lunedì 9 luglio 2012

I Rivoluzionari e le masse di Eugenio Orso






II) I Rivoluzionari e le masse.

I singoli impegnati nella lotta rivoluzionaria rappresentano, perciò, in ogni contingenza storica possibile e individualmente considerati, l’unità minima di resistenza e di critica al potere in essere, mentre, collettivamente considerati ed organizzati nella lotta, diventano quella forza collettiva che propriamente chiamiamo “I Rivoluzionari”.
Critica esercitata con l’uso della ragione e “critica delle armi” in certe condizioni storiche, in determinate congiunture che I Rivoluzionari devono affrontare, sono per noi la stessa cosa, ambedue accettabili e necessarie, la seconda rappresentando una prosecuzione della prima con altri mezzi.
I Rivoluzionari quali agenti principali del cambiamento, dell’Emancipazione e della Liberazione, e le classi dominate da liberare, sono però due forze diverse e distinte, che non devono essere confuse o sovrapposte, e lo sono in modo particolare nel nostro caso storico, a questo livello di coscienza di sé e di potenza del Nuovo Capitalismo.
La vecchia classe operaia, salariata e proletaria del dopoguerra italiano, subendo al suo interno l’egemonia di quel PCI, predecessore di PDS, DS, Pd, che ha avvelenato tutta la vita politica nazionale, fino alla terminale schizofrenia eurocomunista (secondo l’analisi di Costanzo Preve), non ha potuto essere in alcun modo soggetto rivoluzionario trasformativo dell’esistente.
Questo processo storico, che ha interessato la penisola per decenni, è iniziato nel 1956 ed è giunto fino alla fine formale del PCI, ma non si è definitivamente concluso con questa, perché ha assunto nuove forme, molto più subdole, adattandosi ai mutati scenari politici, geopolitici e sociali, dopo il crollo dell’URSS e l’avvio della globalizzazione neoliberista, attraverso la nefasta sequenza PDS-DS-Pd, eredi sempre più degeneri e totalmente asserviti al Nuovo Capitalismo di “quel” PCI che li ha preceduti.
Al fallimento e all’estinzione dei movimenti antagonisti di allora nati nella fabbrica (come le BR di Renato Curcio e Mario Moretti), affiancatisi a quelli studenteschi e “borghesi” critici come potenziale brodo di coltura delle forze rivoluzionarie, ha contribuito in modo determinante lo stesso PCI, che da un lato esprimeva una politica rivendicativa di natura socialdemocratica (solo un po’ più spinta di quella della SPD tedesca uscita dalla Bad Godesberg del 1959, per intenderci), mantenendo, però, sempre vivo – per scopi elettorali e di consenso, di potere amministrativo da conservare ed estendere e di controllo politico di massa – il mito della centralità della classe operaia (progressivamente svuotato di contenuti rivoluzionari ed intermodali effettivi), in una struttura di partito che era ancora in parte leniniana, derivata dalla strutturazione dell’originario partito dei rivoluzionari, pur mitigata da formule altisonanti come quella, allora ben nota e fin troppo discussa, del “centralismo democratico”.
Secondo il filosofo Costanzo Preve, il Partito Comunista Italiano, socialdemocratico più che comunista, revisionista nei fatti e rivoluzionario solo a parole, ormai sostanzialmente interno al capitalismo di allora come tutto l’”Arco costituzionale” del quale lo stesso PCI era parte integrante, ha preteso di mantenere il controllo sull’”ebollizione” movimentista, operaista, antagonista, particolarmente nei fermenti sociali e politici a cavallo degli anni sessanta e settanta, ma è difficile “controllare l’acqua che bolle nella pentola”, di per sé imprevedibile e pronta a debordare, e la situazione, pur senza che si inneschi un vero e proprio processo rivoluzionario, o che si verifichino sanguinose e generalizzate insurrezioni di massa, gli è in parte sfuggita di mano.
Un partito comunista che abbandonata per sempre la via italiana al socialismo, si trasformava in utile “ruota di scorta” del capitalismo occidentale a guida statunitense, nel mondo bipolare USA – URSS di allora.
Su questa via si sono incamminati, nei decenni post-bellici, il comunista “liberale” Giorgio Amendola e il suo allievo degenere Napolitano (che ben conosciamo per i suoi trasformismi e le sue abiure), ma anche lo stesso, amatissimo, Enrico Berlinguer e il celebre capo sindacale “rosso” della CGIL Luciano Lama.
La nascita dei CUB all’interno delle fabbriche (fra i quali il più noto e aggressivo, a Milano, era quello della Pirelli), che riuscivano ad imporre le loro decisioni al sindacato, il sorgere dei GAP, delle BR, di Potere Operaio, di Prima Linea, per citare alcune organizzazioni armate extrasistemiche dell’epoca, molto note e attive nella lotta armata, ne costituiscono altrettante prove.
La classe operaia, salariata e proletaria, nonostante la persistenza del mito dell’operaio-massa e “l’effervescenza” movimentista (Mario Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana. Le BR nate e inserite nell’”effervescenza” della società di allora, oltre che dall’iniziale radicamento nella fabbrica) ben testimoniata dall’innesco del sessantotto, dal cosiddetto autunno caldo e dagli sviluppi negli anni successivi, non poteva dirsi una classe sociale propriamente rivoluzionaria, ed infatti non lo è stata, grazie alla “conversione” socialdemocratica del PCI nei decenni postbellici, all’estensione del welfare e alla seduzione consumistica, e non ci ha condotti per mano in un Mondo Nuovo postcapitalistico, in cui si stabiliscono nuovi rapporti di produzione e originali assetti politici.
Valga per tutti la negazione del carattere rivoluzionario della classe operaia, sinteticamente esposta da Costanzo Preve:
«Per un secolo, finito il tempo delle rivoluzioni borghesi inaugurate a Parigi nel 1789, la rivoluzione è stata associata strettamente al soggetto politico operaio, salariato e proletario. Si è trattato sempre e solo di un mito di mobilitazione di tipo soreliano, perché i proletari di tutto il mondo non si sono mai uniti [ ... ]»
[Etica comunitaria, progresso e rivoluzione, Costanzo Preve intervistato su questi temi da Luigi Tedeschi]
Ancor meno la costituenda classe Pauper, crogiolo del vecchio ordine sociale per quanto riguarda i dominati, dagli operai orfani dell’omonima classe ai ceti medi impoveriti, passando per le vecchie e le nuove forme di marginalità sociale ed inglobando in sé qualche milione di immigrati, potrà rappresentare in futuro un soggetto rivoluzionario autentico, in grado di garantire il superamento del vigente ordine sociale e politico neocapitalistico.
Dalla seconda metà degli anni ’50 agli anni ’80, nella stessa fabbrica, oltre che nelle scuole, nelle università e nel mondo borghese critico di allora, sono nati soggetti politici non allineati con il PCI (extraparlamentari, operaisti, antagonisti, propugnatori della lotta armata), frutto di quella ”effervescenza” (Moretti) e di quella “ebollizione” (Preve), nello stesso tempo sociali e politiche, mosse sia dalla radicale critica allo sfruttamento capitalistico nei recinti della fabbrica sia (e in certi casi almeno in apparenza) da una coscienza infelice borghese che di lì a non molto si sarebbe estinta.


