martedì 26 aprile 2011

Costanzo Preve, Marx inattuale. Eredità e prospettiva 
Bollati Borighieri, Torino 2004


Il libro di Costanzo Preve non è solo un saggio storico e critico su Marx e il Marxismo, ma un’opera filosofica, scritta da un profondo conoscitore della filosofia, che intende partire da un confronto finale con l’esperienza marxista, per creare gli spazi teoretici adeguati a ripensare le contraddizioni dell’imperialismo contemporaneo e le prospettive di un suo superamento storico.
Secondo Preve, il pensiero di Marx nasce da un orientamento a rinunciare alla teoresi, intesa come specifica ricerca della verità, fondante ogni particolare scienza particolare e ogni scelta di carattere pratico, e a privilegiare lo studio scientifico e la critica dialettica dell’economia politica inglese, al fine di individuare, nell’emergente realtà capitalista, le condizioni materiali e concrete per una rivoluzione sociale che consentisse di sopprimere l’alienazione reale. Gli elementi filosofici, maturati attorno alle riflessioni giovanili sul problema dell’alienazione, che si innestavano organicamente sulle linee di pensiero della filosofia classica tedesca, vengono volutamente lasciati incompiuti, a favore di una scelta di prassi rivoluzionaria, considerata da Marx di primaria importanza di fronte ad un presunto conservatorismo politico della filosofia di Hegel, all’inconcludenza di Bauer e della sinistra hegeliana, all’urgenza della situazione storica, sentita dal giovane intellettuale di Treveri come matura per un salto di qualità rivoluzionario, come “gravida di rivoluzione”.
Ne scaturisce una teoria dei modi di produzione e una visione dialettica della storia e del capitalismo, fondate scientificamente ma non filosoficamente. Ciò significa che il materialismo storico è privo di una riflessione fondante di carattere veritativo –tipica invece della filosofia greca e dei classici tedeschi-; la sola che gli consentirebbe di contenere in sé quegli elementi di assolutezza, in grado di sollevarne i valori espressi al di sopra di ogni relativismo storico.
Aggiungiamo che la questione dell’assolutezza del sapere non è sconosciuta all’interno del marxismo ed è tutt’altro che accademica. Lukàcs la solleva con chiarezza ne Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista, in modo specifico nei capitoli dedicati alla Fenomenologia dello spirito. Ivi sostiene apertamente che il sapere umano deve avere in sé elementi di assolutezza, che lo sottraggano al cambiamento dei tempi e creino quindi un quadro teorico valido universalmente, capace di orientare gli uomini al di là del cambiamento storico e geografico di teorie, culture, mode e quant’altro. Se, nella vita quotidiana come in quella pubblica, si può far riferimento a principi di valore assoluto, ad una verità –posta naturalmente all’interno di un circolo ermeneutico che consenta il libero dialogo fra opinioni veritative diverse-, ci si può sottrarre più facilmente ai condizionamenti culturali dei sistemi sociali di appartenenza e ai mutamenti opportunistici della politica.
Questo non è certo accaduto al mitico “movimento operaio socialista e comunista”! Per capirlo, senza troppe parafrasi, è sufficiente guardare le immagini delle code chilometriche di auto sulle autostrade di agosto –spesso sorrette da debiti contratti ad hoc pur di poter “fare le ferie”- e ricostruire le vicende politiche di personaggi come Eltsin, Putin, Ferrara, D’Alema, ecc.
In questo saggio, Costanzo Preve cerca anche di capire i motivi più profondi di quanto è storicamente accaduto, soprattutto dopo il 1989. In sostanza, secondo la sua opinione, il pensiero di Marx si muove sul terreno del nichilismo filosofico, rinnegando la grande tradizione teoretica greca e occidentale, e genera, con ciò, gli spazi storico-culturali per la sua sostanziale riduzione, sin dagl’anni del tardo Engels e della II Internazionale, ad ideologia semireligiosa del movimento operaio; un’ideologia fondata su uno storicismo determinista e unilineare, speculare a quello del pensiero borghese sia illuministico che positivistico, paragonato dall’autore ad una linea ferroviaria con itinerario prefissato.
La storia diventa una successione di modi di produzione, espressiva di paradigmi teorici e valori culturali diversi, legittimi su basi storiche, mossa oggettivamente da elementi economici, con una meta finale inevitabile per tutti i paesi del pianeta, come oggi lo sarebbero la globalizzazione neoliberista e la società americanizzata. Dopo la partenza dal comunismo primitivo, si passa per le stazioni dello schiavismo e del feudalesimo; successivamente è necessità che tutte le nazioni
passino a quelle del capitalismo per approdare alla meta ultima del comunismo maturo, che distribuirà secondo i bisogni.
I risvolti culturali e politici più immediati di questa versione del materialismo storico sono l’ottimismo psicologico e l’immobilismo politico di militanti e quadri dirigenti della II Internazionale; le conseguenze di più ampio respiro sono le mentalità camaleotiche, l’adattamento al mutamento dei tempi, di togliattiani, posttogliattiani, postsovietici, che rivelano una povertà sconcertante di valori forti, compendiata dall’immagine televisiva dell’ex numero uno del comunismo internazionale, Michael Gorbacev, che pubblicizza la pizza americana. Com’è stato possibile questo itinerario dal Cremlino alla pizza? Dai valori della “solidarietà socialista” a quelli del più triviale consumismo capitalista? Ci sarebbero in fondo modi più dignitosi per vivere e dialettizzare una sconfitta storica di simili proporzioni!
Sulla base del paradigma ermeneutico, che abbiamo tentato di sintetizzare succintamente, Preve ricostruisce analiticamente gli aspetti essenziali del pensiero di Marx e le posizioni teoriche che ne discendono, ricostruendo anche, con rara chiarezza esaustiva e senso dell’umorismo, i caratteri dei vari “marxismi” del novecento.
Nello specifico, gli orientamenti teorici, variamente comuni a tutte le correnti di pensiero ispirate da Marx, e contenute nella versione deterministica del suo materialismo storico, sono tre: lo storicismo, che riduce l’intera realtà umana a storia unilineare, l’economicismo, che conferisce assoluta centralità e indipendenza ai movimenti dell’economia, l’utopismo, che postula il comunismo quale meta finale e necessaria di questo processo storico deterministico, risultato dell’automovimento dialettico del capitalismo.
In questo contesto spiccano negativamente soprattutto la teoria del crollo spontaneo del capitalismo e del carattere rivoluzionario della classe operaia. La conclusione dell’autore è che il pensiero di Marx potrebbe ancora essere un riferimento valido, a patto di abbandonare completamente questi paradigmi teorici e di fondarlo filosoficamente sulla base di “una concezione ontologico-sociale di umanità”, che si alimenti dalle migliori riflessioni di Marx sulla natura e sulla libertà umane, riprendendo le intuizioni dell’Ontologia dell’essere sociale di Lukàcs (autore di cui, non casualmente, Preve è esperto di livello internazionale).
In questo direzione, nel libro, si pone in luce che una delle radici del pensiero di Marx è la tradizione greca che faceva dell’anima “il fondamento della verità”; e ciò apre in Marx lo spazio “per due teorie, una teoria della natura umana e una teoria dell’individualità umana”. Aspetti del pensiero marxiano analiticamente ricostruiti a partire dal commento di un passo fondamentale dei Grudrisse, in cui Marx evoca un comunismo quale condizione di piena libertà dell’individuo da ogni condizionamento sociale.
La prima teoria fa di Marx il teorico della possibilità di costruire un’ampia varietà di modelli sociali (e non il macchinista della locomotiva della storia), in base all’idea dell’uomo in quanto essere generico, non preordinato, dalla sua specifica struttura materiale, a date e sempre identiche modalità di vita e attività costruttive, come lo sono ad esempio le api che vivono in società e lavorano ma sempre e solo in un dato modo: creando un alveare e trasformando il polline in miele o cera. L’uomo può cambiare le sue attività lavorative, le sue creazioni e le sue forme sociali.
La seconda teoria lo erige a teorico della libertà più autentica e non del livellamento, come del resto aveva già riconosciuto, a suo tempo, Galvano Della Volpe. Su questo terreno, il filosofo di Treveri costituirebbe il più alto momento di elaborazione del concetto di libertà dell’uomo della storia universale. Gli stessi greci infatti –cui Preve riconosce un primato filosofico tutt’ora non superato- rimangono ancora legati alla concezione dell’individuo come persona, maschera di carattere, individuo socialmente condizionato; mentre il pensiero borghese si limita a pensare la libertà in termini di semplice indipendenza formale rispetto ai ruoli sociali prefissati delle società tradizionali, ma ponendola sempre entro rapporti di dipendenza materiale.
Marx sviluppa materialisticamente e porta a compimento l’eredità della migliore Filosofia Classica Tedesca, elaborando un coerente “individualismo sociale”. Nessuno prima di lui avrebbe mai pensato, con questa radicalità, ad un’individualità umana reale, originale e irripetibile, radicata e
organizzata necessariamente in società, solidale con ogni altra individualità, posta da questa stessa società solidaristica nelle condizioni di poter sviluppare, in piena indipendenza da ogni condizionamento eteronomo, ogni aspetto della propria personalità. Nessuno avrebbe posto il passaggio ad una simile comunità di uomini effettualmente liberi, al di fuori di ogni alienazione, al centro della propria attività politica, credendolo pienamente realizzabile nella storia e lavorando per costruire attorno a questo obiettivo un movimento reale di forze sociali organizzate. Questo radicale “individualismo sociale” è, secondo Preve, l’aspetto più rilevante e più fondante del pensiero marxiano, che si collega strettamente alle sue riflessioni giovanili sul problema dell’alienazione e sulla natura umana, ma anche quello più misconosciuto da tutte le sua successive formulazioni.
