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giovedì 1 dicembre 2011

NO AI SACRIFICI DI MONTI
 


Note sulla crisi dell’anti-berlusconismo



di Costanzo Preve



Ho messo recentemente in rete due brevi saggi.
Berlusconeide, http://www.comunismoecomunita.org/?p=2908, e Il tempo della vaselina, http://comunismocomunitario.blogspot.com/2011/11/il-tempo-della-vaselina-fine-della.html. 

L’oggetto era lo stesso, e cioè la riflessione sulla nuova situazione politica italiana caratterizzata dalla fine , o forse soltanto del declino, del berlusconismo. A proposito del secondo saggio, mi è stato fatto notare che davo troppo credito al nuovo gruppo tecnocratico di Monti, ritenuto capace non di lacrime e sangue e di macelleria sociale, ma solo di “vaselina”. E’ un equivoco. Il mio giudizio su questo gruppo tecnocratico è terribile, ma per arrivarci bisogna prima chiarire alcuni punti preliminari.






1. La ragione del No ai sacrifici di Monti deve essere ben chiarita, e non basta dire che i sacrifici li faranno sempre e soltanto i “soliti noti”: è possibile, ma non sicuro. L’ICI, la possibile patrimoniale, il peggioramento del welfare, eccetera, non la pagheranno soltanto i “soliti noti”. La pagheranno strati ben più ampi. Per questo considero insufficiente la solita retorica pauperistica e miserabilistica. Bisogna andare molto più a fondo nella questione.


La gente è sempre disposta a fare sacrifici, se pensa che ne valga la pena e possa servire a qualcosa, soprattutto per i propri figli e nipoti. Quindi, non ha senso alzare la solita retorica sui “sacrifici”. Il punto non sta qui. Il punto sta nel fatto che questi sacrifici servono esclusivamente a garantire la riproduzione allargata così com’è di questo schifoso capitalismo finanziario globalizzato, e sono quindi in prospettiva sacrifici contro di noi e contro i nostri figli. Se questi sacrifici fossero inseriti non dico in una prospettiva socialista, comunista o comunitaria, ma anche solo in una prospettiva di correzione qualitativa di questo capitalismo, allora diciamoci la verità: varrebbe la pena farli!


Ma non è così. Questi sacrifici sono inseriti in una prospettiva di radicalizzazione e di allargamento del nuovo modello liberale-anglosassone di capitalismo assoluto, totale e totalitario. Ed è questa, e solo questa, la ragione per cui il No a Monti e alla sua giunta neoliberale deve essere assoluto.






2. Purtroppo siamo lontani da questa comprensione, che pure sarebbe limpida e facilmente spiegabile. Ne siamo lontani non certamente per le “eredità del berlusconismo”, come dice unanime il concerto operaista-azionista degli intellettuali di sinistra con accesso ai foglietti politicamente corretti (Manifesto, Liberazione, eccetera), ma proprio per la ragione opposta, e cioè l’eredità mefitica dell’anti-berlusconismo.


L’anti-berlusconismo ha funzionato nell’ultimo ventennio come un fattore di oscuramento della comprensione dei rapporti sociali, in direzione di una loro moralizzazione, nel caso migliore, o di una loro estetizzazione, nel caso peggiore. Il sociologo cattolico Giuseppe De Rita ha parlato di “soggettivismo etico”, collegando intelligentemente Berlusconi al nefasto e mefitico “spirito del Sessantotto”. Più recentemente Mario Perniola (cfr. Berlusconi o il Sessantotto realizzato, Mimesis 2011) è andato più in profondità , collegando il libertarismo sessuale del vecchio satiro con la fine della moralità borghese facilitata dall’orrendo Sessantotto. De Rita e Perniola si avvicinano al punto cruciale della questione, ma lo sfiorano senza riuscire a coglierlo, perché partono in modo geocentrico dalla identificazione fra borghesia e capitalismo, tipica della cultura di “sinistra” in tutte le sue varianti. Non capiscono che si tratta di fenomeni distinti, essendo la borghesia un soggetto sociale dialettico e contradditorio, e invece il capitalismo un processo anonimo e impersonale rivolto soltanto al proprio autoaccrescimento illimitato. Su questo rivendico pienamente di aver capito da tempo il cuore della questione, ed è solo questione di tempo perché essa arrivi a quel torpido corpaccione lento di riflessi e in preda alla sindrome del “politicamente corretto” chiamato “intellettuali”.






3. I foglietti sinistroidi anti-berlusconiani (Manifesto, Liberazione, eccetera) non hanno potuto neppure avvicinarsi lontanamente a questa comprensione, perché hanno delegato la comprensione al gruppo intellettuale più retrivo ed incapace della cultura italiana, quello degli operaisti-azionisti torinesi (Revelli, De Luna, D’Orsi, eccetera). Vediamo il più goffo e banale dei tre, lo storico di regime De Luna (cfr. Liberazione del 13 novembre 2011): “Come fu per il fascismo, il berlusconismo non è stato una parentesi, ma una rivelazione che ha messo in luce i guasti profondi della nostra società … la dimensione valoriale degli italiani è stata completamente risucchiata dentro gli angusti spazi degli interessi privati”. Revelli e D’Orsi si sono subito sintonizzati su questa lunghezza d’onda: esultiamo, perché il Puzzone Numero Due (il puzzone numero uno era Mussolini) è caduto!!


Chi ha avuto l ventura di vivere a Torino conosce bene questo modello culturale, di lontana origine gobettiana mediata dalla tradizione di Bobbio, pessimista antropologico (Hobbes) e moralista individuale (Kant), ostile sopra ogni altra cosa al concetto hegelo-marxiano di comunità. Gli italiani sono un popolo di scimmie, risultato di un risorgimento senza eroi. E’ un modellino pronto all’uso tuttofare: coniato per Mussolini, è stato in seguito applicato prima alla DC, poi a Craxi, infine a Berlusconi.


Faccio questi rilievi perché ogni corrente politica ha sempre e solo gli intellettuali “organici” che si merita, chi conosce Sorel e Gramsci potrà capire meglio. Le due baracchette parassitarie di Diliberto e Ferrero, in circa vent’anni dal 1991, non hanno saputo, voluto e potuto dotarsi di gruppi intellettuali capaci di interpretare le nuove contraddizioni sociali apertesi dopo la fine della funzione geopolitica del sistema di stati del socialismo reale (la cui funzione, in Italia, è stata colta solo dalla rivista “Eurasia”, che paradossalmente l’ha colta proprio perché era sempre stata estranea alle prospettive socialiste e comuniste). Il monopolio interpretativo riservato alla patetica baracchetta azionista-operaista (Revelli-De Luna-D’Orsi) ne è stata una conseguenza.