La compresenza della duplice contraddizione che ha animato il capitalismo nello stadio dialettico, quella fra Borghesia e Proletariato e quella, parallela, sviluppatasi all’interno della Borghesia stessa (la coscienza infelice e critica borghese), in quegli anni hanno agito rendendo il movimento operai-studenti ipercritico nei confronti dello stesso PCI, che partecipava sempre più attivamente alla difesa del sistema e alla gestione del potere (amministrazione delle regioni “rosse”, internità all’“Arco costituzionale”, adesione al consociativismo, “compromesso storico”, condanna del “terrorismo rosso” venduto come nero, collaborazione con i nuclei di carabinieri del generale Alberto Dalla Chiesa, eccetera).
All’”ebollizione” sociale e all’”effervescenza” movimentista, manifestatesi in quegli anni, ha dato il suo fondamentale contributo lo stesso PCI, dopo l’iniziale fase della ricostruzione, mantenendo in vita schizofrenicamente il cosiddetto mito operaio, assieme a quello della rivoluzione anticapitalista, a fronte di una politica socialdemocratica-rivendicativa di sostanziale internità al capitalismo.
Oggi non assistiamo ad alcuna “effervescenza” sociale, né dentro né fuori le fabbriche superstiti.
Non c’è più alcuna traccia di quel solidarismo di classe (classe operaia vera e propria, tecnici, altri lavoratori dipendenti ed altre figure professionali create dalla divisione del lavoro capitalistica) che pretendeva di modificare dal basso le stesse relazioni industriali, le turnazioni e le condizioni di lavoro, acquisendo con una lotta dura, che non escludeva a priori l’uso della violenza, spazi di libertà sempre maggiori sottratti ai “padroni”.
Il fatto che non c’è più solidarietà di classe e unione fra i dominati per avviare le lotte anticapitaliste del presente, non è tanto la conseguenza della “ristrutturazione” del capitale che ha ridotto le grandi concentrazioni operaie, ma della circostanza che la nuova classe dominata non è ancora formata, e al più si può parlare (al momento presente ed ancora per qualche tempo) di masse di dominati-pauper, preludio della nuova Pauper class neocapitalistica.
I sindacati devono soltanto fingere di rappresentare le istanze dei lavoratori, in quanto si sono trasformati in ruote di scorta delle direzioni aziendali, in CAF per l’assistenza fiscale ai tesserati e abbassano la testa ovunque davanti alle politiche neoliberiste, pur di mantenere i loro centri di sub-potere.
Il sindacato ascaro di quest’epoca, mero centro di servizi per i tesserati, truffa i lavoratori con scioperi e forme di lotta puramente testimoniali, graditi al potere, per poi approvare accordi-capestro fingendo di aver strappato qualche sostanziale miglioramento al governo o alla controparte (come nel caso della libertà di licenziamento per motivi economici o disciplinari, temperata dalla decisione del giudice) e di contare ancora qualcosa nel punto più basso della catena di comando neocapitalistica.
Fuori delle fabbriche, quelle finora non delocalizzate, sopravvissute alla crisi strutturale, alla concorrenza globale, alla contrazione del credito bancario e alle manovre governative, ugualmente non c’è traccia di “effervescenza” o di “ebollizione”, perché l’atomizzazione sociale ha agito in profondità, è scomparsa la coscienza infelice borghese (che produceva rivoluzionari e soggetti critici) assieme al solidarismo operaio (sorgente di antagonismo sociale e politico), e nessuno riesce più ad immaginare alternative al Nuovo Capitalismo globale, in questa apparente “End of History” e delle speranze.
In fondo, qualche buona ragione l’ha Mario Moretti, quando –  nel libro-intervista Brigate Rosse. Una storia italiana, ricordando il primo avvio della epocale trasformazione capitalistica, giunti allo scadere dei “trenta gloriosi” anni postbellici di compromesso fra Stato e Mercato – afferma con parole semplici e chiare «Il padrone ristruttura e lo stato reprime. Il movimento viene battuto da tutti e due. Il padrone gli toglie di sotto i piedi il terreno che conosce. Prendete la Pirelli che ho citato più volte, c’è il movimento più forte, più nuovo, più fluido; se il Cub vuole, il sindacato deve indire lo sciopero. E là ci sono le prime azioni di guerriglia. Eppure la Brigata della Pirelli muore presto. Muore quando la Pirelli si ristruttura. La prima ristrutturazione fu clamorosa per il senso di sconfitta che lasciò. Proprio mentre era più grande la nostra forza …»
Molti decenni sono passati da allora, e la “ristrutturazione” dei padroni alla quale ha accennato Moretti è ormai quasi completata, anzi, sono cambiati persino i padroni, quelli veri che decidono, non più borghesi culturalmente e legati alla dimensione nazionale, ma globalisti “deterritorializzati”, e la grande trasformazione ha portato ad un nuovo modo storico di produzione sociale, che fra i suoi elementi strutturali annovera la fondamentale manipolazione antropologico-culturale dei dominati, volta ad evitare che si ripetano antagonismi, movimentismi ed insubordinazioni diffuse, come è accaduto negli anni sessanta-settanta ai quali Moretti si riferisce.
Oggi non c’è più l’humus dal quale può nascere un vero movimento antagonista, seppur composito al suo interno, dagli intellettuali e dagli studenti agli operai ed ai precari, mancano le condizioni e le leve perché si costituisca un vero collettivo politico metropolitano, perché si sviluppi una resistenza generalizzata di fabbrica che ricorre al sabotaggio, o all’intimidazione delle spie, dei sindacalisti gialli e dei servi, e tanto meno sono riproducibili le Brigate Rosse della “propaganda armata”, o simili organizzazioni che praticavano la critica al sistema con l’uso delle armi.
Ma attenzione: ciò non significa che la lotta armata non è più la via per sconfiggere questo capitalismo, o almeno, più ragionevolmente, per provocarne ed accelerarne la crisi, perché l’esito al quale si deve puntare, partendo dagli spazi nazionali e unificando le lotte frammentate, è l’innesco della Guerra Sociale di Liberazione, nonostante una diffusa passività delle masse, che paiono (e in buona misura purtroppo sono) ampiamente inerti e prostrate.
Anche allora – negli anni delle BR – come oggi, in cui la situazione è a dir poco drammatica, la classe dominata, per quanto ancora cosciente di sé, unificata dalla solidarietà e disposta alla lotta, non si è palesata come classe rivoluzionaria, capace di guidare il resto della società fuori dei recinti storici del capitalismo.
Moretti è indubbiamente un rivoluzionario, un rivoluzionario che è stato sconfitto per quanto generosamente si sia speso nella lotta, la classe alla quale ha fatto riferimento, per la quale ha condotto la lotta armata, in funzione della quale ha dovuto prendere decisioni drammatiche, non era rivoluzionaria (o almeno non lo era più), ma non è questo il vero motivo della sua sconfitta.
I Rivoluzionari e la classe dominata (nel nostro caso, la Pauper class che si sta rapidamente formando) sono due forze ben distinte, due “curve” che provengono da direzioni diverse, e il “punto di tangenza” decisivo fra i due può verificarsi soltanto in particolari condizioni storiche, quando l’azione dei Rivoluzionari è coronata da successo, il potere si indebolisce, e i tempi diventano maturi per tentare l’assalto ai palazzi in cui si annida.
Mario Moretti e le Brigate Rosse questo fatidico “punto di tangenza”, preludio di una svolta storica, non lo hanno mai incontrato nel loro sanguinoso e lungo percorso.
Ma oggi la situazione è ben più grave per I Rivoluzionari di quanto era ai tempi di Moretti e delle BR, perché il terreno sotto i piedi manca completamente, non è neppure possibile, come lo è stato a quei tempi, immaginare un insediamento sia pure temporaneo nelle unità produttive superstiti, o nei quartieri metropolitani, in cui ci sono, al più, le vecchie e tollerate “riserve indiane” dei centri sociali, e c’è un’esplosione (in molti casi silenziosa) di situazioni di marginalità e di impoverimento che non generano antagonismo e non producono espressioni politiche alternative.
Il “riflusso nel privato” della montante disperazione sociale, priva di effettivi sbocchi politici, che si estrinseca, al più, attraverso suicidi ed esplosioni incontrollate di violenza individuale, è la prova più drammatica e tangibile, verificabile ormai quotidianamente, che le masse-pauper quale preludio della futura Pauper class non costituiscono in alcun modo l’”intelletto attivo” della trasformazione storica, e che da loro, perciò, non ci si deve aspettare la fatidica “scintilla” che dà inizio all’incendio rivoluzionario.
La situazione è così grave che non sembra rimediabile nel breve, e può rappresentare, semmai, il terreno di coltura di istanze puramente insurrezionali, in una saldatura fra la “vecchia” marginalità superstite e le nuove povertà, economiche e culturali, destinate ad estendersi lambendo fasce sempre più ampie del cosiddetto ceto medio, fino ad estinguerlo.
«Tutto il potere al popolo armato» è uno slogan brigatista, e se poteva avere qualche senso quaranta anni fa, dato il panorama sociale di allora, oggi suonerebbe come una bizzarria da avanspettacolo, una battuta, non del tutto comprensibile, di qualche comico televisivo che vuole strafare (e che magari, come il celebre e ben pagato Crozza, ha la tessera del Pd in tasca).
In questo senso e solo in questo, il neocapitalismo sta realizzando una “società senza classi”, o più precisamente, “senza coscienza di classe”, senza alcuna solidarietà fra gli uomini, priva di vere tradizioni da tramandarsi, composta di moltitudini-masse impoverite completamente prigioniere dei suoi immaginari, passivizzate per neutralizzarle ed incapaci persino di pensare che può esistere un’alternativa al mercato, al signoreggiare della “finanza creativa”, all’ordine economico e sociale che gli Investitori impongono.
Abbiamo capito che I Rivoluzionari e le masse-pauper sono due cose distinte e ben diverse, come già chiarito in precedenza, due forze destinate ad incontrarsi soltanto in una particolare congiuntura storica, resa possibile dall’azione rivoluzionaria e dall’indebolimento del sistema.
Sappiamo bene che tracciare un preciso profilo del rivoluzionario impegnato nella futura Guerra Sociale di Liberazione è molto arduo, dopo la morte delle classi novecentesche e l’estinzione della coscienza critica borghese, che il dominio neocapitalistico è assoluto ed impone il suo ordine sociale ed economico, la sua cultura egemone subordinata agli scambi commerciali e alla creazione del valore, mentre il suo alfabeto e la sua lingua spengono qualsiasi critica e penetrano ovunque, ma pur sinteticamente e con qualche imprecisione si può tentare di farlo, anche se i tratti che attribuirò alla figura del rivoluzionario potranno sembrare a qualcuno puramente “ideali”, e a molti (per ciò che scriverò alla fine) addirittura criminali.
L’origine sociale dei rivoluzionari sarà negli strati più alti della Pauper class, e durante il periodo di transizione nei ceti medi impoveriti (principalmente quelli legati al lavoro intellettuale) e nei sub-strati più alti della vecchia classe operaia, ma elementi borghesi, non entranti a far parte della nuova classe dominante globale, potranno costituire altrettante leve potenziali per le forze rivoluzionarie.
Come è evidente, si tratterà di una vera e propria élite, dalle origini piuttosto eterogenee, opposta a quella neocapitalistica, ed in parte, com’è inevitabile, ancora legata al vecchio ordine sociale, ai suoi mondi culturali, alle sue tenaci sopravvivenze.
Un'élite che non proporrà quale scopo finale della Rivoluzione, dopo una possibile vittoria nella Guerra Sociale di Liberazione, il definitivo ritorno al passato, all’irripetibile esperienza storica del comunismo sovietico, da un lato, o all’ultimo capitalismo del secondo millennio (dirigista, keynesiano, “nazionale”, moderatamente emancipativo) dall’altro lato.
Ancor meno l’élite rivoluzionaria potrà proporre la sostituzione della globalizzazione neoliberista con una “globalizzazione buona”, centrata sull’integrazione culturale delle popolazioni a livello mondiale e su una generica ed ambigua democratizzazione di singoli processi di integrazione sopranazionali (ad esempio, un’illusoria Europa dei popoli, che nasce dal basso, in sostituzione dell’Unione Europea Monetaria imposta a suon di trattati), questo perché la globalizzazione è interamente un prodotto neocapitalistico, così come oggi la conosciamo, e quindi, o si accetta in blocco, per quel che è, per le sue rilevanti implicazioni culturali e sociali, o si respinge in blocco e si combatte senza quartiere.
L’unica vera integrazione sopranazionale (e penso in primo luogo all’Europa) potrà aversi se e quando ci sarà il superamento della frantumazione delle lotte rivoluzionarie e la loro unificazione in aree geopolitiche vaste.
Per gestire una difficile transizione, per difendere e consolidare il potere rivoluzionario, centralizzandolo una prima volta a livello nazionale, si dovrà ricorre a “vecchi strumenti” di politica economica, fiscale e industriale, disponibili ed immediatamente utilizzabili, ed aspetti come quello della riacquisizione della sovranità politica e monetaria, delle nazionalizzazioni (a costo zero) di strutture produttive strategiche, delle pesanti limitazioni imposte al mercato e alla libera iniziativa economica privata (escrescenze crematistico-tumorali esaltate dal neocapitalismo), potranno sembrare – ma soltanto sembrare – un ritorno al passato, al ventesimo secolo, al sovietismo e alla sua esperienza collettivista con tratti capitalistico-classisti, oppure al keynesismo assitenzial-militare e all’”economia mista” caratterizzata dallo stato-imprenditore.
Lo stato e le sue istituzioni, una volta conquistate dai rivoluzionari che si muoveranno anzitutto, nelle fasi iniziali del conflitto, in una dimensione nazionale, dovranno per forza di cose essere mantenute e utilizzate, al netto di collaborazionisti, rinnegati e neoliberali, per scongiurare il collasso e il caos, ma con la prospettiva di trasformale (o in certi casi di sopprimerle senza rimpianti) in un futuro più lontano.
Decisiva sarà, inizialmente, la superiorità riattribuita alla Politica rispetto all’economia, a quella infezione crematistica rappresentata dall’ultraliberismo, dal mercato egemone, dalla proprietà e dall’iniziativa privata intangibili.
Finanza “creativa” e pubblicità saranno destinate ad un rapido ridimensionamento e alla scomparsa, per l’elevata nocività socio-ambientale e per la funzione che hanno avuto di importanti e irrinunciabili strumenti di dominazione neocapitalistica.