Ponendo in rilievo la centralità, nel pensiero marxiano, di queste due teorie, il marxismo riassume attualità sia come critica strutturale dei ruoli sociali, che si alimenta dall’ampia conoscenza che Marx aveva dei classici della letteratura universale, sia come teoria della libertà individuale; una libertà ben distinta dall’individualismo borghese, nato sul terreno dell’utilitarismo e dell’egoismo economico.
In questo contesto, Preve fa due considerazioni che rendono ancor più profondo, di quello che non fosse nelle pagine precedenti, il fossato che separa Marx dai marxismi successivi.
In primo luogo, in base alla riflessione antropologica citata, che scorre coerente in tutte le fase del suo pensiero, come aveva già visto Garaudy, l’uomo è in sé soggetto libero, non preordinato a nulla dalla sua struttura materiale specifica, quindi è in grado di esprimere potenzialmente un’infinita varietà di attività lavorative –come dimostrato dalla storia- e di forme sociale. Se non c’è nulla, nella sua natura, che lo costringa a produrre entro un rapporto sociale di servaggio, piuttosto che entro un rapporto di libertà, neppure sul piano storico, è preordinato in base alle presunte “moire” dell’economia che debba passare dal capitalismo al comunismo, o che il capitalismo stesso sia una fase storica necessaria per i popoli che non lo hanno mai conosciuto, come i popoli aborigini dell’australia tutt’ora, o i popoli asiatici del XIX secolo.
L’uomo, come del resto molti esponenti del movimento operaio -marxisti e marxisti- avevano cercato di affermare ad inizio secolo, in reazione al determinismo della II Internazionale, da Lenin stesso al Mussolini del 1914, interagisce liberamente, con le proprie azioni organizzate, sui condizionamenti sociali e sugli eventi storici, cercando di utilizzarli nel quadro delle proprie strategie politiche di cambiamento. Com’è nata la Rivoluzione d’Ottobre –rivoluzione contro “Il Capitale”, secondo il giovane Gramsci, ancora influenzato dall’attualismo gentiliano- se non da una libera interazione fra l’azione politica del quadro dirigente del partito bolscevico, le contraddizioni della società zarista e i contraccolpi disastrosi della guerra?
Dunque la categoria centrale di Marx, partendo dal piano antropologico –quello che, secondo Preve, dovrebbe essere ripreso e fondato teoreticamente con più coerenza da un’ontologia sociale e storica dell’uomo- , non è la necessità ma la possibilità come potenza aristotelica, essente-inpossibilità. In questo senso, è nelle possibilità del capitalismo di essere il terreno di coltura del comunismo, a patto che i comunisti sappiano creare una coscienza collettiva che ne renda attraente l’idea, di fronte alle contradddizioni dell’esistente.
In secondo luogo Marx è pensatore di una forma di libertà individuale che non si può confondere con l’ndividualismo borghese, neppure nelle varianti estreme che esso ha assunto oggi, con quella che Del Noce chiamava la “rivoluzione radicale”; anzi ne è l’antitesi. E su questo terreno tornano ad essere posti sotto accusa i marxismi, in modo particolare quelli radicati nella grande pagliacciata del ’68 e nei velleitarismo democratici del comunismo occidentale. Questi e ad altri marxismi non hanno mai compreso la particolarità dell’individualismo sociale di Marx e lo hanno confuso con le nuove forme di individualismo borghese, sorte con il passaggio dall’autoritarismo patriarcale alla rivoluzione radicale, e che attraevano spontaneamente il mondo giovanile e femminile: sesso libero, viaggi liberi, musica stravagante, ecc. Su questi comodi fraintendimenti teorici, sulla confusione culturale fra la libertà del comunista e l’orgasmo onanista della femminista, si è poi innestata una precisa, semplicistica e forse anche squallida operazione politica: fare di questa ondata di individualismo radicale e di Pannella il fondamento antropologico-culturale della “Via italiana al
socialismo”. I risultati finali sono, da un lato, la correttezza istituzionale e furbesca di Violante, dall’altro lato, i tossici dei “centri sociali”.
Scrive Preve: “Il marxismo storicista italiano dell’ultimo cinquantennio non ha mai capito letteralmente nulla di questo elementare problema, con la tragicomica conseguenza di scambiare la modernizzazione dell’individualismo borghese nel suo passaggio dall’autoritarismo patriarcale alla liberalizzazione ‘radicale’ (nel senso di Pannella, non di Marx) con la progressiva avanzata storicista della via italiana al socialismo. Si tratta di una vera vergogna culturale nazionale, di cui provo veramente imbarazzo…Il solo pensatore italiano che ci ha capito qualcosa è stato Augusto Del Noce … aveva capito … che la dinamica della modernizzazione radicale del costume non portava assolutamente a un avvicinamento alla transizione parlamentare al socialismo sognata dai visitatori dei Festival dell’Unità, ma al più sicuro e solido assestamento delle società ultracapitaliste”.
Nell’analisi di Preve ci sono però, a nostro personale modo di vedere, due convitati di pietra, cioè due questioni di primaria importanza che rimangono sullo sfondo e non vengono prese in esame. La prima è la dialettica fra l’Illuminismo e il pensiero di Rousseau, che si travasa in gran parte nel giacobinismo francese del 1793. La seconda è il modo in cui Marx vi si rapporta, nella riflessione teorica e nell’azione politica, fra il 1843 e il 1848, anni che vedono anche il conflitto con Weitling all’interno della Lega dei Comunisti tedeschi.
L’Illuminismo, sin dai suoi prodromi greci con la scuola dei Sofisti, pone un problema reale di emancipazione dell’uomo ad una condizione di maturità razionale, in base alla quale ogni individuo valuta liberamente credenze e istituzioni cui aderire. Storicamente, sin dall’età di Pericle, questa esigenza di libertà cresce entro forme economiche mercantili avanzate e ne è condizionata fortemente, assumendo l’aspetto dell’ “individualismo possessivo” –per usare l’efficace terminologia di Macpherson: una cultura tendenzialmente individualista e utilitarista che nega il valore di ogni seria esperienza religiosa umana e, quindi, di fatto, si fonda su un’antropologia materialistica e sensista, come quella di Protagora –nell’interpretazione di Platone- e di Hobbes. Fra sei e settecento, l’ascesa del capitalismo e la modernità borghese si legano a questa linea di pensiero che pensa l’uomo come un “bourgeois” mandevilliano, ripiegato egoisticamente sui propri interessi materiali, entro rapporti sociali esasperatamente individualistici, alienanti e conflittuali. Rispetto ad essa, il pensiero di Rousseau rappresenta un tentativo di far rientrare l’uomo entro valori di integrazione comunitaria, tipici delle società e delle culture tradizionali, fondati su basi religiose. Si tratta di una reazione critica alla modernità borghese e illuminista, che confluirà nell’ideologia giacobina del “citoyen”, radicata in una profonda esigenza di spiritualità che già rendeva la figura di Robespierre invisa ai contemporanei inbevuti di illuminismo ateo (come Danton o Fouché), e a storici di orientamento radicaldemocratico come Michelet od Aulard, che lo accusano di aver impedito la liquidazione del cattolicesimo in Francia, considerata la finalità politica ultima di Voltaire e del movimento dei Lumi.
Che Robespierre sia uno spiritualista ed abbia una visione rivoluzionaria comunitaria e sociale, fondata su una fede religiosa, il cui momento culminante sarà l’istituzione in Francia del culto ufficiale dell’Essere Supremo, è, a nostro giudizio, un dato storico non più confutabili, a partire dal saggio di Henri Guillemin, Robespierre politico e mistico (Garzanti, Milano 1989). Ma sono orientamenti mediati dal pensiero di Rousseau, che sin dalla loro origine si muovevano in polemica esplicita e consapevole con la filosofia del Lumi e con i valori del “bourgeois”, di cui essa era portatrice, sulla scia del giusnaturalismo di Locke e sulla base dell’emergente, sempre più impetuoso sviluppo delle forze produttive capitalistiche.
Di conseguenza le dicotomia Voltaire-Rousseau, Girondini e Giacobini non possono essere inquadrate entro la comoda contrapposizione libertà-uguaglianza, interna al razionalismo illuminista, ancora dominante nelle pigre vulgate accademiche, sia di destra, sia di sinistra, accomunate dal rifiuto pregiudiziale di riconoscere il carattere alternativo radicale della filosofia di Rousseau, rispetto all’Illuminismo, e conseguentemente della visione rivouzionaria robespierrista, condivisa da Saint Just, rispetto alla prospettiva di rivoluzione liberale e giacobina, incarnata dalla Gironda e dai Termidoriani.
Queste considerazioni non sono lontane dall’argomento di questa recensione, per quattro fondamentali motivi. In primo luogo, con il babeuvismo e Buonarroti, il robespierrismo, con tutte le esigenze di virtuosità, di ascetismo spirituale, di semplicità di vita e con tutti i limiti di arcaismo, di cui esso è portatore, rappresenta la cultura dominante del movimento socialista francese del primo ottocento. Fa sentire la sua influenza decisiva anche nelle correnti originarie del comunismo tedesco con Weitling, che ne è palesemente inbevuto. Sino al 1848, il solo Proudhon fa sentire una voce contraria a questa impostazione rousseauiana e giacobina; una voce radicata nell’Illuminismo e nel liberalismo più autentico, che l’aveva sottoposta a critica con B.Constant, nel 1819, nel nome della libertà dei moderni contrapposta a quella degli antichi.

