sabato 16 ottobre 2010

Afghanistan / I cacciabombardieri italiani già attaccano. Ma «non è guerra»
 
di Manlio Dinucci

«In Afghanistan non stiamo facendo nessuna guerra», assicura Piero Fassino, responsabile esteri del Pd (il manifesto, 10 ottobre). Ritiene quindi giusto che il Parlamento valuti se l’attuale livello di sicurezza dei nostri soldati, mandati là a «difendere le popolazioni civili», sia adeguato o meno, spianando così la strada alla proposta del ministro La Russa di armare di bombe i caccia Amx. «Un esercito che porta la pace», spiega Fassino, «spara per secondo e lo fa solo se attaccato». E’ in base allo stesso criterio che il governo ha autorizzato i piloti degli Amx a usare il  cannone di bordo se vengono attaccati, quando vanno all’attacco in supporto delle forze terrestri, indicando loro gli obiettivi da colpire



Il cannone di bordo è, in Afghanistan, più efficace delle stesse bombe per colpire gruppi di combattenti (o presunti tali) che si muovono a piedi o con veicoli leggeri.  I caccia Amx sono armati del cannone M-61 A1 Vulcan della statunitense General Electric: un’arma a 6 canne rotanti con calibro da 20 mm, in grado di sparare fino a 6mila colpi al minuto. I proiettili sono di vario tipo: incendiari ad alto esplosivo che, combinando i due effetti, uccidono nel raggio di alcuni metri dal punto di impatto; penetranti e incendiari che, usati contro camion e veicoli corazzati leggeri, forano la lamiera ed esplodono all’interno la carica incendiaria. Sicuramente i piloti degli Amx, che hanno già effettuato centinaia di missioni in Afghanistan per un totale di oltre 1500 ore di volo, usano il cannone di bordo, cosa che sono autorizzati a fare. Basta che sparino per secondi.
Nella guerra contro la Jugoslavia, nel 1999, invece spararono e bombardarono per primi. I caccia italiani Amx Ghibli, nel loro «battesimo del fuoco», effettuarono dalla base di Amendola ben 652 sortite per un totale di 667 ore, lanciando centinaia di bombe statunitensi Mk.82 da 500 libbre e Opher israeliane con guida a raggi infrarossi. Fassino assicura che, come in Afghanistan, «nei Balcani non siamo andati a fare la guerra ma a difendere le popolazioni civili». Lo contraddice però D’Alema che, in visita alla base di Amendola in veste di presidente del consiglio, dichiarò il 10 giugno 1999: «Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli Usa, l’Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell’impegno dimostrato in questa guerra».
Dieci anni dopo, sotto il governo Berlusconi, i piloti degli Amx, già forti di questa esperienza bellica, sono stati inviati negli Usa, nella base aerea Nellis (Nevada), ad addestrarsi per la nuova guerra poco prima del loro invio in Afghanistan. Dieci caccia Amx, con un personale di 180 militari, hanno partecipato nell’agosto e settembre 2009 a due esercitazioni, Green Flag e Red Flag. I piloti si sono addestrati in missioni di attacco, comprese quelle di bombardamento, insieme alla U.S. Air Force. Sono stati quindi preparati  a operare in Afghanistan sotto comando statunitense, nel quadro di quello che Fassino definisce «un esercito che porta la pace».
Rovesciando i ruoli, è un generale a dire come stanno le cose. «Di guerra si tratta – afferma il gen. Fabio Mini (l’Unità, 11 ottobre) – e le intenzioni reali non sono quelle proclamate di aiutare gli afghani». E, in una intervista al manifesto (12 ott.), dichiara: «Per avere nuove bombe e armi stanno speculando sui soldati morti». Il vero scopo è dimostrare che gli aerei da combattimento servono, così da trovare i soldi per l’acquisizione dei caccia statunitensi F-35. Che, garantisce Fassino, spareranno per secondi, solo se attaccati. 

(il manifesto, 12 ottobre 2010)

venerdì 15 ottobre 2010

Capitalismo e crisi globale, l’attualità del pensiero di Giovanni Arrighi

arrighi3di Giorgio Cesarale - Micromega


Nel dibattito sulla attuale crisi economica globale è diventato ormai quasi senso comune la critica all’incapacità della scienza economica dominante di indicare e interpretare adeguatamente le cause di questa crisi, e in particolare di uno dei suoi fenomeni più abbaglianti, e cioè il processo di finanziarizzazione.
Che legami ha questo processo con ciò che, peraltro impropriamente, si chiama “economia reale”? Che nesso vi è fra questo processo e la vorticosa espansione economica di intere regioni del pianeta (il Sud-est asiatico delle quattro “tigri”, della Cina, del Vietnam ecc.)? Quale ruolo giocano in esso gli Stati, da quelli in ascesa a quelli in più evidente difficoltà? Sono domande cruciali, che obbligano a fornire una risposta alta e convincente. D’altro canto, per rispondere a queste domande è necessario collocare l’attuale crisi e la turbolenza globale che l'accompagna entro un orizzonte storico e geografico più largo. Uno “sguardo corto” sulla crisi è precisamente ciò che può impedire di comprenderla in tutta la sua complessità. E tuttavia è proprio da questo “sguardo corto” che la maggior parte degli osservatori e degli studiosi appare caratterizzata. Le eccezioni sono rare: tra queste c’è Giovanni Arrighi (1937-2009), una delle figure più rilevanti, insieme ad Andre Gunder Frank, Immanuel Wallerstein e Terence Hopkins, dell’approccio “sistemico” allo studio della storia e della struttura del capitalismo globale, dei movimenti sociali anticapitalistici, delle disuguaglianze mondiali di reddito e dei processi di modernizzazione. Nel discorso di Arrighi l’attuale crisi e l’inarrestabile processo di finanziarizzazione che le si collega sono interpretati alla luce dell’intera traiettoria di sviluppo del capitalismo mondiale, dalle città-Stato italiane rinascimentali all’ascesa degli Stati uniti alla guida del sistema economico internazionale. In questa prospettiva, il processo di finanziarizzazione che segna la nostra epoca deve essere inteso sia come sintomo della decadenza dello Stato attualmente egemone a livello internazionale, gli Stati uniti, sia come condizione della riapertura, in un diverso contesto geografico, di un nuovo ciclo di espansione economica “materiale” (industriale e commerciale).
L’eccezionalità della figura di Arrighi, il quale, e non solo ai nostri occhi, appare come uno dei massimi studiosi dell’economia-mondo capitalistica della seconda metà del Novecento, ci fa ritenere che siano ormai giunti i tempi per avviare una riflessione a tutto tondo sulla sua opera. È un compito, questo, di cui anche altrove si è espressa l’importanza, e di cui urge preparare le condizioni di realizzazione. È anche a tale scopo che è stata concepita la presente iniziativa editoriale: essa infatti contiene materiali – dall’intervista autobiografica concessa quasi in punto di morte a David Harvey (uno dei più insigni teorici marxisti contemporanei, autore de La crisi della modernità e Breve storia del neoliberismo) ad alcuni dei più importanti, e ancora inediti in italiano, saggi di teoria sociale e di interpretazione storica scritti da Arrighi – che possono aiutare a ricostruire meglio il suo profilo intellettuale complessivo, il senso della sua operazione teorica.
Su questi scritti e sulle ragioni che ci hanno condotto a proporne la traduzione in italiano diremo qualcosa al termine dell’introduzione. In via preliminare, tuttavia, vorremmo provare a offrire al lettore il nostro punto di vista sia sull’itinerario intellettuale percorso da Arrighi sia sul significato della sua opera.

http://www.cometa-online.it/index.php?option=com_content&view=article&id=986%3Acapitalismo-e-crisi-globale-lattualita-del-pensiero-di-giovanni-arrighi&catid=36%3Aetica&Itemid=50

giovedì 14 ottobre 2010

Contro il nuovo patto sociale















Area Programmatica “La CGIL che vogliamo”: il futuro Movimento Anticapitalista italiano? 
 