I “servizi”, particolarmente quelli di natura finanziaria moltiplicatisi più dei pani e dei pesci, e le “merci” saranno progressivamente sottomessi ai Beni, da intendersi, in modo proprio, come produzioni necessarie per la riproduzione delle basi materiali della vita associata.
Il debito pubblico, riappropriandosi il controllo della moneta, si rivelerà per quel che è: il presupposto di un ricatto espropriativo, operato dall’Aristocrazia globale sul piano finanziario, nei confronti degli stati e delle popolazioni.
Istruzione e sanità dovranno tornare in mani pubbliche, e i pochi spazi residui rimasti nella disponibilità dei “privati” (penso in modo particolare, qui, in Italia, alla storica “lobby” della chiesa cattolica, alle sue scuole e ai suoi ospedali), ma destinati ridursi e a sparire nel medio periodo, dovranno essere costantemente monitorati.
Il settore immobiliare, oggetto di pingui estrazioni di valore e fonte di crisi pilotate ad arte dai globalisti, in grado di far collassare interi stati, quando speculativamente gonfiato, dovrà essere posto sotto il controllo centralizzato rivoluzionario, attraverso massicce statalizzazioni e la ripresa su vasta scala della cosiddetta edilizia popolare, con conseguente assegnazione di alloggi a basso costo che resteranno di proprietà pubblica.
Tutto questo non vorrà dire, però, che una nuova élite rivoluzionaria – la quale agirà in nome e per conto delle masse-pauper, con o senza attribuzione formale del mandato – avrà lo sguardo rivolto al passato capitalistico, o a quello sovietico, e vorrà riattivare, in futuro, così com’erano, formazioni sociali novecentesche che il corso storico ha inesorabilmente superato.
Avendo fatto la frittata ed impedito il ritorno delle uova, attraverso i trattati internazionali, le valute sopranazionali, le organizzazioni mondialiste private anteposte agli stati, avendo sapientemente attivato il complesso di politiche e di prassi noto come “globalizzazione”, esprimendo ormai d’autorità la governance globale che vale il governo del mondo e il controllo di tutte le sue risorse, forse l’Aristocrazia globale si illude che non ci sia più alcuna possibilità di tornare alla proprietà pubblica, o a quella collettiva preludio di una totale socializzazione, alla superiorità della Politica sull’economia, al controllo nazionale della moneta e delle politiche economiche.
La stessa interdipendenza delle economie nazionali e l’ampiezza della speculazione finanziaria negli spazi globalizzati, che sembra non incontrare ostacoli, dovrebbero rendere inapplicabili, da parte di singoli stati ribelli, il modello collettivista o i modelli capitalistici novecenteschi alternativi a quello liberista.
Ma i decisori dell’élite globalista, facendo abilmente la frittata che impedisce il ritorno alle uova, non hanno considerato un particolare decisivo: pur non essendoci la possibilità di resuscitare integralmente le vecchie formazioni sociali novecentesche, esistono ancora, “in sonno”, i vecchi strumenti d’ostacolato all’ultralibersimo, al libero mercato globale, alla formazione della famigerata Open Society di Mercato, ed esiste la possibilità di usarli con efficacia in un contesto rivoluzionario e trasformativo.
Nazionalizzazioni, espropri del “privato” che colpiscono il grande capitale finanziario, e requisizioni di proprietà nelle mani di dominanti e sub-dominati, per l’estensione massima della proprietà pubblica, mantengono la loro efficacia, in un contesto di cambiamento rivoluzionario, anche se non è in alcun modo possibile resuscitare, così com’era nel novecento, la formazione sociale dispotico-collettivista rappresentata dall’Unione Sovietica, o l’”economia mista” italiana, con forti iniezioni di capitale pubblico nel produttivo, dei tempi postbellici dell’IRI e del boom economico.
Con molta moderazione, e pur non essendo autenticamente rivoluzionario (o almeno rivoluzionario fino alle estreme conseguenze), il cosiddetto socialismo bolivariano del latinoamerica, a partire dal tanto esecrato Chavez in Venezuela, ha dato una prima, coraggiosa dimostrazione di quanto affermo.
In mancanza del nuovo si utilizza quello che c’è in cantiere, ma si può utilizzare, pur essendo vecchio e già usato (in qualche caso abusato), seguendo nuove logiche d’impiego e perseguendo nuovi scopi.
Riappropriare la sovranità monetaria, ad esempio, può non avere soltanto la funzione, già ampiamente sperimentata nel secolo precedente, di rendere competitive le produzioni nazionali all’estero svalutando la moneta e di riuscire, così, a sostenere occupazione e consumi interni attraverso maggiori esportazioni, ma potrà consentire di conseguire un obiettivo nuovo e più ambizioso, cioè quello di interrompere i venefici flussi della globalizzazione economico-finanziaria, scardinando l’ordine neocapitalstico.
I Rivoluzionari non punteranno a riattivare il profilo produttore-consumatore così come si è affermato nel novecento, sostituendolo all’attuale binomio ultraliberista precario-escluso, ma semplicemente ad interrompere i flussi finanziari globalizzanti, i meccanismi riproduttivi neocapitalistici, il dispiegarsi del progetto demiurgico-dispotico che si nasconde dietro la globalizzazione neolibersita, e a tale scopo saranno costretti dalle circostanze ad utilizzare strumenti di politica economica e sociale, oggi all’apparenza del tutto superati e inapplicabili, presenti nelle “cassette degli attrezzi” sovietico-marxista e/o dirigista-keynesiana.
Le stesse rilocalizzazioni di attività produttive manifatturiere, se il know-how non è ancora completamente “evaporato”, non sono una cosa impossibile da realizzare, e il tanto esecrato protezionismo, principale lascito dell’epoca mercantilista, oltre a garantire posti di lavoro e reddito, nel breve periodo, alle masse pauperizzate, riassorbendo la disoccupazione gonfiata dalle dinamiche neocapitalistiche, potrà contribuire ad interrompere i flussi della globalizzazione.
Vi è certo una differenza rilevante, fra la nazionalizzazione di alcune industrie strategiche, oggi svendute ai privati, o in procinto di finire nelle mani al grande capitale finanziario, e la collettivizzazione di tutte le strutture produttive (che implica riappropriarsi integralmente i mezzi di produzione in essere), ma in determinate condizioni è necessario accontentarsi, nel breve, di questo primo ed insufficiente passo.
Nel caso dell’Italia, in cui la struttura produttiva industriale, per imposizione esterna e “scelte strategiche” palesemente suicide, antinazionali nella sostanza, è per molta parte frammentata, fragile, divisa in centinaia di migliaia di piccole e medie industrie, molte delle quali con meno di dieci o quindici dipendenti (o addirittura sotto i cinque), una collettivizzazione forzata di tutte le imprese e gli stabilimenti, nel breve periodo, non rappresenterà purtroppo una soluzione praticabile e concretamente gestibile.
Allora ci si dovrà accontentare, all’inizio del processo trasformativo della struttura economico-produttiva, di una gestione diretta della dimensione medio-grande – nazionalizzando in prima battuta soltanto l’industria di medie e grandi dimensioni, dal settore energetico a quello automobilistico, e naturalmente il sistema bancario nella sua totalità a supporto della produzione e dell’occupazione – ma ponendo sotto uno stretto controllo pubblico la gestione privata, frammentata, caotica, inefficiente, della PMI.
Per quanto riguarda il settore commerciale e distributivo, il passaggio dal privato al pubblico dovrà riguardare in prima battuta la grande distribuzione, sottratta al capitale finanziario e consegnata all’iniziativa statale, mantenendo provvisoriamente il piccolo commercio privato per l’impossibilità, nel breve – data la sua estrema frammentazione, all’origine della “pesantezza” e dell’”irrazionalità economica” della rete distributiva nazionale – di sopprimerlo e di riconsegnare alla collettività il controllo totale di questo settore.
E’ anche evidente che con la progressiva scomparsa del libero mercato, imposta dal governo rivoluzionario, i prezzi e le tariffe, dai prodotti alimentari all’energia e ai trasporti, saranno determinati per via politica, e non potranno più essere lasciati in balia della fantomatica “legge della domanda e dell’offerta”.
Uno degli scopi sarà quello di creare occupazione effettiva, di distribuire mezzi di sussistenza alla popolazione senza vincoli mercatistici o efficientistici (mascheramenti della creazione del valore neocapitalistica), per integrare i dominati nel processo trasformativo rivoluzionario e rompere gli schemi di natura crematistica imposti nel precedente ordine.
Considerando che il mercato non è un meccanismo autoregolantesi, che può soppiantare lo stato e la politica e vivere di vita propria “gestendo” l’intera società umana – come hanno fatto credere per decenni i pubblicisti mediatici ed accademici del neoliberismo selvaggio – ma soltanto un sistema di razionamento, esproprio ed esclusione utilizzato come un’arma dall’Aristocrazia globale, I Rivoluzionari procederanno alla demolizione progressiva di questo “tempio dell’iniquità sociale e del nichilismo valoriale” a partire dagli spazi nazionali, ponendo gli aspetti economici dell’esistenza (tutti, nessuno escluso, ed in particolare quelli che hanno assunto una natura crematistico-finanziaria) sotto lo stretto controllo centralizzato dei loro governi.
Tutte le misure accennate sommariamente fino ad ora – non essendo questo un trattato di economia politica e non essendo mia intenzione di “spulciare” nei documenti statistici e macroeconomici appesantendo lo scritto, inutilmente, con copiosi flussi di dati – riportano alla necessità impellente, che soltanto la Rivoluzione potrà soddisfare, di porre una volta e per tutte l’economia sotto il controllo della Politica, epurandola dei tratti nuovo-crematistici ipostatizzati nell’universalità del mercato.
Al di là di queste mie parziali e brevi note – propedeutiche per tracciare un primo profilo degli agenti futuri della Rivoluzione – è chiaro che un programma politico articolato potrà nascere soltanto dalla prassi rivoluzionaria, sul “campo di battaglia”, ed è altrettanto chiaro che per costruire il nuovo bisogna prima distruggere, demolire, annichilire le fonti del potere nemico, ma non sempre si potrà farlo in tempi brevi e in modo drastico, dovendo evitare i rischi di implosione e il caos, o i subdoli tentativi di “restaurazione” di nemici sopravvissuti e mascherati, realizzati manovrando una parte delle masse pauperizzate ancora sotto il controllo del vecchio sistema.
Una certa “decrescita” sarà imposta, inevitabilmente, dalle circostanze, perché la rottura dell’ordine globale, che si è affermato attraverso le crisi economiche, finanziarie, commerciali e geopolitiche, non potrà che generare nuove crisi attraverso i suoi ultimi “colpi di coda”, che si sostanzieranno nei cali dei flussi commerciali a livello mondiale, in riduzioni generalizzate dei volumi di produzione, in ulteriori riduzioni dei redditi e dei consumi di massa, in Europa, ma non soltanto nel vecchio continente.
La conseguente situazione di instabilità e di “decrescita forzata ed infelice”, contestuale alla frantumazione dell’ordine globale – e, per quanto ci riguarda direttamente, al superamento dell’Europa unionista depositaria di una moneta unica “privata” – dovrà essere gestita dai Rivoluzionari garantendo a tutti il “relativamente poco, ma sicuro”, riducendo con trasferimenti di risorse decisi in modo autoritario e centralizzato, in situazioni di contrazione dei consumi e della produzione, quella forbice dei redditi, aperta dal Nuovo Capitalismo, che oggi sta raggiungendo la sua massima ampiezza.
E’ auspicabile che nel tempo I Rivoluzionari, quale guida della società dopo la sconfitta dei globalisti, favoriscano con le loro politiche una trasformazione culturale – ed inevitabilmente, anzi, auspicabilmente antropologica – che renda impossibile, per le generazioni future, anche soltanto poter concepire l’idea dell’iniziativa economica crematistico-individuale e della proprietà privata, che per sopravvivere, in attesa di tempi migliori, potranno celarsi furbescamente dietro lo schermo della piccola “proprietà individuale”.
Se nella nuova società si arriverà, dopo qualche decennio – uscendo dal tunnel della “decrescita forzata” e delle crisi generate dal collasso dell’ordine globale – a considerare naturale persino la socializzazione degli abiti che ciascuno indossa, oltre che degli immobili e dei mezzi di produzione, degli strumenti finanziari e monetari soggetti ad uno stringente controllo collettivo, la trasformazione culturale ed antropologica, indotta dall’azione dei Rivoluzionari, avrà avuto pieno successo e un rilievo storico destinato a riverberarsi sulle epoche successive.
Se gli unici diritti intangibili, e riconosciuti alla sola classe dominante, nel progetto demiurgico neocapitalistico sono l’iniziativa economica dei singoli e la proprietà privata, imposti con una tale forza (e una tale violenza) da pregiudicare lo stesso diritto alla vita del resto dell’umanità, il progetto demiurgico opposizionale ed alternativo dei Rivoluzionari, altrettanto forte e “radicale”, dovrà necessariamente attaccare ed estinguere questi capisaldi del nemico.
Ed ora proviamo a delineare alcuni tratti caratteristici, di fondo, della figura del rivoluzionario futuro, che per ora si possono definire soltanto “ideali”.
Come si è già accennato in precedenza, l’origine sociale degli agenti della Rivoluzione non potrà che essere nel lavoro intellettuale, “contemplativo” dei ceti medi declassati, in quello operaio qualificato, ma sempre più mortificato economicamente e svalutato culturalmente, nella precarietà intellettuale e nella vecchia classe dominante borghese, per la parte della stessa che non è stata assorbita dalle stratificazioni della Global class.
Ciò non escluderà una componente immigrata, quale avanguardia, culturalmente più evoluta e più consapevole, del lavoro immigrato ed in non pochi casi semischiavo.
Per quanto il mix di culture contraddittorio, caratterizzato da una certa “separatezza” dei gruppi, dalla persistenza di tradizioni eterogenee e di insofferenze reciproche, prodotto dall’immigrazione neocapitalistica forzata abbia investito in pieno, ormai, molti paesi europei, e fra questi da un paio di decenni l’Italia, trasformandoli rispetto a ciò che erano mezzo secolo fa, i fondamenti della nostra cultura sono e resteranno europei, e rimanderanno, seppur sempre più remotamente, ai greci ed ai romani, alle radici della filosofia, della politica e del diritto.