In secondo luogo, Marx, che è, per parte di padre, di formazione mentale illuminista, nella Questione ebraica, miconosce l’alternatività di Rousseau rispetto all’Illuminismo e del giacobinismo rispetto alla rivoluzione liberale e borghese, impostando la dicotomia interpretativa citata libertà-uguaglianza, 1789 liberale contro 1793 egualitario e democratico, su cui è ancora comodamente e pigramente adagiata quasi tutta la sinistra politica e culturale. Rousseau e Robespierre sono dunque la componente più radicale e contraddittoria del pensiero illuminista. In questo ordine di idee non ci sono motivi per predere sul serio le loro istanze religiose: o sono sottaciute, o vengono minimizzate e razionalizzate, classificate sic et simpliciter come espressioni di deismo, come fatto dallo stesso A.Mathièz.
Con ciò si arriva direttamente alla terza considerazione: Marx ha una visione riduttiva dell’esperienza religiosa, come esperienza alienante, espressione di una società alienante; e ciò è molto chiaro proprio nella già citata Questione ebraica. Di conseguenza, la proprosta di una forma di libertà superiore a quella borghese viene esplicitamente fondata sull’ateismo, sulla tendenza distruttiva ad abbattere e a sradicare ogni tradizione religiosa, che richiama proprio l’Illuminismo più astratto, quello che spingeva un D’Alema ante litteram come Fouché a scrivere, sul portone d’ingresso dei cimiteri, “la morte è un sonno eterno”; iniziativa che trovò il suo critico più intransigente in Robespierre, che la denuncia con forza nel grande rapporto, tenuto alla Convenzione Nazionale, il 20 Pratile, sull’istituzione della Festa dell’Essere Supremo.
In quarto luogo, Marx, contrapponendosi a Weitling fra il 1846 e il 1848, ebbe un ruolo essenziale nel distruggere l’egemonia giacobina all’interno del primo comunismo tedesco, con le ricadute a catena che si possono immaginare su tutto il movimento europeo, dato il primato che il suo pensiero vi conseguirà a distanza di alcuni decenni. La contrapposizione fu fra volontarismo puro e radicamento nella realtà storica, fra utopia e scienza, ma anche fra una cultura sentimentale, misticheggiante, premoderna e una cultura fortemente razionalista e scientista, dichiaratamente ostile ai valori religiosi, marchiata dall’Illuminismo più astratto e voltairiano. Ne può conseguire, ove s’indeboliscono la componente dialettica di Marx, l’eredità etica e comunitaria dei Classici Tedeschi, una mentalità affine a quella borghese, aperta a valorizzare tutto ciò che è progresso o presunto tale, scienza, tecnica moderna, liberazione da tradizioni ancestrali, ecc. E allora perchè, se la storia ha conquistato lo stato laico, consentire alle ragazze musulmane il velo a scuola? Perchè non ingaggiare una furiosa battaglia politica contro i cattolici, per consentire lo svolgimento del Gay pride a Roma, in pieno Anno Santo, salvo poi recriminare sulle loro scelte elettorali l’anno successivo?
Naturalmente queste nostre considerazioni non pretendono esaustività e non tolgono nulla al valore dell’opera di Preve. Sono solo uno dei tanti tasselli del mosaico della storia del pensiero e della cultura umane, in questo caso relativa agli ultimi tre secoli e al marxismo, sui quali riflettere, dando sempre per scontata la grande lezione di Hegel: il Vero è il Tutto, non esiste mai una sola e singola causa di un evento, piccolo e grande che sia.