  

 
di Eugenio Orso

 

Venerdì 24 settembre ho partecipato alla costituzione dell’Area Programmatica “La
CGIL che vogliamo” in provincia di Trieste, città in cui lavoro e in cui risulto uno
dei tanti tesserati Fiom.
L’incontro fondativo dell’Area è avvenuto di pomeriggio, nella Casa del Popolo
[ebbene sì, le Case del Popolo esistono ancora, pur non essendo esattamente quelle
dei tempi “arcadico‐guareschiani” di Peppone e Don Camillo] in quel di Borgo San
Sergio alla periferia di Trieste.
Le componenti sindacali presenti in loco, con prevalenza di membri dei direttivi,
erano quelle solite dei metalmeccanici Fiom, della Funzione Pubblica e dei bancari
all’interno della CGIL – coloro che hanno sostenuto la mozione congressuale
numero due, per intenderci, in contrapposto alla CGIL burocratico‐formale e
“attendista” di Guglielmo Epifani – ma l’incontro era aperto a tutti i lavoratori
interessati, senza preclusioni di sorta, così come dovrebbe essere quando si cerca di
“riattivare” in situazioni sociali difficili l’efficacia dell’azione sindacale, e di
estendere la base del consenso a tutta l’area del lavoro dipendente, intellettuale e
materiale, impiegatizio e operaio, pubblico e privato, sfruttato e ri‐plebeizzato da
questo capitalismo con l’evidente complicità della politica “ufficiale” e del
sindacalismo giallo.
Atteso in apertura dei lavori l’intervento di Giorgio Cremaschi, che personalmente
si pone come uno fra i tanti fondatori dell’Area, ma che molti militanti riconoscono
spontaneamente [è inutile negarlo perché in questo non c’è niente di male] come la
figura di riferimento, e un vero leader, in un clima di libertà di pensiero e di critica
che in futuro dovrà caratterizzare l’Area Programmatica ed estendersi a tutta la
CGIL.
Quando le situazioni diventano difficili e i passaggi da affrontare sono passaggi
storici, come accade oggi in Italia, gli aspetti burocratici e l’ordine gerarchico, se
d’ostacolo all’elaborazione del nuovo e al cambiamento, si possono superare più
facilmente, e la costruzione del nuovo, alla quale tutti sono chiamati a partecipare
prescindendo dalle posizioni gerarchiche precedenti, non può che essere frutto di
un’azione collettiva, in cui ogni singolo attore è importante, ed in cui pesa il libero
contributo di ciascuno.
Abbiamo alle spalle quasi un trentennio di attacchi mirati al lavoro, di deemancipazione,
di manipolazioni giuslavoristiche orientate alla precarietà e alla
demolizione delle garanzie pregresse, di privatizzazioni selvagge, di
“liberalizzazioni” devastanti e di svendite al grande capitale del patrimonio
pubblico





Continua qui:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=1621













martedì 12 ottobre 2010

Il comunismo? Ipotesi plausibile. 
I comunisti? Dio ce ne scampi





di Costanzo Preve - 08/06/2006     


La Storia Reale ed il Culto della Talpa

Segue 2

(6) Bene, ho elencato sei fattori storici. Sebbene la chiacchiera ideologica irresponsabile mi dipinga come anti-operaio, e non lo sono per nulla, ci avrei aggiunto volentieri (anzi volentierissimo) anche le lotte operaie, se però queste ultime oggi nel mondo ci fossero, al di là di poco rilevanti anche se rispettabilissimi scioperi contrattuali. Non è colpa mia se il movimento operaio nei paesi occidentali ha smesso di essere un fattore storico-politico anticapitalistico ed anti-imperialistico e si è dato direzioni sindacali favorevoli a bombardare la Jugoslavia nel 1999 e l’Irak nel 2003, giungendo a berciare che i veri “resistenti” a Bagdad sono coloro che sono andati a votare. Prendersela con Preve mi sembra veramente demenziale.


Se le cose stanno così, allora, e se i sei fattori storici che ho indicato sono tutti estranei al “comunismo” nel senso di Marx, eretico e/o ortodosso che sia, che senso ha allora mettersi nell’ottica oggi di formare organizzazioni neo-comuniste, che non potrebbero necessariamente che essere ideologicamente cementate da una particolare ideologia di appartenenza basata su di una particolare ed esclusiva interpretazione di Marx?

Le ragioni che sconsigliano questa scelta sono molte, ma qui ho a disposizione solo un articolo, e non un libro intero. Mi limiterò a ricordarne solo due, una teorica ed una pratico-politica. Esaminiamole separatamente.

7. La ragione teorica principale che sconsiglia la formazione di gruppi neo-comunisti sta nel fatto che il neo-comunismo, comunque definito, presuppone una salda interpretazione filosofico-scientifica di Marx.

Ma essa non esiste. E allora gridare “bussola! bussola!”, e poi prendere il mare senza bussola, e credere che al posto della bussola ci possa essere la soggettiva volontà al sacrificio è da incoscienti.

Una parentesi marxiana. In Marx ci sono almeno due modelli diversi di anticapitalismo. Il modello maggioritario occidentale, basato sullo stato comunista dei lavoratori, ed un modello minoritario che definirei di “socialismo comunitario”, anticipato da Marx in una famosa lettera a Vera Zassulich in cui faceva l’ipotesi che la comunità russa del mir potesse evolvere direttamente verso la produzione comunista senza dover ad ogni costo passare per la via dello sviluppo capitalistico totale.

Sia lo stato comunista dei lavoratori sia il socialismo comunitario sono modelli evocati da Marx. Il primo modello è stato tentato dal comunismo storico novecentesco recentemente defunto (1917-1991), e chi mi legge sa bene che non credo nella favoletta trotzkista per cui come modello andava bene, ma purtroppo la cattiva burocrazia ha rovinato tutto e possiamo allora provarci una seconda volta, ma senza burocrazia, perché l’automatismo informatico potrà farne a meno. Si continui pure con questa litania, anche se è meglio Alice nel paese delle meraviglie.

Il secondo modello non è mai stato tentato, e non è affatto detto che riuscirebbe. Comunque, meglio tentare questa prospettiva che intestardirsi a riprovare sempre la prima, smentita trecento volte. Questo modello implica economia della decrescita, vincoli ecologici forti, libertà e democrazia, valorizzazione delle etnie comunitarie e dei piccoli popoli, dagli aymarà della Bolivia ai baschi, eccetera.

Se è così, però, e se la via del socialismo comunitario e democratico con forti elementi di cosiddetta “economia mista” non coincide con la via già provata dello stato comunista dei lavoratori a nazionalizzazione integrale dei mezzi di produzione, allora perché fare un partitino neocomunista? Il partitino comunista, sia pure inizialmente fatto solo di venti persone (e questo per me non sarebbe un argomento contrario, perché si parte sempre in pochi, ed il fatto di crescere o meno è legato alla correttezza della propria cultura politica - ho detto cultura politica, non linea politica), è uno strumento solo per la prima via, non per la seconda. La seconda via, se ci fosse realmente l’intenzione di percorrerla, (ed attenzione, è la via di Hamas e di Morales, non importa se le premesse religiose sono le stesse oppure no), non è compatibile con un partitino neocomunista.

8. La ragione pratico-politica che sconsiglia la via del partitino neocomunista riguarda la nicchia settaria e vocazionalmente minoritaria dell’ambiente che si ripromette questo programma neocomunista.