Queste caratteristiche culturali peculiari, che rendono unica l’Europa, non potranno restare totalmente estranee al mondo eterogeneo degli immigrati, con il trascorrere delle generazioni, ma la maggior garanzia per una vera integrazione degli stessi non potrà che avvenire dalla condivisione delle lotte di liberazione, e dalla partecipazione delle loro avanguardie a queste lotte, accettando ed assimilando progressivamente i fondamenti della cultura europea, in buona misura estranei all’occidente neocapitalistico immerso nella globalizzazione.
Per questa via, si potrà sventare il tentativo di affermazione definitiva della cosiddetta Open Society, che non significa integrazione, ma de-emancipazione per tutti ed atomizzazione per i gruppi (autoctoni e immigrati), non significa progressivo miglioramento delle condizioni economiche e di lavoro, ma, al contrario, “cinesizzazione” del fattore-lavoro, accelerata dalla concorrenza interna di popolazioni più povere costrette a spostarsi nel mondo per sopravvivere, non significa maggiore libertà, se non in termini puramente astratti e formali, ma, all’opposto, maggiore paura e isolamento per tutti, immigrati compresi.
Dato il generale movimento a ribasso di redditi e condizioni di vita, dissolutivo dell’ordine sociale precedente, mettere fin d’ora fianco a fianco, spalla a spalla nella lotta, ceti medi, operai specializzati e tecnici, il precariato intellettuale, elementi della vecchia borghesia proprietaria spodestata e i migliori fra gli immigrati, non dovrebbe sembrare un’ipotesi troppo ardita, e infatti non lo è, perchè per tutti questi soggetti il nemico principale è comune, e lo è anche il nemico secondario, quello sub-dominante nazionale, nelle sue varie specializzazioni non esaurite dalla politica.
Naturalmente una vera élite, e a questa regola non sfugge l’élite rivoluzionaria, dovrebbe essere composta soltanto dagli elementi migliori, più coscienti e più combattivi presenti nei gruppi sociali che la esprimono, e quindi sarà composta da minoranze, non di rado sparute, che per le loro caratteristiche e le loro scelte si staccano dalla massa.
Ma sarà proprio l’élite rivoluzionaria che rappresenterà la massa Pauper, affermando i suoi stessi interessi vitali, pur senza averne formalmente il mandato ed all’inizio anche contro la sua apparente volontà.
Compito dei Rivoluzionari sarà quello di elaborare, nelle varie fasi della lotta, fin dalla prima fase ed ancor prima dell’innesco della Guerra Sociale di Liberazione, un programma politico per poter gestire la dimensione nazionale attraverso le strutture di potere e le istituzioni esistenti, un programma suscettibile di cambiamenti e di aggiustamenti “in corso d’opera”, che servirà (come già accennato in precedenza) per orientare la trasformazione rivoluzionaria della società.
Non è possibile anticipare con precisione i punti di questo programma, determinato dalle contingenze del momento, dal mutare repentino della situazione, dalle emergenze che si presenteranno durante l’azione rivoluzionaria, dalla connessione con i bisogni effettivi della massa, e quindi, pur avendo tentato di prevederne qualche linea generale di sviluppo, con molta moderazione, è bene non scadere nella profezia, e non volendo in alcun modo mettere in campo arti divinatorie, passare oltre dopo un ultimo, breve chiarimento.
Nel lungo periodo, che approssima i tempi storici, sarà forse possibile passare da una gestione centralizzata e sicuramente autoritaria del potere – necessaria per non far fallire la rivoluzione e per evitare che nascano ibridi in cui si cela il DNA liberista – ad un nuovo modo di produzione dai lineamenti comunistico-comunitari, che implicherà una profonda revisione dei meccanismi di potere nella società, ed un passaggio da una gestione verticistica, volta ad eliminare nel tempo qualsiasi traccia della libera iniziativa economica e della proprietà privata, ad una gestione autenticamente socializzante, che redistribuirà il potere su un piano orizzontale.
Per passare da un prolungato “stato di eccezione rivoluzionario”, gestibile soltanto da governi direttoriali e autoritari (la Dittatura), all’affermazione piena di un modo di produzione comunistico-comunitario postrivoluzionario e postcapitalistico, oltre al consolidamento delle conquiste rivoluzionarie e all’interruzione definitiva dei flussi di globalizzazione e di potere neocapitalistici, dovrà verificarsi un cambiamento generazionale talmente rilevante (difficilmente realizzabile in una sola generazione), che riporterà alla nascita dell’”uomo nuovo” e alla comparsa, per la prima volta, di quel lavoratore cooperativo collettivo associato, preconizzata una prima volta nell’ottocento da Karl Marx ed auspicata, oggi, dal suo libero allievo e interprete Costanzo Preve.
Ma questa trasformazione riguarderà, come detto, tempi ancora lontani dal nostro, e perciò in qualche misura imperscrutabili, mentre per gli anni a venire, pensando ad un arco temporale dell’ampiezza di almeno un trentennio (corrispondente ad una generazione), lo “stato di eccezione rivoluzionario”, sostituendosi allo “stato di eccezione liberaldemocratico” che oggi riguarda l’Italia (direttorio globalista affidato a Monti) ed ha riguardato la Grecia (direttorio di Papademos), imporrà un governo direttoriale saldamente nelle mani dei Rivoluzionari.
La controdemiurgia rivoluzionaria non potrà che tradursi, sul piano politico, in caso di vittoria negli spazi nazionali sulle sub-oligarchie, in una forma dittatoriale di governo destinata a governare la transizione.
La dittatura è stata demonizzata dai neoliberali fino al parossismo e usata come minaccia, come autentico “spauracchio”, manipolando la storia dei secoli pregressi, con il solo scopo di evitare critiche sostanziali all’impianto di potere liberaldemocratico, ma è stata poi subdolamente adottata, sotto parvenza di “legalità democratica e costituzionale”, dall’Aristocrazia globalista per governare indirettamente l’Italia e la Grecia attraverso Monti e Papademos.
Si può dire che i decisori globali, valendosi dell’opera mistificatoria degli apparati ideologico-massmediatici ed accademici, hanno buttato fuori dalla porta la Dittatura, ma con la piena complicità dei sub-dominanti politici nazionali, italiani e greci, l’hanno fatta rientrare furbescamente dalla finestra, resa irriconoscibile, ibridata con una liberaldemocrazia in putrefazione che mantiene i suoi riti, per governare due paesi (per ora soltanto due) dell’area europea mediterranea.
Ma la Dittatura, al di là dalla demonizzazione strumentale alla quale è stata sottoposta negli ultimi decenni, è l’unica forma di governo che consente di gestire in modo ottimale l’emergenza, di fronteggiare con decisione pericoli interni ed esterni, di affrontare con strumenti adeguati uno stato di eccezione, o addirittura d’assedio (si veda il caso storico di Cuba), che può prolungarsi nel tempo, coprendo lo spazio di interi decenni.
Ciò che è stato vero fin dai tempi della Roma repubblicana e consolare sarà vero anche per I Rivoluzionari.
Nel lunghissimo periodo, invece, esaurita l’emergenza, consolidate le conquiste rivoluzionarie essenziali, educata almeno una generazione alla socialità, al lavoro collettivo per la produzione di beni, in quanto tali, e più non di merci “sensibilmente sovrasensibili” (in quanto tali), pronti per l’abbandono definitivo di quel valore di scambio che crea valore astratto, astrattizzando un mondo interamente valorizzato, e per il ritorno alla dimensione etica del valore d’uso, una redistribuzione democratica e capillare del potere nella nuova società, in quelle forme comunistico-comuniatarie auspicate anche da chi scrive, non solo sarà possibile, ma diventerà necessaria.
Tornando ad un futuro più prossimo a noi, riconsegnando alle nebbie della storia più lontana i tempi storici che è molto arduo e rischioso esplorare, possiamo continuare nella difficile opera di tracciare alcuni lineamenti della figura del rivoluzionario di domani, pur con qualche comprensibile imprecisione ed approssimazione.
Le caratteristiche degli agenti della Rivoluzione dipenderanno in buona misura dall’asprezza e dall’intensità del conflitto sociale e politico con la classe dominante globale, e in prima battuta con le concentrazioni di potere sub-dominanti negli spazi nazionali.
I Rivoluzionari, per affrontare un nemico spietato e privo di etica, totalmente insensibile davanti alle questioni sociali, sempre più separato dal resto dell’umanità, dovranno combattere in una situazione di “sospensione dell’umanità” ed in una pre-Westafalia in cui lo scontro sarà totalizzante e mortale, in cui non si faranno prigionieri.
Le guerre culturali sono sempre le peggiori, in quanto guerre di sterminio di culture avverse e di intere popolazioni, e la Guerra Sociale di Liberazione, che avrà significativi aspetti culturali, non farà eccezione alla regola.
Combattere in “sospensione dell’umanità” significa combattere, con ogni arma disponibile, contro un nemico considerato “non umano”, e come il nostro attuale nemico ha disumanizzato il resto dell’umanità, riducendolo a semplice risorsa a sua disposizione (fattore-lavoro in luogo di lavoratori, neoschiavitù in luogo di diritti), così I Rivoluzionari procederanno a disumanizzare il nemico, come necessario punto di non-ritorno nella lotta che gli consentirà di compiere – e di giustificare in primo luogo davanti a sé stessi – gli attacchi “biologici” selettivi individuali che in una situazione non bellica, in tempo di pace, farebbero inorridire persino coloro che li compiranno.
Se fin d’ora è fuor di dubbio l’intrinseca sostanza “criminale” di tali attacchi, oggetto della parte operativo-militare del presente scritto, così sarà fuori discussione la necessità di sferrarli sistematicamente, in un contesto bellico, per indebolire progressivamente l’”anello debole” nazionale della catena di potere globalista.
Perciò I Rivoluzionari non avranno alternative e dovranno, in tal senso, sacrificarsi, pianificando e portando a compimento simili azioni.
Per poterlo fare è necessaria la preventiva disumanizzazione del nemico, in primo luogo per la stessa determinazione e la “saldezza interiore” dei militanti rivoluzionari impegnati nello scontro, ma ciò può non risultare troppo arduo, visti i crimini fino ad ora commessi scientemente dal nemico stesso, e quelli, ancor più grandi, che potrà commettere in futuro.
Un nemico disumano fin nella sua più intima sostanza, sempre più arrogante ed impudente nel pianificare e portare a compimento, alla luce del sole, azioni socialmente criminali che colpiscono indiscriminatamente milioni di individui (riduzione delle pensioni, contratti di lavoro precari-capestro, sfruttamento schiavistico del lavoro dei paesi “non in sviluppo”, neoschiavitù precaria in occidente, eccetera), o vere e proprie stragi di massa (provocando i suicidi degli “incapienti”, partecipando alle guerre di sterminio in difesa della democrazia e dei “diritti umani”, come quella irakena o quella afgana, o nel caso della Libia) si disumanizza perciò con molta maggiore facilità.
Tenuto conto che le azioni di lotta qui descritte si concretizzeranno in lesioni permanenti e vere e proprie mutilazioni, inferte a soggetti dei due sessi e di ogni fascia d’età, ed in certi casi comporteranno la soppressione di chi subisce l’attacco, ciò potrà creare non pochi problemi (di coscienza, di ordine psicologico) ai militanti che le porteranno a compimento, e quindi, la disumanizzazione del nemico, la diffusione dell’odio sociale e della necessità di vendetta sociale costituiranno, in riferimento agli stessi militanti, altrettanti, indispensabili, “rinforzi psicologici”.
Da un punto di vista etico, la condanna senza appello accomuna sin d’ora Aristocrazia globale e gruppi sub-dominanti, perché la prima decide e i secondi traducono in politiche concrete tali decisioni, scendendo nei dettagli ed integrandole, rendendosi in tal modo pienamente corresponsabili delle stragi di massa, sociali ed effettive, pianificate dalla prima.
Il combattente del futuro dovrà essere molto motivato e disposto al sacrificio di sé, dovendo compiere simili azioni, ed allora non possiamo non fare riferimento ai metodi di lotta, alla disciplina, alla disposizione al sacrificio individuale ed alla spietatezza nel compimento delle azioni di guerra dei Taliban afgani, gli studenti armati delle scuole coraniche.
Certo, l’ideale sarebbe poter disporre sul campo di simili formidabili combattenti, in grado di esprimere un elevato potenziale di lotta (e di necessaria ferocia), una motivazione ed un coraggio notevoli, una grande determinazione e un notevole spirito di sacrificio nel compiere atti violenti estremi (cavare gli occhi, decapitare, tagliare orecchie e naso, non è cosa semplice e indolore per chi la fa), al netto, però, di ogni residuo teologico oscurantista islamico.
Queste caratteristiche non sono innate, perché sono il frutto di un certo ambiente culturale, della durezza della vita in un paese che è fra i più poveri del mondo, ma soprattutto di un conflitto inestinguibile, di una lotta incessante contro nemici potenti e tecnologicamente superiori, iniziata con l’invasione sovietica del dicembre del 1979 (occupazione russa di Kabul), proseguita con la guerra civile dopo il ritiro sovietico e la temporanea affermazione dei Taliban (dal 1996 al 2001), seguita dall’invasione statunitense (dell’ottobre 2001) e ad oggi non ancora conclusasi.
Quando la lotta è dura e senza quartiere, protraendosi nel tempo e causando lutti e distruzioni, quando il confronto si sostanzia in un conflitto culturale, che è il più sanguinoso e si risolve soltanto con la completa sconfitta di una delle due parti (implicando la ferocia della guerra di sterminio, non di rado biologico), o i combattenti acquisiscono caratteristiche simili a quelle dei Taliban, per contrastare un nemico potente e senza scrupoli, e si “sospende l’umanità” per poter combattere con la dovuta durezza rispondendo colpo su colpo, o si va inevitabilmente verso la sconfitta e l’estinzione.
Ciò potrà valere anche per I Rivoluzionari del futuro, nonostante il grado d’istruzione più elevato, una diversa origine culturale e una vita meno dura di quella dei miliziani Taliban.
Del resto, lo sterminio ordinato dall’Aristocrazia globale, è iniziato da qualche tempo anche in Europa, spostandosi rapidamente da un piano squisitamente socioeconomico (rimozione delle garanzie per il lavoro, controriforme del welfare e delle pensioni, interdizione assoluta per le politiche socialmente riequilibratici e di redistribuzione dei redditi), ad un piano effettivo, con la condanna alla morte fisica, all’autosopressione di coloro che sono diventati “inutili”, dei più poveri, dei vecchi e nuovi marginali, dei disoccupati cronici e dei falliti economicamente (proliferazione dei casi di suicidio, esplosioni di follia individuale con uccisione dei familiari, dei vicini, dei passanti, eccetera).
Risulta evidente la necessità neocapitalistica di ridurre il numero delle unità potenziali di forza-lavoro, in quanto eccessivo, sovrabbondante per il nuovo ruolo assegnato all’Europa e all’Italia nel mondo globalizzato, un ruolo di secondo piano che renderà non più sostenibili alti livelli di vita e di consumo diffusi a livello di massa, come accadeva nel passato, e che richiederà, in molti casi, forza-lavoro dequalificata in luogo delle pregresse “risorse ad alto potenziale” e ad alto reddito.
A cosa servono professionalità ed esperienza, elevata scolarizzazione, se quando va bene, e il lavoro si trova, si devono pulire marciapiedi sbrecciati con la ramazza (vecchia occupazione di ripiego, dequalificata e “socialmente utile”), portare a domicilio cibo-spazzatura a basso costo (cattering e simili), o lavare le scale di un condominio degli anni sessanta (in qualità di precari in una falsa cooperativa)?
Tutto ciò non è un inevitabile esito di trasformazioni economiche, sociali e geopolitiche che si sono “autoprodotte” sfuggendo al controllo umano, ma, al contrario, l’effetto dei desiderata della classe dominante, che opera al massimo livello della decisione politico-stragegica per estendere il proprio potere ed assicurare la riproducibilità allargata neocapitalistica.
Lo sterminio sistematico del sociale e della popolazione, iniziato in Grecia e in Italia, ma destinato all’”esportazione” in molti altri paesi d’Europa che subiscono il giogo eurounionista, e che già oggi sono in aperta difficoltà, posti sotto ricatto, con la disoccupazione a due cifre per effetto di tali politiche, è la via scelta dai nuovi dominanti per plasmare d’autorità il mondo (e riplasmare il vecchio continente) “a loro immagine e somiglianza”.
Arrestare (o almeno rallentare) questo sterminio generalizzato, da non intendersi esclusivamente in termini sociali, sarà cura della controviolenza rivoluzionaria, estrema nello forme ipotizzate, ma selettiva e non di massa come quella elitista, e che avrà ben poche alternative praticabili, o addirittura nessuna alternativa, come sarà più chiaro nel prossimo futuro.
Disponibilità al sacrificio personale e autodisciplina, caratteristiche non più facilmente riscontrabili nella popolazione italiana ed europeo-occidentale di oggi, saranno dunque fondamentali per poter affrontare i rigori della lotta rivoluzionaria e della Guerra Sociale di Liberazione.
Decenni di diffusione degli “stili di vita” consumistici e neocapitalistici hanno fiaccato ampi strati della popolazione, favorendo un rapido mutamento antropologico che dovrebbe vanificare qualsiasi velleità di lotta contro il sistema e all’esterno del sistema stesso.
Questo mutamento antropologico e culturale, accelerato negli ultimi mesi dalle politiche espropriative del direttorio di Monti, indubbiamente sembra “togliere l’acqua al pesce”, rendendo problematici il reclutamento e la formazione delle forze rivoluzionarie.
Un simile mutamento, nella società comporta quello che io definisco “il riflusso nel privato della disperazione sociale”, senza possibilità di sbocchi politici, un fenomeno oggi ben visibile – provocato dall’azione congiunta delle politiche neocapitaliste ed ultraliberiste e dall’uso ultradecennale degli strumenti di dominazione non economici – che si estrinseca nella proliferazione dei suicidi per motivi economici e nelle esplosioni improvvise di follia individuale.
Si tratta di un problema grave, del quale per ora non si vede la soluzione.
Sembra che questo mutamento dell’uomo (dominato economicamente e psicologicamente) in una sorta di neoschiavo precario, in fattore-lavoro compresso economicamente e svalutato culturalmente, in neopauper che ricorderà sempre meno una perduta opulenza, in escluso perché inutile nei processi di creazione finanziaria del valore, costituisce un grande successo (forse il maggiore in assoluto) dell’azione dei globalisti e dei loro apparati di potere.
Non solo le possibilità di aggregare ed unificare in aree vaste una vera lotta antisistemica sembrano ridursi al lumicino, ma anche lo stesso nascere di una protesta anticapitalistica cosciente e politicamente organizzata, per quanto frammentata sul territorio o per categoria-gruppo di dominati-pauper, sembra che sia un evento sempre più raro.
A fronte di masse completamente disintegrate dal punto di vista culturale, ed inerti sul piano politico, nella nuova classe inferiore in formazione e nei residui delle vecchie classi sociali che stanno perdendo d’importanza e si stanno assottigliando (classe operaia, ceto medio, borghesia) vi sono sempre meno individui coscienti, critici, motivati e disposti a lottare con la dovuta durezza.
Sembra che non vi siano spazi per la formazione di una futura élite rivoluzionaria, né per la nascita di un’area di consenso e di supporto (all’élite stessa) in questa società frammentata e pauperizzata che al più potrà implodere, crollare su se stessa come un edificio minato, come da tempo alcuni prospettano.
Allora, in relazione alle forze rivoluzionarie inesistenti, o che esistono soltanto in embrione, con numeri molto limitati, e non sono al momento visibili, ci si può chiedere «Che fare?», riproponendo dopo più di un secolo il vecchio quesito leniniano.
In sintesi e in conclusione, i principali problemi che abbiamo di fronte, per quanto riguarda la possibilità rivoluzionaria in una società completamente dominata dall’Aristocrazia globale e dai processi di accumulazione neocapitalistici, sono i seguenti:

