lunedì 11 ottobre 2010
IL COMUNISMO E LA QUESTIONE NAZIONALE
di Maurizio Neri
Queste riflessioni nascono dalla necessità di analizzare lo stato presente di cose e di fare qualche ipotesi e previsione sui possibili sviluppi del comunismo.
Dopo la caduta dell’Urss il capitalismo ha potuto fare quel balzo in avanti nell’estensione del suo modello di produzione e di conseguente ridispiegamento delle sue potenzialità di circolazione di capitali e merci che va sotto il nome di "globalizzazione".
La globalizzazione è divenuta in poco tempo la parola d’ordine assunta da ogni analista per descrivere un mondo nuovo, reticolare, intessuto ed innervato da rapporti economici che in una sorta di Tela di Penelope avvolgono il pianeta.
Esiste, però, a parere di chi scrive uno "sviluppo ineguale" del capitalismo globalizzatore che non ha la stessa composizione e natura, a seconda che si tratti dell’Occidente e dei paesi che hanno marciato alla sua stessa velocità nella strutturazione dei rapporti di produzione e le periferie dell’Impero che in molti casi sono ancora ferme ad un capitalismo di stampo ottocentesco basato su forme di produzione legate ad una manodopera ridotta in condizione di sfruttamento prossime allo schiavismo.
Quando parliamo della globalizzazione dovremmo fare attenzione a non confondere la situazione di chi ha e detiene il potere di mutare le forme di produzione (paesi ricchi)e di chi le subisce passivamente (paesi poveri) adattando le proprie risorse umane alle necessità produttive dei primi.
Partendo da questo assunto la conseguenza è che molti paesi hanno saltato il passaggio dal proto-capitalismo alla formazione di un tessuto economico che contempli una divisione in classi così come concepita da Marx nei paesi ad avanzato sviluppo industriale con una borghesia imprenditoriale ed una classe operaia in contrapposizione con la prima.
Tutto questo è assente nei paesi "periferici" dove al più si rinviene una borghesia "compradora" locale di natura oligarchica legata a centri di potere internazionali, ma che in termini di sviluppo dei rapporti di produzione è ancora arcaica , legata a fattori come il possesso di terra o a traffici spesso di natura illegale che le permettono di mantenere una posizione di comando "interna" tramite la corruzione.
Molti di questi paesi che negli anni sessanta e settanta avevano lottato per la loro indipendenza dai regimi coloniali che dall’Ottocento avevano stabilito un regime di dipendenza diretta con molti paesi europei, sono stati "riassorbiti" da un nuovo colonialismo soprattutto grazie alla sconfitta del campo socialista.
In Africa, in Asia ed anche in Sudamerica, dove la lotta dei movimenti di liberazione, di ispirazione comunista e socialista, è stata sconfitta dagli apparati militari nazionali legati a doppio filo con gli Usa, ovunque si è registrata o la caduta dei regimi che avevano preso il potere dopo la liberazione oppure ad un loro progressivo riallineamento alle direttive del nemico di ieri.
Per alcuni, penso al Vietnam, ma non è l’unico caso, si è trattato del classico "bere o affogare" poiché oggi l’essere esclusi dal consesso del commercio internazionale equivale ad una condanna a morte, come hanno dimostrato i drammatici casi di Cuba, Irak, Iran e tanti altri paesi, affamati da anni di embargo.
Le cause di questo fenomeno sono molteplici, non ultima la caduta dell’URSS e del Comecon che garantiva un interscambio, seppur minimo, tra i paesi socialisti, ma quel che colpisce oggi è che non esiste allo stato un "modello socio - economico" che un Paese possa oggi adottare in alternativa al capitalismo che possa avere la chance di durare più di un giorno.
Non esistendo più il paese di "riferimento", l’Unione Sovietica, oggi Russia, prossima ad entrare addirittura nella Nato, non esistendo una "sinistra" in Europa che sappia ancora declinare il socialismo come via alternativa al capitalismo, se non con istanze confuse e contraddittorie, allo stato l’opposizione all’imperialismo è interpretata su base nazionale, religiosa ed identitaria come rifiuto della dominazione altrui in casa propria.
