giovedì 10 febbraio 2011

AUTONOMIA PROLETARIA: RESISTENZA COMUNITARIA



Matteo Brumini

E dunque dove eravamo rimasti? Alcuni mesi fa scrissi un articolo in occasione del novantennale della rivoluzione d’Ottobre e fu l’occasione per parlare di ciò che oggi era il comunismo ed il movimento comunista nel Centro Capitalista e di ciò che avrebbe potuto (o dovuto a seconda di come la si vuol vedere) essere, un’occasione per fare il punto della situazione e provare ad andare avanti. Questo articolo vuole partire proprio da lì, vuole essere il seguito, vuole essere lo sguardo oltre ciò che già abbiamo visto e abbiamo analizzato. Prima di iniziare però è fondamentale per chi scrive stare a sottolineare che in questi mesi sono accadute due cose fondamentali, la prima è la sconfitta elettorale della sinistra istituzionale (la Sinistra Arcobaleno) e la sua conseguente fuoriuscita dal parlamento italiano e la seconda è una recente ondata nell’area comunista di proposte di unità e soprattutto fondamentale per noi la messa al centro del dibattito politico di diverse anime dell’area del concetto di “comunità”. Sia sul primo tema che sul secondo si tornerà più avanti.
Intanto tornando indietro si era detto che il punto fondamentale da cui ripartire era l’esperienza dell’autonomia, quella con la lettera piccola, quella dello spontaneismo e della frattura con il bagaglio ideologico dei gruppi e dei partiti, l’autonomia operaia degli anni Settanta, quella che cercava la sintesi delle sue due diverse anime, quella operaia e operaista e quella studentesca e potremmo dire libertaria. Autonomia operaia si diceva e senza dubbio l’anima che prevalse alla fine fu proprio quella operaista, quella di Piperno e Scalzone, quella della rivista Rosso e di Toni Negri. Si è già più e più volte parlato dei danni a lungo termine che portò con sé la corrente operaista e quindi non è necessario né interessante ora stare a ripetere concetti già più volte ripetuti ma è importante far notare come allora avesse ancora un senso valido o perlomeno percepito tale parlare di autonomia OPERAIA, quando si stava entrando in un periodo di percepita maturazione delle lotte operaie all’interno delle grandi fabbriche fordiste e del loro stretto collegamento con le lotte studentesche degli anni passati. A distanza di anni e con il fatidico senno del poi possiamo dire che fu proprio il prevalere dell’operaismo all’interno dell’autonomia operaia a costituire quel peccato originale che in breve tempo portò prima alla morte dell’autonomia come movimento spontaneo ed autorganizzato dal basso e quindi al costituirsi in seguito di una struttura organizzata verticalmente, l’Autonomia con la A maiuscola. E tuttavia parlare di autonomia operaia allora aveva un senso e senza dubbio era proprio la grande fabbrica fordista (ed il connubio con l’area studentesca) ad essere il luogo più avanzato delle lotte e delle proposte ed era allora altamente percepibile e palpabile la presenza di quella che viene chiamata la coscienza di classe e la conseguente solidarietà e compattezza (nelle differenze!) di tutto il movimento. La storia della fine dell’autonomia e della crisi progressiva da quegli anni ad oggi è nota a tutti ed è stata già tracciata più e più volte e dunque non verrà ripetuta. Di quell’esperienza rimane la grande intuizione della fine delle forme partitiche e dei gruppi, la ricerca creativa di nuove forme di lotta e di nuove strutture e nuove teorie e l’esigenza di cercare una autorganizzazione dell’area attraverso un agire concreto e teso verso l’esterno e la cosiddetta massa. Basta ricordare in tal senso le esperienze delle radio come Radio Onda Rossa a Roma, Radio Alice a Bologna o Radio Sherwood a Padova dove per la prima volta potevano intervenire nelle trasmissioni le persone all’ascolto creando assieme la trasmissione stessa e trasformando in parte attiva il soggetto passivo, oppure alle lotte locali nei quartieri, le occupazioni delle case, le autoriduzioni delle bollette, le spese proletarie sempre nell’ottica del coinvolgimento e della proposizione verso la gente comune. Era un lavoro politico non strutturato in una visione di inquadramento passivo e già predeterminato ma in uno scambio continuo dei ruoli fino al coinvolgimento e la fusione in un'unica soggettività in lotta concreta. Si creava così un collegamento biunivoco di scambio reciproco tra interno ed esterno ed allo stesso tempo si apriva un varco tra massa e sistema in cui si inserivano le lotte e diventavano pratica quotidiana. Fu davvero per molti versi l’ultima intuizione veramente rivoluzionaria, la parte più avanzata di un movimento unico esente da avanguardie.
La convinzione di chi scrive è che questo passaggio sia a tutt’oggi il risultato più rilevante raggiunto dall’area comunista negli ultimi quarant’anni; da allora i passi fatti sono solamente stati passi all’indietro sostanzialmente cancellando e smantellando tutto ciò che era stato raggiunto. Gli stessi centri sociali nati come collettivi in conseguenza ed in continuità di quel lavoro proprio per proseguire sul territorio l’esperienza dell’autonomia sono andati con gli anni ad assumere un carattere autoreferenziale (salvo le debite eccezioni) fino a collassare su sé stessi e ad arrivare a marginalizzarsi e ad essere marginalizzati proprio da quel territorio che doveva essere l’obiettivo principale delle attività dei centri sociali stessi.
Dunque l’abbiamo detto più volte, riprendiamo il discorso dall’autonomia. Riprendere il discorso non significa chiaramente riprendere l’autonomia del 1974 o quella del 1977 e portarla qui come se non ci fossero in mezzo trent’anni.
Quell’autonomia è fallita, un po’ sotto le spinte della repressione violenta dello stato e un po’ sotto il peso dei propri errori e dei propri peccati originari, un po’ per l’implosione delle previsioni e delle visioni operaiste e delle lotte operaie (ma sarebbe più corretto dire in tal senso per la fine stessa della coscienza di classe e della solidarietà di classe all’interno del mondo operaio). Appurato e dato per chiaro una volta per tutte che la classe operaia non esiste più o meglio non esiste più come soggetto politico autocosciente e come soggettività trainante e monolitica ed appurato che l’operaismo è definitivamente tramontato e le ulteriori teorizzazioni nate da quelle ceneri come le varie teorie delle moltitudini di Negri alla prova dei fatti si sono dimostrate inefficienti ed errate non rimane che cercare una nuova soggettività da cui ricominciare. Ora considerato che il marxismo di Marx è una scienza sociale in quanto tale segue le regole della metodologia scientifica il primo passo da compiere è quello di ragionare in termini metodologici e scientifici (ricordando che per Marx l’ideologia era una “falsa rappresentazione” della realtà).
Metodologicamente dunque dobbiamo stabilire che all’interno di un discorso scientifico e attorno ad un nucleo fondativo (e tra le altre cose il marxismo è anche una filosofia fondazionale) si costruiscono poi le varie teorie che vanno progressivamente verificate nella prassi. Il nucleo fondativo del marxismo di Marx è strutturato attorno al proletariato inteso come classe sociale, quindi a parere di chi scrive è fondamentale riprendere come soggettività da analizzare proprio il concetto di proletariato. Cos’è questo proletariato oggi. È evidente che esso non può essere il proletariato di Marx, non è il proletariato di Lenin e non è nemmeno quello degli anni Settanta, e come detto poco sopra non è nemmeno la moltitudine di Negri. Non è possibile a mio parere oggi dare una definizione precisa e circostanziata di proletariato in quanto esso è definibile negativamente (ovvero dicendo quello che non è) ma non positivamente (dicendo quello che è); di una cosa sola si può essere certi, il proletariato contemporaneo vive polverizzato nei mille rivoli e rami di un sistema ultraflessibile e motore primo di un modello culturale ultraindividualista e corporativo che rende il proletariato stesso un fantasma che si aggira per il Centro Capitalista privo della percezione di sé, trasformato in macchina desiderante, desiderante di essere parte stessa di quel sistema che lo schiavizza e tende allo stesso tempo a marginalizzarlo (senza mai escluderlo chiaramente). Conseguenza di questo è che ogni definizione positiva che viene data oggi del proletariato finisce inevitabilmente per diventare un contenitore vuoto in cui si affastellano teorizzazioni prive di riscontro e dunque metodologicamente votate al fallimento alla prova dei fatti. Chi sarà arrivato a leggere fino a questo punto si starà chiedendo dunque il perché del titolo. Perché autonomia proletaria se non è in alcun modo individuabile con l’analisi e l’osservazione un proletariato cosciente di sé e inscrivibile all’interno di una teoria. La risposta sta nella seconda parte del titolo di questo articolo: resistenza comunitaria.
Come detto all’inizio si assiste ad una riproposizione da più parti dell’area comunista italiana della parola “comunità”. Noi come rivista e come Comunità Proletarie Resistenti non possiamo che guardare con soddisfazione (e aggiungo anche con un sorriso sardonico) a questa novità assieme ad una profonda preoccupazione di vedere scippato ma soprattutto vanificato il nostro lavoro (per alcuni compagni più che decennale e tra numerose critiche e soprattutto accuse e marginalizzazioni) da un eccessivo uso superficiale del concetto di comunità. Una parola difatti è in sé solo un segno, un involucro dentro cui mettere un significato e a seconda del significato cambia anche il valore ed il concetto stesso. Non è stavolta inutile stare a ripetere che quello che noi come rivista “Comunismo e Comunità” e come Comunità Proletarie Resistenti intendiamo costruire è un tessuto interconnesso di comunità (intese come Gemeinwesen marxiana) aperte di libere individualità legate tra loro da un tessuto connettivo che neutralizzi il passaggio dell’uomo da ente naturale ad ente mercantile. Comunità aperte che sappiano creare una intercapedine, un fulcro che si inserisca tra la massa atomizzata ed indistinta passiva ed il sistema istituzionale, borghese, liberista e capitalista, un modello intuito ed analizzato in parte già anche fuori dal centro capitalista come dimostra la teoria del Terzo Dominio di Abdullah Ocalan (di cui scrissi sempre in queste pagine diverso tempo fa), qualche cosa che non si contrapponga semplicemente allo stato ed al sistema ma sia in grado di inserirsi prima e di sostituirsi ad esso gradualmente (comunità aperte in grado di abbattere tra l’altro anche uno dei falsi miti più dannosi per l’area comunista di questi ultimi decenni ovvero il mito della contrapposizione totale e continua al Capitale, mito creatore di società chiuse in sé stesse ed autoalimentanti e autoreferenziali sostanzialmente innocue per il sistema stesso in quanto escluse da esso e dunque anche dal contatto con la massa, per volontà propria reale o percepita che sia).
Ed il proletariato? E la ripresa del discorso dell’autonomia? Qui sta il nodo centrale di questo breve articolo.