(1) L’alternativa politica (e più in profondità la necessaria trasformazione culturale).

(2) Le forme di lotta da adottare.

(3) Le forze rivoluzionarie che metteranno in atto le forme di lotta e costruiranno l’alternativa politica.

Il primo, cioè l’alternativa politica che esprime un programma, si chiarirà “sul campo di battaglia”, durante la lotta, in un'elaborazione dinamica dei punti principali del programma stesso.
Il secondo, riguardante le forme delle azioni rivoluzionarie future, è l’oggetto del presente saggio ed il problema qui trova una prima (per quanto non ancora sufficiente) sistemazione, prospettando soluzioni che attendono di essere messe in pratica.
Ma il terzo elemento – le forze rivoluzionarie che dovranno mettere in pratica le forme di lotta prospettate – è un problema che per ora (e per chissà quanto tempo ancora) è destinato a restare aperto, un problema la cui risoluzione è decisamente superiore alle forze dello scrivente.
E’ chiaro che la questione, sia dal punto di vista delle forze rivoluzionarie sia da quello del nemico globalista, non riguarda puri automi che nei processi soggiacciono interamente al «realismo dell’autoregolazione sistemica» (come scrisse furbescamente Lyotard nella celebre Condizione postomoderna, del 1979, per legittimare le trasformazioni capitalistiche), ma ci riporta con prepotenza alla “spaccatura” della società in classe dominante e classe dominata, mai come ora aventi interessi contrapposti e inconciliabili (nonostante la passività delle masse-pauper), e quindi richiama con prepotenza il conflitto verticale, la lotta di classe (oggi monopolizzata dai dominanti), il Polemos più che l’”agonistica” che informa la teoria dei giochi, o in altri termini, una contraddizione insanabile di natura dialettica che in futuro potrà esplodere con estrema violenza.
Nonostante tutto, il discorso, più in profondità, riporta sempre alla natura umana e alla capacità di reazione dell’uomo, alla possibilità concessagli di pensare un futuro diverso e di modificare il corso storico.
L’oggetto limitato del presente saggio, che si conclude qui, mi solleva dall’incombenza di continuare questo discorso, ma è chiaro che è proprio l’elemento umano, al di là delle “spersonalizzazioni sistemiche” e delle credenze diffuse che mettono il nostro destino nelle mani del sovraindividuale, ad essere determinante nella futura lotta contro il neocapitalismo e perciò, ben al di là delle forme che dovranno assumere le azioni rivoluzionarie future, saranno gli uomini che decideranno l’esito dello scontro, e non gli algoritmi informatico-finanziari, gli indicatori economici, i sistemi d’arma convenzionali o i droni militari.
Si può sempre sperare, anche contro ogni speranza, che la storia ci riservi qualche sorpresa positiva, mutando repentinamente il suo corso.
E’ già accaduto e potrà accadere ancora.
Al fatalismo indotto dalla propaganda sistemica, alla credenza diffusa che dalla prigione neocapitalistica globalizzata non si può uscire, all’inerzia delle vittime sistemiche, opponiamo un motto antico:
«Spes contra spem».

 http://pauperclass.myblog.it/archive/2012/06/28/i-rivoluzionari-e-le-masse-di-eugenio-orso.html

venerdì 29 giugno 2012

La Rivoluzione di Eugenio Orso


I) La Rivoluzione.

