COMUNISMO E LIBERAZIONE NAZIONALE
Popolo e nazione
Una delle contraddizioni apparentemente più inspiegabili di questi anni è la coincidenza tra crisi delle grandi visioni del mondo globali e ideologiche, con le relative appartenenze politico-culturali, e il manifestarsi di ondate nazionaliste che ripropongono una forte appartenenza etnico-culturale e una riproposizione delle "radici" di individui e collettività territorialmente fondate.
Di fronte a questa contraddizione che assume caratteri così inediti la sinistra ha certamente necessità di una rifondazione che riguardi anche l’analisi del problema nazionale ed etnico-culturale.
Non sono del tutto persuaso che a questo proposito il vero limite della cultura marxista sia quello di essersi limitata a un approccio di classe ed economicista. I diversi movimenti che si sono ispirati al socialismo e al comunismo hanno avuto impostazioni complesse e differenziate sul tema nazionalitario, ed è troppo facile ridurre il marxismo alla sua vulgata superficiale o propagandistica.
Il comunismo prima di Marx rifiutava il concetto di nazione (vedi Fourier) perché lo identificava con gli Stati borghesi allora esistenti, divisi e belligeranti. Veniva contrapposto un universalismo dei popoli che si opponeva ai patriottismi. In seguito, con Marx ed Engels viene sottoposta a critica la "triviale retorica" della fratellanza universale dei popoli, e si sceglie una analisi che storicizza il rapporto tra i popoli e tra popolo e nazione, legandolo al contesto dei rapporti sociali. Nello stesso tempo i fondatori del socialismo scientifico erano convinti che gli antagonismi nazionali dei popoli fossero un fenomeno arcaico, destinato a scomparire con lo sviluppo della borghesia, e ancor di più con il dominio del proletariato.
Operai senza patria
Il comunismo marxista ha quindi accolto plurali interpretazioni del concetto di nazione. Innanzitutto vi è la convinzione che gli operai non hanno patria. Le lotte nazionali (contro la borghesia nazionale del proprio paese) sono per il "Manifesto del partito comunista" decisive per sconfiggere l’avversario di classe, ma in un contesto "internazionalista".
Nell’Ottocento di Marx le nazioni tendono a coincidere con confini decisi dai ceti dominanti e "forti" dei paesi capitalistici, e lo scenario che si propone allo sguardo è quello di guerre nazionali con evidenti motivazioni economiche1.
Per il marxismo classico, dunque, le nazioni coincidono con le frontiere statali (distinguendo, poi, tra nazioni storiche e non), e l’attenzione è rivolta solo marginalmente all’appartenenza etnico-culturale dei popoli. Inoltre, Marx aveva grande ammirazione per il delinearsi di un pianeta in comunicazione complessiva, affascinato da un mondo che poteva entrare in collegamento da un continente all’altro: di qui l’enfatizzazione, "storicamente determinata", dell’internazionalismo, più che del nazionalismo2. Ma, non va dimenticato, alla parola internazionalismo veniva aggiunto, nella vulgata leninista, il termine "proletario", ad indicare non un privilegio del contatto/incontro tra Stati, ma tra classi subalterne dei vari paesi. Un afflato unificante che aveva un esplicito contenuto di "modernizzazione", contro vecchi e sanguinosi colonialismi, contro le politiche imperiali del capitalismo, contro le frontiere artificiosamente costruite dalle borghesie nazionali.
È quasi banale ricordare come oggi la situazione assuma contorni profondamente nuovi. Lo Stato-nazione è in declino, si propone con forza l’interdipendenza o l’ipotesi di un governo mondiale. Ma, al contrario di quanto auspicava il marxismo e il comunismo, questo declino degli Stati-nazione e questo collegamento universale tra paesi avviene tutto in un contesto di omogeneizzazione e di tendenziale cancellazione delle differenze e delle diversità, sotto il dominio del più forte (i paesi maggiormente industrializzati e dotati di un potente e sofisticato armamento bellico).