Si è detto poco sopra che il proletariato odierno è un proletariato disperso, polverizzato, non circoscrivibile e soprattutto senza coscienza di sé stesso e dunque ancora più sfuggente alle analisi anche dei più zelanti e dei più volenterosi. In una logica atomista e ultraindividualista in cui l’uomo è ente mercantile potremmo affermare (per molti provocatoriamente) che non esiste un solo proletariato come soggetto monolitico ma in potenza tanti proletariati diversi, tanti quanti sono gli enti mercantili atomizzati raggruppati di volta in volta all’interno di logiche corporative che creano unità di vedute puramente tattiche e contingenti sul momento per poi dissolversi di nuovo una volta raggiunto l’obiettivo a breve termine. In parole povere credo sia sotto gli occhi di tutti che in questi ultimi anni le rivendicazioni all’interno del mondo del lavoro sono sempre state rivendicazioni di tipo corporativo in cui di volta in volta ogni categoria si ritrovava unita per questo o quel motivo avvolta nella sostanziale indifferenza delle altre (e a volte anche con un senso di fastidio) per poi ricadere nell’oblio e nell’apatia passiva a rivendicazione, lotta o protesta finita. E’ proprio la mancanza del tessuto comunitario di cui si accennava prima a creare questo stato di cose e si perpetra e riproduce sostanzialmente nella stessa maniera anche al di fuori del mondo del lavoro in ogni aspetto singolo della vita sociale dell’individuo e della società massificata e atomizzata allo stesso tempo. E dunque in un humus sociale, economico e politico simile che la ricomposizione di tale tessuto all’interno di comunità aperte di libere individualità fungerebbe da catalizzatore, da attrattore per quel proletariato senza coscienza e polverizzato, per quella miriade di potenziali proletariati (o proletari) che si ritroverebbero di nuovo assieme come un'unica soggettività collettiva aperta e non coatta, una unica soggettività non più passiva ma attiva e dunque di nuovo non più potenziale ma in atto e quindi con coscienza di sé.
Ecco il passaggio quindi, autonomia proletaria all’interno delle comunità; comunità autonome connesse tra loro in diversi gradi orizzontali proprio come le maglie di un tessuto, comunità proletarie, autonomia comunitaria, o meglio ancora comunità come autonomia e autonomia come comunità in una relazione biunivoca e sostanzialmente identitaria in cui i due termini (autonomia e comunità) finirebbero per assumere la stessa funzione e lo stesso significato. Come infatti nell’esperienza dell’autonomia di trent’anni fa all’interno delle comunità si ribalterebbe il ruolo degli individui da soggetti passivi a soggetti attivi, soggetti creatori e creativi, soggetti che non subiscono il sistema e dunque cercano di interpretarlo e di adattarsi ad esso cercando di farne parte ma si sostituiscono ad esso assieme creando qualche cosa di nuovo che renderebbe inutile il sistema stesso senza allo stesso tempo autoescludersi da esso ma agendo come un virus all’interno di un organismo vivente, parassitandolo (ovvero sfruttando tutti i varchi e le contraddizioni che esso offre e mostra necessariamente per sua natura) e contemporaneamente modificandolo. Un ribaltamento progressivo dei ruoli in cui il sistema stesso diventerebbe alla fine soggetto passivo. È difatti il principio della delega, della rappresentatività, della volontaria cessione della gestione della propria vita che crea falsa coscienza e passività, che rende l’ente naturale umano soggetto mercantile ovvero consumatore di idee già pronte e preparate dall’esterno. La spinta creatrice spontanea d’altra parte annulla il principio di passività e quindi di mercantilizzazione del pensiero e quindi la dipendenza da qualche cosa che è esterno che non viene più visto a quel punto come punto fisso e quindi ineludibile ed inattaccabile ma come qualche cosa non solo di alieno (altro da sé, in cui il sé diventa declinazione sia di sé stessi che della comunità tutta) ma soprattutto di inutile.
Ma perché “resistenza”? Perché autonomia proletaria come resistenza comunitaria? E’ il caso di demolire un altro mito oramai logoro dell’area comunista italiana ovvero che esista una biunivocità fra rivoluzione e volontà rivoluzionaria. In sostanza non è altro che la sensazione che prima o poi attraversa tutti i compagni ovvero che basta essere comunisti o far parte di un collettivo o di una realtà comunista o anche semplicemente essere all’interno del movimento antagonista per vivere all’interno di un mondo rivoluzionario, più semplicemente essere dei rivoluzionari. È allora davvero il caso di dirlo bene una volta per tutte: nessuno di noi è un rivoluzionario, non c’è alcuna rivoluzione per il momento in atto o in potenza, non c’è alcun palazzo d’inverno da prendere nell’immediato futuro, questa non è un epoca rivoluzionaria. Si tratta sostanzialmente di una conseguenza del mito avanguardista di cui avevo già parlato nell’ultimo articolo; se difatti esiste un avanguardia allora esistono coloro che compongono l’avanguardia ed essi non possono dunque che essere rivoluzionari in quanto l’avanguardia non può che essere rivoluzionaria. Ma questa non è un epoca rivoluzionaria, non ci sono le condizioni nell’immediato per pensare ad alcuna rivoluzione nel Centro Capitalista e se non esiste alcuna rivoluzione allora non può esistere alcun rivoluzionario al pari del principio per cui se non hai delle scarpe da riparare allora non puoi essere un calzolaio e se non sai come coltivare la terra e non hai terra da coltivare allora non puoi essere e definirti un agricoltore. La rivoluzione non c’è, non sappiamo come farla e dunque non siamo rivoluzionari.
Ma allora cosa siamo? Siamo resistenti, perché questa è un epoca di resistenza, siamo coloro che debbono riprendere il discorso e tentare di ricominciare a portarlo avanti. Ma sia chiaro a tutti non siamo una avanguardia e non esiste alcuna avanguardia di resistenza. La resistenza si può pensare di farla e di trasformarla in qualche cosa di altro e di rivoluzionario solo all’interno di un tessuto comunitario ricostituito, all’interno di una logica di autonomia in cui si riunisca in atto il proletariato disperso ed assente. La resistenza non può che essere come il comunismo comunitaria. Autonomia proletaria per la resistenza comunitaria e viceversa. Diventa quindi chiaro perché si sia deciso di chiamare il nostro collettivo Comunità Proletarie Resistenti. Non è certo una qualifica che ci diamo o ci siamo dati autoincoronandoci avanguardia resistente di qualche cosa o portatori di un verbo di salvezza: Comunità Proletarie Resistenti vuol essere solo un auspicio, un virus appunto che vada diffondendosi spontaneamente attraverso un meccanismo di interconnessioni (un tessuto) creative. Questo è il momento di farlo, questo è il momento di spingere e di alzare un po’ più la voce, questo è il momento. Le elezioni ultime hanno sancito esplicitamente la fine di ogni differenza tra destra e sinistra istituzionali, la sinistra radicale istituzionale è stata e si è annientata ed ora è fuori dai palazzi alla ricerca di nuova verginità all’interno di un movimento che è fermo ed in agonia. Una agonia che dovremmo cominciare ad ammettere sembra irreversibile o troppo avanzata per tentare di rimettere a posto ciò che da troppo tempo non lo è più e continua a peggiorare. La crisi di legittimazione territoriale dei Centri Sociali, l’immobilismo autoreferenziale del movimento antagonista italiano (ma anche di quello buona parte del Centro Capitalista con le solite debite eccezioni che non è necessario stare a ripetere ancora una volta), la cacciata dalle istituzioni della sinistra radicale istituzionale, gli appelli lanciati negli ultimi tempi dopo le elezioni alla solita astratta e tardiva unità dei comunisti rappresentano per chi vuole parlare ed intendere come noi (e con noi) il concetto di autonomia proletaria, di resistenza comunitaria, di comunità, di ripresa del marxismo come scienza sociale, di ripensamento in genere del comunismo e dell’area comunista. C’è una grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. Bene dunque ripartiamo, ripartiamo da zero, e facciamolo ora, queste sono le premesse, il lavoro fatto fino ad oggi è la nostra premessa.
Che fare? Se questa è la premessa, se questa è il nucleo, la struttura da cui partire e da realizzare, che cosa si deve fare per rendere tutto questo realizzabile? È chiaro infatti che è la prassi quotidiana, l’impegno personale e collettivo, le proposte concrete che rendono realizzabile o anche semplicemente verificabile una analisi; è il processo marxiano d’altronde ed anche il semplice buonsenso a ribadirlo.
Cosa propongono dunque le Comunità Proletarie Resistenti, cosa propone chi scrive in questa rivista? La risposta non c’è. Non c’è a questo punto alcun deus ex machina a mettere l’animo in pace di chi sta leggendo queste parole, non c’è il lieto fine o anche semplicemente la chiusura a questo articolo. Chi scrive non sta facendo un decalogo o un manifesto programmatico da esportare;
chi scrive in questa rivista, le Comunità Proletarie Resistenti tutte non sono in cerca di proseliti o di esecutori a cui far mettere in atto ciò che già è stato scritto. Come già detto noi non siamo una avanguardia, né rivoluzionaria né resistente. Non siamo qui a proporci come deus ex machina per tutta l’area comunista e per il movimento antagonista; questo articolo non sono le parole di un oratore da strillare sopra di un pulpito, questa è solo la nostra proposta. La proposta contiene in sé già la risposta alla domanda. Ricucire un tessuto comunitario, riprendere il discorso dell’autonomia, ricreare un blocco proletario resistente significa sostanzialmente uscire là fuori, scendere per le strade e cominciare a guardarsi intorno, abbandonare le mura tranquille e rassicuranti delle sedi partitiche, dei centri sociali, non aspettare più che qualcuno si faccia avanti ma andare a prendere le persone. Come si può farlo? Noi non lo sappiamo, noi navighiamo in mare aperto, cerchiamo e sperimentiamo ogni idea pratica, viviamo dei nostri fallimenti e delle nostre conferme e rimettiamo tutto in gioco. Non può esistere una risposta unica e valida per ogni realtà locale, non può esistere un modello unico di comunità aperta, non può esistere una parola d’ordine che racchiuda in sé ogni granello di quel proletariato polverizzato e anche se ci fosse non sarebbe e non è più compito nostro, compito di chi scrive ora, compito di chi scrive in questa rivista, compito delle Comunità Proletarie Resistenti starlo a dire. Siete voi che ora state leggendo a dovervi spremere le meningi, a fare i passi concreti adesso, a riappropriarvi in prima persona di quella volontà creatrice, a creare quella comunità aperta attiva e pensante, siete voi a dover creare le condizioni per creare quel virus che modifichi attivamente il sistema. Fino a che si continuerà ad aspettare le idee di qualcun altro, ad imitare le azioni e le lotte di altri e fino a che le idee continueranno ad essere tese verso l’autoalimentazione di quella piccola realtà, fino a che un idea una volta verificata sul campo si dimostrerà perdente e nonostante tutto si continuerà a riproporla costantemente senza cercare di nuovo e rimettere in moto un ciclo costante di analisi, teorizzazione e prassi allora tutte queste parole rimarranno lettera morta. Noi la nostra parte la stiamo facendo, non chiediamo a nessuno di seguirci né di applaudirci, non cerchiamo in altri compagni lodi o critiche, il nostro lavoro politico sul territorio è rivolto certamente verso i compagni ma soprattutto verso chi compagno non è, verso la gente comune, verso le loro difficoltà senza premesse o condizioni di adesione. L’adesione deve essere spontanea e frutto di una maturazione che ogni individuo coinvolto mette in moto attraverso il circolo virtuoso che le nostre proposte dovrebbero far partire.
Il momento è questo, ora, la gente è là fuori, non serve altro, non servono ricette. Volete anche voi una autonomia proletaria, volete delle comunità aperte resistenti? Allora chiudete questa rivista, alzatevi dalla sedia ed andatele a fare; noi lo stiamo già facendo.