Se i rivoluzionari sono gli agenti della Rivoluzione, coloro che la fanno ai diversi gradi di consapevolezza possibili, ed esprimono una critica “radicale”, non riassorbibile, al sistema di potere e ai rapporti sociali dell’epoca, allora è necessario definire senza troppe imprecisioni cos’è la Rivoluzione, richiamando la definizione che ne ho dato in un saggio intitolato, appunto, Insurrezione e Rivoluzione.
Pur non essendo questo un trattato dedicato alla Rivoluzione, con tutta l’analisi storica che può comportare lo studio di un simile fenomeno di rottura (e ricomposizione in altra forma) dell’ordine sociale vigente, è bene definire cosa si intende per “rivoluzione”, prima di affrontare il tema dei Rivoluzionari di domani, delle loro caratteristiche e del loro rapporto con le masse.
E’ necessario, per andare un po’ di più in profondità nella questione, distinguere lo specifico fenomeno politico e sociale rivoluzionario, che investe ogni aspetto della vita associata dei singoli, da altri importanti fenomeni che hanno l’effetto di “infiammare” la società, di sconvolgerne (seppur nel breve) gli equilibri, di mettere alla prova la stessa tenuta sistemica, trattandosi di eventi in certi casi apparentemente simili o addirittura sovrapponibili al processo rivoluzionario, come l’Insurrezione.
Per Rivoluzione qui si intende, non un semplice cambio di governo, sia pure realizzato con metodi “non democratici” ed “extracostituzionali”, che mira alla sostituzione della dirigenza politica e di una parte di quella burocratica, ma una tappa fondamentale, un momento topico del lungo processo di Liberazione ed Emancipazione umana per il raggiungimento dell’autocoscienza, che supera l’ordine precedente ed instaura un nuovo ordine politico e sociale, nuovi rapporti sociali e di produzione stabiliti fra gli uomini.
La Rivoluzione rappresenta, perciò, un punto di rottura, un discrimine fra due mondi (prima Rivoluzione Francese e Ottobre Rosso in Europa, Rivoluzione Maoista in Asia, Rivoluzione Cubana in America, eccetera), il segnale che è in corso un vero e proprio “cambio di Evo”, essendo il cambiamento prodotto dalle inevitabili trasformazioni culturali che caratterizzano il corso storico e dalla stessa azione dei rivoluzionari.
L’effettivo momento di passaggio da un vecchio ad un nuovo modo di produzione sociale può essere rappresentato, o almeno accelerato, dalla Rivoluzione, un fenomeno per sua natura tridimensionale, contrapposto all’unidimensionalità insurrezionale alimentata dalla sola rabbia dei dominati, in quanto (A) dotato della necessaria profondità storica (il periodo di “incubazione” può durare decenni, o secoli), (B) guidato da una visione politica e sociale autenticamente alternativa a quella ancora dominante, (C) animato dalla coscienza e dalla determinazione dei rivoluzionari, vero “intelletto attivo del cambiamento e trasformativo dell’ordine esistente”, quando riescono ad incanalare positivamente in termini politici, sulla via del cambiamento e della trasformazione economico-sociale, la rabbia montante, l’odio che nasce dall’iniquità sistemica, la forza degli oppressi e delle masse soggette al potere vigente.
Non esiste un unico modello di Rivoluzione universalmente applicabile, e l’implosione del comunismo sovietico, nato da una Rivoluzione, non significa in alcun modo – come la propaganda liberal-liberista ha cercato di far credere in questi anni, mistificando – che la Rivoluzione stessa è morta insieme all’Unione Sovietica e al blocco geopolitico socialista, ma significa semplicemente che la via rivoluzionaria, in futuro, potrà seguire direzioni diverse da quelle e rivestire altre forme, non più leniniste, con esiti sociopolitici ben diversi.
Nessun momento rivoluzionario è mai uguale ai precedenti (ed ai successivi), così come le forze rivoluzionarie, cioè l’insieme degli agenti che trasformano la realtà e “disalienano” l’uomo, sono perfettamente immerse nel corso storico, quale più avanzata risultante delle precedenti trasformazioni antropologico-culturali, ma nel contempo concretamente esprimono, combattendo il sistema e le forze che cercano di perpetuarlo o semplicemente di riformarlo, la potenzialità connessa alla natura umana della “possibilità di scegliere e di opporsi” – anche contro lo stesso interesse personale e di classe del singolo – che è frutto dell’esercizio della ragione nel calcolo politico-sociale e l’esito della possibilità di critica.
Per definire la Rivoluzione in un modo sintetico ma efficace, non in contraddizione con i concetti che ho esposto in precedenza, si può ricorrere alle parole del filosofo Costanzo Preve:
«Se vogliamo usare il termine di rivoluzione nel solo modo corretto e non equivoco [ ... ] e cioè di rivolgimento che attiene il funzionamento riproduttivo complessivo dell’intera struttura dei rapporti di produzione [ ... ] allora ne consegue che nell’ultimo secolo in Europa (1912 – 2012) la sola ed unica rivoluzione sia stata quella russa del 1917.»
[Etica comunitaria, progresso e rivoluzione, Costanzo Preve intervistato su questi temi da Luigi Tedeschi]
Al massimo grado possibile di cambiamento storico e culturale, come sostiene il grande filosofo marxiano ed hegeliano Costanzo Preve, vi è il rivolgimento che attiene il funzionamento riproduttivo complessivo dell’intera struttura dei rapporti di produzione, e ciò vale, in estrema sintesi, ad esplicitare l’importanza del momento rivoluzionario, che si riverbera su ogni aspetto della stessa vita quotidiana (e dell’esperienza esistenziale) dei singoli.
Lungi dal rappresentare un semplice cambio di governo e/o un rinnovo forzato della “classe dirigente politica” (che potrebbero tranquillamente avvenire in seguito ad un golpe “nonviolento” e la nomina di un Monti alla guida dell’esecutivo), la Rivoluzione è la risultante storica di un processo articolato, che implica per sua natura significativi cambiamenti culturali e una rinnovata consapevolezza umana (o almeno della parte migliore e più avanzata dell’umanità , rappresentata dalla élite rivoluzionaria) nel lungo cammino verso l’autocoscienza e l’emancipazione.
Il momento rivoluzionario deve essere inteso quale momento culminante del cambiamento, di quel processo storico che si sostanzia in una profonda trasformazione dei rapporti sociali di produzione, e per conseguenza della stessa organizzazione sociale nel suo complesso.
La società non si rinnova mai nei suoi tratti essenziali per “gentile concessione” dei gruppi dominanti, mossi dal senso di responsabilità nei confronti dei sottoposti, guidati dall’”empatia” nei confronti del resto dell’umanità e disposti, perciò, a sacrificare una parte dei loro privilegi, o a ridimensionare progressivamente il loro potere.
La società si rinnova da cima a fondo soltanto attraverso la lotta, che può assumere forme estreme (“terrorismo”, rivolte violente, conseguenti e sanguinose repressioni sistemiche, eccetera), e gli assetti sociali mutano attraverso sconvolgimenti epocali dell’ordine costituito, fino a raggiungere il culmine della lotta stessa, il climax della “tragedia sociale”, rappresentato dalla Rivoluzione.

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sabato 16 giugno 2012

Stato Versus Mercato L’Italia stretta fra globalizzazione, Europa unionista e deficit di sovranità nazionale

 

Inseriamo questo contributo di Eugenio Orso sul problema della fine sostanziale della sovranità politica degli Stati nel contesto dell’UE e della globalizzazione capitalstica



di Eugenio Orso

Premessa
Come si evidenzia nel sottotitolo di questo breve saggio politico, l’Italia è finita nella morsa globalizzante neoliberista, stretta com’è fra i processi di globalizzazione, mai interrotti dalla crisi strutturale neocapitalistica, un’Europa aliena e unionista che la sta stritolando imponendo con brutalità i suoi programmi economici, e il drammatico deficit di sovranità nazionale che non consente al paese di decidere, autonomamente, del proprio futuro.
Il presente scritto si articola in due capitoli. Il primo capitolo è introduttivo, ed attraverso un esercizio di storia comparata si tenta di evidenziare la gravità e le potenzialità distruttive della crisi neocapitalistica in Italia. Il secondo capitolo, che costituisce il cuore del saggio, è relativo al rapporto, ormai fin troppo chiaro, fra l’avvento dell’Europa dell’Unione, la riorganizzazione delle sue istituzioni sopranazionali, la creazione della BCE, l’introduzione dell’euro e la perdita di sovranità politica e monetaria degli stati succubi, fra i quali lo stato nazionale italiano. Lo scontro fra il sopranazionale e il nazionale che si sta verificando nel vecchio continente, cioè fra l’Unione europea globalista ed alcuni Stati da “normalizzare” economicamente e socialmente (per ora, l’Italia ela Greciamesse di recente “sotto tutela”), nasce dalla rottura dello storico patto fra il vecchio Stato nazionale dotato di sovranità politica ed il Mercato, da intendersi qui come il grande Capitale in mani private. Il “conflitto” fra i due è iniziato nella seconda metà degli anni settanta del novecento, dopo lo scadere dei cosiddetti trenta gloriosi anni di compromesso, di relativo equilibrio e di moderata emancipazione delle classi subalterne. Tale confronto riflette il tentativo, che sta per riuscire, di anteporre sempre e comunque l’economia ultraliberista, dominata dalle ragioni della finanza, alla decisione politica nazionale sovrana, e di demolire le ultime barriere, in Europa e in occidente, che ancora ostacolano la libera circolazione dei capitali. Si tratta, in sostanza, della continuazione in nuove forme, per molti versi inedite, dell’antico scontro fra la crematistica da un lato, intesa come creazione illimitata di valore monetario e finanziario, e l’etica dall’altro lato, che per sussistere può ammettere soltanto la “buona” economia, subordinata alla decisione politica della comunità. Uno scontro vivo fin dai tempi di Aristotele, che ha attraversato i secoli ed oggi potrebbe risolversi con la vittoria della nuova crematistica. Gli effetti sociali e politici, pesantemente negativi, dell’attuale crisi neocapitalistica e la ricerca di possibili vie d’uscita, per l’Italia riorganizzata in chiave neoliberista e globalista dall’esecutivo Monti, non potranno che portare all’avvio di un processo rivoluzionario, alimentato da un chiaro disegno politico, economico e sociale alternativo, pena l’implosione definitiva della sua società ed il completamento della colonizzazione neoliberista. Al di fuori di una futura via rivoluzionaria per la salvezza, non sembra che esserci un ritorno incruento, peraltro improbabile (se non impossibile), alle politiche neokeynesiane del dopoguerra, che sollecitavano un forte interventismo statale in campo economico, ammettevano la protezione dell’industria nazionale e richiedevano il controllo della moneta, come accadeva nella precedente fase storica, in cui lo stato‐nazione non era nelle attuali condizioni di subordinazione, ed era ancora dotato di un certo grado di autonomia e sovranità. Nel caso di disordini insidiosi e troppo estesi tendenti al caos permanente, di guerra civile e/o di una frantumazione regionalista del paese con il rischio di un contagio destabilizzante del cosiddetto ordine mondiale, l’occupazione globalista effettiva del paese, manu militari utilizzando lo strumento NATO, potrà diventare una drammatica realtà.

La grande crisi e le antiche crisi

In seguito agli effetti economico‐sociali negativi delle misure imposte da governi fantoccio che operano per conto terzi, scopertamente al di fuori di un supposto quadro di legalità democratica, si sente affermare sempre più spesso che l’attuale crisi italiana (a causa dell’ingente debito “sovrano”, dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico che lievitano con lo spread, della caduta del prodotto, dei segnali economici marcatamente depressivi) è la più grave dal dopoguerra, ma spesso si omette di dire che questa crisi è ampiamente indotta dalla dinamiche neocapitalistiche, e serve per l’omologazione dell’Italia al modello di capitalismo ultraliberista anglo‐americano, “evolutosi” nell’ultimo ventennio senza incontrare ostacoli di rilievo, fino a diventare il nuovo capitalismo finanziarizzato del terzo millennio.
Pur sapendo che gli esercizi di storia comparata sono insidiosi, perché talvolta rischiano di portare fuori strada nell’analisi, non possiamo non riconoscere che la penisola, anticamente, ha già vissuto almeno una situazione simile, foriera di gravi rischi e di innumerevoli lutti, e precisamente durante la cosiddetta crisi del terzo secolo (dopo Cristo) che ha investito l’impero romano, e dalla quale l’impero – fino ad allora sufficientemente saldo ed in espansione, soprattutto nel periodo che andava da Ottaviano Augusto a Traiano, o al più a Marco Aurelio – non si è mai più ripreso. Quando scoppiò la crisi del terzo secolo, la penisola era ancora fiorente e rappresentava il cuore del sistema imperiale, ma quando la crisi finì, in termini economici, demografici e sociali le province italiane ne uscirono malconce ed esauste, pronte per entrare nel lungo tunnel della decadenza dell’occidente, durata circa due secoli, e del conseguente trapasso al “nuovo mondo” feudale. La crisi neocapitalistica che oggi investe soprattutto l’Italia e l’Europa, è nel contempo elemento strutturale del Nuovo Capitalismo, senza il quale questo modo storico di produzione non potrebbe reggersi a lungo, e manifestazione del definitivo tramonto, in quanto potenza economica e produttiva, del vecchio continente a rischio di marginalizzazione, con i paesi dell’Europa mediterranea e la stessa Italia che sembrano essere diventati, in quest’ultimo periodo, l’epicentro della crisi stessa, un’area del mondo in cui la “distruzione creatrice” in atto è più evidente e rischia di diventare sanguinosa.
Anche la crisi romana del terzo secolo fu una “distruzione creatrice”, naturalmente rapportata al sistema schiavistico e al sistema (politico) imperiale dell’epoca, e lo fu su vari piani: quello economico e sociale, quello militare, e quello dell’organizzazione dell’impero. Ma dalla crisi del terzo secolo non uscì nulla di buono, perché non sempre ciò che si crea dopo aver distrutto è positivo per le società umane e per gli equilibri sociali, per la stessa tenuta delle istituzioni che si vorrebbero preservare.
Grazie al cinquantennio ricordato come il periodo dell’anarchia militare (dal 235 al 284 dopo Cristo), si passò dal principato augusteo, che rappresentava una forma politica di dominio relativamente “soft”, in grado di mediare fra i poteri (fra i quali il senato aristocratico d’età repubblicana) e le classi sociali (patrizi e plebei, o meglio, honestiores e humiliores), ad una sorta di dominato, o di dispotismo non asiatico fortemente centralizzato, non di rado retto da figure di militari‐avventurieri emergenti (il primo fu Massimino il Trace). L’avvento del dominato imperiale riduceva i già angusti spazi di libertà concessi alla popolazione, mentre l’accresciuta pressione fiscale per affrontare le ingenti spese di guerra (contro i barbari ed i persiani), nel tentativo di rafforzare l’apparato militare e potenziare quello statale, riduceva sul lastrico ampie fasce di popolazione, risparmiando soltanto i grandi latifondisti.
Un po’ come oggi, in Italia, in cui la crescente pressione fiscale colpisce sempre più duramente i redditi da lavoro dipendente e le pensioni (in un paese in cui ci sono undici milioni di poveri, fra i quali moltissimi lavoratori e pensionati, rapidamente cresciuti di numero grazie alla crisi ed alle misure governativo‐europeiste), risparmiando soprattutto i grandi evasori fiscali, i quali nel concreto sono intoccabili perché appartengono alla classe dominante, o rappresentano potentati dell’economia formalmente criminale, che si sviluppa
parallelamente a quella neocapitalistica. L’intangibilità del sistema bancario, che deve essere finanziato e sostenuto a tutti i costi, se del caso sottraendo risorse agli impieghi di natura sociale e produttiva, completa il quadro.
Se la crisi romana del terzo secolo accrebbe la conflittualità sociale, suscitò le rivolte dei dominanti e modificò l’ordine sociale, in Italia ed altrove entro i confini dell’impero, l’attuale crisi neocapitalistica e l’avvento di un governo collaborazionista dell’occupatore del paese, quale è quello di Monti, suscita fuori degli schemi sistemici e del “politicamente corretto” (semi‐)rivolte sociali fino a ieri imprevedibili (Sicilia, trasportatori, tassinari, pescatori, ed in futuro molti altri), mentre la violenza della crisi e delle controriforme montiane accelerano la trasformazione dell’ordine sociale, che procederà, se non incontrerà ostacoli di rilievo, fino alla sua estrema “semplificazione” sociologica in classe globale dominante e classe povera dominata. Per evitare opposizioni di rilievo nel tessuto politico e sociale italiano, e per far procedere speditamente le controriforme pianificate, la classe globale che sostiene Monti ha “comprato” i cartelli elettorali che contano, i sindacati, i vertici delle lobby importanti, assicurandosi il loro appoggio contro gli interessi del popolo italiano (e non di rado dei loro stessi militanti, iscritti ed associati).
La prima e più profonda ragione della spaventosa crisi romana del terzo secolo, la quale ha rimodellato brutalmente la società italica peggiorando le condizioni di vita della massa, risiede nello svuotamento progressivo dei “giacimenti” di braccia per il lavoro schiavo, e più in generale per appropriare risorse, come effetto del raggiungimento della massima espansione militare, territoriale e demografica dell’impero. A ciò corrisponde nel nostro tempo storico, in cui la penisola è nuovamente funestata da una profonda crisi economica, politica e sociale, il progressivo e rapido svuotamento di sovranità dello stato nazionale, che dopo aver raggiunto l’apice della sua autonomia con il fascismo, nel periodo prebellico, ha visto progressivamente ridursi le sue competenze, ed ha perso la prerogativa della decisione politica su molte materie strategiche (moneta, debito pubblico, industria, eccetera), fino a scivolare nelle attuali condizioni di subalternità nei confronti dell’esterno. Questa perdita di sovranità, forse irreversibile, è indotta e accelerata dalle dinamiche neocapitalistiche che hanno influenzato la stessa “costruzione” europea, i parametri di Maastricht, il dominio della BCE e del FMI, ed imposto l’euro ai maggiori paesi dell’Europa occidentale. La rapacità del dominato imperial‐militare romano, che ha impoverito le popolazioni italiche fin dall’età del ferro dei Severi, trova unʹinquietante corrispondenza, oggi, nella rapacità dei globalisti dominanti, i quali, assumendo il controllo degli stati‐nazione privati della loro autonomia, saccheggiano le risorse collettive e de‐emancipano le masse, riducendole a neoplebi. Dovrebbe esser chiara anche al cosiddetto uomo della strada, giunti a questo punto, la vera funzione della UE, della BCE e dell’euro.
Come l’impero che in quegli anni lontani ha mostrato il suo vero volto, riorganizzandosi in dominato dispotico e impoverendo la popolazione, per scaricare sulle classi inferiori l’ingente costo della crisi, economica, sociale e militare del terzo secolo, cosi, oggi, la liberaldemocrazia ci mostra il suo vero volto, autoritario, dispotico, oligarchico, di totale subordinazione alle ragioni della classe dominate globale, e contribuisce ad imporre quelle controriforme, economiche e sociali, che scaricano sui più deboli l’onere della crisi e rimodellano in senso neocapitalistico la società.
Gli italici e le altre popolazioni non sono riusciti, nonostante l’insorgente conflittualità fra i gruppi sociali e le numerose rivolte, ad impedire quella trasformazione dell’ordine costituito che alla fine hanno dovuto subire, fino all’estinzione formale, avvenuta due secoli dopo, dell’impero romano d’occidente. Riusciranno nel prossimo futuro gli italiani, e gli altri popoli dell’Europa mediterranea, ad interrompere il processo in atto, sottraendosi alla morsa del nuovo potere globalista, senza dover attenderne l’estinzione? Al momento attuale, in cui gli eventi sono in pieno corso, si moltiplicano le proteste fuori degli schemi, si attiva la repressione sistemica e la “distruzione creatrice” neocapitalistica subisce un’accelerazione, il futuro è sommamente incerto e la domanda non può ancora trovare una chiara risposta.