  Prof. Renato Pallavidini

martedì 19 aprile 2011

La storia di Lucio Colletti, un modello di estremo interesse teorico


Lucio Colletti

di Costanzo Preve 

I parte

1. La recente pubblicazione in lingua italiana di un libro di grande interesse storico e teorico (cfr. Orlando Tambosi, "Perché il marxismo ha fallito. Lucio Colletti e la storia di una grande illusione", Mondadori, Milano 2001, £. 38.000) può essere l'occasione per tornare su di un insieme di problemi ancora aperti. Oggi può sembrare che l'arco di temi filosofici e scientifici posti negli anni cinquanta e sessanta da Galvano Della Volpe e Lucio Colletti sia ormai pura archeologia ideologica ed oggetto di tesi di laurea di storia delle idee minori. Ma non è così. Oggi il "silenziamento" sulla discussione del marxismo, italiano ed internazionale, non è un fatto spontaneo della società civile delle persone colte, ma è un fatto politico voluto dai centri di potere editoriale, giornalistico ed universitario. Lo stesso libro di Tambosi, con tutta probabilità, esce semplicemente perché la Mondadori ha una sua berlusconiana strategia editoriale anticomunista, dal libro nero del comunismo all'ultima demenziale sintesi sul Novecento di Robert Conquest (cfr. "Il secolo delle idee assassine", Mondadori, Milano 2001). In ogni caso il libro di Tambosi, edito con il rituale congedo dal comunismo del suo autore, alter ego di Lucio Colletti, merita di essere letto e merita anche qualche commento.

Per chiarezza espositiva, tenendo conto anche della tirannia dello spazio, proporrò al lettore tre ordini di commenti. In primo luogo, è necessario tornare brevemente su Galvano della Volpe, il maestro di Colletti, il cosiddetto dellavolpismo come galileismo morale anti-hegeliano e sulla natura del suo programma di ricerca.. Su questo punto, dirò esplicitamente la mia opinione, per non lasciarla faticosamente indovinare da rimandi impliciti e poco chiari. In secondo luogo, naturalmente, bisogna parlare esplicitamente di Lucio Colletti, ma per poterlo fare in modo chiaro bisogna separare a mio avviso tre distinti problemi, e non confonderli. Primo, occorre proporre un bilancio, sia pure telegrafico, sul Colletti "marxista", o più esattamente sulle caratteristiche originali della sua interpretazione di Marx. Secondo, occorre mettere a fuoco bene il nucleo teorico del "congedo" di Colletti dal marxismo, il modo in cui fu argomentato e la sua pertinenza specifica, indipendentemente da ogni moralismo regressivo sul suo essere traditore o "rinnegato", come fu fatto negli anni Settanta in modo ideologico, ma anche improprio. Terzo, occorre richiamare l'attenzione sul quarto di secolo (1975-2000) del Colletti post-marxista e anti-marxista e sulla sua pittoresca sterilità, per cui di Colletti è proprio possibile dire quello che a suo tempo Krahl ha detto di Adorno, per cui "non ha saputo congedarsi dal proprio congedo".

In terzo luogo, per finire, è bene fare alcuni rilievi specifici al libro di Tambosi, ed in particolare alla sua replicazione clonata del congedo dal marxismo, dal comunismo e dall'anti-capitalismo. Questo congedo unificato, che per questo è un congedo fasullo, è il vero problema teorico del libro, su cui varrà la pena dire qualcosa.

2. Galvano Della Volpe (1895-1968) è stato uno dei più grandi filosofi marxisti italiani del Novecento. Questo mio giudizio non è certamente dovuto ad una mia vicinanza alle sue tesi, da cui sono invece lontanissimo, situandomi anzi alle sue antipodi. A mio avviso, infatti, il marxismo, nella misura e nei limiti in cui può essere correttamente definito una scienza, più esattamente una scienza sociale unitaria dei modi di produzione sociali, non è una scienza nel senso della rivoluzione scientifica moderna, di Copernico e di Galileo, di Newton e di Darwin, ma è una scienza filosofica nel senso originariamente dato a questo termine da Fichte nel lontano 1794. Questa mia ferma e meditata convinzione sta agli antipodi di Della Volpe e di Colletti. Mantengo però il mio giudizio su Della Volpe come uno dei massimi filosofi italiani del Novecento, perché un giudizio storiografico non deve essere mai un giudizio di affinità o di elezione personali, ma sempre e solo un giudizio di livello di un pensiero e di effetto storico da esso avuto.

Costanzo Preve

Della Volpe, considerato da molti un campione dello anti-hegelismo, o anche un campione della tradizione Aristotele-Kant opposta a quella Platone-Hegel, fu in realtà storicamente un prodotto della reazione italiana non tanto a Hegel, quanto a Benedetto Croce ed al crocianesimo, in compagnia di pensatori diversi come Nicola Abbagnano e Norberto Bobbio. Da un punto di vista teorico, la sua critica globale alla dialettica, integralmente ripresa da Lucio Colletti che poi trasformò la stessa critica alla dialettica in una metafisica positivistica di combattimento, non presenta assolutamente alcuna originalità storica, perché si tratta della ripresa pura e semplice, quasi fotocopiata, della critica già rivolta a suo tempo a Hegel nel 1840 nelle "Ricerche Logiche" di Trendelenburg. E' ovviamente il contesto storico ad essere diverso, in quanto fra il 1840 e il 1950 c'è in mezzo Marx, il marxismo e il problema del rapporto fra Hegel e Marx, che è poi il tradizionale modo sbagliato di indicare in forma fuorviante un problema completamente diverso, quello del rapporto fra filosofia e scienza, o più esattamente fra presupposto filosofico e metodo scientifico, in tutta la dottrina marxiana e poi marxista nelle sue varie forme antagonistiche.

Della Volpe propose di sviluppare il marxismo come "galileismo morale". Con questa espressione, per essere più analitici, si intende una scienza sociale costruita secondo il modello seicentesco di Galileo e non secondo il modello della scienza filosofica dell'idealismo tedesco di Fichte e di Hegel, un modello che viene visto come la ripresa moderna del neoplatonismo mistico, quanto di peggio e di più contrario ci sia alla scienza moderna. In proposito, la posizione di Della Volpe non si configura soltanto come un anticrocianesimo integrale, ma come un rifiuto radicale (per me incomprensibile) di prendere anche solo in esame le osservazioni di Husserl sull'impossibilità di applicare direttamente al mondo umano e sociale i modelli quantitativi e sperimentali della scienza seicentesca della natura. Queste osservazioni si possono accettare o respingere, ma sono comunque pertinenti, e non ce se ne libera semplicemente ignorandole o mettendole nei calderoni dell'irrazionalismo, della new age e dei tarocchi (secondo un'abitudine che poi Colletti portò a livelli tragicomici). Per chiarezza verso il lettore, mi trovo costretto nel prossimo punto a dire telegraficamente perché mi sembra che il modello del "galileismo morale" non sia compatibile con il progetto di Marx.