Come si pongono i comunisti davanti a questi fenomeni nuovi, frutto anch’essi della esasperata dominazione non solo economica, ma culturale, militare ed antropologica che l’Occidente produce e sussume nel termine di "comunità internazionale"?
Oscillano paurosamente tra incomprensioni di fondo dettate dal mancato riconoscimento della "questione nazionale" come fattore di mobilitazione da indirizzare su posizioni comuniste per vecchie interpretazioni legate alla "demonizzazione" di tutto ciò che è la complessità dei fattori culturali, psicologici , religiosi, che compongono la questione nazionale, lette come meri artifizi sovrastrutturali che inficiano l’unita’ dei lavoratori su base universale.
Bisognerebbe, però, ricordare che ogni volta che negli anni sessanta e settanta i movimenti comunisti, socialisti ,anticoloniali ed antiimperialisti hanno vinto, da Cuba al Vietnam dall' Algeria al Congo lo hanno fatto perché hanno saputo interpretare alla luce del comunismo/socialismo le aspirazioni ed i caratteri costitutivi di un "determinato paese". Ciò non ha impedito, di certo, a Guevara che coniò il famoso "Patria o Muerte" di andare a combattere, da convinto internazionalista qual’era, in Africa per liberare quei popoli dalla schiavitù imposta da regimi fantoccio al soldo degli occidentali ed a molti movimenti di liberazione nazionale dell’epoca di lottare in stretta collaborazione internazionalista.
A scanso di equivoci la diatriba tra quelli che auspicano il "socialismo in un solo paese" o quelli che parlano di "rivoluzione globale" la trovo assai poco pertinente ed anche fuori tempo massimo, essendo legata da una fase storica ben determinata e circoscritta e sicuramente non attuale, ma se dovessi esprimere il mio parere sulla questione allora opterei per un’altra formulazione di prospettiva.
Se quanto da me esposto sinora ha una conseguenza questa non può che essere che nell’epoca della globalizzazione e probabilmente a causa di essa e degli effetti che essa comporta e determina, la questione della "identità" o questione "comunitaria "è diventata ineludibile per chiunque voglia fare politica sulla base di una futura opzione comunista senza scadere nell’"astrattismo".
Ciò vuol dire che il Comunismo, che rimane sempre la ricerca di una società nella quale non esista più lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dovrà, comunque, avere sviluppi diversi a seconda dei paesi nei quali otterrà il consenso. Sviluppi e cammini diversi, non esiti diversi, che si raccordino strettamente alla questione nazionale vista come elemento di crescita progressista della comunità dei lavoratori, individui liberati e solidali, ma non deracinès dal contesto identitario nel quale operano e svolgono il loro ruolo di classe. Diversi Socialismi in diversi paesi uniti da una solidarietà internazionalista che li faccia procedere uniti quando sarà il momento di affrontare la prevedibile reazione capitalista.
La ricchezza di espressioni che le diverse forme potranno apportare al Comunismo, tenendo ben saldo l’obiettivo finale ed irrinunciabile della liberazione dell’ Uomo da ogni forma di sfruttamento basata sul lavoro salariato, è essenziale per dare ossigeno all’ asfittica idea comunista, oggi in crisi e minoritaria in tutto il mondo.
Per questo motivo la partecipazione dei comunisti alle istanze di liberazione dei popoli , all’interno di un fronte vasto e articolato, anche eterogeneo ed a guida borghese, è essenziale in molti paesi "periferici", perché ogni passo in avanti nella liberazione di un popolo dalla catena imperiale è una chance in più per il Socialismo soprattutto se saprà interpretare al meglio la cultura e l’ identità peculiare della propria realtà alla luce dei suoi obiettivi di emancipazione. Basta accorgersene.
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