Questa nicchia la conosciamo bene tutti. E’ una nicchia di fanatici identitari a base ideologica che si definisce in base ad una piattaforma ideologica che non intende in nessun modo mettere in discussione. Ci sono i neobordighisti, i neotrotzkisti, i neotogliattiani, i neostalinisti, i neooperaisti, i neoanarchici, eccetera, e tutti sono determinati a difendere fanaticamente il loro spazietto, perché tutti sono convinti di difendere la Verità Rivelata contro la contaminazione di bande verminose di piccolo-borghesi, traditori, infiltrati fascisti ed altri mostri alla Goya. Tutto quello che fanno è prevedibile. E’ prevedibile che il gruppo di Ferrando si spacchi fra trotzkisti puri e parlamentari tattici. E’ prevedibile che i no-global si spacchino fra Casarini e Caruso e fra basisti attivisti e pagliacci del circo bertinottiano. Eccetera, eccetera. Questa nicchia è composta da individui in buona parte (non tutti, evidentemente, vi sono anche persone splendide, anche se poche) talmente ideologizzati da distruggere tutti i rapporti umani non ideologizzabili, che appunto per questo non possono apparire come “modelli di comunismo”, e cioè di vita normale, solidale e fraterna per gli altri. Io conosco bene questo ambiente. Quando cominci a non condividere più le scelte tattiche (e non dico strategiche, che almeno capirci, ma proprio tattiche!) si rompono amicizie, si alzano gossip diffamatori, e si alza tutta la demenziale merda ideologica.

Mi chiedo che senso abbia ripetere sempre questo inferno.

A mia conoscenza, solo i maniaci del gioco d’azzardo si incaponiscono nel ripetere ossessivamente questi scenari perfettamente prevedibili.

9. Naturalmente, il problema del “comunismo” resta completamente legittimo, e bisogna allora capire in che senso.

E qui mi spiace per il lettore esclusivamente assuefatto ai fumi ideologici inebrianti, ma ci vuole un po’ di sana filosofia integralmente filosofica.

I concetti non si consumano, mentre le parole che li esprimono e li connotano si consumano con il loro uso nella storia. Lungi dall’essere polarmente opposti, come ritengono tutti i dilettanti, idealismo e materialismo esprimono due realtà largamente complementari, l’idealismo quella della permanenza dei concetti e il materialismo quella del loro consumo “materiale” nella storia. Il concetto di comunismo (e trascuro qui i suoi vari significati, la cui elencazione telegrafica prenderebbe l’intero numero della rivista) è immutabile, e significa contestazione radicale alla logica distruttiva e reificante (reificante = la cosa al posto dell’uomo) della produzione capitalistica, In questo senso il comunismo è forte oggi come ieri, e lo sarà domani. I concetti della filosofia politica sono indistruttibili, fino a quando almeno permane la realtà storica di riferimento che connotano. Le parole però si possono consumare fino a diventare irriconoscibili. Pensiamo al “comunismo” di Pol Pot, o al comunismo di Occhetto, D’Alema, Cossutta e Bertinotti, a metà fra “chi vi paga?”, quote rosa, guerra e bombardamenti all’uranio impoverito, foto ghignanti con il generale americano Clark, nepotismo familistico e bande politicamente corrette e radical chic dei terrazzi romaneschi per ex-proletari con le pezze al sedere. Il “comunismo” come concetto resta immutato, ma il comunismo come parola sprofonda in un lago di sangue, fango e merda.

Eppure il comunismo come concetto, nel senso reale e razionale di Hegel e del suo allievo barbuto Marx, resta sempre attuale. E resta attuale il socialismo, nonostante Craxi e Solana, il laburismo nonostante Blair, eccetera. Ma, appunto, bisogna distinguere con grande chiarezza fra il comunismo, che appunto è in crisi profonda (direbbe Nenni, il movimento per ora non si muove) e il programma di ricostituzione di partitini o gruppuscoli di tipo neocomunista. Sì al primo, no ai secondi. Bastano per ora a mio avviso movimenti democratico-comunitari (tipo i NO-TAV della Val di Susa, cui va il mio più totale e sincero appoggio), movimenti di solidarietà internazionalistica (tipo solidarietà a Irak e Palestina, eccetera) ed infine reti di cultura e dialogo politico. Parlo ovviamente del presente. Non escludo infatti in futuro che, ove nascessero movimenti sistemici che ponessero veramente i due problemi fondamentali per l’Europa (modello economico alternativo al capitale finanziario e soprattutto espulsione delle basi militari USA dall’Europa), movimenti oggi inesistenti e che a mio avviso non sarebbero facilitati dalla semplice esistenza di partitini neocomunisti di nicchia, non si possa seriamente porre il problema della costituzione di una forza politica. Alla Lenin 1903, io ne sarei favorevole, in quanto non sono un anarchico. Ma anche in questo caso ritengo più probabile che si dovrebbe costituire una forza di socialismo comunitario (alla Chavez, per intendersi, anche se con meno caudillismo, che l’Europa non amerebbe), piuttosto che un’inutile replicazione dopo cent’anni del modello partitico di Lenin, modello che si basava su di una interpretazione di Marx che considero obsoleta, non perché fosse falsa allora (allora anzi era sensata, più di quella di Kautsky, e mille volte di più delle confusioni operaistiche alla Luxemburg), ma perché oggi non funzionerebbe più, in una situazione di terziarizzazione economica e di tramonto relativo della produzione industriale di fabbrica. In paesi come il Nepal, in cui c’è un problema di riforma agraria radicale contro il latifondo e la monarchia semifeudale, credo che il modello della guerra partigiana maoista di lunga durata sia razionale e positivo, ed infatti io ne sono solidale (per quanto ne so, ovviamente). Ma l’Italia non è il Nepal e l’Europa non è il subcontinente indiano.

10. Vorrei concludere ritornando alla questione del partitino neocomunista, in cui la pretesa “eresia” non sarebbe che la micro-ortodossia di riferimento identitario del gruppo.

Mi chiedo come sia potuta nascere l’idea che il sottoscritto, Costanzo Preve, potesse essere il guru, il teorico, l’ispiratore di un simile progetto neocomunista. E’ necessario rassicurare tutti i CARC del mondo. Preve non si è mai sognato di candidarsi ad una simile funzione. Se avessi voluto fare il consigliere del principe, mi sarei arruffianato prima con il PCI, e poi con Cossutta e Bertinotti, imparando il gergo di mutua assicurazione di fedeltà di cordata e di sottomissione al capo con i dialetti necessari (continuista togliattiano-antifascista con Cossutta e sindacalista-massimalista-frou-frou-femminista-transessuale con Bertinotti).

Pensavo che scrivendo tonnellate di carta, di cui alcuni quintali utilizzabili ed alcuni chili ben riusciti, avrei dissipato ogni equivoco. Errore. Io ritengo di stare vivendo in una crisi epocale di transizione (diciamo così, 1980-2020), in cui come Mosè non vedrò nessuna terra promessa e mi è sufficiente non essere finito come i pidocchetti sessantottini miei coetanei, passati dalle rauche grida di morte ai baschi neri al leccaggio del sedere dell’impero americano e del sionismo. Lo considero una grande vittoria della mia vita, e mi basta ed avanza. I CARC si rassicurino, e tornino a scambiare la loro disponibilità soggettiva ai sacrifici dell’anticapitalismo militante con il possesso di una teoria scientifica di orientamento storico. Prima o poi, capiranno anche loro che non basta un martire per fare giusta una causa.

11. Per finire, un educato consiglio ai miei compagni ed amici di “Eretica”.

 Chi crede di poter essere eretico e contemporaneamente far politica nel piccolo mondo di nicchia intergruppi del rissoso neocomunismo settario è proprio fuori dal mondo. Chi vuole relazionarsi con questo piccolo mondo rissoso deve assolutamente compatibilizzarsi col PCES, e cioè con il Politicamente Corretto di Estrema Sinistra. Ti vuoi relazionare con i CARC? Bene, togliti dalla testa le tue velleità eretiche. Dovrai accettare due dogmi del PCES, e cioè il laicismo, per cui se qualcuno crede in Dio o in Allah crede in nemici del proletariato ateo e materialista, e l’antifascismo in assenza completa di fascismo (defunto nel 1945, e dopo risuscitato solo come golpismo imperiale americano, e quindi non come fascismo vero e proprio).