Comunismo e Comunità N. 1

lunedì 7 febbraio 2011

Foucault e la post-modernità


Eduard Wolken

Attorno alla figura di Michel Foucault si è costruita, negli ultimi decenni, un vero e proprio “culto”, una attenzione dovuta alla capacità del pensatore francese di esercitare, sin dagli esordi della sua attività di studioso, un’azione “magistrale” in una molteplicità di campi e di discipline: dalla psichiatria, alla storia della sessualità, dal pensiero politico fino all’etica, intesa come studio dei saperi e delle discipline mediante le quali “governare il sé”. In parte – specie se andiamo al momento aurorale di questa fama, cioè al 1968 e all’impatto che gli eventi legati a questa data esercitarono sul costume e sulle mentalità – essa andava a integrare l’azione di altri filosofi o psicologi, non meno importanti e famosi: basti pensare a Louis Althusser o a Lacan. In parte essa riuscì ad attrarre l’interesse di un pubblico vastissimo formato non solo da specialisti, incuriosito dalla capacità del maestro francese di innovare la terminologia politica (pensiamo soprattutto a lemmi come “ governamentalità”, biopotere, biopolitica) rovesciando le prospettive dell’analisi politologica e l’approccio stesso ai fenomeni legati alla politica.
In Italia l’attenzione per Foucault si può dire che sia costante ed ininterrotta da più di trent’anni: dall’attenzione critica di Massimo Cacciari negli anni settanta, fino alle opere di Agamben e di Negri che al pensatore d’oltralpe debbono parte del loro bagaglio filosofico. Di tutto ciò reca testimonianza la costante pubblicazione o ripubblicazione dei testi più importanti di Foucault e soprattutto, per quanto ci interessa più da vicino, la pubblicazione dei Corsi tenuti al College de France, in particolare “Nascita della bio-politica” (Corso del 1978 – 79) . Le lezioni di questo anno accademico intendevano chiarire la misura di alcune importanti trasformazioni che avevano modificato lo Stato moderno e il ruolo che, a partire dal settecento, era stato preso dall’economia politica sullo sfondo nel nascente liberalismo.
La governamentalità liberale e la razionalizzazione delle pratiche governative che a questa corrente di pensiero si ispira, andava progressivamente integrandosi con l’economia politica. Mentre in precedenza il potere regio era stato limitato dal diritto che, dall’esterno, intendeva regolarne l’arbitrio, a partire dal diciottesimo secolo l’economia politica comincia a costituire un dispositivo interno al potere tale, che chi governa dovrà cercare di costruire un equilibrio fra regolazione politica e mercato. Se l’obiettivo è rispettare la “natura” economica, cioè le leggi economiche che dovranno condurre all’abbondanza e al benessere, sarà importante non solo ciò che la governamentalità farà, ma anche ciò che essa, autolimitandosi, deciderà di non fare per non impedire il libero dispiegarsi dell’economia stessa. Molto interessante diviene, a questo punto, quel rovesciamento prospettico che Foucault opera nella disanima del rapporto fra potere e Stato nell’epoca del liberalismo. Sappiamo che il pensatore francese intendeva il potere non già come una “sostanza” posseduta dai governanti ed esercitata sui governati, ma come reticolo di micro-poteri operanti sin dal livello minimo della società (relazioni fra i sessi, scuola, lavoro). Il potere è una relazione funzionale che attraversa i corpi, e quindi il liberalismo è orientato a far sì che i cittadini producano e riproducano una serie di pratiche e di comportamenti funzionali al conseguimento del benessere collettivo. Il liberalismo suscita la libertà ma allo stesso tempo non può che misurarsi con il crescente stato di insicurezza e di precarietà generati da questa libertà diffusa. Di centrale importanza è a questo punto il mercato: « che è la macchina che consuma libertà e funziona grazie ad essa, ed il governo è l’azione che tale libertà pone in essere, producendo al contempo il sistema delle protezioni dai pericoli» . La governamentalità liberale eserciterà progressivamente un’azione sempre più estesa e capillare di controllo della conformità sociale ai dettami del mercato e il Panopticon di Bentham ne rappresenta in un certo senso il paradigma. Col tempo, la governamentalità liberale darà vita all’homo oeconomicus e la biopolitica troverà il proprio coronamento «con l’effetto di trasferire il modello del mercato a tutte le sfere dell’esistenza, ivi comprese le più intime, private, soggettive» . Tutto ciò non viene da Foucault analizzato per deprecare una massificazione omologante e repressiva, ma, come accennavamo poc’anzi, con l’intento di indicare via di fuga dal controllo che le soggettività, in quanto creatrici del proprio contesto sociale, possono sempre attuare. È a questo punto che si apre il discorso sugli sviluppi e le innovazioni che il pensiero di Foucault (che non si è mai considerato marxista) ha esercitato su alcune correnti del pensiero post – moderno, in particolare Giorgio Agamben e Antonio Negri.

Comunismo e Comunità N. 3

giovedì 3 febbraio 2011

HUEY NEWTON: DAL NAZIONALISMO AFRO-AMERICANO ALL'INTERCOMUNITARISMO RIVOLUZIONARIO




Matteo Brumini

“Nel 1966 definimmo il nostro partito un partito nazionalista nero. Chiamavamo noi stessi nazionalisti neri perché pensavamo che il concetto di nazione fosse la risposta. Poco dopo decidemmo che ciò di cui avevamo bisogno era il nazionalismo rivoluzionario, cioè nazionalismo più socialismo. Dopo aver analizzato le condizioni un po' più a fondo, trovammo che questo era impraticabile e persino contraddittorio. Quindi, arrivammo a un più alto livello di coscienza. Vedemmo che per essere liberi dovevamo annientare il ceto dominante e perciò dovevamo unirci con i popoli del mondo. Così ci chiamammo internazionalisti. Cercammo solidarietà dai popoli della terra. Ma cosa accadde? Trovammo che a causa del fatto che ogni cosa è in uno stato costante di trasformazione, a causa dello sviluppo della tecnologia, a causa dello sviluppo dei mass media, a causa della potenza di fuoco degli imperialisti, e a causa del fatto che gli Stati Uniti non sono più una nazione ma un impero, le nazioni non potevano più esistere, perché non avevano più i criteri rispondenti al concetto di nazione. La loro autodeterminazione, determinazione economica e determinazione culturale, era stata trasformata dal ceto dirigente imperialista. Non erano più nazioni. Trovammo che per essere internazionalisti dovevamo essere anche nazionalisti, o almeno riconoscere il concetto di nazione. Internazionalismo, se capisco la parola vuol dire interrelazione tra un gruppo di nazioni, ma dato che non esiste alcuna nazione, e dato che in realtà gli Stati Uniti sono un impero, è impossibile per noi essere internazionalisti. Tali trasformazioni e tali fenomeni ci richiedono di chiamarci “intercomunitaristi”, perché le nazioni si sono trasformate in comunità del mondo. Ora il Black Panther Party nega l'internazionalismo e sostiene l'intercomunitarismo.”

