di contraddizione, ma anche il buon vecchio e sempre vivo buon senso.