Segue,  http://www.kelebekler.com/occ/colletti02.htm

domenica 3 aprile 2011

Il comune che verrà. Appunti per ripensare il legame sociale nell’epoca della comunicazione in rete
 


Davide Borrelli

Uno spettro si aggira nel mondo, ma questa volta non si tratta dello spettro del comunismo. E’ piuttosto lo spettro del comune, o meglio della comunanza, che esprime la tensione a costruire un orizzonte condiviso tra entità che si trovano in condizioni di differenza. Diversamente dal comunismo, la passione del comune non si esprime in un manifesto ideologico né si concretizza in uno specifico programma d’azione. Per essere precisi, non costituisce neanche una categoria politica, dal momento che si manifesta come un’istanza che è insieme prepolitica, impolitica e postpolitica. Prepolitica, perché ha la forza energetica di un sentire. Impolitica, perché contesta al politico la pretesa di rappresentare la totalità dell’umano. Postpolitica, perché dispiega un nuovo orizzonte di senso e fornisce una nuova agenda per il terzo millennio, in cui trovano spazio pratiche, esperienze, soggettività e forme di vita associata rimaste per lo più in ombra e impensate nel corso della modernità.

Viviamo in tempi di globalizzazione e di comunicazione in rete, fattori che contribuiscono particolarmente ad alimentare l’esigenza che abbiamo di rimettere a fuoco e ripensare il concetto di comunità. Recentemente sono stati pubblicati diversi saggi che affrontano, a partire da differenti punti di vista ed ambiti disciplinari, questo tema, e si interrogano su come sia possibile immaginare nuove forme di socialità al di fuori delle appartenenze date (di classe, di nazionalità, di cultura, di identità ed orientamento sessuale, di etnia, di religione), in grado di garantire insieme le condizioni del massimo sviluppo del sé e della più ampia inclusione del diverso.

Come ogni tradizione di pensiero, anche quella che fa riferimento al comune ha i suoi pionieri e i suoi progenitori illustri. Uno di questi è Georges Bataille, cui Fausto De Petra dedica una monografia che ha il merito di posizionare il filosofo francese tra i classici del pensiero sulla comunicazione. De Petra ne ricostruisce puntualmente l’itinerario teorico che lo ha portato dal bisogno di ripensare l’idea di comunità ad una nuova nozione di comune e di comunicazione.

Lo smarrimento della comunità è la cifra del moderno, che ha messo al centro del mondo sociale la figura dell’individuo come soggetto isolato e autoconsistente. Contro l’autosufficienza dell’individuo moderno si muove il progetto comunitario di Bataille, teso a valorizzare la forza del “religioso” come esperienza sovrana che trascende l’ego e fonda le passioni del legame sociale. D’altra parte, il problema di ogni anelito comunitario è di evitare la sostanzializzazione della comunità, ossia di impedire che l’essere-in-comune si trasformi in un essere-comune totalitario che sopprima la singolarità dei soggetti che vi si riconoscono. Per Bataille la comunicazione non è l’atto di una soggettività compiuta e formata che trasmette agli altri le proprie esperienze. Si comunica, al contrario, a partire da un’intrinseca insufficienza ed incompletezza ontologica. E la comunicazione, d’altra parte, non è trasmissione di esperienze, ma essa stessa esperienza nel suo farsi, se è vero che ogni es-perire si risolve in un movimento es-tatico che conduce al di fuori, nell’ex in cui è esposta l’identità.

Come scrive De Petra, “la comunicazione non può ‘colmare’ l’incompiutezza degli esseri ma li vota, al contrario, a uno scambio infinito, consegnandoli al desiderio del desiderio, all’eccesso che li vota all’aperto” (pag. 107). Una nozione di comunicazione, quella che ci proviene da Bataille, che appare completamente diversa dall’idea che oggi ci è familiare. Quando pensiamo alla comunicazione, tendiamo generalmente a riferirci all’insieme delle pratiche e dei saperi che ci mettono in condizione di raggiungere in maniera più efficiente il destinatario del nostro messaggio. Chi comunica è un soggetto ben definito che si propone di trasmettere un messaggio ben circostanziato ad un altro soggetto, a sua volta ben individuato: la comunicazione è un processo che avviene tra ipseità chiuse e ripiegate sulla propria interiorità. Quello che viene meno in questa prospettiva, che è poi essenzialmente quella dei professionisti della comunicazione, è proprio il carattere, che Bataille invece riteneva fondante, della comunicazione come esperienza del fuori, ovvero come eccedenza rispetto ai limiti della forma individuata.

Che cos’è e come è possibile, dunque, il comune alla luce di questa concezione della comunicazione? Se i soggetti trovano nel comunicare una forza che li espropria da se stessi, il comune non può risolversi in un rassicurante processo di identificazione nel medesimo (negli stessi valori, nella stessa cultura ecc.), ma deve consistere in un movimento di alterazione che pro-voca, cioè chiama ciascuno ad affacciarsi oltre i bordi della propria identità e lo espone all’alterità.

Anche la sfera dell’economia ha riscoperto e capitalizzato il valore del comune come ci spiegano nella loro ultima opera Antonio Negri e Michael Hardt. Il modo di produzione capitalistico che si è fondato tradizionalmente sull’accumulazione privata di risorse materiali, oggi non può fare a meno di energie simboliche e immateriali che si generano autonomamente nel mondo della vita, ovvero nello spazio del comune, inteso come “tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via” (pag. 8).

Mentre un’economia materialista fondata prevalentemente sulla produzione di beni di consumo necessita di forza lavoro fisica, un’economia postmaterialista che ruota intorno all’erogazione di servizi avanzati si avvale dell’intera vita dei knowledge workers in tutte le sue espressioni cognitive, emotive e comunicative, anche al di là della loro specifica prestazione professionale e non necessariamente nei limiti del tempo di lavoro.

Diverso è anche l’idea di soggettività che è al centro di queste diverse forme economiche. Il soggetto dell’economia materialista è l’individuo, identificato da un ruolo specifico e chiuso ad ogni processo che non sia pertinente alla funzione sociale ed economica che si trova a svolgere. Il soggetto di un’economia postmaterialista o della conoscenza è, invece, il singolo, la cui cifra esistenziale consiste nell’incompiutezza, e dunque nello slancio e nell’apertura al poter essere altrimenti. Nel primo caso il soggetto è un atomo chiuso in se stesso, nel secondo è un’onda che non si dà se non in relazione con ciò che si trova al di fuori di sé. L’idea della soggettività come “onda” costituisce il lascito più prezioso sulla comunicazione di Georges Bataille. L’esistenza umana viene così ridefinita come un nodo di comunicazioni reali, il cui flusso non è riducibile a un punto isolato. La comunicazione, in altre parole, non è mai un processo che interviene tra soggetti dati e compiuti, ma il clinamen che li costituisce in quanto tali, e che non smette mai di tenderne i confini e modificarne la forma.

Del senso del comune si è occupato recentemente anche il sinologo François Jullien in un saggio dedicato al dialogo tra culture. Muove dalla constatazione che gli attuali processi di globalizzazione mettono al centro del dibattito la necessità di ripensare i principi e le condizioni che regolano il vivere in comune. Il mondo si è ormai dilatato fino ad accogliere sul medesimo palcoscenico globale universi culturali da sempre periferici e modi di essere che sembrano refrattari al canone dei valori occidentali. La condizione di connettività planetaria in cui viviamo fa sì che non sia più possibile ignorare, come avveniva in passato, queste forme di alterità, e rende quindi sempre più ineludibile il compito di elaborare un orizzonte comune di cui ciascun soggetto culturale possa sentirsi a buon diritto parte.