Questa appena letta è una delle dichiarazioni meno note di Huey Newton ed allo stesso tempo una delle più fraintese e delle più contestate nel dibattito politico interno al Black Liberation Movement.
Queste parole sono anche il riassunto politico ideale del cammino teorico e dialettico del fondatore, leader e maggior teorico del partito rivoluzionario più importante e radicato sul territorio statunitense negli anni Settanta, quel Black Panther Party che nel 1967 appena un anno dopo la sua prima apparizione sulla scena politica statunitense J. Edgar Hoover allora direttore dell'FBI definì “la più grande minaccia alla sicurezza interna degli Stati Uniti”.
Da queste parole parte e si sviluppa questo articolo che riprendendo e basandosi sugli studi a riguardo di Alvaro Reyes vuole approfondire il percorso teorico che portò Newton da posizioni di semplice nazionalismo a posizioni rivoluzionarie per approdare infine a quello che lo stesso Newton chiamò con un neologismo “intercommunalism” e che in Italia è stato tradotto con il termine “intercomunitarismo”. Tale scelta non è chiaramente casuale ma utilizzando le parole di Mauro Trotta “vuole sottolineare il suo valore di creazione di comunità aperte e in relazione tra loro, in modo da evitare i fraintendimenti che potrebbe provocare la parola “intercomunalismo”, la cui radice in italiano rimanderebbe al comune, al comunale, che può essere inteso come istituzione pubblica, piuttosto che come comunità”. Subito dunque appare evidente la centralità del concetto di comunità nel discorso di Newton, centralità tanto più profonda quando si abbia una visione complessiva della sua teoria e di come tale concetto costituisca la pars costruens di tutta la sua architettura dialettica.
Va premesso prima di continuare comunque che Newton aldilà dell'interesse indubbio dei suoi studi e delle sue analisi non fu mai in grado di produrre un singolo lavoro organico sul tema dell'intercomunitarismo; di formazione intellettuale autodidatta Newton produsse sempre in maniera sporadica e non approfondita; altrettanto importante è sottolineare come il percorso teorico e storico di Newton sia necessariamente legato biunivocamente alla storia e al cammino politico della comunità nera statunitense nel periodo che va dagli anni Cinquanta sino agli anni Settanta, decennio quest'ultimo in cui si insinua l'apice della forza politica e rivoluzionaria del BPP e della vivacità intellettuale di Newton.
Il Black Panther Party for Self-Defence nasce e si rivela alla società statunitense il 2 maggio 1967 impugnando fucili sulla scalinata del Capitol Building di Sacramento in California, esigendo l'autodeterminazione per i neri negli Stati Uniti e promettendo di proteggere la comunità nera dalla brutalità della polizia. Se il BPP tuttavia si rivela così fulmineamente nella scena rivoluzionaria statunitense il concetto di autodeterminazione della nazione nera all'interno degli Stati Uniti nasce e si sviluppa gradualmente negli anni precedenti all'interno di tutto il calderone politico denominato Black Liberation Movement.
Alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, mentre gran parte della società bianca statunitense rimaneva impermeabile agli eventi che stavano rapidamente cambiando il mondo (il maggio francese, la decolonizzazione e l'ascesa del terzomondismo), molti nella comunità nera iniziarono a infiammarsi “per un orgoglio di “razza” nuovamente ritrovato che cominciò a solidificarsi dopo la diffusione di notizie e fatti relativi alla liberazione del Ghana nel 1956. Tutti presi da questo entusiasmo molti nella comunità nera si imbarcarono in “movimenti per la libertà” in casa propria, il cui inizio oramai convenzionalmente si colloca nell'ottobre del 1958 con il lancio del boicottaggio contro gli autobus di Montgomery. L'influenza che le notizie dal Ghana ebbero sui fatti di Montgomery fu presto superata dall'instaurazione di rapporti diretti tra il movimento radicale nero negli Usa e quelli che venivano visti come loro alleati nel Terzo Mondo” (Reyes). La sintesi ripresa fra l'altro anche da Eldridge Cleaver (altro noto teorico ed esponente del BPP che spesso si scontrò con le teorie di Newton) fra ciò che era interno (Montgomery) e ciò che era esterno (la decolonizzazione e il terzomondismo) portò una parte consistente della comunità nera a forme di lotta e di consapevolezza politica che andavano oltre la lotta per i diritti civili polarizzata attorno alla figura di Martin Luther King e si radicalizzò in molteplici forme sotto l'ampia bandiera del Black Liberation Movement. Oltre i diritti civili nacque dunque una lotta direttamente e immediatamente analoga nella percezione e nell'analisi a quelle del Terzo Mondo; “la lotta di un popolo colonizzato che combatteva con l'obiettivo finale della liberazione nazionale” (Reyes). Il motto del BLM era “la lotta di una nazione all'interno di una nazione”.
La contiguità teorica con il terzomondismo portava con sé la scoperta da parte del BLM dei pilastri stessi del pensiero terzomondista; una linea politica che passava per Fanon e quindi per Lenin e Stalin ed una linea dei mezzi militanti che passava per Guevara e Mao.
È proprio dal contatto con gli scritti di quest'ultimo che Newton compie il primo gradino del proprio percorso teorico. Come molti dei suoi compagni di partito, Newton era un grande ammiratore di Mao ma mentre il partito continuava a muoversi in un percorso di tipo nazionalista terzomondista rivoluzionario sotto la spinta delle teorie fanoniane già durante il suo periodo di detenzione dalla cella Newton insisteva sul fatto che il Bpp doveva seguire l'esempio ed il pensiero del presidente Mao. Ovviamente non si trattava solamente di insistere sugli scritti di carattere strategico-militare ma di qualcosa che andava a rielaborare il concetto stesso di materialismo dialettico. Il punto centrale di questa rielaborazione proviene dall'influenza profonda che ha in Newton il saggio di Mao Sulla Contraddizione, nel quale si afferma sin dalle prime righe: “La legge della contraddizione tra le cose, cioè la legge dell'unità degli opposti, è la legge fondamentale del materialismo dialettico”. Non è difficile leggere l'eco di queste parole rileggendo alcuni passaggi fondamentali degli scritti di Newton di questo periodo: “la contraddizione è il principio regolatore dell'universo: dona movimento alla materia”; oppure: “ la contraddizione, o lo sforzo dell'inferiore di arrivare a soggiogare ciò che lo controlla, dà movimento”; e ancora: “l'interna lotta degli opposti basata sulla loro unità fa sì che la materia riceva il movimento come parte del processo di sviluppo”.
Il perché Newton insista tanto in questo periodo sul concetto di contraddizione è rivelato ancora una volta dalle parole stesse di quest'ultimo subito dopo il rilascio di prigione nel maggio del 1970 in una dichiarazione: “Ogni conclusione o azione particolare che noi pensiamo sia la rivoluzione è in realtà reazione, perché la rivoluzione è un processo di sviluppo”.
Sostanzialmente Newton stava cercando di trovare una terza via tra le due correnti principali che animavano il dibattito interno alla sinistra rivoluzionaria statunitense di quegli anni; da una parte le organizzazioni marxiste-leniniste che a parere di Newton erano arrivate a considerare impossibile qualsiasi possibilità di rivoluzione, e dall'altra la fazione scissionista del BPP capeggiata da Eldridge Cleaver che sempre a parere di Newton considerava condizione necessaria e sufficiente per l'innesco della rivoluzione la “presa del fucile” da parte delle masse popolari. Per Newton queste due posizioni condividevano la premessa sbagliata all'interno del marxismo classico che ci fosse uno sviluppo uniforme all'interno delle contraddizioni che avrebbe permesso di tracciare conclusioni predeterminate e risolutive di qualsiasi contraddizione. Newton dunque tentava di spingere i membri del BPP e le masse popolari a pensare alla rivoluzione come a un processo senza una fine determinata.
Conseguenza di questa nuova analisi del materialismo dialettico fu per Newton la critica all'insistenza sulla natura coloniale della situazione degli afro-americani negli Stati Uniti. Gli sviluppi interni al capitalismo avevano necessariamente modificato per Newton la natura del dominio. Newton voleva spostare il focus dell'analisi non sullo status coloniale dei neri americani ma sulla comprensione che era la trasformazione continua del processo capitalistico a rendere possibile lo sfruttamento. Riprendendo le parole di Reyes su questo passaggio per Newton “il nuovo imperialismo era un imperialismo che non si accontentava più del dominio su soggetti colonizzati lontani e aveva invece rivolto la sua forza verso l'interno, verso la “madrepatria” stessa, un processo che Newton più tardi avrebbe etichettato come “una variante imperialistica dell'imperialismo””.