Per un territorio autogovernato
I movimenti di liberazione nazionale diventano oggi una forma decisiva del conflitto contemporaneo proprio perché mettono in discussione non sono il dominio sul e nel proprio territorio, ma anche i confini nazionali prodotti da guerre e rapporti di forza nel corso della storia. Viene recuperato un pezzo dell’identità collettiva (l’appartenenza etnico-culturale) e ciò in contraddizione con le frontiere nazionale/statali date.
Indubbiamente vi è qualcosa di ambiguo e di pericoloso in una enfatizzazione del nazionalismo, anche in chiave di liberazione. I movimenti nazionalitari possono essere la premessa (e in passato è spesso stato così) per ulteriori ostilità anche armate tra gruppi vicini in contrapposizione atavica, oggi comode pedine per gli stravolgimenti degli equilibri mondiali scossi dal crollo del blocco sovietico.
Esiste un approccio reazionario e regressivo al nazionalismo, ed esiste un approccio dinamico e fecondo (la rivendicazione di un territorio autoregolato, autogovernato, autocentrato). Il rispetto e la valorizzazione delle differenze culturali, talora legate alle questioni etniche, può scivolare facilmente in una moderna forma di razzismo, che frammenta e disgrega ulteriormente, che risveglia attriti facilmente strumentali a giochi di potere e di classe. L’ombra di un neo-fascismo e di un neo-nazismo (magari sotto altre spoglie e colori) che muova da una radicalizzazione delle contrapposizioni etnico-nazionaliste non è affatto improbabile o fantastica.
Eppure, in una prospettiva comunista, sarebbe assolutamente inadeguato un giudizio liquidatorio od unilaterale sui fenomeni nazionalitari di questi anni. Né si può evitare di distinguere tra Stato-nazione e nazione come aggregato etnico-politico-culturale. L’Intifada palestinese, come ha scritto il noto cronista di "Time" Lance Morrow, dal 1987 non è riuscita a conquistarsi uno Stato, ma sta costruendo una nazione: un significativo esempio della portata di lotte e movimenti su base etnico-culturale.
L’incontenibile ricchezza delle diversità
Le potenzialità positive di un rinnovato espandersi di movimenti di liberazione nazionale sta anche nella controtendenza rispetto alla dissoluzione delle regole del diritto internazionale e alla crisi delle Nazioni Unite. Da tempo si pone il problema di rifondare il diritto internazionale e la stessa ONU, e tanto più è urgente oggi dopo che il tracollo economico-militare, e poi lo scioglimento dell’Unione Sovietica ha fatto saltare unilateralmente Yalta con la motivazione, imperdonabilmente ingenua, di favorire una nuova prospettiva di pacifici ed equilibrati rapporti internazionali. In realtà al mondo di Yalta si è sostituito un mondo in cui l’occidente a guida statunitense ripropone la sua tradizionale politica di potenza sotto le spoglie di un governo mondiale, sulla pelle di popoli e culture, adducendo in molti casi il pretesto del destino del pianeta (destino energetico, economico, politico: così è stato con la guerra del Golfo). Un governo mondiale già operante, che marginalizza completamente le opposizioni nazionali e sostituisce all’idea (pur discutibile e limitata) di un "parlamento mondiale" la pratica di un esecutivo planetario degli esecutivi nazionali. È dunque di piena attualità ridiscutere di autodeterminazione dei popoli, di movimenti di liberazione nazionale, di internazionalismo.
Una rifondata critica comunista può valorizzare anche in quest’ambito il meglio del proprio patrimonio e saper mutare rigidità e vecchi schemi assumendo temi e fondamenti di altre culture e altri movimenti. Mentre una sinistra omologata e perdente propone di contrapporre alle disintegrazioni nazionaliste l’integrazione in organismi sovranazionali come la Nato, una sinistra capace di superare le compatibilità esistenti e la subalternità al dato deve stimolare e accogliere le controtendenze che promuovono la ricchezza delle diversità, incontenibili e irriducibili, in un quadro di rapporti pacifici e non violenti tra popoli ed etnie.