Chi pensa di essere eretico accettando l’ortodossia del politicamente corretto di estrema sinistra non è un vero eretico. E’ un eretico alla mortadella, un Prodi che si porta la borsa da solo anziché avere uno schiavetto strapagato che lo fa. Si pensa forse che essere eretici consista nel fare dotte dissertazioni su Sartre criticando il già più volte seppellito Stalin mentre si accettano tutti i tabù della nicchia? Io non parlo di me. Personalmente non mi ritengo un eretico, e non so neppure esattamente che cosa voglia dire questa parola in assenza totale di ortodossia, nel frattempo morta, sepolta e dissolta. Parlo a chi invece vuole essere eretico e su questa “eresia” rifondare il suo “nuovo comunismo”. Questo altro comunismo, come tutti indistintamente gli altrismi, ha il difetto di tutti gli altrismi, e cioè di non potersi determinare mai se non come vaga negatività. Non siamo questo, non siamo quest’altro. Siamo “altri”. E allora, come diceva Marx a proposito dei “socialisti feudali” del suo tempo, quando la gente vedrà che sul sedere avete stampati i vecchi soliti stemmi del comunismo storico novecentesco, eretici o ortodossi che siano, scapperà a gambe levate, perché non vuole tornare a recitare i vecchi copioni politicamente corretti di estrema sinistra, con i bordighisti che con matematica certezza si scinderanno in due e i trotzkisti che con altrettanto matematica certezza si scinderanno in quattro, mentre Luxuria, Caruso, la Menapace, Gennaro Migliore, eccetera, almeno andranno in pensione con trattamenti d’oro e potranno pagarsi tutte le badanti moldave che vorranno.

POST-SCRIPTUM

Sul numero 2 di “Eretica” c’è un attacco nominativo nei miei confronti firmalo CARC (un’entità collettiva, modo meraviglioso di nascondere l’identità intellettuale personale in un complesso anonimo). Agli attacchi del gossip informatico non rispondo mai per principio, perché si fondano sul principio dell’anonimità e dello pseudonimo, lo stesso principio della mafia, camorra e ndrangheta. Qui però l’attacco nominativo è firmato, sia pure da una sigla collettiva, ed è bene allora che chiarisca le cose nominativamente, non tanto per il CARC (il cui argomento surreale di fondo è che io intendo praticare una libertà che la borghesia non concede ai proletari-bravi, in questo modo siete sulla strada buona per rifondare il comunismo oggi), quanto perché si solleva il tema della mia pericolosa collaborazione e contiguità con riviste ed editori di “destra”, tema indubbiamente d’interesse generale e che merita una risposta scritta e chiara, visto che da tempo il mormorio malevolo di chi mi accusa (generalmente senza leggermi, e qui siamo al di sotto dei metodi inquisitori classici, che almeno leggevano attentamente coloro che volevano processare) si accompagna all’assordante e sgradevole silenzio di chi mi conosce bene, e dovrebbe avere avuto da tempo il buon senso e la generosità di difendermi. Ma al peggio non c’è mai limite. Ed allora cerchiamo di tornare sulla questione, senza sottrarci a nessuna domanda imbarazzante. Io non sono infatti per nulla imbarazzato, in quanto ritengo di avere la coscienza a posto su tutti i piani, etico, politico e culturale.

Da alcuni anni scrivo anche sui muri che considero ormai obsoleta la contrapposizione fra Destra e Sinistra, diventata una protesi artificiale di una realtà elettorale manipolata virtuale che deve impedire la visibilità della nuova contraddizione fondamentale dei nostri tempi (o almeno di quella che ritengo tale), la contraddizione fra l’imperialismo americano e il resto dei popoli del mondo. Con questo non ritengo affatto finite le contraddizioni sociali di classe (non attribuitemi questa idiozia, per favore!), ma le ritengo, per dirla alla Althusser, “surdeterminate” per ora a questa contraddizione principale, per cui, se proprio un “fronte popolare” si deve fare (ed io sono retrospettivamente favorevole a questa tattica degli anni trenta, e contrario al “classe contro classe” o al proletariato contro tutti di tipo trotzkisteggiante), si deve fare oggi contro l’impero americano. Dopo si vedrà. Chiarisco ancora contro il lettore malevolo e prevenuto che io non dico affatto che la dicotomia Destra/Sinistra sia finita dovunque e per sempre. Non lo penso affatto. Qui da noi è finita, ed il PCI-DS D’Alema è del tutto intercambiabile con il MSI-AN Fini, e sia la mussolineria (a destra) che la bertinotteria (a sinistra) sono semplicemente guardie plebee subalterne che portano voti ad un’identica politica di subalternità agli USA. Nel mondo considero positive e da appoggiare sia forze indiscutibilmente di sinistra (partigiani in Nepal, Chavez in Venezuela, Morales in Bolivia, eccetera) sia forze che la bertinotteria politicamente corretta considererebbe di “destra” (Hamas in Palestina, Ahmadinejad in Iran, eccetera). Inoltre per il futuro non mi pronuncio. Non escludo infatti che la dicotomia potrebbe anche rivitalizzarsi, ma per ora non ne vedo le condizioni.

Torniamo a noi. Ho sempre scritto che non credo più nella dicotomia, ma evidentemente non sono stato preso sul serio. In Italia prevale infatti una lunga durata di ipocrisia gesuitica e di divorzio programmatico fra parole e fatti.

D’Alema partecipa salmodiando alla marcia Perugia-Assisi negli stessi giorni in cui bombarda Belgrado al servizio della strategia geopolitica USA di occupazione dei Balcani fingendo un genocidio inesistente e certificato come inesistente dagli osservatori OSCE. Toni Negri esalta la distruzione teurgica di moltitudini comuniste incazzate mentre nello stesso tempo è portato in palmo di mano dai giornali dell’oligarchia americana, che capiscono bene come i suoi deliri non sono per nulla pericolosi. In questo baccanale di schizofrenia fra parole e fatti si è pensato che anche il povero Preve abbia detto questo, ma senza crederci veramente.

Il politicamente corretto permette infatti certe enormità solo agli artisti tipo Giorgio Gaber, in quanto si dà per scontato che l’artista sia geniale ma pazzo, e soprattutto irresponsabile.

E invece io lo penso veramente. Di conseguenza, per me le edizioni Settimo Sigillo ed All’insegna del Veltro sono esattamente come, né più né meno, le edizioni Manifestolibri o Editori Riuniti. oppure se vogliamo Rizzoli e Mondadori. Se potessi pubblicare da Rizzoli e Mondadori lo farei certamente, perché hanno un’ottima catena distributiva ed un buon ufficio stampa per le recensioni e gli invii gratuiti, e nessuno mi criticherebbe. Eppure Rizzoli pubblica la Fallaci e Mondadori pubblica Magdi Allam. Vorrei allora che tutti i vigilanti che mi criticano rispondessero a questa semplice e precisa domanda: ove il termine “fascismo” significasse negatività assoluta e totale, sono più “fascisti” oggi (ripeto, oggi) Julius Evola e David Irving oppure Oriana Fallaci e Magdi Allam? E allora perché diavolo ve la prendete con il Settimo Sigillo e con All’insegna del Veltro e non con la Rizzoli e con la Mondadori?

Naturalmente io so bene perché, e fra poco lo chiarirò. Ma per ora sono costretto ad aprire una sgradevole parentesi personale su come io vedo il famoso “fascismo”, non perché abbia la minima importanza, ma perché il rumore di fondo del gossip diffamatorio ha imbarazzato quelle poche decine di persone alla cui stima tengo (non sono di più, e non mi interessa che siano di più).