Sovranità nazionale e dominio del sopranazionale

L’opposizione, o meglio l’incompatibilità, fra l’affermazione e il mantenimento di una sovranità assoluta degli stati nazionali e la trasmigrazione del potere in entità sopranazionali sempre più potenti e onninvasive, nell’Europa del dopoguerra sembra essersi risolta a favore queste ultime. Non si può ancora sapere se il trionfo del globale sul nazionale, del mondiale sul locale, e soprattutto del Capitale sul Lavoro, sia definitivo, fino all’irreversibilità dei processi in atto, ma è certo che le oligarchie globaliste, supportate dallo strumento militare americano‐NATO e dalla finanza di rapina, hanno vinto un’importante battaglia, sottomettendo in buona misura gli stati, i popoli e le nazioni. La stessa, dissennata tensione, diffusa ad arte, per la “difesa dell’euro” che spiana la strada alle controriforme sociali, e che si giustifica minacciando sciagure inenarrabili in caso di collasso della moneta europea, o semplicemente dell’uscita di uno stato dall’Unione monetaria, costituisce una prova di quanto qui si afferma. Infatti, all’euro si può sacrificare tutto, anche le pensioni, anche la sanità o la scuola pubblica, persino il posto di lavoro fisso e tutelato (unica fonte di sostentamento per la maggioranza), e di questo purtroppo si mostrano convinte, in Italia e altrove, moltissime vittime delle dinamiche neocapitalistiche. Disinformazione mediatica, propaganda ultraliberista e neoliberale, idiotizzazione sociale, “snazionalizzazione” delle coscienze, svalutazione del ruolo dello stato, delle comunità di appartenenza, della socialità e diffusione dell’individualismo anomico, hanno proceduto di pari passo con l’affermazione dei “precetti” economico‐finanziari di questo capitalismo, consentendogli, fino ad ora, di spianare ogni ostacolo sul suo percorso. La grande disputa politica, come dovrebbe essere chiaro a tutti, attualmente è quella fra i sostenitori della sovranità assoluta dello stato nazionale, da un lato, e le oligarchie globaliste che istituiscono nuove forme di governo sopranazionale, dall’altro, in accordo con i loro interessi vitali. La classe dominante globale è oggi sul punto di stravincere il confronto, come provano i casi della Grecia e dell’Italia (ma non soltanto questi), e ciò equivarrebbe anche ad uno storico trionfo (irreversibile?) del Capitale sul Lavoro, perché le politiche sociali, assistenziali, di emancipazione dei lavoratori e di tutela del lavoro sono possibili, come la storia ha ampiamente dimostrato, soltanto in un quadro di ampia autonomia, politica e monetaria, degli stati nazionali. Quello che appare scontato è che non c’è più alcuna possibilità di compromesso fra Stato e Mercato (e la condizione dell’Europa lo testimonia), cioè fra la sovranità nazionale, sul piano politico, monetario ed economico, e il grande Capitale finanziario nelle mani della classe neodominante globale. Gli esecutivi di Monti, in Italia, e di Papademos, in Grecia, sono altrettanti “cani da guardia” del capitale finanziario, ed agiscono scopertamente contro i popoli e gli stati nazionali. Di recente, nella Grecia affidata a quel Papademos di cui Monti è un replicante, il maggior sindacato di polizia ellenico, che agisce nel quadro dello stato‐nazione, ha minacciato di arrestare i funzionari del FMI ed europei presenti sul territorio greco, dichiarando di schierarsi con il popolo contro l’Europa finanziaria dei dominanti e la globalizzazione.
La grande disputa politica fra i sostenitori della sovranità nazionale e i “globalizzatori”, equivale sul piano economico al confronto fra i sostenitori del “compromesso” fra politica ed economia, regolamentando i mercati (o addirittura sopprimendoli, nel caso si assumano posizioni non riformiste) e gli ultraliberisti che teorizzano, e mettono in pratica con successo, la piena autonomia e la superiorità del Mercato.
Ciò che è importante capire, e ribadire una volta di più, è che le due battaglie, quella adifesa dell’autonomia degli stati‐nazione e quella sociale in difesa del welfare, non solo non sono incompatibili – una “di destra” e l’altra “di sinistra”, secondo i vecchi schemi ormai inattuali, ma, al contrario, sono complementari, perché ambedue costituiscono presupposti indispensabili per la libertà, l’autodeterminazione e la giustizia sociale realizzata.
Difendendo l’autonomia dello stato nazionale contro i globalisti e contro quel loro strumento di dominio che è l’Europa dell’Unione, si difendono anche il Lavoro, i diritti dei subalterni (quelli concreti, economici, non quelli astratti e posticci liberaldemocratici), le conquiste economico‐sociali della seconda metà del novecento, i meccanismi redistributivi del reddito a vantaggio dei subordinati. Possiamo perciò affermare che lo stato nazione pienamente sovrano, nelle attuali condizioni storiche, rappresenta l’ultimo baluardo della socialità, dell’etica, dell’equità contro il saccheggio operato dai mercati e l’imposizione di una globalizzazione economica che conviene soltanto ai dominanti.
L’attacco alla sovranità politica e monetaria dello stato‐nazione ha richiesto, per poter essere sferrato con successo, l’avvio di rilevanti trasformazioni culturali, economico‐sociali e politiche che si possono sintetizzare come segue.
[a] Traformazioni antropologicoculturali e dell’ordine sociale.
E’ bene evidenziare che l’attacco allo stato‐nazione, chiarissimo nell’Europa mediterranea, in cui alcune entità statuali sono occupate dagli emissari delle élite globaliste e svuotate di contenuti politici effettivi, è stato reso possibile dallo sconvolgimento dell’ordine sociale precedente e dal grandioso esperimento di manipolazione culturale ed antropologica per la creazione sociale dell’uomo precario, per la flessibilizzazione di massa a partire dal lavoro, per la diffusione della stupidità sociale organizzata. In luogo dell’inclusione domina l’esclusione, dal lavoro e dalla decisione politica, i cittadini consapevoli tendono ad essere sostituiti da “idiotai”, confinati nella dimensione privata dell’esistenza ed espropriati della dimensione politico‐sociale, all’emancipazione si è sostituita la riplebeizzazione di massa, che investe tanto gli operai quanto i ceti medi figli del welfare novecentesco. Senza questi indispensabili presupposti, l’esproprio di sovranità e di socialità in atto avrebbe trovato fortissime resistenze, e probabilmente non potrebbe esser portato a compimento con indubbio successo, come accade di questi tempi. Conditio sine qua non dell’attacco finale alla sovranità nazionale, condotto proprio in questi mesi in Italia e in Grecia, è stato quel processo manipolatorio di massa che ha distrutto le classi del vecchio ordine (espressione del capitalismo del secondo millennio) e neutralizzato l’opposizione sociale, un processo che è in corso da circa un trentennio ed ha ottenuto indiscutibili “successi”. Il mondo culturale borghese, la solidarietà e l’identità della classe operaia, salariata e proletaria, le sicurezze e le “aspettative crescenti” dei ceti medi postbellici stanno scomparendo, anzi, possiamo affermare che in assenza di contrasti fra qualche anno saranno un mero ricordo, materia per gli storici e per una retrospettiva sociologica imbevuta di nostalgismi.
[b] Trasformazioni economiche dopo la rottura definitiva del patto fra Stato e Mercato.