La successiva conseguenza radicale dell'analisi di Newton era dunque la scomparsa delle nazioni. È questo uno dei passaggi fondamentali del suo pensiero ed uno dei punti cruciali su cui come è facile intuire più si divise la comunità interna al partito e su cui Reyes nei suoi studi da una interpretazione vicina alle teorie negriane. Vale dunque approfondire questo punto. Chiaramente l'annuncio da parte di Newton ai suoi compagni di partito che le nazioni avevano cessato di esistere fu accolta con sgomento e riserva; va tenuto conto infatti come detto sopra che il BPP nasceva all'interno di un movimento più generale di rinascimento del nazionalismo afro-americano sino ad arrivare al concetto già citato di “nazione nella nazione”. Ma cosa intendeva Newton con questa affermazione? In cosa a parere di chi scrive essa si scosta dalle teorie negriane? Molto brevemente Newton definiva nazione quello spazio territoriale che permetteva di individuare quella che Schmitt definisce “la distinzione amico-nemico”. In questo contesto non va dimenticata l'importanza che aveva all'interno del BPP il contributo di Stokeley Carmichael sul Black Power e riassunto nelle parole di Cleaver: “Il Black Power deve essere visto come una proiezione della sovranità, una sovranità embrionale che il popolo nero può rendere attuale per il fatto che può fare distinzioni tra se stesso e gli altri, tra se stesso e i propri nemici, in breve, tra la madrepatria bianca americana e la colonia nera”.
Dunque a partire da queste premesse è facile capire che quando Newton scrisse che “le nazioni non esistono più” stava semplicemente concludendo che lo spazio territoriale per la distinzione amico-nemico era scomparsa. Il mutamento all'interno del capitalismo apportato dalle nuove tecnologie militari e per il trasporto e dallo sviluppo massmediatico ha creato secondo Newton un capitalismo integrato a livello globale. Dunque non era più possibile per le forze anticolonialiste e antimperialiste liberare semplicemente e spazialmente un determinato territorio o nazione attraverso l'uso della forza. Il senso della scomparsa delle nazioni per Newton è tutto qui; di certo per Newton non erano di certo scomparse le differenze culturali e dunque non erano di certo scomparse le istanze per i popoli di ricerca di una nazionalità attraverso la lotta di liberazione fisica né infine che quest'ultima non poteva più essere messa in una relazione proporzionale con la possibile effettiva liberazione. Semplicemente cadevano con la “scomparsa delle nazioni” anche tutte le condizioni di necessarietà e sufficienza che fino ad ora la liberazione territoriale aveva portato con sé.

Il successivo passaggio di Newton a questo punto è l'affondo contro l'idea di persistenza dell'entità statale. La classe dominante, a causa del suo desiderio di mantenere un controllo sempre crescente sulle capacità produttive della popolazione mondiale, aveva “messo sotto assedio tutte le comunità del mondo, dominando le istituzioni a tal punto che il popolo non aveva più al proprio servizio le istituzioni nella propria terra” (Newton). Si era imposto secondo Newton un “non-stato”, strettamente reazionario, che serviva a mantenere il dominio capitalistico. Le conseguenze di questo passaggio nella elaborazione di Newton sono devastanti per qualsiasi visione socialista potenziale all'interno del nuovo sistema capitalista; “Crediamo che per come stanno le cose oggi il socialismo negli Stati Uniti non ci sarà mai. Perché? Non ci sarà mai perché non può esserci. Attualmente non può esistere in nessun posto del mondo. Il socialismo richiederebbe uno stato socialista, e se non esiste lo stato, come può esistere il socialismo?”

Ripensamento del materialismo dialettico attraverso il processo di contraddizione, fine delle nazioni come spazio territoriale di demarcazione tra interno e esterno e affermazione del non-stato avevano portato Newton a teorizzare un nuovo corso per il capitalismo globale. La difficoltà di Newton ora era definire e delineare a partire dalle conseguenze sovra esposte cosa fosse questo nuovo capitalismo. La risposta venne dalla concezione e dalla teorizzazione di intercomunitarismo reazionario.
Va prima di tutto precisato, e qui sta la debolezza della speculazione di Newton, che quest'ultimo non sistemizzò mai in maniera organica il concetto di intercomunitarismo reazionario ma la elaborò partendo da una intuizione. Di nuovo mi rifaccio alle parole di Reyes: “...quando accendeva la tv era bombardato dal famoso spot della Coca Cola pieno di facce asiatiche, africane e latino americane che cantavano “Mi piacerebbe comprare una coca per il mondo”. Newton presto giunse alla conclusione che queste pubblicità non erano semplicemente il risultato di una campagna accattivante; erano piuttosto segnali di un cambiamento in corso e a un livello molto più profondo” (Reyes).
Le innovazioni tecnologiche avevano minimizzato il bisogno di materie prime e di lavoro industriale e dall'altra parte avevano saturato i mercati nazionali, e una volta saturi il nuovo capitalismo aveva trovato proprio attraverso lo sviluppo delle nuove tecnologie di creare nuovi mercati in tutto il mondo. Chiunque al mondo secondo Newton oramai consapevolmente o meno “stava per comprare una coca” (Newton).
In questo contesto si era reso necessario trasformare il mondo intero in un unica comunità integrata di produttori e consumatori, la classe dirigente statunitense aveva trasformato l'imperialismo americano in un qualche cosa di nuovo, una nuova forma di imperialismo che Newton chiama intercomunitarismo reazionario. Qui si colloca uno dei passaggi più famosi del pensiero di Newton:
“nessuno è fuori dal sistema. A causa della tecnologia il mondo è ora così piccolo che tutti noi siamo una serie di comunità disperse, ma siamo sotto assedio da parte del circolo interno reazionario degli Stati Uniti” (Newton).
All'interno di questa prospettiva dunque era evidente per Newton che essendo cambiato strutturalmente l'imperialismo egemonico statunitense in un intercomunitarismo reazionario era cambiata anche o doveva cambiare la lotta antimperialista e di liberazione delle comunità umane globali. Il cambiamento era di grado e non più di genere tra quello che accadeva ad esempio alla comunità afro-americana all'interno degli Stati Uniti e quello che accadeva alle altre comunità sparse per il mondo. Il pensiero rivoluzionario andava articolato non più come una gamma di differenze tra liberazioni nazionali dai diversi sovrani ma come scala di differenze all'interno della lotta di liberazione da un singolo sovrano globale incarnato dal ceto dominante statunitense.
Dunque coerentemente che fare? Newton individua nella creazione di un intercomunitarismo reazionario la chiave di volta all'interno del principio dinamico di contraddizione per creare e sostenere un intercomunitarismo rivoluzionario; “Ci sono soltanto due classi: miliardi di noi e pochi di loro. Qualunque siano le differenze nei livelli di oppressione, dagli operai industriali e tecnici ai milioni di poveri del Terzo Mondo, la maggioranza del popolo della terra è diventata una classe di dominati”.

Indubbiamente, almeno per chi scrive, il pensiero di Newton offre proprio per il suo carattere di speculazione intuitiva e suggestiva una vasta gamma di riflessioni e di opportunità di nuove speculazioni eppure nella sua intuitività sta la sua debolezza. Newton pur arrivando a concettualizzare l'intercomunitarismo rivoluzionario non si soffermerà mai nel corso della sua vita breve sul concetto stesso di comunità. Non vi sono indicazioni chiare ed organiche su cosa e come vada concepita la Comunità in sé e le varie comunità umane; pur riconoscendo le differenze culturali ed antropologiche tra le varie comunità sparse per il mondo anche dopo “la fine delle nazioni” e l'affermazione del “non-Stato” non cercherà mai di articolare come queste differenze vadano o possano andare ad incidere all'interno delle relazioni intercomunitarie. La conseguenza di questa manchevolezza ha creato il paradosso per cui esiste nella speculazione di Newton un concetto intercomunitario forte e una mancanza altrettanto forte sulla determinazione del concetto comunitario interno. Conseguentemente nel discorso risulta più centrata ed importante l'intercomunitarismo reazionario rispetto a quello rivoluzionario che ne risulta solo abbozzato.
Non a caso dopo la teorizzazione intorno all'intercomunitarismo Newton si concentrerà non tanto sulle prospettive rivoluzionarie quanto su come vivere all'interno di una situazione rivoluzionaria saltando così l'anello fondamentale di congiunzione tra status quo e possibilità futura.
Qui si inseriscono i concetti di suicidio reazionario e di suicidio rivoluzionario. Innanzitutto, Newton insisteva molto sul fatto che la retorica della violenza degli anni Sessanta era la conseguenza di una incapacità di tenere nella giusta considerazione il potere della trasformazione portando così a misurare il valore rivoluzionario di ogni azione proporzionalmente al suo potenziale distruttivo. Newton in contrapposizione utilizza la metafora della posizione del drago nelle arti marziali, colpire simultaneamente sia davanti che dietro in modo da distruggere ciò che c'è di vecchio ma allo stesso tempo creare un movimento verso il futuro. La rivoluzione per Newton va considerata come un suicidio, una morte del sé e allo stesso tempo una nuova possibilità e un processo di cambiamento. Da qui le definizioni di suicidio reazionario e suicidio rivoluzionario; la loro differenza “sta nella speranza e nel desiderio. Sperando e desiderando, il suicida rivoluzionario sceglie la vita; egli è, secondo le parole di Nietzsche, “una freccia desiderante un altro approdo”. Entrambi i suicidi disprezzano la tirannia, ma il rivoluzionario è insieme uno che disprezza fortemente e anche uno che adora fortemente...il suicida reazionario deve imparare, come suo fratello il rivoluzionario ha imparato, che il deserto non è un circolo. È una spirale. Quando siamo passati attraverso il deserto, niente sarà più lo stesso”. È forse proprio questo primato della volontà affermativa che caratterizza intuitivamente il concetto di intercomunitarismo rivoluzionario e che a parere di chi scrive circoscrive in parte l'idea di comunità di Newton.
Di certo questa volontà creatrice e questo primato della creazione sulla distruzione all'interno del concetto comunitario è riscontrabile anche oggi in altre realtà temporalmente lontane da quella di Newton, la ritroviamo nel concetto di Terzo Dominio di Ocalan come nello zapatismo, nelle fabbriche autogestite argentine come nel Prachanda Path.
Nello scrivere questo articolo in diversi punti mi sono ritrovato ad essere critico verso la spinta intuitiva di Newton e a riscontrare in parte il superamento di alcune delle posizioni di partenza, nell'articolo in parte ho cercato di mettere in evidenza questi punti, in altri casi ho preferito lasciare spazio all'esposizione. Questo per precisare che il pensiero di Huey Newton non va a parere di chi scrive preso come una visione profetica di un comunismo comunitario o intercomunitario quanto come una cerniera possibile, un ponte poco battuto tra gli anni Settanta e noi uscendo dagli schemi molto più analizzati e dibattuti dell'autonomia.

Pubblicato su Comunismo e Comunità n. 3

domenica 30 gennaio 2011

 E' attuale parlare di lotta di classe?