Sono nato nel 1943. Il fascismo è finito quando avevo due anni, e quindi non ho mai avuto il problema di scegliere se essere fascista o antifascista come la generazione di mio padre e mia madre. A 18 anni circa, nei primi anni sessanta, sono divenuto “comunista” nel doppio senso dell’utopia universalistica dell’emancipazione di Marx e del fascino della spiegazione “scientifica” della società. Da allora non ho cambiato mai idea. Il solo “antifascismo” politico che ho praticato è stato l’appoggio semiclandestino alla resistenza greca contro i colonnelli 1967-1974. La guerra civile simulata a bastonate in Italia non mi ha mai interessato e l’ho sempre considerata un diversivo con cui le vere classi dominanti post-fasciste mandavano allo sbaraglio giovani ingannati. Se sono antifascista? Certo che lo sono. Sono antifascista nel doppio senso di essere democratico, e cioè per le libertà democratiche sia individuali che collettive, e di essere anticolonialista ed antimperialista, cioè idealmente e retrospettivamente a fianco dei libici 1930, degli etiopici 1935, dei greci 1940 e degli jugoslavi 1941, e non certamente degli invasori fascisti, anche se fra di essi c’erano i miei genitori ed i miei zii. In quanto all’antisemitismo, dirò solo due cose. Primo, mi auguro (anche se non posso saperlo, sono tutti eroi a casa propria) che avrei avuto il coraggio di salvare famiglie ebree nascoste, tipo Perlasca e Palatucci, anche se non mi interesserebbero riconoscimenti dello stato sionista di oggi. Secondo, viva l’esercito sovietico di Stalin che ha liberato Auschwitz nel 1945 (sovietico, non americano come lascia credere il furbastro DS politicamente corretto Benigni)! Con questo, spero di non essere più costretto a simili cerimonie del tutto prive di interesse, io servo la divinità della Sincerità e della Ricerca, non la divinità del Pararsi il Culo.

Ma torniamo al problema. Come mai, se oggi il “fascismo” sono la Fallaci e Magdi Allam (e cioè gli editori Rizzoli e Mondadori), e non Evola o Irving, si fa tanto casino? Forse che Preve, se pubblica da un editore, deve condividere (o è sospettato che condivida) tutti i titoli in catalogo oppure le eventuali idee politiche dell’editore? Neppure l’inquisizione spagnola sarebbe giunta a tanto. E allora, quali sono le radici teorico-simboliche di tutto questo? Qui bisogna andare sul filosofico, cari amici. E le radici sono almeno due, e cioè l’Immaginario Paranoico, prima, ed il Pensiero Magico, poi. Esaminiamole separatamente.

Iniziamo dall’Immaginario Paranoico. Dal momento che il fascismo propriamente detto è finito in Europa nel 1945, e dopo ci sono stati soltanto dei regimi golpisti tipo CIA, cui il termine “fascismo” non calza storiograficamente troppo (colonnelli greci, golpisti turchi, eccetera), siamo stati per più di sessant'anni (1945-2006) di fronte ad un Antifascismo senza Fascismo (anche qui, non sottovaluto affatto gli apparati golpisti ideologicamente neofascisti, che erano però semplici guardie plebee di forze al potere ufficialmente antifasciste e postfasciste). Questo teatro dell’assurdo aveva ovviamente la sua razionalità, da parte azionista di tramandare la condanna crociana e gobettiana del fascismo come male assoluto, e da parte comunista di legittimare se stessi come la parte più risoluta del fronte antifascista. Si è allora costruito un Immaginario Paranoico quadruplice della Cospirazione (fascista), dell’Infiltrazione (fascista), della Contaminazione (fascista), ed infine del Tradimento (di tutti coloro che a “sinistra” non accettavano questo immaginario paranoico). Non sto ovviamente dicendo che non ci siano state delle infiltrazioni e delle cospirazioni. Ci sono state, è ovvio. Ma da questo all’immaginario paranoico ce ne passa.

Passiamo al Pensiero Magico. E’ questa una categoria presente nella storia del Marxismo di Kolakowski (terzo volume, Sugarco, Milano). Secondo Kolakowski (ed io concordo) i comunisti poststaliniani novecenteschi erano caratterizzati da un pensiero magico, per cui l’impurità della fonte contamina anche i contenuti che vengono espressi. Di qui il fatto che se le critiche a Stalin vengono fatte da una fonte impura (liberali, trotzkisti, eccetera) sono ritenute false e frutto di manipolazioni CIA o Quarta Internazionale, mentre se le stesse identiche critiche vengono fatte nel 1956 dal papa-babbione della ditta autorizzata Krusciov allora tutti si stracciano le vesti gridando ipocritamente: “Ma come è stato possibile? Ma come mai non l’abbiamo saputo prima?”, ed altre porcherie del genere.

Oggi la buffonata si ripete, anche se quello che un tempo era tragedia oggi è farsa. Il mio appoggio ad una moderata geopolitica euroasiatica è lo stesso del signor Sorini sull’Ernesto” e del signor Chevènement nel socialismo francese, ma se lo scrivo sulla benemerita (capito: benemerita) rivista di Mutti “Eurasia” allora diventa un’infiltrazione della mummia egizia del defunto Thiriart. E allora ditemi, cari sapientoni: dove potrei scrivere e pubblicare le stesse idee? Sull’Unità? Sul Manifesto? Su Liberazione? Ma per favore, come dice il comico Ezio Greggio!

Chi per caso avesse letto i miei due libri di filosofia pubblicati dal Settimo Sigillo (Filosofia del Presente e Per un buon uso dell’universalismo) noterà che il contenuto è perfettamente compatibile, se fossimo in una situazione culturale normale, non solo con la Mondadori e con la Rizzoli, ma addirittura con la filosofia ufficialmente professata da Manifestolibri e dagli Editori Riuniti: uso critico di Marx, razionalismo filosofico, anticapitalismo integralmente democratico, anticolonialismo, antiimperialismo, estraneità radicale alla cultura tradizionalmente definita di “destra”. Leggere per credere, E allora, perché tutto questo casino?

Lo so bene perché. Finché chiacchieri dottamente su Marx, Engels, Hegel e Althusser non rompi i coglioni a nessuno e non infrangi le regole ferree del Politicamente Corretto, dell’Immaginario Paranoico e del Pensiero Magico. Ma quando cominci a diventare un critico di questa Trinità, allora sì che sei veramente un “eretico”. Ebbene, in questo senso eretico lo sono, lo rivendico, e con questo tolgo il disturbo e vi saluto.

Fonte: http://www.comunitarismo.it 

Il comunismo? Ipotesi plausibile. 

I comunisti? Dio ce ne scampi



 
di Costanzo Preve - 08/06/2006     

La Storia Reale ed il Culto della Talpa

1. Mi è stato chiesto di aprire una discussione teorica e filosofica sul comunismo. L’ho già fatto in passato forse una decina di volte. E’ impossibile, e so bene, e lo dico in anticipo, che non serve assolutamente a niente. Anche questa volta, sarà come le precedenti. Non partirà nessuna discussione. E questo per una ragione strutturale e ben precisa. Le discussioni, per essere tali, e non essere solo ridicole caricature, devono essere senza rete, a 180 gradi, e porre quelli che Cartesio chiamava “dubbi iperbolici”, in quanto i soli dubbi metodici non sono veri dubbi, ma solo momenti fisiologici interni a qualsiasi ragionamento che non sia una rissa per ubriaconi. Chi vuole discutere sul comunismo senza mettere preventivamente anche in discussione l’opportunità nella presente fase storica di costituire un’organizzazione politica neocomunista, e dà invece per scontata e preliminare questa decisione, non può discutere sul comunismo. Ci sarà solo quella che il marxista tedesco Christoph Hein chiama la quinta operazione, quella che fissa il risultato ancora prima di effettuare il calcolo, a differenza delle quattro operazioni normali (addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione).