Ma c’è un rischio nel doveroso compito di assicurare il dialogo tra culture. Il rischio che il comune che dobbiamo costruire possa essere esemplificato sui principi dell’universale o dell’uniforme. E invece è bene sottolineare che il comune non coincide con l’universale, dal momento che quest’ultimo poggia su un’istanza (quella di una ragione astratta e oggettiva che prescinda dalle esperienze dei singoli) che è tutta dentro la cultura occidentale, e che altrove non trova equivalenti né possibilità di essere condivisa in quanto tale. D’altra parte, il comune non è neanche l’uniforme, essendo questo solo l’effetto di una necessità economica di riproduzione seriale di stili di vita e standard produttivi o normativi.

Ma se il comune non può discendere dall’universale né tanto meno può essere confuso con l’uniforme, allora come è possibile articolarlo? Intanto, secondo Jullien va precisato che quello di comune non è un concetto logico (come l’universale) né economico (come l’uniforme), ma eminentemente politico, nel senso che riguarda le condizioni che ci fanno appartenere alla stessa polis. Tra l’universale e il comune vi è la stessa differenza che separa qualcosa che viene prescritto da qualcosa a cui ci si impegna a partecipare, il che vuol dire che nella prospettiva del comune “il dover essere viene considerato non più tanto come qualcosa di preventivamente stabilito, quanto come qualcosa da insegnare e conquistare (pag. 23). Se l’universale opera sul piano di una totalizzazione di principio, il comune è il frutto laborioso di un’estensione progressiva che si acquisisce giorno per giorno attraverso il confronto, anche arduo e rischioso, con l’altro. L’universale ha come contrario il singolare, il soggettivo, ciò che non si lascia riassorbire all’interno della sua normatività impersonale, al punto che per il soggetto l’istanza dell’universale resta priva di significato e diventa comune, nel senso di banale, come qualcosa che si presenta privo di interesse ai suoi occhi, lontano dal suo personale orizzonte di senso e di valore. Il comune, essendo un compito infinito che si realizza per inclusioni progressive nel corpo a corpo con l’alterità, ha invece come opposto il proprio, che è precisamente ciò che arresta il divenire del comune e genera il comunitarismo, ovvero quella formazione reattiva al globalismo fa del ripiegamento identitario lo strumento per escludere e mettere al bando l’altro. Il comune non è, in altri termini, qualcosa che si detiene in forma di proprietà collettiva, è piuttosto, ancora una volta, un fattore di espropriazione che impedisce ai soggetti di compiersi e li proietta ec-staticamente al di fuori di sé. Riaffiora, così, anche nella riflessione di Jullien quella linea di pensiero sul comune e sulla comunicazione che da Bataille porta fino a Nancy.

Dal superamento dei limiti dell’individualità proprietaria al modello del crowdsourcing telematico la strada verso la valorizzazione (in senso sia simbolico che materiale) del comune è ormai tracciata. Che cos’è infatti il crowdsourcing se non la possibilità di forzare i limiti della condizione di persona individuale e generare uno spazio di informazione fluido ed un ambiente cognitivo accresciuto, capace di articolare insieme le onde di soggettività che altrimenti rimarrebbero allo stato di atomi dislocati ciascuno al proprio posto? Clay Shirky ci racconta con dovizia di particolari alcuni casi di cooperazione e di messa in comune di risorse cognitive, che il web consente di organizzare in forma più o meno spontanea. Immaginiamo che il tempo che ciascun individuo trascorre davanti alla tv possa essere messo in comune e dedicato ad attività cooperative. Ebbene, la rete fa proprio questo: permette di aggregare il “surplus cognitivo” della gente e di metterlo al servizio della produzione di innovazioni ed azioni collettive. Ci stiamo abituando ad un nuovo modo di intendere i media, che “non sono solo qualcosa da consumare, ma qualcosa da usare” (pag. 47). Internet ci sta altresì formando al superamento di una cultura individualistica, per cui ognuno consuma il tempo libero per conto proprio, e allo sviluppo di una cultura del comune, in cui ciascuno diventa parte di un processo di produzione di senso collettivo.

Ma forse per comprendere le dinamiche di senso che si sprigionano in rete la rivisitazione del pensiero di autori come Bataille e Nancy è meno incongrua, impertinente e spiazzante di quanto apparentemente non sembri.

De Petra, Fausto, Comunità, comunicazione, comune. Da Georges Bataille a Jean-Luc Nancy, DeriveApprodi, Roma 2010.
Hardt, Michael – Negri, Antonio, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010.
Jullien, François, L’universale e il comune. Il dialogo tra culture, Laterza, Roma-Bari 2010.
Shirky, Clay, Surplus cognitivo. Creatività e generosità nell’era digitale, Codice, Torino 2010.

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domenica 27 marzo 2011

La privatizzazione della vita sociale



Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi

1. Il referendum dei lavoratori della Fiat, conclusosi con la vittoria dei SI alla strategia di ristrutturazione aziendale voluta da Marchionne, prelude a mutamenti sistemici dell’economia italiana in senso liberista. E’ dunque giunto al suo “naturale” compimento un processo di destrutturazione del modello di economia mista enunciato dalla carta costituzionale, che prevedeva il controllo, l’indirizzo e lo stesso intervento diretto dello Stato nell’economia nazionale. Alle privatizzazioni delle aziende pubbliche, hanno fatto seguito le riforme strutturali della legislazione del lavoro, con l’introduzione di forme diversificate di lavoro precario, le riforme pensionistiche con l’allungamento della vita lavorativa, le limitazioni della tutela sindacale. La nuova strategia industriale inaugurata da Marchionne, rappresenta di per se il delinearsi di un nuovo modello di sviluppo, suscettibile di applicazione a tutti i settori della produzione. La svolta “Marchionne” sarebbe dovuta all’esigenza prioritaria di adeguare l’economia italiana alla competitività dei mercati internazionali: pertanto essa comporta l’aggancio dei salari alla produttività, la compressione dei diritti sindacali e l’esclusione dalle trattative aziendali di quei sindacati che non accettino i contratti di lavoro proposti dagli imprenditori, oltre alla abrogazione, nei fatti, del contratto collettivo di lavoro. Il nuovo modello di sviluppo è quindi fondato sulla unilateralità del modo di produzione imposto dalla grande industria e dalle banche in relazione alle condizioni, in termini di produttività e competitività poste dal mercato globale. In realtà, quali che siano le prospettive di sviluppo della Fiat – Chrysler, certo è che l’economia italiana ed europea non potrà mai essere competitiva con quella cinese e/o asiatica, data la minima incidenza del costo del lavoro dei paesi emergenti rispetto ai lavoratori europei. Si è comunque determinata una svolta epocale nei rapporti di produzione: è scomparsa la funzione di mediazione dello Stato nei rapporti tra le parti sociali (il governo ha peraltro sostenuto la strategia di Marchionne), si è svuotato di contenuto il ruolo dei sindacati, quale controparte rappresentativa dei lavoratori nelle trattative con l’imprenditore, che a sua volta (nel caso di Marchionne), si dissocia dalla propria associazione sindacale (Federmeccanica), per imporre il proprio contratto di lavoro. I costi sociali di tale trasformazione del modello economico, in termini di salario, tutela sindacale, occupazione, qualità della vita, sono devastanti. Ma, soprattutto, occorre evidenziare come la ristrutturazione industriale imposta da Marchionne si realizzi nel contesto di una fase storica in cui si verifica nella società italiana una trasformazione sociale e culturale che potremmo definire “privatizzazione della vita sociale”. Infatti, nell’ambito della giustizia civile l’orientamento riformatore è quello di sviluppare la pattuizione privata, la conciliazione, un tipo di contrattualistica in cui le leggi derogano alla trattativa tra le parti. Nel campo penale, la depenalizzazione di molte fattispecie di reato, il massiccio ricorso al patteggiamento, sono fenomeni di analoga ispirazione. Nello stesso diritto del lavoro tutta la legislazione sul lavoro precario e flessibile, è, nei fatti, sostitutiva dei principi della contrattazione collettiva, e della stessa contrattazione aziendale, già diffusa in altri settori (vedi il tessile), prima del “modello” Marchionne si sostituirà nel tempo la contrattazione privata individuale. Sta emergendo un processo riformatore in cui gli organi legislativi e giurisdizionali dello Stato vengono estraniati dalle loro funzioni istituzionali: il legislatore abroga se stesso, eliminando l’intervento dello Stato come fonte normativa primaria e devolvendo alla sfera privatistica la regolazione dei rapporti tra le parti sociali, il giudice è destinato asvolgere una funzione giurisdizionale limitata alla legittimità, estraniandosi cioè dal merito delle controversie tra i cittadini.