 Maurizio Neri

È ancora attuale parlare di lotta di classe? È ancora possibile declinare questo concetto senza sentirsi dei dinosauri storici? Questi interrogativi sono in questo quindicennio all'attenzione di molte riflessioni, proverò a dare qualche spunto di riflessione sull'argomento, seppur parziale.
Incominciamo dalla corrente di pensiero maggioritaria in Occidente che ha visto il passaggio di campo di moltissimi apologeti della lotta di classe, perlopiù intellettuali che negli anni Sessanta e Settanta si sperticavano in "osanna" verso gli operai e il proletariato, alla negazione più totale del fatto che oggi si possa in alcun modo fare riferimento a questo concetto.
Caduto il Muro di Berlino, finito il comunismo, fallito (per loro) il metodo marxista, costoro, in linea con la teoria della presunta fine della storia, non concepiscono in una società democratica e liberale avanzata che possa esistere una lotta tra interessi contrapposti di classe, ma che al massimo vi debba essere una politica redistributiva più equa ed a garanzia delle fasce più deboli della società.
La terziarizzazione dell'economia, il venir meno della centralità della classe operaia in quanto classe più rappresentativa, sia a livello numerico sia sul piano della combattività sociale, le teorie sul lavoro immateriale e le nuove figure flessibili nel lavoro sono, secondo costoro, la prova evidente ed inconfutabile di quanto affermano.
È curioso notare come molti di questi convertiti al liberalismo siano stati in realtà, almeno in Italia e in Francia, gli assertori del più convinto operaismo di 30 anni fa, ma questo non vuol dire molto perché si può e si deve poter cambiare idea nella vita.
L'importante è, però, non stravolgere i fatti. Come questi seppellitori della lotta di classe ne profetizzavano scioccamente negli anni Sessanta e Settanta l'inevitabile affermazione, prendendo come riferimento la centralità della classe operaia, come paradigma di riferimento epocale, così oggi eccedono nella visione opposta, cioè liquidando la questione una volta per tutte. Cambiano idea, ma non l'infantile estremismo intellettuale, a quanto pare.
Come in uno specchio rovesciato, abbiamo anche gli identitari, molto meno numerosi, in realtà, che continuano pedissequamente a riproporre la classe operaia come classe capace di trasformare i rapporti di forza nello scontro Capitale/Lavoro, senza indietreggiare di un centimetro e riproponendo analisi del tutto datate e con esiti fallimentari, scontati sul piano politico.
Quello che manca oggi, credo, è un'onesta disamina, senza paraocchi ideologici, della classe operaia e del proletariato in generale, del suo peso sociale e politico, della lotta di classe nella nostra epoca attuale e dei suoi possibili sbocchi futuri.
Ora, se è attendibile affermare che la forza contrattuale della classe operaia in quanto tale, costituita dalla massa di lavoratori, è oggi del tutto imparagonabile a quella degli anni Settanta (cosa ovvia e scontata), non si riesce a capire come si possa partire da questa constatazione e ricavare l'ulteriore passaggio logico della fine di questa classe né, tantomeno, dell'assoluta fine della lotta di classe in generale.
Un primo dato ci dice che gli operai, dopo un ventennio di ristrutturazioni e riorganizzazioni avvenute nell'ambito della grande industria e che ha visto una sensibile diminuzione della manodopera nelle grandi fabbriche, sono tornati a crescere numericamente, sia per l'ingresso di numerosi lavoratori interinali sia per l'afflusso di immigrati che, ad esempio, nel Nord-Est sono ormai una percentuale non marginale della forza lavoro di fabbrica. Un secondo dato ci dice che il malcontento e la rabbia per la diminuzione costante delle condizioni salariali e di aspettativa per il futuro sono in aumento tra gli operai, come ha ben descritto anche la puntata televisiva della trasmissione di Michele Santoro "Anno Zero", dedicata a questo argomento (www.annozero.rai.it).
Un'altra considerazione è che la classe operaia non si percepisce più come tale ed è incapace di progettare un'alternativa alle politiche sindacali di questi ultimi anni che hanno sicuramente intaccato le condizioni di vita dei lavoratori, in nome delle solite emergenze economiche e di sistema.
Ma l’errore di fondo compiuto dai denigratori della lotta di classe e dagli apologeti fuori tempo massimo, dicevamo, è il medesimo: sovrapporre ed identificare nella sola classe operaia la classe motrice della lotta; quindi, finita l'una deve finire anche l'altra. Non è mai stato così, nella realtà. L'aver fatto coincidere classe operaia e la lotta tra dominati e dominanti è stato un errore allora e lo è ancora di più oggi se si vuole usare questa sovrapposizione per buttare il bambino con l'acqua sporca. L'operaismo italiano ed europeo è il grande responsabile di questo gigantesco equivoco che perdura ancor oggi e che consente ai teorici del liberalismo economico e sociale di cantare vittoria e di liquidare ogni possibilità di lotta di classe.
Quindi il problema, oggi come ieri, è definire la classe dominata, alla luce dei mutamenti intercorsi in questi ultimi 30 anni e capire che le nuove forme di lavoro, l'impoverimento del ceto medio, o la sua proletarizzazione, la concentrazione del potere economico e della ricchezza in fasce sempre più ristrette della popolazione, non fanno che aumentare anziché diminuire l'importanza degli interessi contrapposti. Certo, ci si obietterà che non c'è assolutamente nessuna coscienza di classe in questo nuovo agglomerato sociale (è vero!), che non c'è nessuna autocoscienza di sé in quanto soggetto sociale (è verissimo...), che la disgregazione atomistica imposta dal consumismo e dall'edonismo hanno distrutto ogni vincolo solidaristico tra chi è nelle stesse condizioni di dominato (è altrettanto vero!!!). Ma ci chiediamo se questo basti ad eliminare del tutto la lotta tra dominati e dominanti, quando le ragioni di questa lotta sono sempre più evidenti ogni giorno che passa. Ci chiediamo anche se si sia dato troppo credito e ascolto a chi ha voluto fortemente liquidare insieme al socialismo reale anche le ragioni degli oppressi, come se le due cose non fossero attualmente diverse e non necessariamente correlate. Noi pensiamo che non si possa né si debba concedere questo favore a chi detiene culturalmente, politicamente e socialmente le leve del comando e che sia ora di ricominciare a riflettere nuovamente su questi temi, ma con strumenti culturali nuovi e linguaggi adeguati ai tempi, evitando, ben inteso, ogni superficiale analisi autoconsolatoria. Ed è per questo che da tempo stiamo tentando di rielaborare il concetto di proletariato, che tenga conto delle trasformazioni avvenute negli ultimi 30 anni e che ruoti attorno al perno delle Comunità proletarie (come punto di riferimento) e di Resistenza all'omologazione culturale e politica che, in nome dell'americanismo imperante, cerca di annacquare le differenze nel calderone della classe unica e indistinta. Conosciamo bene le difficoltà di un discorso del genere, che deve procedere, secondo noi, da una riappropriazione identitaria della classe, di un suo stile, di una sua coscienza, di una sua cultura e di una sua dimensione storico-politica che oggi non ha, frammentata, atomizzata e dispersa com'è. Nelle Comunità proletarie resistenti cosi come le immaginiamo, entrano il nuovo ceto medio impoverito e privo di riferimenti per il futuro, i precari e i disoccupati, così come le categorie tradizionali di riferimento, che insieme devono trovare l'amalgama di una nuova sintesi politica che ne raccolga le aspirazioni. Ma non si può esaurire il discorso senza parlare di liberazione nazionalitaria connessa alle esigenze di liberazione sociale del proletariato in un'epoca in cui le due questioni ancora una volta si intrecciano in modo simbiotico, senza fare riferimento anche all'importanza di contrapporre alla religione del profitto della classe dominante nazionale ed internazionale una nuova idea-forza che sia insieme un messaggio di riscatto sociale, nazionalitaria, antimperialista, anticapitalista, comunitaria e innervata da una forte tensione etica e spirituale, comunista.

venerdì 28 gennaio 2011

Nazione e comunità: definizioni e chiarimenti
  
 Maurizio Neri

Il comunismo, inteso nel senso di Marx, si è storicamente proposto come movimento spontaneo possibile dall' insorgere di una contraddizione tra classi esasperata, che avrebbe portato la sempiterna lotta di classe a sfociare nell'ultimo stadio dell'evoluzione sociale: l'avvento di una società senza classi attraverso l'egemonia temporanea del proletariato e la successiva estinzione naturale dello Stato, del potere, delle istituzioni e di tutte le sovrastrutture a ciò connesse. In questo processo di liberazione dalle catene, non vi era alcuna comunità politica pensata come intermediazione tra uomini singoli e vita sociale, poiché la vita sociale, superata la contraddizione del capitale avrebbe superato la scissione rispetto alla vita personale tipica dei modi di produzione conflittuali.
Da tale visione prende forma l'idea di un comunismo spontaneo che si afferma per via decostruttiva, ovvero destrutturando poco a poco l'uomo dalle incrostazioni sociali che lo condizionano.
Proporre un comunismo comunitario, cioè incentrato sulla complessa nozione di comunità, significa in realtà respingere dalla base la concezione del comunismo come movimento spontaneo che non necessita di alcuna entità autocosciente collettiva ( se non la comunità umana ultima universale), e aver chiara l'idea che tra singolo ed universale, come tra singolo e sociale, vi sarà sempre un salto ontologico troppo grande per poter credere in un innesto armonico senza filtri di sorta.
La comunità, allora, è proprio quel filtro che segna il passaggio tra uomo e universale, e tra uomo e suo essere in comune con l'altro. E lo è in due maniere:da un lato essa rappresenta il momento politico di riflessione comune, che si interpone tra persona e società, permettendo ad ognuno di rivelare il suo essere politico.
Dall'altro è reale momento di unità intermedia tra uomini, e si declina come identità collettiva sotto innumerevoli forme: familiare, affettiva, di conoscenza, di mestiere, di professionalità, territoriale, nazionale, linguistica, statale, ed infine universale umana ( la vera comunità umana/gemeinwesen).