Ho abbandonato da almeno un decennio il mondo della quinta operazione, che è sempre stata l’oggetto del primo esame di matematica cui dovevi sottoporti per laurearti in “intellettualismo organico”, la laurea degli intellettuali buoni, quelli “organici” al movimento operaio e comunista, da distinguere dagli intellettuali cattivi, quelli pagati dai padroni e/o in preda ad anarchismo piccolo-borghese o alla pretesa borghese di libertà incondizionata. Libertà, sia detto fra parentesi, che permise a suo tempo a Marx di scrivere quello che pensava, al di fuori della committenza di gruppi blanquisti o di gruppetti anarchici o bakuniniani.

Dunque, deve essere chiaro che discutere significa soltanto discutere senza rete, senza quinta operazione e senza predeterminazione in anticipo degli esiti. La discussione gruppuscolare neocomunista di nicchia non ha questi requisiti, perché il presupposto identitario di appartenenza, fatto passare per necessità di prassi di impegno “pratico”, lo impedisce. Fatta questa indispensabile premessa, fingiamo ancora una volta (ma sarà l’ultima) che una discussione sul comunismo sia possibile.

2. In un discorso tenuto a Milano il 14 maggio 1966 Pietro Nenni diede questa definizione geniale ed insuperabile: “La prova del movimento si dà muovendosi”. Ed infatti è proprio così.

Prima di definire nel 1875 in modo assolutamente vago e politicamente indeterminato il comunismo del futuro come la società in cui ognuno darà secondo le sue capacità e riceverà (da chi? - nota mia) secondo i suoi bisogni, nel 1844 Marx definì nennianamente il comunismo come quel movimento reale che aboliva lo stato di cose presenti. La definizione è talmente vaga che persino un presenzialista dilettante come Bertinotti ha potuto metterla sulle tessere del suo partitino. Tuttavia, assumiamola qui come la definizione classica di comunismo da cui partire. E’ infatti una buona definizione, perché inserisce il comunismo nel movimento temporale della storia reale, togliendolo dal precedente significato di progetto artificiale politico (Platone) o religioso (Gesù di Nazareth, Tommaso Moro, eccetera).

Bene, sono passati da allora quasi due secoli, e per ora questo movimento sembra entrato sottoterra come un fiume carsico. Alla superficie si vedono soltanto un 80% di movimenti capitalistici ed imperialistici di globalizzazione, ed un 20% di movimenti anti-globalizzazione (da Chavez ad Ahmadinejad), che non sembrano però avere nulla di comunista nel senso di Marx,

Insomma, può essere imbarazzante dirlo, ma se il comunismo è un movimento reale (Marx) e la prova del movimento si dà muovendosi, pare che il comunismo per adesso non si stia muovendo.

Partiamo allora da questo fatto, il lettore dovrà ammettere che si tratta di un fatto storico, e non di una opinione piccolo-borghese anarcoide di chi vuole usare la sua libertà di pensiero che la borghesia nega ai proletari (contributo dei CARC alla discussione sul marxismo).

3. I seguaci della religione totemica della Talpa, erroneamente confusa con il metodo di Marx, hanno però già pronta la loro risposta: in apparenza sembra che poco si muova, ma vediamo che la resistenza irachena continua a combattere, Hamas vince le elezioni in Palestina e Morales le vince in Bolivia, eccetera; ben scavato, vecchia Talpa!

La religione totemica della Talpa consiste in ciò, che le normali resistenze al capitalismo, all’imperialismo e alla globalizzazione vengono pensate in questo modo totemico-talpesco come momenti di avvicinamento al Grande Giorno del Comunismo. Allora, o ci poniamo un dubbio iperbolico o ci rifugiamo nel totemismo. Ora, essendo un sostenitore della permanenza antropologica del sacro, dei simboli e della religione, e quindi anche del totemismo, e ritenendo l’unificazione filosofica dell’intera umanità nel materialismo dialettico l’esito di una buona ubriacatura di vodka, non ho nulla contro il totem della Talpa, che anzi preferisco al totem dell’Orso degli speculatori di borsa, del totem del Lupo dei fascisti turchi o del totem della Pecora dei pacifisti salmodianti e belanti. Nello stesso tempo, il metodo critico di Marx deve essere applicato anche a se stesso, cosa che i gruppi religiosi marxisti non fanno.

Proviamo a farlo.


4.
Mi spiace usare la paroletta “io”, che Gadda a suo tempo definì “il più odioso dei pronomi”, ma per chiarezza verso il lettore non mi nasconderò dietro il ridicolo e pomposo anonimato della terza persona, in cui empirici personaggi staliniani, trotzkisti o bordighisti, usando il linguaggio impersonale, si fingono (e si illudono grottescamente di essere) il corso maestoso della storia universale cosmopolitica. Preferisco che il lettore legga “io”, e relativizzando me che scrivo relativizzi anche di conseguenza se stesso. Se invece ritiene di incarnare il Proletariato allora è meglio che chiudiamo tutto e ci diamo ad una sana partita a carte.

Io penso, detto in breve, che la questione del comunismo non è chiusa, la storia ovviamente non è finita, le classi, i popoli, le nazioni e gli individui oppressi esistono sempre, la loro resistenza continua, sia sempre più giusto appoggiarla, e sia anche opportuno organizzarsi per farlo.

Considerandomi anche un allievo indipendente di Marx (non solo, ovviamente, guai all’uomo di un solo libro, sia esso la Bibbia, il Corano o Marx!), ritengo sempre aperta la questione del comunismo sia sul piano pratico, anticapitalista ed anti-imperialista, sia su quello teorico. Se qualcuno

pensa che io “sia passato dall’altra parte”, tipo Sofri o Ferrara, vada a sputare il suo veleno altrove, incrementando il ben noto settarismo suicida dei gruppetti paranoici della nicchia identitaria, che mentre si beccano come i capponi di Renzo Tramaglino pensano di essere agenti della storia universale.

Penso anche, però, ed ancora più decisamente, che oggi (e cioè nella nostra situazione storica presente) la formazione di gruppi politici neocomunisti (poco importa se si dichiarano ortodossi, eretici, eredossi o ortetici, eccetera) non sia opportuna, sia tempo perso, e sia non solo inutile ma anche dannosa. E per finire, il termine “eresia” è per me privo di significato, perché l’Ortodossia e l’Eresia vivono insieme, lottano insieme e muoiono insieme. Si può essere infatti eretici solo in presenza di ortodossi. Ma dove sono oggi gli ortodossi? Non li vedo più. Chi non si è accorto che gli ortodossi nel mondo intero sono morti nel decennio 1985-1995 è al di qua di qualunque seria discussione teorica, ed è dunque l’“eretico” di nulla, come avviene nelle comiche, in cui l’attore continua a litigare con veemenza e non si rende conto che l’altro è già da tempo uscito dalla stanza. Ma passiamo ora ad alcune considerazioni sull’attualità politica che possano sostenere almeno in parte quanto ho appena detto.

5. Facciamo una breve analisi politico-geografica delle forze che in questo febbraio 2006 si oppongono all’imperialismo americano, principale nemico del popolo e delle classi oppresse del mondo, e ci accorgeremo che il comunismo è inesistente, a meno che siamo seguaci del Culto della Talpa e siamo convinti che anche se non si vede, in realtà sta scavando sotto di noi, in compagnia di Maura Cossutta, Vladimir Luxuria e Vittorio Agnoletto:

(1) La resistenza irachena. Essa resta il principale fattore geopolitico internazionale di resistenza all’imperialismo americano. Senza di essa, la belva si sarebbe già probabilmente scatenata verso altri obbiettivi. In proposito, mi rifiuto di avere nei suoi confronti un approccio ideologico che sarebbe sempre una forma di presunzione occidentalistica. Essa può essere laica o religiosa, questo non mi riguarda. Si tratta di una resistenza nazionale, patriottica e popolare. Il “tifare per i nostri” è stato tipico dell’approccio di “sinistra” del periodo 1960-90. II “Manifesto” fa ancora così: noi siamo per Abu Mazen, perché è laico, e siamo contro Hamas perché crede in Dio, che notoriamente non esiste (ah!ah!), mentre solo il signor Ingrao e la signora Rossanda esistono.