4. Voltare le spalle alla baracchetta operaista-azionista è quindi un atto preliminare di igiene mentale. Questo implica, in linguaggio scientifico, il “tornare ai fondamentali”. E i fondamentali, secondo il vecchio metodo inaugurato da Marx e poi abbandonato dagli straccioni positivisti che ne hanno usurpato il nome per un secolo, è sempre e solo la riproduzione allargata potenzialmente illimitata del rapporto di capitale. Se uno parte da questi “fondamentali” si accorgerà che i sacrifici della giunta Monti sono rivolti a questa riproduzione, laddove i conflitti d’interesse, le squinzie di Arcore, i soggettivismi etici, il popolo delle scimmie, la corte dei miracoli del cavaliere, eccetera, sono sempre e solo stati particolari pittoreschi da commedia dell’arte.


Le mie sono, ovviamente, prediche inutili. La corruzione degli intellettuali italiani di “sinistra” è infatti profonda e incurabile. Speriamo in una generazione nuova, meno rincoglionita dall’abbietta eredità sessantottina.






Torino, 25 novembre 2011

lunedì 7 novembre 2011

La questione nazionale e la prospettiva della sinistra



conversazione con Spartaco Puttini
a cura di Mattia Nesti

Per tutte quelle realtà politiche e sociali che si pongono il problema di superare questo sistema economico, che valore assume la “questione nazionale”, anche in relazione alle esperienze di altri Paesi (pensiamo al Sudamerica) e alle continue interferenze in Italia della NATO, della BCE o del FMI? E quali implicazioni ha nella pratica politica quotidiana di un movimento che ambisce a liberare i lavoratori e le classi sociali deboli del Paese?

La questione nazionale assume grande rilevanza nell’attuale contesto storico, nell’attuale lotta contro l’imperialismo. Coloro che vogliono superare il sistema economico vigente, e non solo limitarsi a qualche ritocco di facciata che lascerebbe immutato il sostanziale sfruttamento che caratterizza il sistema stesso, devono pertanto impugnarla. La questione nazionale è la lotta in difesa della sovranità nazionale e dell’indipendenza (non solo formale) del proprio paese e degli altri paesi in lotta contro l’imperialismo. E’ la lotta propria della nostra epoca storica, i cui limiti sono ben più ampi di quanto aveva stimato Hobsbawm nel suo “secolo breve”. La questione nazionale è estremamente attuale in un momento in cui gli Stati Uniti con i loro vari tentacoli (FMI, Banca mondiale, Nato) cercano si svuotare la sovranità nazionale dei paesi e dei popoli che si oppongono alle loro ambizioni di dominio globale per instaurare quel Nuovo ordine mondiale che giustamente Fidel Castro ha definito come la loro“dittatura planetaria”.

La questione nazionale è come un prisma, ha varie facce.
Vi è il lato economico: si tratta della difesa dell’intervento pubblico in economia con un ruolo propulsivo; della proprietà statale sui settori strategici, cioè su quei settori (acqua, materie prime, industria pesante, telecomunicazioni, energia, ferrovia, etc…) che se lasciati in mano privata possono rappresentare un’ipoteca circa lo sviluppo del paese e per lo stesso esercizio della democrazia (non a caso un tempo si parlava di “democrazia economica”). Si tratta, soprattutto, del controllo pubblico sulle leve dell’economia in modo da poter orientare lo sviluppo senza gli sprechi che caratterizzano l’anarchia produttiva tipica del capitalismo, specie nella sua versione liberista. Guardando oggi alla crisi italiana, una giusta declinazione della sovranità da questo punto di vista consisterebbe nel sostenere che è necessario, per controllare e dirigere gli investimenti, la nazionalizzazione del sistema creditizio e non delle sue perdite (come avviene oggi), e che è necessario riprendere una politica di programmazione economica.

Le ricette delle BCE non fanno che farci proseguire sulla strada che conduce al baratro, la stessa strada che abbiamo percorso in questi ultimi 20 anni. Da questo punto di vista la difesa della sovranità dovrebbe farci porre la questione della pertinenza e dell’accettabilità di una istituzione sovranazionale, non controllata da nessuno se non dalle grandi concentrazioni finanziarie e capitalistiche. Una giusta declinazione della questione nazionale su questo fronte dovrebbe spingere a denunciare l’ingerenza della BCE nelle nostre faccende domestiche come inaccettabile e dovrebbe sostenere che l’Unione europea deve essere costruita su tutt’altre basi rispetto a quelle che la caratterizzano attualmente.

Anche sostenere una più equa ripartizione del carico fiscale e lottare contro i meccanismi che favoriscono l’evasione delle classi privilegiate fa parte della questione nazionale.
Alla vigilia della rivoluzione francese la questione nazionale venne posta per la prima volta, non casualmente, in riferimento alla lotta del popolo (allora era il Terzo Stato oggi sarebbe il Quarto) contro i privilegi dei ceti privilegiati aristocratici (oggi sarebbero le oligarchie alto-borghesi e capitalistiche). Allora venne scritto un libello dal carattere fortemente rivoluzionario: “Che cos’è il Terzo Stato?”. In definitiva si rispondeva che il “Terzo Stato” era la nazione e con ciò si introduceva l’idea che gli altri ordini in cui era divisa la società d’Ancien Régime non fossero, e non dovessero contare, nulla. Tantomeno campare in modo parassitario sulle spalle della nazione.

Quel libello, se opportunamente declinato, ci indica parole d’ordine chiare e suggerisce slogan efficaci.