Fabio giovannini
1 Vedi su questi aspetti il saggio di Luigi Cortesi, Il socialismo e la guerra, in Aa.Vv., Guerre e pace nel mondo contemporaneo, Istituto Universitario Orientale, Napoli, 1985.
2 Vedi Renato Monteleone, Marxismo, internazionalismo e questione nazionale, Loescher, Torino, 1982.
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martedì 7 dicembre 2010
domenica 24 ottobre 2010
Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx
Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp.320
Intervista di Giovanni Perazzoli a Roberto Finelli in occasione della pubblicazione del libro:
1) Uno degli scopi del suo libro è quello d’infrangere, se non di rovesciare, una linea di continuità e di progresso filosofico che una certa storiografia ha sempre visto nel rapporto Hegel-Feuerbach-Marx, quale un nesso di pensiero che dall’idealismo maturerebbe verso il materialismo. Da dove nasce la diversa lettura che lei propone? Qual è il motivo di fondo che giustifica la critica di una storiografia filosofica e politica, che sembrava ormai lungamente consolidata?
L’iconografia teorica ufficiale dei Partiti comunisti si è sempre ritrovata e rassicurata nell’immagine di un cammino progressivo della verità dall’idealismo dialettico di Hegel al materialismo dialettico e storico di Marx e di Engels. A partire dall’autorappresentazione e dell’autolegittimazione che di quella vicenda teorica già alla fine dell’800 aveva fornito lo stesso Engels. Dato che è stato certamente Engels, e non Marx – alla sorta di quanto fece Paolo con il cristianesimo – ad essere il vero e proprio fondatore del marxismo quale corpo dottrinario organico, che potesse valere, nell’estensione generale della dialettica a legge generale della realtà e della storia, come “credo” e canone per l’azione pratico-concreta dei comunisti nella lotta sociale e politica. Come testo più celebre di Engels a tal riguardo penso ovviamente al Ludwig Feuerbach und der Ausgang del klassischen deutschen Philosophie, nel quale appunto, com’è noto, si diceva che, se con la dialettica di Hegel la filosofia moderna aveva raggiunto il suo grado maggiore possibile di verità, solo con il materialismo antropologico di Feuerbach, prima, e poi definitivamente con il materialismo storico di Marx si era usciti, approfondendo ed elaborando l’ispirazione dialettica dell’hegelismo, dalla filosofia come teoria contemplativa e si era giunti ad una filosofia come immediatamente risolta nella prassi della trasformazione-rivoluzione sociale. Secondo tale canone dottrinario Hegel, pur dando vita alla dialettica moderna, avrebbe con l’Idea negato e annichilito la natura e il mondo concreto, facendone solo emanazione ed incarnazione dello Spirito; Feuerbach, rovesciando Hegel, avrebbe fatto invece della materia e della natura il fondamento d’ogni cosa, concependo l’attività spirituale solo come un derivato da quella sensibile; e infine Marx ed Engels avrebbero tradotto il materialismo, ancora solo naturalistico e genericamente umano, di Feuerbach nel materialismo pienamente storico, fondato sulla centralità del lavoro e della prassi quale principio base di ogni forma di vita umana e di ogni tipo di organizzazione sociale: prassi lavorativa da spiegarsi appunto nel suo statuto intrinsecamente contraddittorio con la teoria dialettica dell’opposizione e della contraddizione. Questa cronologia iconografica, partorita da Engels, ha caratterizzato sostanzialmente senza eccezioni (forse solo per il marxismo fortemente idealistico e antinaturalistico di Gramsci), il marxismo così della II come della III Internazionale, per essere poi codificata e ulteriormente imbalsamata con il marxismo sovietico. Quanto ad es. Togliatti sia stato culturalmente e ideologicamente subalterno rispetto a tale tradizione è appunto confermato dalla cornice obbligata che egli ha assegnato a tutto il marxismo italiano, nel verso di una continuità, che sul piano della filosofia classica tedesca vede appunto la triade Hegel-Feuerbach-Marx, e sul piano della cultura nazionale vede un’analoga progressione dall’hegelismo di De Sanctis e Spaventa, attraverso lo storicismo di Croce, fino alla filosofia della prassi di Gramsci.