(2) Gli stati “comunisti” tipo Cuba
.
Essi devono a mio avviso essere sostenuti incondizionatamente (e non a condizione che permettano il boicottaggio interno che li distruggerebbe in sei mesi, come sostiene irresponsabilmente la bertinotteria politicamente corretta), ma non certo perché siano caratterizzati da un “inizio di comunismo” secondo Marx (il comunismo secondo Marx implica la massima libertà di opinione e di organizzazione politica), ma perché sono un baluardo della resistenza contro l’imperialismo. Introdurre il cosiddetto “pluralismo” sindacale e politico, come vorrebbe il teatro bertinottiano delle marionette, significherebbe ucciderli, perché il Dipartimento di Stato ci fionderebbe subito i suoi agenti. Chi non lo capisce o è in malafede (ceto politico, ONG corrottissime, giornalisti politicamente corretti, eccetera) o è un analfabeta politico, e dovrebbe essere invitato ad occuparsi d’altro.

(3) Movimenti populistici ispirati dal socialismo comunitario.
Ad esempio Chavez in Venezuela e Morales in Bolivia, eccetera. Sono da appoggiare incondizionatamente, ma non sono comunisti e non hanno bisogno di grilli parlanti di tipo “comunista”, che in nome di copioni tattici dogmatici stilati più di mezzo secolo fa li condurrebbero con il loro estremismo idiota alla peggiore rovina, dicendo che soltanto le classi esistono, mentre le nazioni, i popoli e gli individui sono solo mistificazioni piccolo-borghesi.

(4) Movimenti religiosi popolari.
Ad esempio Hamas in Palestina ed Ahmadinejad in Iran (Dio benedica entrambi!). Sono da appoggiare incondizionatamente, ma non c’entrano assolutamente nulla con il comunismo.

(5) Stati-nazione che hanno una funzione geopolitica positiva.
So che qui verrò insolentito dai puristi della rivoluzione classista immacolata, ma fra essi metto in parte la Russia di Putin (sempre meglio degli “arancioni” pazzi e filo-americani), la benemerita giunta militare del Myanmar, che Budda conservi a lungo, la Siria del benemerito Assad, e persino l’orribile Cina dell’accumulazione capitalistica selvaggia, nella misura in cui è pur sempre un fattore geo-politico indipendente dagli USA.

(6) La parte minoritaria anti-imperialista dei movimenti no-global, da cui escludo ovviamente tutti i pagliacci mediatico-parlamentari incorporati nei meccanismi occidentali politicamente corretti.

 Segue 2

lunedì 11 ottobre 2010


IL COMUNISMO E LA QUESTIONE NAZIONALE




 

di Maurizio Neri

Queste riflessioni nascono dalla necessità di analizzare lo stato presente di cose e di fare qualche ipotesi e previsione sui possibili sviluppi del comunismo.

Dopo la caduta dell’Urss il capitalismo ha potuto fare quel balzo in avanti nell’estensione del suo modello di produzione e di conseguente ridispiegamento delle sue potenzialità di circolazione di capitali e merci che va sotto il nome di "globalizzazione".

La globalizzazione è divenuta in poco tempo la parola d’ordine assunta da ogni analista per descrivere un mondo nuovo, reticolare, intessuto ed innervato da rapporti economici che in una sorta di Tela di Penelope avvolgono il pianeta.

Esiste, però, a parere di chi scrive uno "sviluppo ineguale" del capitalismo globalizzatore che non ha la stessa composizione e natura, a seconda che si tratti dell’Occidente e dei paesi che hanno marciato alla sua stessa velocità nella strutturazione dei rapporti di produzione e le periferie dell’Impero che in molti casi sono ancora ferme ad un capitalismo di stampo ottocentesco basato su forme di produzione legate ad una manodopera ridotta in condizione di sfruttamento prossime allo schiavismo.

Quando parliamo della globalizzazione dovremmo fare attenzione a non confondere la situazione di chi ha e detiene il potere di mutare le forme di produzione (paesi ricchi)e di chi le subisce passivamente (paesi poveri) adattando le proprie risorse umane alle necessità produttive dei primi.

Partendo da questo assunto la conseguenza è che molti paesi hanno saltato il passaggio dal proto-capitalismo alla formazione di un tessuto economico che contempli una divisione in classi così come concepita da Marx nei paesi ad avanzato sviluppo industriale con una borghesia imprenditoriale ed una classe operaia in contrapposizione con la prima.

Tutto questo è assente nei paesi "periferici" dove al più si rinviene una borghesia "compradora" locale di natura oligarchica legata a centri di potere internazionali, ma che in termini di sviluppo dei rapporti di produzione è ancora arcaica , legata a fattori come il possesso di terra o a traffici spesso di natura illegale che le permettono di mantenere una posizione di comando "interna" tramite la corruzione.

Molti di questi paesi che negli anni sessanta e settanta avevano lottato per la loro indipendenza dai regimi coloniali che dall’Ottocento avevano stabilito un regime di dipendenza diretta con molti paesi europei, sono stati "riassorbiti" da un nuovo colonialismo soprattutto grazie alla sconfitta del campo socialista.

In Africa, in Asia ed anche in Sudamerica, dove la lotta dei movimenti di liberazione, di ispirazione comunista e socialista, è stata sconfitta dagli apparati militari nazionali legati a doppio filo con gli Usa, ovunque si è registrata o la caduta dei regimi che avevano preso il potere dopo la liberazione oppure ad un loro progressivo riallineamento alle direttive del nemico di ieri.

Per alcuni, penso al Vietnam, ma non è l’unico caso, si è trattato del classico "bere o affogare" poiché oggi l’essere esclusi dal consesso del commercio internazionale equivale ad una condanna a morte, come hanno dimostrato i drammatici casi di Cuba, Irak, Iran e tanti altri paesi, affamati da anni di embargo.

Le cause di questo fenomeno sono molteplici, non ultima la caduta dell’URSS e del Comecon che garantiva un interscambio, seppur minimo, tra i paesi socialisti, ma quel che colpisce oggi è che non esiste allo stato un "modello socio - economico" che un Paese possa oggi adottare in alternativa al capitalismo che possa avere la chance di durare più di un giorno.

Non esistendo più il paese di "riferimento", l’Unione Sovietica, oggi Russia, prossima ad entrare addirittura nella Nato, non esistendo una "sinistra" in Europa che sappia ancora declinare il socialismo come via alternativa al capitalismo, se non con istanze confuse e contraddittorie, allo stato l’opposizione all’imperialismo è interpretata su base nazionale, religiosa ed identitaria come rifiuto della dominazione altrui in casa propria.

Come si pongono i comunisti davanti a questi fenomeni nuovi, frutto anch’essi della esasperata dominazione non solo economica, ma culturale, militare ed antropologica che l’Occidente produce e sussume nel termine di "comunità internazionale"?

Oscillano paurosamente tra incomprensioni di fondo dettate dal mancato riconoscimento della "questione nazionale" come fattore di mobilitazione da indirizzare su posizioni comuniste per vecchie interpretazioni legate alla "demonizzazione" di tutto ciò che è la complessità dei fattori culturali, psicologici , religiosi, che compongono la questione nazionale, lette come meri artifizi sovrastrutturali che inficiano l’unita’ dei lavoratori su base universale.