Infine vi è il lato più propriamente politico della questione nazionale: la difesa dell’indipendenza nazionale e la posizione sulla scacchiera internazionale. In questo caso la declinazione dovrebbe spingere ad una politica estera più autonoma da quella perseguita dall’attuale governo succube degli Usa. Andrebbero affermate le priorità del nostro paese che è un paese anfibio, euro-mediterraneo e non un paese atlantico. Andrebbero pertanto rafforzati i legami con i paesi del bacino del Mediterraneo (coi quali siamo tra l’altro economicamente complementari) e andrebbe sostenuta la costruzione di un’Europa aperta a questo spazio su basi paritetiche. L’Europa di oggi è solo la testa di ponte dell’imperialismo statunitense puntata al cuore dell’Eurasia per le sue ambizioni guerrafondaie. La triste e squallida gestione della crisi libica da parte del governo Berlusconi, che ha bellamente calato le braghe di fronte ai diktat provenienti da oltreatlantico, si trova proprio al polo opposto rispetto a quanto si dovrebbe fare. La partecipazione del’Italia alla Nato dovrebbe essere pertanto combattuta e dovrebbe essere richiesto il ritiro delle basi Usa e Nato (che sono basi Usa mascherate dietro altra sigla) dal nostro territorio. Andrebbero stretti legami con tutti quei paesi che nel Sud del mondo lottano contro l’imperialismo (a partire dalla prospettiva di collaborazione eurasiatica con la Russia e la Cina e con il blocco latinoamericano in fase di integrazione).

Occorre inoltre ostacolare la diffusione di messaggi anti-islamici, anti-cinesi o quant’altro, perché funzionali agli interessi imperialistici del dividi et impera e perché contrari agli interessi nazionali dell’Italia, che deve puntare alla collaborazione con altri popoli e che non può tollerare o sostenere la demonizzazione di minoranze, destinate ad essere sempre più consistenti, presenti all’interno della comunità nazionale.

Sulla scena internazionale sono oggi molte le realtà che dimostrano che questa strada è percorribile, anche se si tratta di una sfida difficile. Il processo di recupero della sovranità da parte dei paesi del Sudamerica (dal Venezuela al Brasile) che fino a ieri erano solo il cortile degli Usa ha del prodigioso. Come hanno fatto? Quei casi vanno opportunamente studiati nei loro nessi strategici. A un primo sguardo possiamo dirci innanzitutto questo: che laggiù non hanno creduto né alle idiozie “normalizzatrici” sulla “fine della storia”, né alle panzane “destabilizzatrici” che calcavano eccessivamente la mano sulla discontinuità con il passato al solo scopo di disorientare (ricordate lo slogan “nulla è più come prima” ripetuto ad ogni starnuto di capra?). La sinistra italiana si è lasciata invece disorientare, introiettando alcune questioni (la crisi dello stato-nazione, l’inutilità del potere, l’impero e le moltitudini, il superamento del concetto di egemonia e di quello di blocco storico…) che hanno oggettivamente disarmato le forze che volevano un cambiamento.

La questione nazionale è poi, se impugnata correttamente, un’arma che legittima chi la impugna e delegittima i propri avversari, che non fanno nulla per difendere gli interessi del proprio paese e del proprio popolo o che, addirittura, possono essere accusati di tradimento.

La Costituzione italiana rappresenta oggi un programma mai attuato per lo sviluppo e il progresso del nostro Paese; a partire da questo elemento, la sinistra italiana come può sviluppare un’iniziativa politica capace davvero di fermare l’involuzione antidemocratica che ha caratterizzato gli ultimi anni?


La Costituzione della Repubblica è legata strettamente alla questione nazionale. Basti pensare che è il frutto più maturo della Guerra di Liberazione nazionale dal nazifascismo. Come ricordava, non senza ragione, lo storico di parte cattolica Pietro Scoppola la Costituzione era una sorta di “rivoluzione promessa” che indicava la via della trasformazione del Paese, la rotta da tenere e i valori cui ispirarsi. Proprio per questa sua caratteristica la Costituzione repubblicana venne sin dall’inizio profondamente osteggiata dagli ambienti conservatori e da quelli più propriamente reazionari, tanto che la sua attuazione pratica fu sempre ostacolata. Si pensi all’insediamento della Corte Costituzionale, avvenuto solo sotto la presidenza di Giovanni Gronchi (esponente della sinistra Dc) nel 1955, ben 10 anni dopo la Liberazione! Oppure si pensi al caso ancora più tormentato dell’istituzione delle regioni (posticipato fino agli anni ’70 dalle destre, timorose di abbandonare all’amministrazione dei comunisti aree rilevanti del paese). Ma sono le parti di indirizzo più radicale della Carta quelle che danno maggiormente fastidio (i primi articoli di indirizzo e l’articolo 42 che contempla l’esproprio a fini di interesse nazionale e/o sociale). Le correnti che un tempo osteggiavano la concretizzazione degli obiettivi e dello spirito della Costituzione oggi non sono solamente in grado di sabotarla, ma cercano di cancellarla, stravolgerla, tornare indietro. Ciò è stato possibile per un complesso insieme di cause. Riassumendo con una semplificazione, che spero mi si perdonerà, possiamo dire che ciò è stato possibile perché è cambiato il sistema politico. Qualsiasi patto costituzionale vive su un’articolazione del sistema politico, quando questo entra in crisi la carta che ne è la “cristallizzazione” subisce dei contraccolpi. Il nostro sistema si basava sul ruolo dei partiti di massa come collettori ed organizzatori dei cittadini nella vita politica per concorrere all’indirizzo e alla gestione della cosa pubblica. Nel bene e nel male era così. Questo sistema è stato dapprima svuotato e poi cancellato con il terremoto successivo al crollo del muro di Berlino e alla fine della guerra fredda. L’Italia, per la sua particolare posizione geopolitica, è stata il paese che ne ha risentito di più al di qua della cortina di ferro. Oggi le architravi che tenevano in piedi le promesse dell’aprile 1945 sono crollate. Che fare per salvare la Repubblica? Innanzitutto una chiara azione di informazione per spiegare quanto la Costituzione sia avanzata e mettere chiaramente in relazione l’opera di smantellamento che è in corso con la politica di massacro sociale e di vergogna nazionale (si pensi alla guerra in Libia in relazione all’articolo 11) che viene portata avanti. Purtroppo certe disponibilità a mercanteggiare sulla Costituzione sono drammaticamente presenti anche nel centrosinistra, come ha dimostrato proprio l’aggressione alla Libia.



Le formazioni neofasciste che stanno maggiormente prendendo piede nel Paese (soprattutto fra le nuove generazioni) si rifanno spesso a simboli e miti proprie della sinistra (fino al caso limite di Ernesto Che Guevara); come è possibile che ciò avvenga? Come ha potuto la sinistra italiana perdere completamente, nel corso degli anni, il rapporto con il proprio immaginario e, di conseguenza, con le classi sociali di riferimento, sempre più attratte dalle destre?