Con il parricidio mancato io ho voluto mettere in discussione questa linearità storicistica, finalizzata al culto dell’eroe (nel caso in questione Marx, il quale fin dalla sua giovinezza, secondo la liturgia comunista, non poteva non essere nella verità e non essere perciò ulteriore sia ad Hegel che a Feuerbach) e argomentare che l’antropologia che mette in campo il giovane Marx per criticare e uccidere il padre Hegel è assai meno ricca e articolata di quella hegeliana e che in effetti Marx prende la scorciatoia, che gli offre l’umanesimo di Feuerbach, per interessi troppo frettolosamente pratici: quali un abbandono assai sbrigativo della filosofia e un passaggio precipitoso a una prassi politica che pretende di configurarsi come rovesciamento totale e palingenetico dell’intero assetto storico-sociale. Per dire cioè che il materialismo del primo Marx (inclusa la concezione materialistica della storia depositata nelle pagine dell’Ideologia tedesca) nasce da una negazione troppo facile di uno Hegel, peraltro schematicamente ridotto all’icona di uno spiritualismo trascendente e metastorico. Con la conseguenza che il concetto marxiano di praxis, in questo rovesciamento troppo frettoloso di ogni istanza spirituale, rimane paradossalmente legato a ciò che nega. E così, a ben vedere, implica una dimensione di onnipotenza spiritualistica, che si fa creatrice, in una visione prometeica del lavoro e dello sviluppo delle forze produttive, dell’intera realtà.
Salvo poi, tale assolutizzazione della praxis umana in quanto lavoro – nella sua negazione radicale della funzione di ogni idealità nella costruzione della società e della storia – a non poter giustificare la medesima teoria del materialismo storico, la quale, o è falsa, in quanto teoria e come tale lontana dall’unica verità costituita dalla prassi, o è vera, ma come tale contraddicente lo stesso materialismo storico, che non ammette la verità di alcuna teoria, sempre ridotta e dequalificata a ideologia..
Segue: http://www.semperfil.it/?page_id=86
domenica 17 ottobre 2010
Karl Marx, un contemporaneo
di Vladimiro Giacchè
Ironie della storia. Mentre in Germania viene festeggiato il 20° anniversario della fine della Repubblica Democratica Tedesca, si assiste ovunque a un grande risveglio di interesse nei confronti di quello che ne fu (inconsapevolmente) il filosofo ufficiale: Karl Marx. Soltanto in Italia da giugno ad oggi sono uscite due biografie: la traduzione del testo di Francis Wheen (Karl Marx. Una vita, Isbn edizioni, p. 400) e il volume di Nicolao Merker Karl Marx. Vita e opere (Laterza, pp. 261). Se il primo testo è avvincente, il secondo riesce a fare il miracolo: ossia a darci una panoramica completa della vita di Marx e delle linee di fondo del suo pensiero.
Merker inizia ricordando che “il pensiero di Marx sta nei suoi scritti”. Non si tratta di una banalità, ma di una doverosa cautela, visto l’uso a dir poco disinvolto che spesso si è fatto del pensiero di Marx. I testi di Marx vanno letti e collocati nel loro contesto storico. Ma non per farne altrettanti “classici” da tenere sullo scaffale, bensì per capire cosa ci possono dire sull’oggi. Questo utilizzo è possibile in quanto la struttura economica della società in cui viviamo è ancora quella descritta da Marx. Anzi, per certi aspetti il mondo attuale è più vicino ai testi marxiani di quanto lo fosse la realtà dei suoi tempi: basti pensare alla “globalizzazione”, ossia alla creazione di un mercato mondiale.