Affinchè la comunità umana universale (gemeinwesen) sia davvero un concetto reale, e non un'astrazione consolatoria del nostro essere a-comunitari precipitati nel cinismo sociale conflittuale, bisogna fare in modo che la comunità intermedia in ogni sua forma sia riconosciuto luogo di legame sociale tra uomo e uomo.
“La furia del dileguare” espressione utilizzata da Hegel nella sua critica all'astrattezza dell'utopia comunitaria roussoviana, è stata elemento dominante nel comunismo storicamente predicato e proposto.
Re-immettere il comunismo nella comunità reale, significa rigettare utopie dissolutorie, rigettare appunto la furia del dileguare, in favore di utopie e di pratiche costruttive. Costruttive senza ansia rigeneratrice.
Non si costruisce su terra bruciata, ma si costruisce su ciò che già c' è.
Così come i medioevali costruivano le città sui resti di quelle romane, riutilizzandone il materiale e valorizzandone i siti, il comunismo deve essere costruito con il materiale reale esistente, e non con inesistenti purezze creazioni da laboratorio.
Questo significa valorizzare la comunità, come forma immanente dell'azione umana, come realizzazione quotidiana del singolo teso all'universale.

La ragione per cui il termine comunità è molto più pregnante e onnicomprensivo del temine nazione, è a questo punto ben comprensibile.
La nazione è valida e sacrosanta forma comunitaria, ma non è l'unica declinazione possibile del concetto comunitario.
Se così fosse, e se il termine nazionale, nazionalitario o nazione divenissero momenti univoci sloganistici, si incorrerebbe nel rischio di fare della nazione un lasciapassare a tutto campo per l'incontro tra singolo e universale. Così non è, poiché la nazione, è semplice espressione particolare di una comunità possibile, e, sopratutto all'interno di essa, vivono e nascono comunità intermedie di vitale importanza.
Rinunciare al nazionalitarismo come fattore sloganistico non significa affatto rigettarlo come pensiero forte relativo alla concezione della nazionalità.
Il nazionalitarismo che dobbiamo difendere è tutto nella considerazione dell'importanza dell'espressione libera culturale, linguistica e tradizionale di popoli coesi ed autocoscienti.
Ma essere nazionalitari, non può neanche assurgere a forma ideologica aprioristica, che induce alla difesa dell'indipendenza statuale possibile di nazionalità o etnie, indipendentemente dai contesti e dalla reale percezione che i popoli hanno realmente di loro stessi nel presente.
Credendo che la nazione sia un concetto dinamico, aperto, in divenire, applicare un nazionalitarismo ideologico -accademico, per cui ad ogni etnia-lingua deve corrispondere la difesa senza quartiere del diritto di indipendenza, è pura operazione astratta, fatta dall'alto di una teoria e non dall'interno delle dinamiche reali di popoli liberi.
In termini concreti il nazionalitarismo reale ( da opporre a quello ideologico ) deve avere quattro priorità:
1) la difesa della libertà formale di ogni popolo potenzialmente autocosciente di determinare in forma democratica il proprio futuro, manifestando attraverso libere elezioni eventuali volontà indipendentiste.
2) La difesa della lotta, anche armata, qualora realmente necessaria, dei popoli oppressi, ovvero viventi in forme di impossibilità di esprimere in alcun modo la propria cultura e specificità. In proposito, senza scendere nei singoli esempi, bisogna essere molto chiari, perchè l'argomento si presta a manipolazioni demagogiche o a logiche di tipo lobbistico ed imperialistico che nulla hanno a che vedere con un nazionalitarismo puro e verace. L'oppressione reale e giuridica è il vero criterio dirimente per legittimare lotte che travalicano i confini della democraticità e l'uso della violenza, ricordando che il ricorso a lotte impositive è legittimo solo laddove non esiste in alcun modo altra possibilità.
3) La lotta per forme di inter-comunitarismo politico (questo si indipendentemente dalle condizioni specifiche d'ogni nazionalità) all'interno degli stati politici esistenti, difendendo la possibilità della convivenza plurinazionale, difendendo la sovranità politica statale dove minacciata da separatismi etero-diretti
4) La propagazione di uno spirito patriottico democratico, fondato sulla fede nella comunità politica, in senso costituzionale e progettuale, da intendersi dunque in opposizione alla visione nazionale di tipo culturale ed etnico. Esempi luminosi di patriottismo politico immerso tra presente e passato e dunque non metastorico, è quello sudamericano, di nazioni come Cuba , il Venezuela, la Bolivia. La proposizione di un sano patriottismo civico, aperto e plurietnico, estraneo ad ogni logica di sciovinismo o di etnicismo, è uno dei nostri obiettivi politici e culturali al tempo odierno in Italia, paese sempre più supino a logiche esterne alla propria vita politica nazionale autonoma, e sempre più in crisi di rappresentanza strutturale causata dalla dipendenza del potere dominante da poteri esterni consacrati persino dalla presenza di basi militari di controllo.
In tale senso la lotta per un'Italia indipendente nell'alveo di un Europa da ricostruire, deve essere ideale faro d'azione: non certo per affermare un italianismo culturale sciovinistico ed annichilitore di altre etnie, o persino potenziali nazionalità coesistenti presenti nel nostro territorio, ma, al contrario, per sviluppare il senso d'appartenenza intercomunitario in un alveo politico storicamente formatosi in unità e potenziale condivisione nella differenza e nel rispetto delle tradizioni delle varie comunità interne.

Su queste quattro linee guida si può sviluppare una sensibilità nazionalitaria non ideologica.

Per concludere questo breve scritto chiarificatore, il ricorso al termine comunità, come primo riferimento politico ( di presentazione e di sostanza) è inerente all'onnicomprensività e alla trasversalità del termine comunità, rispetto alla parzialità ed all'univocità del termine nazione.
La nazione, come detto, non è che una possibile comunità particolare, ma non incarna in toto il senso di comunità che nella nostra elaborazione teorica vuole essere il centro motore di riproposizione di un comunismo politico fondato sul comunitarismo filosofico.
La sovranità della nazione politica, nonché la valorizzazione della nazionalità culturale coesistente, sono obiettivi politici e istanze collettive di cui ci facciamo portavoce e difensori, contro la cultura anti-democratica ed atomistica del potere globale concentrato nella mani di gruppi oligarchi senza patria né comunità.
Ma la comunità, intesa in ogni sua forma, livello e declinazione, è il vero oggetto di interesse complessivo cui ci rivolgiamo per ricostruire un pensiero anti-capitalista forte e radicato nella vita reale dell'uomo.

venerdì 21 gennaio 2011

La Scuola di Marx. Il problema dei rapporti fra Comunismo e Comunitarismo

 di Costanzo Preve

1. Riferirsi congiuntamente al comunismo ed al comunitarismo è una relativa novità nel panorama culturale e politico italiano ed europeo-occidentale. Sono esistiti in passato i cosiddetti nazionalcomunisti e nazionalbolscevichi, ma noi non abbiamo letteralmente nulla a che fare con loro, perché non ci collochiamo sul terreno delle rivendicazioni di una nazione contro altre nazioni. Sono esistiti ed esistono i cosiddetti eurasiatisti, ma il nostro profilo culturale e politico prescinde interamente dalla geopolitica, comunque concepita, in quanto si fonda su di un profilo economico, politico e culturale del tutto estraneo alla geopolitica, di difesa o di offesa che sia.

La ragione per cui fino ad oggi non siamo ancora stati fatti oggetto di attacchi diffamatori sistematici (prescindo dal contingente spurgo di fogna dei frenetici diffamatori di professione della rete, ad un tempo fastidiosi e irrilevanti) sta unicamente nel fatto che per ora siamo talmente piccoli da essere quasi invisibili per il circo dello spettacolo ideologico. Nel caso crescessimo, possiamo aspettarci che una muta di cani feroci ci salterebbe alla gola. Questi cani feroci si possono dividere in tre “razze canine” diverse.

In primo luogo, ci salterebbe alla gola la cosiddetta “estrema destra”, e questo per una ragione semplicissima. La tradizione dell’estrema destra, infatti, vede di buon occhio certe forme di comunitarismo ideologico del passato, in variante razzista, nazionalista, tradizionalista, organicistica, cavalleresca-neofeudale, eccetera, ma non vuole ovviamente avere nulla a che fare con il “comunismo”, che ha combattuto per un secolo, e di cui per principio rifiuta il “salvataggio” attraverso la distinzione fra Marx ed il comunismo storico successivo, in base al presupposto tetragono per cui Marx sarebbe stato il “fondatore” del comunismo che aborriscono.

In secondo luogo, ci salterebbe alla gola la cosiddetta “estrema sinistra”, e questo per una ragione semplicissima. La tradizione dell’estrema sinistra, infatti, il cui presupposto metafisico indiscutibile è l’eternità dell’antifascismo in assenza palese e conclamata di fascismo, è disposta ad accettare la pittoresca varietà delle tradizioni comuniste, o presunte tali (anarchismo, comunismo consiliare, togliattismo, mito dell’onesto Berlinguer, nobile sardo dalle mani pulite, bordighismo, trotzkismo nelle sue quattrocento varianti, stalinismo più o meno giustificazionistico, marxismo onirico-utopistico, maoismo filocinese, guevarismo eroico, castrismo esotico, eccetera), ma non vuole ovviamente avere nulla a che fare con il “comunitarismo”, in cui vede, grazie soprattutto alla paranoia che costituisce l’elemento fondante del suo profilo umano e antropologico, una perfida infiltrazione ed una orrenda contaminazione del Fascismo Eterno.