Abbandonando la questione nazionale, ed anche altre categorie interpretative della realtà o altri punti qualificanti del loro immaginario le formazioni di sinistra (eredi del movimento comunista e/o socialista) hanno lasciato un vuoto. Formazioni di estrema destra si stanno appropriando di determinati simboli di sinistra. O è in corso una mutazione, oppure siamo in presenza di una torsione strumentale che intende sfruttare quel vuoto. In politica, come in fisica, il vuoto non esiste. Quando il tuo antagonista possiede un’arma efficace o un simbolo attraente devi impossessartene e imparare ad utilizzarlo di più e meglio di lui. Il tuo antagonista farà lo stesso con te. Fa parte del processo sfida-risposta che caratterizza le reciprocità politiche. Se tu abbandoni un’arma efficace, un simbolo attraente, lui se ne impossesserà. Ed è quello che ha fatto. Il caso Che Guevara è al tempo stesso emblematico e particolare.

Emblematico perché rappresenta in modo eloquente fino a che punto sia possibile strumentalizzare una figura e compiere un’opera di riappropriazione/travisamento di questo tipo. Ma è particolare perché è da parecchio tempo che la figura di Che Guevara è sottoposta allo strazio e alla deformazione. Di volta in volta se ne è fatto un guerrigliero solitario anarcoide, un libertario senza meta, quando non una rock star da stampare sulle magliette o una sorta di poeta maledetto della rivoluzione (senza ulteriori aggettivi). Che Guevara era più semplicemente un uomo animato da una profonda umanità che, da un’iniziale radice cattolica, era approdato al comunismo. Era un patriota della grande e dilaniata nazione latinoamericana e un internazionalista al tempo stesso. Era soprattutto un combattente antimperialista.

Ben altre figure sono state utilizzate (con grande efficacia) a destra. Penso al recupero e alla rilettura di Gramsci fatta dal leader missino Pino Rauti alla fine degli anni ’80. Forse è il paradosso più eloquente. Intuizioni come quella dell’egemonia culturale sono state “conquistate” dalla destra, ben oltre e ben al di là dello spazio e dei mezzi di cui disponeva Rauti. La sinistra le ha dichiarate ferri vecchi, Berlusconi le ha assunte come parte del proprio bagaglio e, grazie anche ad una potenza di fuoco massmediatica senza precedenti, ha dimostrato che sono vincenti.

Come mai la sinistra abbandonò quei riferimenti, quelle armi?
Vi sono state diverse sinistre in Italia e per proprietà transitiva vi sono state varie modalità di abbandono o, se si preferisce, di disarmo. Tutte legate ad un passaggio cruciale: l’integrazione negativa nel sistema di potere democristiano. L’integrazione nasceva dall’idea di incontrarsi per fare alcune riforme progressive senza toccare alcuni nodi fondamentali. Tra questi vi era la sudditanza atlantica. Il Psi venne risucchiato in questa logica negli anni ’60 e ne uscì sfigurato con il volto di Craxi. Al Pci toccò, con modalità un poco diverse, il decennio dopo. Ad una ad una, dopo la questione nazionale, furono le altre questioni ad essere rimosse o annacquate, tra cui, per allargare i propri orizzonti con un infausto eclettismo, le categorie interpretative della realtà, i riferimenti più solidi alla propria cultura e al proprio immaginario. Ciò non ha tolto solo la capacità di orientare e di unificare le lotte e le rivendicazioni popolari ma ha lasciato addirittura disorientati di fronte ai cambiamenti le stesse élites politiche di sinistra. Ieri come oggi del resto questa rimozione si faceva in nome della lotta contro i settarismi “identitari”. Non si scorgeva, o si fingeva di non farlo, il carattere strategico che avevano quei riferimenti nell’interpretazione della realtà, nell’orientarsi e nell’orientare in un mondo che cambiava velocemente. Da lì in poi sarebbero state recise tutta una serie di radici fino all’accettazione del discorso e dell’immaginario astratto dell’avversario. Restano ancora da soppesare le responsabilità storiche di quanti (nei partiti tradizionali della sinistra ma anche nella galassia della sinistra extraparlamentare e nei così detti movimenti) contribuirono a inoculare il morbo, e lungo quali direttrici questo finì per essere a poco a poco letale. In attesa di sviluppare lo studio possiamo almeno sostenere con certezza che abbiamo di fronte i risultati di quel disastro involutivo e che occorre misurare i nostri passi nel presente forti di quell’esperienza.

domenica 23 ottobre 2011

Il concetto di nazione nella teoria marxista
da Gramsci a Frantz Fanon


''Il popolo è deciso a offrir la propria vita per dare ai propri figli un tetto e da mangiare, per dare soprattutto a chi verrà domani la patria non più schiava dei nordamerìcani'' Proclama di Camilo Torres ''Se eliminaste l'esercito inglese domani e si issasse la bandiera verde in cima al Castello di Dublino, a meno che non si disponesse l'organizzazione della Repubblica Socialista i vostri sforzi sarebbero inutili. Il Regno Unito vi governerebbe comunque: Lo farebbe tramite i suoi capitalisti, i suoi coloni, i suoi finanzieri, attraverso l'intera massa di istituzioni commerciali e individualiste che ha piantato nel paese abbeverate con le lacrime delle nostre madri e il sangue dei nostri martiri'' James Connolly " Amo il mio secolo, perchè è la patria che posseggo nel tempo. L'amo già perchè mi permette di allargare di molto i limiti della mia patria nello spazio. Io amo la mia patria nel tempo, questo ventesimo secolo nato tra tempeste e procelle. Esso reca in sè possibilità illimitate. Il suo territorio è il mio mondo'' Leon Trotsky 1. I colpi di coda dell‟imperialismo il quale a suon di bombardamenti al fosforo, e con i suoi mercenari islamisti, cerca di chiudere il ciclo delle rivoluzioni panarabe in Nord Africa, per poi allungare i tentacoli nel Medio Oriente, ha posto una serie di problemi che i marxisti non possono lasciare indefiniti. I movimenti di liberazione nazionale hanno ancora un carattere progressivo e antimperialista? Quale posizione deve assumere un (neo)marxista davanti il concetto di „‟nazione‟‟? Lasciando stare la squallida „‟sinistra colta‟‟, ormai cagnolino da guarda dell‟imperialismo yankee, ed occupandomi solo delle posizioni marxiste, devo dire che il dibattito è tutt‟altro che „‟pieno di certezze‟‟. In questo intervento, cercando di rispolverare qualche contributo teorico originale (e purtroppo messo in cantina), proverò a rispondere a queste domande. Se non ci riuscirò, spero almeno di spingere chi legge a fare qualche riflessione, anche solo per respingere.



Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2802

martedì 11 ottobre 2011

La resistenza venezuelana fra ratti e corvi imperialisti



di Stefano Zecchinelli

’’Trionfi, la Rivoluzione nazionale sarà socialista; arrestino il suo slancio, la borghesia colonizzata prenda il potere, il nuovo Stato, ad onta d’una sovranità formale, resta nelle mani degli imperialisti’’ Jean-Paul Sartre

‘’I fascisti non sono esseri umani. Un serpente è più umano di un fascista’’ Hugo Chavez

‘’La misura della menzogna è il fattore decisivo per farla credere, poichè le grandi masse di una nazione sono, nel profondo del cuore, più facilmente ingannate, piuttosto che consapevolmente e intenzionalmente cattive. La primitiva semplicità delle loro menti le rende facile preda di una bugia grande, anzichè di una piccola, anche perchè esse stesse spesso raccontano piccole bugie, ma si vergognerebbero di raccontare grandi bugie'' Adolf Hitler



1. Un recente intervento del compagno Riccardo Achilli prende in esame, a mio avviso molto bene, l’attuale situazione del Venezuela chavista spiegando, con puntualità, meriti e debolezze della, così detta, ‘’rivoluzione bolivariana’’. L’articolo di Riccardo critica prevalentemente le contraddittorie posizioni interne alle varie anime di sinistra, sostenendo (a ragione) che il motivo della debolezza di queste critiche risiede nella vergognosissima compromissione della sinistra occidentale (per me schifosissima ‘’sinistra colta’’) con le oligarchie economico-finanziare, promotrici di un inedito cosmopolitismo hitleriano.

In questo articolo non farò una analisi della situazione politica e sociale del Venezuela (a parte un paragrafetto introduttivo), anche perché Achilli è un bravissimo economista e potrebbe fare ciò un milione di volte meglio di me, ma (cosa che più mi compete) cercherò di spiegare come gli sgherri del Gran Capitale cercano di creare l’opinione pubblica adatta per rovesciare ‘’Stati canaglia’’ tipo il Venezuela. Dirò subito, senza ipocrisie, che davanti i colpi di coda dell’imperialismo americano, queste brevi note vogliono prendere le parti del modello bolivariano, a cui va dato un sostegno critico (un po’ come fece il MIR con Allende), ma di certo da difendere in tutti i modi dalle minacce dell’imperialismo.

2. Prima di affrontare il problema della disinformazione di regime, dirò due cose – direi che sono obbligato ad introdurre così la questione – sulla natura sociale del Venezuela. Di mio tendo a definire i regimi nazional-progressisti (dal ‘’socialismo arabo’’ al bolivarismo) come ‘’Dispotismi sociali’’ (formula che mi sembra più corretta rispetto a ‘’capitalismo di stato’’) dove le borghesie nazionali, per fronteggiare l’imperialismo, fanno ‘’blocco sociale’’ con il ‘’proletariato’’. La fragilità della società civile (l’abbiamo visto con la Libia o con l’Irak) comporta il passaggio dal ‘’centralismo democratico’’ al conseguente ‘’centralismo burocratico’’, in pratica ciò che Gramsci chiamò ‘’statolatria’’. Non è casuale che nel Nord Africa il Partito Ba’th abbia strozzato (usando anche la legge islamica che vieta l’usura) le borghesie mercantili, creando un forte ‘’blocco sociale’’ (rapporto di produzione + ideologia) a suo sostegno.

Una notevole studiosa, eroica figura del movimento operaio cileno fuggita al regime di Pinochet, come Marta Harnecker (di scuola althusseriana), nonostante queste contraddizioni ha individuato nel progetto di Chavez una possibile alternativa al neo-capitalismo. Dalla rivoluzione politica a quella sociale? Speriamo, staremo a vedere.

Adesso posso affrontare il problema delle strategie di controllo usate dall’impero, partendo, in primis, da una analisi dello scontro fra le potenze che è in atto, e poi inquadrando il ruolo dei mass media. Mi metto al lavoro con la speranza di dare a chi legge una idea chiara della situazione.

3. Un importante teorico marxista come James Petras ha delineato questa gerarchia imperiale (con cui mi sento di concordare in buona parte):




''I. Gerarchia dell’Impero (dall’alto verso il basso)
A. Stati Centrali Imperiali (CIS)
B. Potenze Imperiali di recente Emergenti (NEIP)
C. Regimi Vassalli Semi-autonomi (SACR)
D. Regimi Vassalli Collaboratori (CCR)


II. Stati Indipendenti:
A. Rivoluzionari
Cuba e Venezuela
B. Nazionalisti
Sudan, Iran, Zimbabwe, Corea del Nord


III. Aree di contrasti e Regimi in Transizione
Resistenze armate, regimi eletti, movimenti sociali''.

A me interessa principalmente approfondire il secondo punto, quello sugli Stati indipendenti, mentre sul primo e sul terzo punto segnalo subito alcune cose di particolare interesse.
All’interno di questa carneficina planetaria Istrale, lo Stato assassino e terrorista di Istraele, è una anomalia, perché da una parte è una potentissima forza neocoloniale, e dall’altra, tutto questo arsenale omicida fa capo ad un piccolo stato con una popolazione (che promuove campagne di boicottaggio interne contro le sue borghesie imperialistiche) molto modesta, almeno come densità demografica.
Ciò significa, o almeno potrebbe significare, che siamo oltre alla involuzione nazionalistica descritta da Lenin nei testi sull’imperialismo; comunque l’argomento è complesso e meriterebbe un saggio a parte, non posso di certo argomentare in questa sede.
Per ciò che riguarda il terzo punto la mia posizione è sempre stata chiara: i movimenti di liberazione nazionale vanno sostenuti, senza se e senza ma, perché al momento sono i soli in grado di infligge dei colpi mortali all’impero centrale, marcato Usa-UE.