Bisognerebbe, però, ricordare che ogni volta che negli anni sessanta e settanta i movimenti comunisti, socialisti ,anticoloniali ed antiimperialisti hanno vinto, da Cuba al Vietnam dall' Algeria al Congo lo hanno fatto perché hanno saputo interpretare alla luce del comunismo/socialismo le aspirazioni ed i caratteri costitutivi di un "determinato paese". Ciò non ha impedito, di certo, a Guevara che coniò il famoso "Patria o Muerte" di andare a combattere, da convinto internazionalista qual’era, in Africa per liberare quei popoli dalla schiavitù imposta da regimi fantoccio al soldo degli occidentali ed a molti movimenti di liberazione nazionale dell’epoca di lottare in stretta collaborazione internazionalista.

A scanso di equivoci la diatriba tra quelli che auspicano il "socialismo in un solo paese" o quelli che parlano di "rivoluzione globale" la trovo assai poco pertinente ed anche fuori tempo massimo, essendo legata da una fase storica ben determinata e circoscritta e sicuramente non attuale, ma se dovessi esprimere il mio parere sulla questione allora opterei per un’altra formulazione di prospettiva.

Se quanto da me esposto sinora ha una conseguenza questa non può che essere che nell’epoca della globalizzazione e probabilmente a causa di essa e degli effetti che essa comporta e determina, la questione della "identità" o questione "comunitaria "è diventata ineludibile per chiunque voglia fare politica sulla base di una futura opzione comunista senza scadere nell’"astrattismo".

Ciò vuol dire che il Comunismo, che rimane sempre la ricerca di una società nella quale non esista più lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dovrà, comunque, avere sviluppi diversi a seconda dei paesi nei quali otterrà il consenso. Sviluppi e cammini diversi, non esiti diversi, che si raccordino strettamente alla questione nazionale vista come elemento di crescita progressista della comunità dei lavoratori, individui liberati e solidali, ma non deracinès dal contesto identitario nel quale operano e svolgono il loro ruolo di classe. Diversi Socialismi in diversi paesi uniti da una solidarietà internazionalista che li faccia procedere uniti quando sarà il momento di affrontare la prevedibile reazione capitalista.

La ricchezza di espressioni che le diverse forme potranno apportare al Comunismo, tenendo ben saldo l’obiettivo finale ed irrinunciabile della liberazione dell’ Uomo da ogni forma di sfruttamento basata sul lavoro salariato, è essenziale per dare ossigeno all’ asfittica idea comunista, oggi in crisi e minoritaria in tutto il mondo.

Per questo motivo la partecipazione dei comunisti alle istanze di liberazione dei popoli , all’interno di un fronte vasto e articolato, anche eterogeneo ed a guida borghese, è essenziale in molti paesi "periferici", perché ogni passo in avanti nella liberazione di un popolo dalla catena imperiale è una chance in più per il Socialismo soprattutto se saprà interpretare al meglio la cultura e l’ identità peculiare della propria realtà alla luce dei suoi obiettivi di emancipazione. Basta accorgersene.

domenica 10 ottobre 2010

Alla ricerca dell’agorà perduta

  di Pietro Garante



In relazione al post intitolato “Da Pericle a Toni Negri: il principio dell’agorà” e pubblicato sul blog “Rivoluzione Democratica”, occorre mettere sul piatto della discussione alcuni punti.

 Partiamo da capo.

Moreno Pasquinelli striglia giustamente un Toni Negri che sembra ormai incapace o indisponibile a tornare tra di noi sulla Terra dalle angeliche altezze della “noosfera”. L’unica affermazione, tra quelle riportate, che io mi sento di condividere (e credo che condivida anche Pasquinelli) è che non esiste il lavoro immateriale, ma che anche il cosiddetto lavoro cognitivo è materiale.
E’ solo comune buon senso e lo condivido per quello che è.
Secondo Pasquinelli, se ho letto bene, questa sarebbe però anche una rottura teorica di Negri coi suoi ex sodali operaisti. In realtà credo che non sia così.
Che sia chiamato solo “cognitivo” o sia chiamato “materiale”, il punto per i tardo-operaisti è che il lavoro ormai si è sottratto alla “materialità” della legge del valore-lavoro (mi sbaglierò, ma su ciò sembra che sia invece proprio Sergio Bologna ad aver attuato una rottura teorica).
A parte le affermazioni, vergognose e che denunciano la distanza abissale che separa Toni Negri dalla realtà, sul lavoro precario e cognitivo come fluire di energia e di vita in un’atmosfera creativa e addirittura di divertimento, per altro propalate dai tempi di “Impero”, il discorso si regge su una sostanziale confusione. In estrema sintesi, la crisi di sovraccumulazione che deprime le vecchie società capitalistiche e che spinge da almeno 40 anni alla finanziarizzazione, ovvero a cercare di far fruttare i capitali principalmente tramite speculazioni finanziarie e non tramite investimenti in commercio e industria – oltre che col solito sistema di pagare il meno possibile chi lavora (picchiando duro a casa o decentrando) – tutto ciò viene scambiato dai tardo-operaisti come una sospensione della vigenza della legge del valore.

Perché questa confusione?

1) Perché il Capitale è unico e con la “C” maiuscola. Detto in altri termini: le varie società capitalistiche sono indistinguibili dal modello teorico.
2) Perché non ci sono formazioni sociali particolari: lo stato-nazione è svuotato delle sue prerogative (non dalle politiche imperialistiche, ma sostanzialmente dalla fine della legge del valore).
3) Perché la formazione antagonistica del lavoratore collettivo cooperativo alleato con le potenze mentali della produzione capitalistica si deve essere per forza concretizzata da qualche parte, pena il dover rimettersi in discussione e rimettere in discussione Marx (come ad esempio di fatto fece Lenin: non a caso Gramsci definì la – sacrosanta – Rivoluzione d’Ottobre una rivoluzione contro il “Capitale”: quello scritto da Marx). E se la concretizzazione di questo soggetto non la troviamo, allora ce la inventiamo: sono le moltitudini precarizzate, pura energia vitale che si autovalorizza al di fuori del rapporto col capitale. Versione in prosa: qui si fa l’apoteosi della precarizzazione da una parte e dell’atomizzazione individualistica dall’altra. Con l’aggravante di non spingere lo sguardo oltre il recinto occidentale, per il solito motivo che qui è nato il modello e come conseguenza (puramente astratta ma scambiata per concreta) qui c’è il motore comune del tutto globale. In realtà la fiaccola del capitalismo è storicamente passata di mano in modo discontinuo. Ad esempio, il gruppo dei capitalisti egemoni in una data epoca tipicamente non si origina dai capitalisti dell’epoca precedente. C’è una soluzione di continuità empiricamente riscontrabile che testimonia di come l’incidenza dei fattori storici e sociali impedisca di poter individuare un fil rouge e una logica riscontrabile identicamente in contesti differenti.
Arrivati alla fine ci si esercita nel salto della quaglia e dal lirismo pro-precarietà e pro-atomizzazione individualistica si passa a quello, di segno opposto, che canta il comune, l’agorà, la comunità. Una sorta di comunitarismo dipinto come praticabile alternativa. Che alcune delle questioni messe sul tappeto siano importanti e da affrontare, è un’altra questione (basti pensare a problemi che possono diventare in breve drammatici come quello dell’acqua come “bene comune”). E tuttavia la pur naturale valenza politica insita in iniziative in questa direzione possono essere del tutto disinnescate dall’iniezione di una overdose di significati politici: il “bene comune” come surrogato del “comunismo”. Infatti, che ciò diventi una praticabile alternativa al rapporto sociale detto “capitalismo” può essere vero solo sotto il vuoto spinto dipinto, intenzionalmente, dalle teorie tardo-operaiste. Una ricerca dell’agorà perduta il cui antagonismo radicale sta tutto nella sintassi delle frasi che lo formulano, perché nella realtà sarebbe possibile solo se il mondo così com’è non esistesse.
Avete in mente “Inception”? Siamo al terzo livello di sogni condivisi: un sogno nel sogno di un sogno.
Tra poco ci sarà il limbo. O forse peggio: un drammatico richiamo alla richiamo alla realtà.