In terzo luogo, infine, ci salteranno alla gola tutti gli appartenenti al grande centro neoliberale politicamente corretto, che in Italia va da Fini a D’Alema e da Bertinotti a Berlusconi, i quali odiano ecumenicamente sia il comunismo, dichiarato “indicibile”, sia il comunitarismo, dichiarato “fascista”. Le pallottole-ismi che ci rovesceranno addosso sono già tutte nei loro depositi, e sono già tutte collaudate dal circo universitario politicamente corretto (anti-americanismo, anti-semitismo, nazionalismo, populismo, totalitarismo, passatismo, organicismo, eccetera).

Insomma, possiamo aspettarci il peggio, e se crescessimo (cosa niente affatto sicura, perché non possiamo offrire nulla, né posti politici, né cattedre universitarie, né intrallazzi ben pagati, né leccamenti mediatici, eccetera), i cani rabbiosi ci salteranno certamente alla gola.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2065

giovedì 20 gennaio 2011

LA PRODUZIONE LIBERATORIA DELL'INDIVIDUO SOCIALE

in Gilbert Simondon




di fabio Raimondi



Un sentiero di lettura sull'opera del filosofo francese a partire da due
volumi che pongono con forza il tema del rapporto tra tecnica e natura
umana. Una riflessione che rivela la sua capacità di cogliere i nodi
irrisolti della modernità e che pone con evidenza la necessità di una
concezione del «politico» come capacità del conflitto di trasformare il
legame sociale. E delle istanza di libertà e eguaglianza in un mondo che
le nega in nome della supremazia del mercato.

Come Thomas Hobbes costruì la sua scienza della politica basandosi sulla
fisica galileiana e come Immanuel Kant si appoggiò invece sulla fisica
newtoniana, così il tentativo del filosofo francese Gilbert Simondon è
stato di aggiornare la consapevolezza epistemologica della filosofia con
riferimento, in particolare, all'indecifrabile e amletica fisica
quantistica, che, diceva il fisico statunitense Richard Feynman,
«nessuno capisce». Un tentativo la cui ambizione epistemologica e
politico-sociale è ben evidenziata da due studi recenti, che pongono
l'accento sulla ridefinizione simondoniana del rapporto tra scienze
umane e scienze «dure» contro lo scientismo e l'utilitarismo
capitalistico delle merci.
Il primo è di Xavier Guchet - Pour un humanisme technologique. Culture,
technique et société dans la philosophie de Gilbert Simondon, Puf, pp.
278, euro 27 -, che insegue lo sforzo simondoniano di indicare un'altra
«modernità», legata alla tecnica intesa come «"supporto" e "termine di
riferimento reale" delle società umane». Il nucleo di tale operazione è
la problematizzazione dell'uomo, la costruzione di un «umanismo» fondato
sulla costituzione biologica e tecnica dell'umano, cioè sul «processo
d'individuazione» che, contro ogni essenzialismo antropologico sfociante
nell'illusione identitaria dell'individuo, mostri come l'umano si
costruisca attraverso l'oggettivazione tecnica della sua relazione
immediata col mondo.


Un dualismo da superare
Non si tratta più, dunque, di appoggiarsi sulla dicotomia tra «uomo
esteriore (sociale) e uomo interiore (mentale)», ma di sostituire al
dualismo sociologia-psicologia il rapporto complesso tra
psicosociologia, tecnologia e umanismo. Solo questa relazione, sempre
mutevole, può fornire il principio d'unità delle scienze sociali, contro
l'individualismo metodologico imperante. La tecnologia, infatti, «non è
solo lo studio del funzionamento delle macchine, ma anche l'analisi del
processo sociale per il quale il rapporto vitale tra l'uomo e la natura
si è progressivamente formalizzato, oggettivato come sistema di
operazioni coordinate». Tutto questo trova il proprio centro
nell'analisi della funzione simbolica dell'oggetto tecnico, veicolo di
una normatività che è promessa implicita di universalità: attraverso
l'oggetto tecnico, infatti, sono trasmessi «degli schemi operatori» in
grado mediare virtuosamente la comunicazione interumana.
Pur non misconoscendo il tema antropologico, Simondon cerca di
«ancorarlo a un'ontologia su misura», per dirigersi verso una
«prasseologia» che, non escludendo il valore della tecnica, destituisca
di ogni fondamento «la tentazione di una comprensione tecnicista della
realtà umana»; realtà «operatoria» perché produce, attraverso processi
di individuazione che si danno a partire da una realtà «preindividuale»,
il passaggio da «una struttura a un'altra, rifiutando la distinzione tra
essere e divenire». L'uomo è legato «al mondo esterno che è il luogo in
cui egli fabbrica la propria realtà fabbricando i propri oggetti»:
questa è l'operazione di «transindividuazione» con la quale egli
«istituisce un ordine umano strutturando ciò che in lui è natura». In
questo modo, l'uomo trasforma la «cultura», che ha una «funzione
regolatrice all'interno dei gruppi umani» e verso la natura.
Il secondo è di Andrea Bardin, che ricostruisce in modo accurato la
terminologia tecnica di Simondon, le sue fonti, il contesto nel quale
opera, le fasi della sua riflessione e l'importanza filosofica della sua
ricerca, allontanandosi dalle interpretazioni più diffuse: Epistemologia
e politica in Gilbert Simondon. Individuazione, tecnica e sistemi
sociali (Valdagno, pp. 410, euro 24) è il volume con cui l'editore
FuoriRegistro inaugura una collana che vorrebbe intercettare, grazie a
bassi costi coniugati a ottima qualità, la produzione di studiosi resi
sempre più invisibili dai tagli criminali alla ricerca.

L'individuo è un processo sempre aperto di scambio continuo di
informazioni con l'ambiente circostante e con gli altri esseri viventi
(umani e non) e non viventi (oggetti tecnici), in cui è la relazione a
produrre gli elementi che la costituiscono: «la natura umana non è un
dato - né biologico né culturale - ma un divenire biologico-tecnico» che
struttura e destabilizza, al contempo, l'ambiente in cui si genera.


La carica energetica del milieu
La tecnica (non riducibile al funzionalismo del «lavoro», fonte di
«alienazione»), con la sua inventività, rende possibile la comunicazione
tra comunità e natura attraverso la «macchina» dando vita alla società,
che però non è mai stabile, priva di comunicazione con l'esterno, ma
sempre «metastabile» nel suo movimento di interazione, scambio
energetico e conflitto tra le sue componenti, e tra esse e l'ambiente
che le circonda. Se «ciò che è organico e tecnico produce e al contempo
minaccia il sistema sociale», allora la conservazione della società
passa per la costruzione collettiva di «significazioni» (simboli) con la
capacità di equilibrare lo scambio tra potenziali creativi e
distruttivi. Quest'attività è la cultura, che può produrre la «chiusura
in un sistema di credenze» (comunità) oppure «il rilancio della
produzione simbolica stessa» (società): solo nel secondo caso la vita
riceve un impulso conservativo ed espansivo al contempo.
È soprattutto dopo L'individuation à la lumière des notions de forme et
d'information del 1958 che è possibile cogliere «le implicazioni
politiche della filosofia dell'individuazione». Dalla relazione
«organismo-milieu», infatti, si forma il legame sociale. La «produzione
simbolica», essendo il «prolungamento della struttura e dell'azione
dell'organismo», segna il passaggio dalla natura alla cultura istituendo
tra esse una relazione biunivoca. Sono in particolare gli oggetti
tecnici a regolare il rapporto tra organismo e ambiente secondo una
modalità che fa riferimento alla «carica energetica» potenziale
associata al milieu: un potenziale preindividuale che rende ragione sia
della sempre possibile regressione umana al primitivo sia della
produzione di nuove «individuazioni transindividuali».
In quanto «cultura», tecnica e religione (sacralità) sono «modalità
primarie del pensiero»: la prima (oggettivazione) si applica al rapporto
col mondo naturale, la seconda (soggettivazione) «cura la collocazione
dell'individuo un uno sfondo-Tutto», ma nessuna delle due è esclusiva,
perché l'ultima opera «sulla scala dei gruppi» con funzioni di
«stabilizzazione», mentre la prima opera su scale più ampie con funzioni
di «invenzione». L'oggetto tecnico diventa così potenziale vettore di
«apertura sociale», la cui politicità dipende dal suo «valore»
destabilizzante e costitutivo al contempo, non necessariamente
progressivo. Quando la religione non è più in grado di collocare
l'individuo in un Tutto, a fronte della «frammentazione» prodotta dalle
tecniche, sorge la politica, che «riformula il tutto nella sua
dimensione potenziale-progettuale» con lo scopo di costruire una
«compatibilità tra fase tecnica e religiosa». Il tentativo però non
genera sintesi ma conflitto, ed è a questo punto che la filosofia
interviene come produzione di «permanente negoziazione» o «regolazione»
del loro antagonismo, «rallentando o amplificando il divenire» e
modificando così «il milieu attraverso il quale la società agisce su se
stessa».


Nella gabbia della merce
Simondon insegue la possibilità di una «cultura tecnica», il cui
antispecismo vorrebbe rompere anche con l'alienazione degli oggetti
tecnici al fine di dar loro «cittadinanza nel mondo delle
significazioni» contro la tecnocrazia borghese e la tecnofobia («omologa
al razzismo») che hanno inondato la cultura del Novecento. Contro il
lavoro e la sua sacralizzazione, bisognerebbe modificare il rapporto
consumistico (passivo) che produce «regressione», perché chiede al
mercato il funzionamento «chiuso» anziché «aperto» dell'oggetto tecnico,
il suo «automatismo» anziché lo sviluppo dei suoi potenziali, il suo
«rendimento» invece che la sua «liberazione», la sua prestazione
«omeostatica» e non «metastabile». Un'etica immanente alle tecniche è
l'orizzonte che Simondon insegue, cadendo spesso in afflati mistici che
lo riportano in un orizzonte positivistico, mitigato però dalla
consapevolezza che la politica è ricerca della «compatibilità
dell'invenzione con le condizioni di stato del sistema sociale», ossia
«atto di governo» giusto, «invenzione di compatibilità» tra l'esistente
e l'emergere aleatorio delle invenzioni: filosofia.