4. Passo al secondo punto per poi arrivare al Venezuela.

Petras dice:


‘’ Sfide al sistema imperiale arrivano da due fonti: gli stati relativamente indipendenti e i movimenti forti socialmente e politicamente.
Gli stati “indipendenti” sono regimi che si oppongono e per questo sono presi di mira dagli stati imperiali. Questi “indipendenti” includono il Venezuela, Cuba, l’Iran, la Corea del Nord, il Sudan e lo Zimbabwe. Quello che caratterizza questi regimi come ‘indipendenti’ è la loro volontà di respingere le politiche delle potenze imperiali, e in particolar modo gli interventi militari imperiali. Inoltre respingono le pretese imperialiste di accesso incondizionato ai mercati, di risorse e di basi militari.
Questi regimi si differenziano notevolmente in termini di politiche sociali, dall’entità del sostegno popolare, dalle loro identità secolari-religiose, dallo sviluppo economico e dalla consistenza nell’opporsi alle aggressioni imperialiste’’.

James Petras è fra più bravi marxisti che ci sono in circolazione e i suoi testi mi sono sempre di grande aiuto, però questa volta non sono d’accordo con lui. Diffido fortemente dalle ‘’rivoluzioni su base religiosa’’ tanto più che le ideologie pre-industriali hanno spesso nascosto il volto dell’imperialismo, sia da parte delle borghesie compradore, che da parte delle borghesie nazionali in espansione.
Le classi dominanti fanno in modo che le masse sfruttate si difendano dall’alienazione coloniale esasperando l’alienazione religiosa, e cumulando le due alienazioni; l’una si rafforza con l’altra.
A riguardo ci sono delle bellissime pagine di Jean-Paul Sartre e Franz Fanon i quali, non si limitano all’analisi del neo-colonialismo, ma colgono anche il movente psicologico del ‘’nazionalismo anti-coloniale’’.
Petras mi scuserà ma l’Iran è un baluardo dell’anticomunismo (cosa che lui sicuramente sa, ma nel testo che menzionerò nelle note non ne fa cenno), dove i comunisti del Tudeh o del Partito comunista operaio dell’Iran sono fuorilegge dal 1988, e che ora fa la parte dell’ ‘’antimperialista’’ solo perché si sta scontrando con gli interessi degli Stati Uniti in una geo-zona (Medio Oriente) importantissima.
Considerazioni non da poco dato che l’Iran è uno dei maggiori partner commerciali del Venezuela, ma, dall’altra parte, questa politica estera (molto cinica, si pensi ai rapporti con Cina e Russia) ha permesso a Chavez di concludere accordi vantaggiosi (tenere lontani gli Usa) e fare una ottima redistribuzione della ricchezza.
Prendendo in esame la politica internazionale degli ‘’Stati indipendenti’’ ci sono forti analogie con il ‘’Movimento dei non allineati’’ di Tito e Nasser, con condizioni differenti, basi ideologiche molto distanti, e soprattutto una situazione geo-politica mono-centrica e priva di bilanciamenti (conseguentemente drammatica).
Utilizzando il metodo di chi aderisce alla Sinistra Comunista dovrei bollare il tutto come ‘’formazione del mercato nazionale’’, senza considerare i rapporti di forza internazionali, e le spinte interne che questi governi ricevono da una base sociale certamente anticapitalista (si pensi al carattere di classe dell’indigenismo). Sono convinto che bisogna uscire dal mono-centrismo e se questi accordi ‘’compromettenti’’ possono indebolire Washington che ben vengano. Ogni tanto ci vorrà anche un po’ di cinismo, non siamo mica ad un ‘’pranzo di gala’’.
Chiarita la mia posizione sulla politica estera, esaminerò alcuni cavalli di battaglia dell’ ‘’impero’’ per destabilizzare la Repubblica bolivariana.

5. Primo punto: il pluralismo. Per pluralismo in questo caso si intendono le libertà economiche, e quindi all’autoritarismo di uno Stato che controlla sempre di più l’economia si contrappongono le ricette neo-liberali. Il pluralismo è un eufemismo utilizzato dagli intellettuali filo-imperialistici perchè, in realtà, i partiti in regime capitalistico, complessivamente, rappresentano, nessuno escluso, gli interessi della classe borghese. Il fatto che nessuno metta in dubbio il dogma del mercato (come negli Usa o in Europa) ne è la prova.

Secondo punto: la centralizzazione del credito bancario. In questo caso si fa riferimento alla nascita del Banco del Bicentenario del Venezuela. Le banche centrali negli Usa e in Europa seguono gli spostamenti dei capitali finanziari, distruggendo le sovranità nazionali, e macellando i ceti più deboli con la questione del debito pubblico. Marx nel Capitolo 24 del primo libro di ‘’Il Capitale’’ chiama questo sistema ‘’bancocratico’’.
La centralizzazione del credito bancario, nel caso venezuelano, risponde alle necessità di incentivare la democrazia partecipativa, e il controllo sociale della ricchezza.
Non amo mitizzare il marxismo, ma Marx nel Manifesto dice chiaramente:

‘’ Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo’’.

Le critiche dei liberali si dimostrano debolissime.

Terzo punto: le politiche aperte. Questa è una vecchia storia: gli Usa finanziano le Organizzazioni non governative, le reti studentesche, i movimenti colorati, per rovesciare Stati che fanno una politica interna ed estera a loro avversa. Ne ho già parlato altrove quindi non ritorno sull’argomento.

Petras pone l’accento sulla nozione gramsciana di ‘’società civile’’. La società civile per Gramsci ha certamente le divisioni di classe, ma la borghesia imperialistica parla (al contrario) di ‘’società civile organizzata’’ (termine caro a Gene Sharp) interpretandola come amalgama sociale. Quindi la storia è sempre la stessa: da una parte il dittatore cattivo e dall’altra il popolo che vuole libertà democratiche.

L’eufemismo più importante è economia di mercato. Un marxista sa che le economie capitalistiche necessitano di un mercato ideologico e di un mercato politico, e questo fa si che il dissenso venga fatto fuori direttamente dai monopoli informativi. La forza del capitalismo sta nella sua flessibilità cosa capita molto bene da Marcuse che parlò di ‘’tolleranza repressiva’’ e da Lukàcs che parlò di ‘’democrazie manipolate’’.
E’ triste vedere come certe critiche sono fatte proprie anche dalla sinistra socialdemocratica, dai ‘’comunisti per bene’’, e dalla sinistra libertaria. I tentacoli dell’impero sono più insidiosi di quello che si possa credere.