Merker nella sua ricostruzione del pensiero di Marx non ha timore di andare controcorrente. Come quando denuncia “l’infatuazione per i Grundrisse che alcuni decenni addietro regnò nella letteratura su Marx”, insistendo invece sulla centralità del Capitale (tanto del primo libro, pubblicato da Marx nel 1867, quanto dei manoscritti che dopo la sua morte Engels pubblicò come secondo e terzo libro del Capitale nel 1885 e nel 1894). E soprattutto quando afferma l’importanza della “teoria del valore e del plusvalore”, che a suo giudizio “spiega tanto la dinamica del particolare modo di produzione capitalistico quanto gli elementi generali di ogni sistema produttivo”. La forza-lavoro umana, osserva Merker, “fornisce sempre con il suo pluslavoro un valore economico maggiore di quanto essa costa”; è infatti l’unica merce che possiede la caratteristica di creare nuovo valore (cosa di cui non è capace neppure la macchina più sofisticata,
che se non viene messa in opera dal lavoro umano non soltanto non crea nuovo valore, ma perde anche quello che possedeva). La peculiarità del sistema capitalistico consiste nel fatto che “i risultati del pluslavoro - cioè il plusprodotto e il corrispettivo plusvalore – non sono proprietà del soggetto che lavora. Questo carattere del capitalismo non viene modificato dal numero dei ‘colletti bianchi’ che sostituiscono le ‘tute blu’. Conserva il connotato che la proprietà e gestione dei mezzi di produzione non è proprietà e gestione sociale”.
che se non viene messa in opera dal lavoro umano non soltanto non crea nuovo valore, ma perde anche quello che possedeva). La peculiarità del sistema capitalistico consiste nel fatto che “i risultati del pluslavoro - cioè il plusprodotto e il corrispettivo plusvalore – non sono proprietà del soggetto che lavora. Questo carattere del capitalismo non viene modificato dal numero dei ‘colletti bianchi’ che sostituiscono le ‘tute blu’. Conserva il connotato che la proprietà e gestione dei mezzi di produzione non è proprietà e gestione sociale”.
Proprio da questo Marx fa derivare le crisi: esse sono infatti – ci spiega Merker – “conseguenza dell’antitesi, nell’economia di mercato, tra la produzione moderna a carattere sociale e l’appropriazione privata del profitto”. In questo modo ci viene offerta una chiave di lettura anche della crisi odierna molto diversa da quelle correnti. “A un certo punto il mercato non assorbe più tutte le merci che vengono offerte. Mancano gli acquirenti perché il sistema è caduto in un circolo vizioso: non appena le merci invendute affollano i magazzini, il capitalista riduce la produzione chiudendo fabbriche e licenziando operai, sicché a causa del diminuito potere d’acquisto dei consumatori la montagna dei beni invenduti continua a crescere e la crisi si avvita su se stessa. Alla fine il sistema la risolve soltanto a costo di enormi distruzioni di mezzi di produzione e di prodotti. Fabbriche smantellate, lavoratori disoccupati, beni di consumo
al macero e una crescente concentrazione di capitali perché i capitalisti deboli, rovinati, escono dal mercato: sono questi i fenomeni che accompagnano le crisi periodiche”. Le crisi sorgono insomma, come ci ricorda lo stesso Marx, perché nel sistema capitalistico “l’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma …in base al profitto e al rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato”.
al macero e una crescente concentrazione di capitali perché i capitalisti deboli, rovinati, escono dal mercato: sono questi i fenomeni che accompagnano le crisi periodiche”. Le crisi sorgono insomma, come ci ricorda lo stesso Marx, perché nel sistema capitalistico “l’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma …in base al profitto e al rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato”.