R. Penso che la formula da te impiegata “privatizzazione della vita sociale” sia estremamente felice, e possa servire da bussola concettuale per una corretta ricostruzione storica e culturale di ciò che ha preceduto la situazione attuale. Ciò che correttamente il sindacato FIOM-CGIL chiama il “ricatto Marchionne” è in realtà il “modello globalizzato Marchionne”, e senza capirne la logica diventa impossibile opporvisi se non in modo puramente lamentoso e testimoniale. Benché preti, politici, giornalisti e clero universitario parlino di “responsabilità sociale dell’impresa” ad ogni piè sospinto, in realtà l’impresa è responsabile soltanto verso i profitti dei propri azionisti, ed il resto è secondario. Cerchiamo allora nella storia degli ultimi secoli un filo conduttore che ci permetta di andare un poco più in profondità.

In tutte le società precapitalistiche la privatizzazione integrale della vita sociale era non solo impossibile, ma anche concettualmente inconcepibile. Questo non significa affatto che esse fossero moralmente “migliori”, ed ogni nostalgismo di questo tipo ci porta fuori strada. E’ interessante che lo stesso termine latino privatus non alludesse ad una situazione originaria di libertà ‘“naturale”, ma indicasse al contrario l’operazione di “priva- zione” dal godimento della proprietà comunitaria dell’ager publicus, che in realtà “pubblico” in senso moderno non lo era per niente, ma si riferiva ad una comunità tribale fortemente gerarchica ed inegualitaria. Il fatto che essere “privato” volesse dire essere forzosamente privato di qualche cosa (il godimento comunitario dei beni), mentre il “pubblico” alludesse ad un particolarismo tribale gerarchico (le gentes) non è solo una curiosità etimologica, ma è uno stimolo per uno spaesamento concettuale necessario per farci relativizzare i significati attuali dei termini, che sono storici e non “naturali”.

Il modello politico e sociale della polis greca classica era fondato su di un modo di produzione sociale di piccoli produttori indipendenti, e non era affatto correlato ad un modo di produzione schiavistico sviluppato, secondo una tradizionale confusione cui sono caduti pensatori diversi ed incompatibili come Nietzsche, Hannah Arendt, Stalin ed il marxismo classico. Ed è questa la ragione per cui Marx fece sempre riferimento alla polis greca classica, vedendo in essa un esempio certo di sfruttamento, ma non di alienazione vera e propria. La separazione dei concetti di sfruttamento (Ausbeutung) e di alienazione (Entfremdung) è concettualmente necessaria, perchè il modo di produzione capitalistico è il primo ed il solo in cui si verifica la piena fusione di entrambi. Solo la norma dell’accumulazione illimitata di valore, infatti, permette di incorporare integralmente i processi di sfruttamento (che caratterizzano tutte indistintamente le formazioni sociali classiste) all’interno del processo di alienazione, cioè di espropriazione integrale dello stesso processo lavorativo sociale, al di là della precedente distribuzione ineguale del plusprodotto.

Questo – val la pena ripeterlo senza stancarsi – non comporta assolutamente conclusioni ‘’nostalgiche” nei confronti delle società caratterizzate dal dispotismo orientale oppure, in Europa, dal feudalesimo e dal dominio nobiliare. Il problema non sta qui, ma sta nella corretta individuazione della genesi storica della società caratterizzata dalla privatizzazione della vita sociale. Anche se solo oggi questa privatizzazione della vita sociale è diventata scandalosamente visibile (e lo è diventata perché si è globalizzata), è bene ricordare che già fra Settecento ed Ottocento sono già riscontrabili sintomi di questa visibilità, soprattutto nell’interpretazione idealistica della natura del precedente illuminismo (Aufklärurng). Ciò che cercherò di sviluppare in questa mia prima risposta è appunto una tesi, per cui progressivamente il punto di vista integralmente individualistico e privatistico dell’empirismo inglese ha sostituito il punto di vista certamente ancora classistico, ma anche comunitario, dell’idealismo tedesco cui Marx non è che l’ultimo coerente esponente.

Ma indaghiamo prima il modello dell’idealismo tedesco, e soltanto dopo, quello dell’empirismo inglese, in modo che la “contrastività” del secondo rispetto al primo appaia maggiormente visibile. Il carattere “dialettico”, e quindi contraddittorio, degli esiti della critica illuministica appare già chiaro al primo grande idealista, il prussiano Fichte, figlio di servi della gleba. A differenza di Voltaire e dei suoi successori odierni (ricordo qui solo il giornalista con pretese culturali Eugenio Scalfari), Fichte considera l’illuminismo in termini dialettici, che ritengo nell’essenziale validi ancora oggi. Da un lato, la distruzione illuministica delle pretese metafisiche di legittimazione feudale e signorile (e quindi assolutistica) è interamente giustificata e legittimata, e non c’è traccia di quel “nostalgismo” che invece caratterizzerà i pensatori della successiva Restaurazione (1815-1830). Il vecchio mondo meritava di morire, perchè aveva perduto quella eticità sostanziale che pure era stata in grado di produrre le grandi cattedrali, romaniche e gotiche. Dall’altro lato, però, la distruzione di tutte le precedenti certezze comunitarie, pur necessaria, aveva comportato uno stato di anomia individualistica, di scetticismo e di relativismo nichilistico integrale che Fichte definì in termini di “epoca della compiuta peccaminosità” e più tardi Hegel definì come “risoluzione dell’ascetismo della morale in regno animale dello spirito”. Qui non c’è lo spazio, e neppure la necessità di interpretare analiticamente i due concetti critici di Fichte e di Hegel, ma è sufficiente sottolineare che la diagnosi di potenziale “privatizzazione della vita sociale” era già stata fatta, ed era stata fatta in termini chiari ed addirittura cristallini. Non siamo all’anno zero della critica, se sappiamo restaurare affreschi coperti dai graffiti liberali e postmoderni.

Ci sono molti modi alternativi di esporre e di riassumere il pensiero di Hegel, ma ce n’è forse uno comparativamente e contrastivamente migliore degli altri: Hegel è il pensatore moderno che ha esposto nel mondo migliore la distinzione e nello stesso tempo la complementarietà convergente del Privato e del Pubblico, ognuno sovrano nei rispettivi ambiti. Se questo è vero – come può essere agevolmente dimostrato – partendo da Hegel non si potrà arrivare mai alla privatizzazione della vita sociale. E’ utile ripercorrere sommariamente il suo processo di pensiero, fondato sulla distinzione fra la Moralità (o sfera del Privato) ed Eticità (o sfera del Pubblico), in cui entrambi i momenti sono riconosciuti interamente legittimi.