6. La strategia imperialistica in Venezuela si basa sulla creazione degli ‘’Angoli americani’’. Questi angoli sono delle piccole ambasciate di Washington sparse in tutto lo Stato preso di mira. La ex Jugoslavia ne aveva 22 (di cui 7 in Serbia), l’Ucraina 24, la Bielorussia 11, la Russia 20, e l’Irak 11. I più importanti si trovano nelle ex Repubbliche popolari, e se noi pensiamo che quegli Stati sociali hanno funzionato fino all’ultimo, capiamo il movente interno che ha portato alla attuale catastrofe.
In Venezuela ci sono 4 ‘’Angoli americani’’ che gli Usa finanziano spendendo circa 5 milioni dollari all’anno (Jim McIlroy & Coral Wynter, "Eva Golinger: Washington's 'three fronts of attack' on Venezuela," Green Left Weekly, 17 November 2006).
Pascal Fletcher, molto ben documentato, dimostra come gli Usa abbiano affidato la destabilizzazione del Venezuela a Robert Helvey che già addestrò attivisti e studenti filo-Usa per il rovesciamento di Milosevic. Abbiamo tutti presente il ruolo dell’OTPOR, esperienza che si è replicata in tutto il mondo, e che le mafie di Miami hanno riproposto anche a Cuba. La ‘’sinistra colta’’ ovviamente si gusta il feticcio della democrazia.
Neil Foley, professore in Texas di storia, ha fatto in Venezuela e Bolivia, non molto tempo fa, seminari sulla ‘’cultura americana’’. Il punto centrale del suo insegnamento – ovviamente lui ha fatto questi seminari abbondantemente pagato da Washington – è che se un Paese non corrisponde ai parametri di ‘’democrazia e dialogo americani’’ deve essere rovesciato. Insomma, c’è un triste filo nero che collega Foley a Gene Sharp, per poi arrivare ai loro emuli italioti, delinquenti come Don Ciotti e Marco Travaglio.
Infine ci sono gli immensi monopoli mediatici, si pensi alla RCTV, controllati dal Condor, cosa che ricalca la tragedia serba, dove l’informazione era in mano agli yankee e alle massonerie franco-tedesche (altro che Milosevic dittatore!).

7. La mia analisi si ferma qui. Il bolivarismo nasce come ideologia anticolonialista, ha un carattere autoctono (si parla di ‘’socialismo latino-americano’’), presenta certamente delle ambiguità di fondo, ma la difesa delle conquiste fino ad ora ottenute dai movimenti che ne fanno capo è il punto di partenza per sfondare le roccheforti del neo-capitalismo imperante.

Note:

1) James Petras ‘’Analisi sull’Impero: gerarchie, architetture, clientele’’, Global Research, 19 marzo 2007

2) James Petras ‘’ Venezuela: dizionario degli eufemismi della sinistra progressista’’

3) Chris Carlson ‘’ La nuova strategia imperiale di Washington in Venezuela’’
Fonte: http://www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=1830

Stefano Zecchinelli

sabato 6 novembre 2010

Intervista a Costanzo Preve



a cura di Franco Romanò

 
Nell’ampia intervista che pubblichiamo, s'insiste sui punti nevralgici della
Trilogia: Storia dell’etica, Storia della dialettica e Storia del materialismo,
scritti dal filosofo torinese e tutti pubblicati dall’editore Petite Plaisance. In
essa Preve suggerisce alcune linee per un bilancio teorico del socialismo
reale, da lui definito comunismo novecentesco. Prendendo spunto dalla
critica di Lucáks al materialismo dialettico e dalla sua positiva intuizione
dell’ontologia dell’essere sociale, Preve individua nella sovrapposizione
fra dialettica logica e dialettica storica, uno dei motivi della sconfitta
comunismo novecentesco, che l’autore vede fortemente inquinato da
residui positivisti. In tale contesto Preve interpreta il marxismo come
filosofia della prassi e non della natura, interpretazione avanzata per la
prima volta da Gentile e fatta propria da Gramsci.
Da questa convinzione nasce la riflessione su Marx, da Preve considerato
un filosofo idealista che ha prodotto una teoria strutturalista del modo di
produzione capitalistico, servendosi della dialettica hegeliana e
applicandola al nuovo oggetto sociale. Critico nei confronti di tutte le
correnti di pensiero marxiste che tendono ad allentare il legame fra Marx
ed Hegel e a negare l’importanza del concetto di alienazione, Preve
considera Marx un pensatore tradizionale che risale alle radici greche della
filosofia e reagisce alla mancanza di etica comunitaria del moderno
capitalismo, così come il pensiero filosofico greco aveva reagito
all’avanzare della società schiavista. Nella parte finale dell’intervista la
riflessione filosofica s’intreccia a questioni riguardanti la crisi economica
attuale, il venir meno della correlazione dialettica necessaria fra
proletariato e borghesia e altri temi di più stretta attualità, come i nuovi
soggetti sociali, l’area dei cosiddetti nuovi diritti e le aspettative suscitate
dalla presidenza Obama.

Segue:  http://comunitarismo.it/Intervista%20a%20Costanzo%20Preve.pdf

domenica 24 ottobre 2010

Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx





 Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp.320

Intervista di Giovanni Perazzoli a Roberto Finelli in occasione della pubblicazione del libro:


1) Uno degli scopi del suo libro è quello d’infrangere, se non di rovesciare, una linea di continuità e di progresso filosofico che una certa storiografia ha sempre visto nel rapporto Hegel-Feuerbach-Marx, quale un nesso di pensiero che dall’idealismo maturerebbe verso il materialismo. Da dove nasce la diversa lettura che lei propone? Qual è il motivo di fondo che giustifica la critica di una storiografia filosofica e politica, che sembrava ormai lungamente consolidata?