Secondo questo punto di vista, a differenza di quanto ci è stato ripetuto in questi anni, le crisi non rappresentano un incidente di percorso o una sciagurata eccezione all’interno di un sistema che per sua natura sarebbe in equilibrio, ma sono necessarie per correggere – attraverso la distruzione di forze produttive su larga scala – i profondi squilibri che inevitabilmente caratterizzano l’“anarchia della produzione”capitalistica.
Nelle ultime pagine del suo libro Merker si chiede quindi se quel “contrasto tra la produzione sociale-collettiva del plusvalore e l’utilizzazione privatistica di esso” sia ineliminabile nella società umana. E osserva che “quest’istanza teorico-pratica, certamente non scaduta, viene dal Marx del Capitale, e attende risposte che funzionino nella prassi socio-politica”.
La più grande sfida dei nostri tempi è precisamente questa.su il Fatto Quotidiano del 15/10/2010
venerdì 1 ottobre 2010
Impero, imperialismo, stati-nazione e classi
di Piero Pagliani
«Gli inglesi risero molto quando io aprii il mio speech osservando che il nostro amico Lafargue, ecc…, che ha eliminato le nazionalità, ci ha rivolto il discorso in Francese, vale a dire in una lingua che i nove decimi dell’uditorio non capivano. Accennai inoltre che lui, affatto inconsapevolmente, sembra che voglia intendere sotto il termine negazione delle nazionalità il loro assorbimento nella nazione modello francese.»
Lettera di Marx a Engels, 20 giugno 1866
1. A partire dal collasso dell’Unione Sovietica abbiamo assistito impotenti a una serie impressionante di violenze planetarie da parte degli Stati Uniti con il seguito, spesso, dei suoi alleati: l’aggressione premeditata alla Serbia, l’invasione dell’Iraq, l’invasione dell’Afghanistan. E possiamo già assistere ad atti di guerra, magari su “invito” dei cosiddetti “legittimi governanti”, come i bombardamenti sul Pakistan, le manovre nello Yemen e tra poco in Somalia come promesso da Barack Obama dopo l’attentato farsa del volo Amsterdam-Detroit (basta aprire un atlante e si capisce immediatamente perché gli USA sono così interessati a questi due Paesi: controllano il Golfo di Aden, transito marittimo fondamentale, specialmente per le rotte petrolifere).
Continua qui: http://www.comunismoecomunita.org/?p=850
di Piero Pagliani
«Gli inglesi risero molto quando io aprii il mio speech osservando che il nostro amico Lafargue, ecc…, che ha eliminato le nazionalità, ci ha rivolto il discorso in Francese, vale a dire in una lingua che i nove decimi dell’uditorio non capivano. Accennai inoltre che lui, affatto inconsapevolmente, sembra che voglia intendere sotto il termine negazione delle nazionalità il loro assorbimento nella nazione modello francese.»
Lettera di Marx a Engels, 20 giugno 1866
1. A partire dal collasso dell’Unione Sovietica abbiamo assistito impotenti a una serie impressionante di violenze planetarie da parte degli Stati Uniti con il seguito, spesso, dei suoi alleati: l’aggressione premeditata alla Serbia, l’invasione dell’Iraq, l’invasione dell’Afghanistan. E possiamo già assistere ad atti di guerra, magari su “invito” dei cosiddetti “legittimi governanti”, come i bombardamenti sul Pakistan, le manovre nello Yemen e tra poco in Somalia come promesso da Barack Obama dopo l’attentato farsa del volo Amsterdam-Detroit (basta aprire un atlante e si capisce immediatamente perché gli USA sono così interessati a questi due Paesi: controllano il Golfo di Aden, transito marittimo fondamentale, specialmente per le rotte petrolifere).
Continua qui: http://www.comunismoecomunita.org/?p=850
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