Altro elemento che ha creato i presupposti, quantomeno nell’Europa mediterranea “spendacciona” e vulnerabile, per la perdita di sovranità degli stati è la crisi neocapitalistica permanente come elemento strutturale del Nuovo Capitalismo e come strumento di dominio globalista, opportunamente combinata con i vincoli di Maastricht e dell’euro. La bolla del debito pubblico e la sopravvivenza dell’euro rappresentano altrettanti cavalli di troia per l’assoggettamento degli stati, e per la loro occupazione (permanente? Sine die?) senza l’uso di strumenti bellici. L’esperimento greco e la vicenda italiana sono a tali propositi paradigmatici. Gli esecutivi imposti ai due paesi rispondono nel concreto soltanto ad interessi esterni e al comando neocapitalistico della classe globale. Il tutto “insaporito” con slogan neoliberisti, da accettare acriticamente e privi di effetti economico‐sociali positivi: l’indispensabilità della crescita, perniciosa anche dal punto di vista ambientale, la competitività in uno scenario globale di libero movimento dei capitali, l’apertura definitiva al mercato, la “monotonia” del posto fisso e l’inevitabilità della flessibilizzazione del lavoro, eccetera, eccetera. I sistemi che FMI e Banca Mondiale usavano per assoggettare al libero mercato i paesi del terzo mondo (piani di aggiustamento strutturale, ricatto del debito, apertura forzata dei paesi ai capitali finanziari internazionali) sono simili, per certi versi, a quelli che FMI, UE e BCE utilizzano oggi contro i paesi dell’Europa mediterranea, chiamati con disprezzo PIIGS. Si pensi al vero significato del Cresci‐Italia di Monti che accompagna, come un’illusoria carota agitata dal Quisling globalista, le misure più feroci e impoverenti. I veri obbiettivi delle manovre montiane in Italia, e di quelle del suo omologo Papademos in Grecia, sono essenzialmente i seguenti: (1) imporre il modello capitalistico ultraliberista, portato alle estreme conseguenze, che identifica un nuovo modo di produzione sociale, (2) ridurre all’osso l’area dell’intervento statale, compromettendo persino i cosiddetti beni pubblici puri, che solo lo stato può offrire a condizioni ragionevoli (non di mercato), rendendoli accessibili a tutta la popolazione, (3) rischiavizzare il lavoro per ridurlo a mero fattore produttivo (nello specifico italiano, la scomparsa del contratto collettivo nazionale, l’attacco all’art. 18, la probabile “riforma” della CIG, eccetera), (4) accelerare latrasformazione sociale in senso neocapitalistico, riplebeizzando una parte rilevante dei cet medi (in questo senso la “liberalizzazione” delle professioni), fino allo stabilirsi della dicotomia Global class/Pauper class.
[c] Trasformazioni politiche, svuotamento di contenuti effettivi delle istituzioni statuali e assimilazione completa dei cartelli elettorali liberaldemocratici nell’unico Partito della Riproduzione Neocapitalistica.
L’ultimo supporto che si è rivelato indispensabile per “piegare” gli stati nazionali ai voleri della classe globale neodominate è la piena omologazione della cosiddetta classe politica al neoliberalismo ultraliberista, con particolare biasimo per la sinistra, che si sta rivelando in diversi paesi il miglior servo dei globalisti. In Italia, ad esempio, il cosiddetto centro‐destra (con l’esclusione della Lega che agisce per puro calcolo elettoralistico) ha piegato la testa, a partire dallo spaventato ed isolato Berlusconi, ed ha accettato Monti a denti stretti, cedendogli l’esecutivo e garantendogli un appoggio incondizionato. Ma è il Pd, assieme ai centristi che si mostrano entusiasti delle riforme montiane, il sostenitore/servitore più affidabile di questo governo fantoccio, insediato a tempo di record dagli occupatori del paese, dopo le dimissioni di Berlusconi, con la decisiva complicità di Napolitano. Pur appoggiando servilmente l’esecutivo globalista (PdL, Pd, centristi), o contrastandolo fintamente in parlamento senza esiti concreti (Lega, IdV), espropriati dall’alto del controllo del governo del paese e della possibilità di fare una vera opposizione, i cartelli elettorali marginalizzati continuano nella finzione liberaldemocratica e simulano un confronto politico, ormai senza consistenza alcuna. Si va dalle accuse incrociate, quando scoppiano scandali che investono esponenti dell’uno o dell’altro cartello (il caso Penati, l’ex tesoriere della Margherita Lusi, i processi ancora in corso in cui è coinvolto Berlusconi), alle proposte di entente cordiale per la tanto attesa riforma elettorale, la quale, però, potrà trovare concreto riscontro soltanto quando e se i globalisti consentiranno di tornare alle urne.
La finzione, finalmente scoperta e trasformatasi in un’indecorosa recita, è dura a morire. Mai come oggi la situazione italiana offre la prova della fine della dicotomia politica destra/ sinistra, che non ha più alcun senso se la politica è completamente soggetta all’economia finanziaria, e supporta un “governo tecnico” incaricato di imporre il modello capitalistico ultraliberista, approvando pedissequa le sue controriforme.
In conclusione, possiamo affermare che la vittoria del globale sul nazionale, dell’economico sul politico, della finanza sulla socialità, del Capitale sul Lavoro, altro non sono che scontati riflessi della vittoria complessiva del Mercato sullo Stato, una vittoria epocale (ma forse non definitiva, per tutto il secolo) che ha instaurato il dominio sopranazionale della Global class, espropriando le entità statuali della sovranità politica e monetaria e sottomettendole al comando neocapitalistico.
 

lunedì 14 maggio 2012


Elezioni in Francia e in Grecia. L’Europa, la sinistra e il neo-liberalismo; l’estrema destra e il fenomeno Marine LePen (alcune note critiche in risposta alle recenti valutazioni di Costanzo Preve sulle elezioni francesi) 

 

la Redazione

Due importanti momenti elettorali si sono susseguiti nel volgere di pochi giorni in Europa. Le elezioni presidenziali francesi e le elezioni politiche greche. Si aggiungono poi le regionali tedesche (limitate però allo Schleswig-Holstein) e le amministrative italiane, che commenteremo però a parte in altra sede.
Occupiamoci pertanto di Francia e Grecia approfittando dell’occasione per dare una risposta esauriente ed argomentata alle recenti considerazioni espresse da Costanzo Preve in relazione alle elezioni francesi.
In Francia al secondo turno delle presidenziali vince di misura François Hollande. E’ probabile che si tratti del male minore, non perché siamo di fronte ad un candidato autocertificato socialista o di sinistra (le distinzioni autocertificate in quest’Europa di servitori del neo-liberalismo bipolarista in salsa pesante valgono meno di zero), ma perché potrebbe (usiamo il condizionale per precauzione) smuovere di qualche centimetro la linea filo-UE e filo-USA suicida (e omicida verso gli altri paesi) che Sarkozy ha pedissequamente seguito nel suo mandato. Probabilmente Hollande smuoverà di pochissimo gli equilibri, ma, almeno sulla carta, alcune sue dichiarazioni di critica dell’assetto europeo, (ad esempio dello scellerato patto fiscale) se non restano pure parole, trattandosi la Francia di un paese di un certo peso, potrebbero scuotere minimamente le strutture della tecnocrazia di Brussels. Non c’è tuttavia da sperarci troppo! Sappiamo bene chi siano i socialisti francesi, quale sia stato il loro percorso storico verso la piena adesione al neo-liberalismo, al filo-europeismo di Maastricht e di Lisbona e alle guerre NATO-USA-UE. Tuttavia entro il PSF, vi sono componenti meno prone a tali dogmi che, forse, potrebbero trovare qualche spazio. Si vedrà.

Segue:   http://www.comunismoecomunita.org/?p=3221

venerdì 11 maggio 2012

 La natura delle destre sociali




La natura delle destre sociali (o con un termine più onnicomprensivo e ancor più vago “destre estreme”), è, ed è stata, dal dopoguerra ad oggi, una natura non sempre facile da indagare, poiché si è trattato e si tratta di un enorme calderone di istanze poco definite in cui si alternano elementi ultra-capitalistici (tipico il caso delle destre xenofobe liberali e liberiste di diversi paesi europei), ad elementi di critica delle dinamiche più distruttive del sistema capitalistico, in alcuni casi in nome di una concezione puramente nazionalistica di difesa dell’interesse nazionale (spesso di carattere aggressivo, ultra-identitario, esclusivista e financo razzista), in altri casi in nome di istanze più universali, fino a casi di realtà che si autocertificano oltre alla destra e alla sinistra. Si tratta, in quest’ultimo caso, se vogliamo, proprio di quella galassia di rossobrunismo, genericamente intesa (su cui abbiamo recentemente discusso in risposta ad un articolo diffamatorio di Daniele Maffione), che cavalca confusamente istanze sociali forti spingendosi a reclamare forme di socialismo, di radicale riacquisizione del controllo del sistema economico sotto la sfera politica, di redistribuzione del reddito a favore dei salariati e dei ceti più deboli; in alcuni casi, peraltro, senza la tipica vocazione imperialistica e colonialistica espressa dai fascismi storici e dai neofascismi sorti nel dopoguerra.

Se, per ipotesi, una “destra” sociale vicina ad istanze “socialistiche” e libera da razzismo ,identitarismo esclusivista e vocazione suprematista e imperialista esistesse, essa si identificherebbe di fatto, concettualmente, con una sorta di social-democrazia economica a vocazione però conservatrice e tradizionalista nei tratti culturali e di costume e quindi apertamente polemica con il progressismo culturale della sinistra. Il punto di divario tra una destra sociale e una sinistra sociale (non rivoluzionaria), entro tali ipotesi, starebbe nell’orizzonte culturale e simbolico progressista o tradizional-conservatore

Mettiamo poi anche da parte (non certo per “non rilevanza”, ma per comprendere la natura profonda del fenomeno) il ruolo oggettivo svolto dalle destre estreme “sociali” reali dal dopoguerra ad oggi (collusione con i poteri forti capitalistici, ruolo di stampella della strategia della tensione atlantica fino allo stragismo per conto terzi). Sforziamoci di rimanere nei termini puramente ideali. In questi termini si potrebbe dire che il tratto determinante di tutte le destre sociali e socialisteggianti (laddove, sempre per ipotesi, libere ed estranee alla triade razzismo-autoritarismo-imperialismo) è in ogni caso la refrattarietà verso una chiara comprensione della centralità degli aspetti marxianamente strutturali della società. Se il rischio di una tendenza ad esasperare la univoca centralità di questi aspetti è un tratto e difetto tipico di un determinato marxismo (difetto di economicismo), il rischio opposto è tipico proprio di tutti quei pensieri (entro cui vi sono anche le estreme destre sociali, ma anche molte altre correnti di pensiero, opposte per altri versi, ivi incluse le sinistre post-moderne) che spostano l’ago della bilancia verso un’integrale sottovalutazione della forza sistemica delle strutture economiche, fino all’estremo di una prevalenza assoluta del volontarismo politico-culturale. Da tale aspetto nasce spesso una forte contraddittorietà scivolosissima che in molti casi si rovescia in tragedia storica, come nel caso del fascismo e del neo-fascismo stampella del capitalismo; in altri casi si rovescia in depotenziamento o tragica farsa storica, come nel caso delle furono-sinistre social-democratiche convertitesi in forze al servizio del grande capitale.

Se poi, per assurdo, una destra “socialista” (libera dalla triade razzismo-autoritarismo-imperialismo) abbracciasse una schietta analisi strutturale dei rapporti di produzione e aderisse all’idea di un superamento del sistema capitalistico in tutti i suoi aspetti, e continuasse a definirsi “destra” solo nella misura in cui si presenta come forza culturalmente tradizional-conservatrice (in opposizione al progressismo-libertarismo-scientismo acritico della sinistra), allora semplicemente smetterebbe de facto di essere una “destra” e andrebbe identificata semplicemente come una forza socialista e anticapitalista di carattere filosoficamente non progressista (cosa ben diversa dalla “destra sociale”). Ma la storia ci dice che questo non è mai accaduto. La destra sociale non ha mai espresso concretamente istanze universalistiche ed egualitarie di superamento o forte trasformazione del modo di produzione capitalistico.





Il terreno di scontro culturale tra progressismo e tradizionalismo è quindi un terreno che si muove parallelamente e diversamente rispetto al terreno di scontro tra egualitarismo e anti-egualitarismo economico-sociale. Una destra tradizionalista ed egualitarista non è mai esistita: non perché una cultura “tradizionale” (nel senso di non immersa nel mito, peraltro tutto borghese, del progresso) non sia conciliabile con una critica radicale ed egualitaria del modo di produzione capitalistico (al contrario sarebbe del tutto conciliabile ed è tutto qui il problema fondamentale del profilo culturale di sinistra che è interno al progressismo capitalistico). Una destra tradizionalista ed egualitarista non è mai esistita perché semplicemente nel concetto e nell’immaginario “di destra” non può rientrare per definizione l’egualitarismo socio-economico sostanziale inteso in maniera esaustiva e strutturale. E, nel caso in cui vi rientrasse, non si potrebbe più parlare di destra, perché si avrebbe una destra monca, con la tradizione, ma senza disuguaglianza gerarchica. D’altro canto i profili storici novecenteschi di destra e di sinsitra, si sono oggi dissolti, materialmente, nella generale adesione al liberalismo, che è progressista nei costumi, individualista, ed anti-egualitario (ma non gerarchico) e quindi per sua stessa natura né di destra, né di sinistra.

In definitiva, la destra sociale, è, nel suo aspetto ideale, un conglomerato ideologico che lascia ricadere l’insofferenza culturale verso il caos dissolutivo capitalistico e verso la disuguaglianza del denaro, entro modalità alternative fondamentalmente sistemiche incapaci di una reale rottura con gli aspetti strutturali del capitalismo stesso.