L’iconografia teorica ufficiale dei Partiti comunisti si è sempre ritrovata e rassicurata nell’immagine di un cammino progressivo della verità dall’idealismo dialettico di Hegel al materialismo dialettico e storico di Marx e di Engels. A partire dall’autorappresentazione e dell’autolegittimazione che di quella vicenda teorica già alla fine dell’800 aveva fornito lo stesso Engels. Dato che è stato certamente Engels, e non Marx – alla sorta di quanto fece Paolo con il cristianesimo – ad essere il vero e proprio fondatore del marxismo quale corpo dottrinario organico, che potesse valere, nell’estensione generale della dialettica a legge generale della realtà e della storia, come “credo” e canone per l’azione pratico-concreta dei comunisti nella lotta sociale e politica. Come testo più celebre di Engels a tal riguardo penso ovviamente al Ludwig Feuerbach und der Ausgang del klassischen deutschen Philosophie, nel quale appunto, com’è noto, si diceva che, se con la dialettica di Hegel la filosofia moderna aveva raggiunto il suo grado maggiore possibile di verità, solo con il materialismo antropologico di Feuerbach, prima, e poi definitivamente con il materialismo storico di Marx si era usciti, approfondendo ed elaborando l’ispirazione dialettica dell’hegelismo, dalla filosofia come teoria contemplativa e si era giunti ad una filosofia come immediatamente risolta nella prassi della trasformazione-rivoluzione sociale. Secondo tale canone dottrinario Hegel, pur dando vita alla dialettica moderna, avrebbe con l’Idea negato e annichilito la natura e il mondo concreto, facendone solo emanazione ed incarnazione dello Spirito; Feuerbach, rovesciando Hegel, avrebbe fatto invece della materia e della natura il fondamento d’ogni cosa, concependo l’attività spirituale solo come un derivato da quella sensibile; e infine Marx ed Engels avrebbero tradotto il materialismo, ancora solo naturalistico e genericamente umano, di Feuerbach nel materialismo pienamente storico, fondato sulla centralità del lavoro e della prassi quale principio base di ogni forma di vita umana e di ogni tipo di organizzazione sociale: prassi lavorativa da spiegarsi appunto nel suo statuto intrinsecamente contraddittorio con la teoria dialettica dell’opposizione e della contraddizione. Questa cronologia iconografica, partorita da Engels, ha caratterizzato sostanzialmente senza eccezioni (forse solo per il marxismo fortemente idealistico e antinaturalistico di Gramsci), il marxismo così della II come della III Internazionale, per essere poi codificata e ulteriormente imbalsamata con il marxismo sovietico. Quanto ad es. Togliatti sia stato culturalmente e ideologicamente subalterno rispetto a tale tradizione è appunto confermato dalla cornice obbligata che egli ha assegnato a tutto il marxismo italiano, nel verso di una continuità, che sul piano della filosofia classica tedesca vede appunto la triade Hegel-Feuerbach-Marx, e sul piano della cultura nazionale vede un’analoga progressione dall’hegelismo di De Sanctis e Spaventa, attraverso lo storicismo di Croce, fino alla filosofia della prassi di Gramsci.
Con il parricidio mancato io ho voluto mettere in discussione questa linearità storicistica, finalizzata al culto dell’eroe (nel caso in questione Marx, il quale fin dalla sua giovinezza, secondo la liturgia comunista, non poteva non essere nella verità e non essere perciò ulteriore sia ad Hegel che a Feuerbach) e argomentare che l’antropologia che mette in campo il giovane Marx per criticare e uccidere il padre Hegel è assai meno ricca e articolata di quella hegeliana e che in effetti Marx prende la scorciatoia, che gli offre l’umanesimo di Feuerbach, per interessi troppo frettolosamente pratici: quali un abbandono assai sbrigativo della filosofia e un passaggio precipitoso a una prassi politica che pretende di configurarsi come rovesciamento totale e palingenetico dell’intero assetto storico-sociale. Per dire cioè che il materialismo del primo Marx (inclusa la concezione materialistica della storia depositata nelle pagine dell’Ideologia tedesca) nasce da una negazione troppo facile di uno Hegel, peraltro schematicamente ridotto all’icona di uno spiritualismo trascendente e metastorico. Con la conseguenza che il concetto marxiano di praxis, in questo rovesciamento troppo frettoloso di ogni istanza spirituale, rimane paradossalmente legato a ciò che nega. E così, a ben vedere, implica una dimensione di onnipotenza spiritualistica, che si fa creatrice, in una visione prometeica del lavoro e dello sviluppo delle forze produttive, dell’intera realtà.
Salvo poi, tale assolutizzazione della praxis umana in quanto lavoro – nella sua negazione radicale della funzione di ogni idealità nella costruzione della società e della storia – a non poter giustificare la medesima teoria del materialismo storico, la quale, o è falsa, in quanto teoria e come tale lontana dall’unica verità costituita dalla prassi, o è vera, ma come tale contraddicente lo stesso materialismo storico, che non ammette la verità di alcuna teoria, sempre ridotta e dequalificata a ideologia..

Segue: http://www.semperfil.it/?page_id=86

martedì 28 settembre 2010

  Intervista a Costanzo Preve a cura di Franco Romanò 


Franco Romanò

Nell’ampia intervista che pubblichiamo, s'insiste sui punti nevralgici della Trilogia: Storia dell’etica, Storia della dialettica e Storia del materialismo, scritti dal filosofo torinese e tutti pubblicati dall’editore Petite Plaisance. In essa Preve suggerisce alcune linee per un bilancio teorico del socialismo reale, da lui definito comunismo novecentesco. Prendendo spunto dalla critica di Lucáks al materialismo dialettico e dalla sua positiva intuizione dell’ontologia dell’essere sociale, Preve individua nella sovrapposizione fra dialettica logica e dialettica storica, uno dei motivi della sconfitta comunismo novecentesco, che l’autore vede fortemente inquinato da residui positivisti. In tale contesto Preve interpreta il marxismo come filosofia della prassi e non della natura, interpretazione avanzata per la prima volta da Gentile e fatta propria da Gramsci. Da questa convinzione nasce la riflessione su Marx, da Preve considerato un filosofo idealista che ha prodotto una teoria strutturalista del modo di produzione capitalistico, servendosi della dialettica hegeliana e applicandola al nuovo oggetto sociale. Critico nei confronti di tutte le correnti di pensiero marxiste che tendono ad allentare il legame fra Marx ed Hegel e a negare l’importanza del concetto di alienazione, Preve considera Marx un pensatore tradizionale che risale alle radici greche della filosofia e reagisce alla mancanza di etica comunitaria del moderno capitalismo, così come il pensiero filosofico greco aveva reagito all’avanzare della società schiavista. Nella parte finale dell’intervista la riflessione filosofica s’intreccia a questioni riguardanti la crisi economica attuale, il venir meno della correlazione dialettica necessaria fra proletariato e borghesia e altri temi di più stretta attualità, come i nuovi soggetti sociali, l’area dei cosiddetti nuovi diritti e le aspettative suscitate dalla presidenza Obama.

Segue: http://comunitarismo.it/Intervista%20a%20Costanzo%20Preve.pdf