Hegel inizia concettualmente da una critica, talvolta addirittura eccessiva ed un po’ ingenerosa, nei confronti del diritto naturale (o giusnaturalismo) e del contratto sociale (o contrattualismo). Se pensiamo che il giusnaturalismo ed il contrattualismo ai suoi tempi costituivano il novanta per cento del pensiero politico, ci rendiamo conto della sua rivoluzionarietà e del suo coraggio innovativo. Ma sono le motivazioni che lo spingono a suscitare la nostra postuma ammirazione.

Hegel respinge il diritto naturale, pur riconoscendone il valore storico negli ultimi secoli perchè non accetta che ci sia un presupposto non-storico della storia posto all’origine della storia stessa, e nello stesso tempo sottratto alla storicità costituente. Oggi si direbbe che si contrappone ai miti dell’Origine, che sono inevitabilmente anche dei miti della Fine della Storia (ove la storia è vista in termini di perdita e di successiva ricomposizione di un Intero Perduto). Se ci fosse qui lo spazio per approfondire analiticamente la questione, apparirebbe chiaro che questa posizione è incompatibile con l’interpretazione di Hegel come neoplatonico moderno che vuole ricomporre una totalità organica originaria decaduta (Lucio Colletti), oppure come teorico della fine della storia (Alexandre Kojève). Ma in questa sede ci interessa sottolineare che sia il Privato che il Pubblico sono entrambi prodotti dello sviluppo storico, e non sono presupposizioni giusnaturalistiche astoriche. Hegel critica la teoria del contratto sociale per le stesse ragioni per cui aveva criticato la teoria del diritto naturale. Non c’è e non c’è mai stato un contratto originario, ma all’origine la società si è costituita sulla base di rapporti di forza (nascita del dominio, rapporto fra servo e signore, eccetera). Il moderno rapporto di Privato e di Pubblico è un risultato storico di un processo di incivilimento dialettico progressivo, non la restaurazione di una caduta originaria, bene esemplificata dal mito biblico del peccato originale, radice unica di tutte le successive secolarizzazioni escatologiche. Chi interpreta Marx in termini di secolarizzatore utopico della escatologia giudaico-cristiana (ad esempio Löwith, ed oggi la stragrande maggioranza della filologia universitaria sia moderna che postmoderna, da Habermas a Lyotard) deve dimenticare e far dimenticare che Marx nell’essenziale accetta la critica di Hegel al diritto naturale ed al contratto sociale, la metabolizza e la fa sua, e quindi non è corretto inserirlo nella sequenza (sia pur rispettabile) dei pensatori dell’Origine presupposta e del conseguente Fine prefissato.

Il rapporto fra sfera pubblica e sfera privata è posto da Hegel in modo rigorosamente filosofico, e più esattamente filosofico-comunitario, e non più nel vecchio modo religioso precedente. Per essere chiari, il pubblico interviene sul privato quando c’è un reato non quando c’è un peccato. Il pubblico interviene nel privato quando c’è pedofilia, non certo quando c’è omosessualità. Nello stesso tempo, anche alla famiglia viene conferito un carattere pubblico, nella misura in cui l’educazione dei figli non può che avere un carattere pubblico. La stessa società civile fa parte di una sfera pubblica, perchè il riconoscimento della professionalità e l’assistenza pubblica non possono essere ridotte all’arbitrio di un eventuale “capitalismo compassionevole”.

Non vi è qui lo spazio per esaminare le varie forme di hegelismo posteriore, di destra (Gentile) o di sinistra (hegelo-marxismo). Esse hanno sempre avuto come minimo comun denominatore il rifiuto concettuale di una qualsivoglia privatizzazione della vita sociale, ed ad esse bisognerà tornare per “raddrizzare” l’attuale andazzo privatizzatore. E’ invece utile esaminare la corrente dell’ empirismo individualistico anglosassone, perchè è essa a fare da portatrice ed amplificatrice di questo fenomeno.

Mentre la tradizione dell’idealismo tedesco (nell’essenziale ereditata da Marx nella forma del superamento-conservazione, Aufhebung) permette di salvare l’autonomia specifica sia del Pubblico che del Privato, la tradizione dell’empirismo anglosassone fin dall’inizio è dominata da una tendenza di privatizzazione individualistica integrale del pubblico). L’origine sta forse in una particolare secolarizzazione del calvinismo, una forma di religione che tende a mettere in rapporto diretto e senza mediazioni l’individuo e la divinità, oltre a fare l’apologia dell’arricchimento privato come segnale della elezione divina. Ma già in Hobbes, che pure è completamente ateo e diffida degli estremisti religiosi puritani, è centrale la polemica contro l’antropologia filosofica di Aristotele. Rifiutando la teoria aristotelica per cui l’uomo è un animale politico, sociale e comunitario (politikòn zoon) si rifiuta soprattutto la conseguenza pratico-politica di questa teoria, per cui l’uomo è un animale comunitario capace di calcolo sociale per la divisione giusta ed armonica del potere e delle ricchezze (zoon logon echon). In Locke la proprietà privata è un diritto naturale derivato dal lavoro diretto del primo coltivatore, e non l’effetto di un processo storico di progressiva privatizzazione di una precedente comunitaria (si tratta della concezione che Marx chiamò poi “robinsonismo” riferendosi al personaggio di Robinson Crusoè). La stessa critica di Locke alla categoria metafisica di “sostanza”, lungi dall’essere una innocua operazione gnoseologica, è una metafora politica per la negazione di una sostanza comunitaria che “sta sotto” agli scambi privati fra individui. Ma il punto archimedico di questa privatizzazione filosofica della vita sociale sta in David Hume, e nel suo particolare modo di respingere il contratto sociale che nelle concezioni del tempo era considerato l’elemento che “istituiva” la società. Mentre Hegel (e poi Marx) respingeva la fondazione contrattualistica della convivenza umana perchè considerava il contratto una istituzione puramente privatistica, non adatta a fondare concettualmente la società umana (rifiutando così la concezione della società umana come rete contrattuale di individui privati originari e sottratti alla storicità ed alla socialità costituenti), Hume considera il

contratto sociale inutile, dal momento che la società si istituisce spontaneamente senza contratto sulla base delle attese di scambio reciproche fra venditore e compratore (e Smith, accetterà integralmente questa autofondazione dell’economia su se stessa, con inevitabile posteriore trasformazione del primato dell’economia in dittatura totalitaria della crematistica). Soltanto i manuali di storia della filosofia, capolavori di stupidità istituzionalizzata, possono sostenere che la critica di Hume alla categoria di causalità non nasconde nulla di “sociale”, ma è soltanto un geniale accorgimento gnoseologico. In questo modo, la privatizzazione della vita sociale era cosa fatta, con l’inevitabile primato del modello neoliberale di economia su tutti gli altri ambiti della vita sociale (l’azienda Italia, il giudizio dei mercati, eccetera).

E’ interessante che nell’ultima opera di Toni Negri, questo giocoliere che ricava il suo comunismo anarchico dallo stesso sviluppo della globalizzazione capitalistica, ci sia un’insistita polemica contro la dicotomia di Pubblico e di Privato, in nome di un fantomatico “comune” attinto direttamente da individui onnipotenti animati da una nicciana volontà di potenza intesa come autovalorizzazione energetica individuale. Ma si tratta solo di un sintomo secondario, nel mondo dissociato dei cosiddetti “intellettuali di sinistra”, della provvisoria vittoria del modello dell’empirismo anglosassone sul modello dell’idealismo tedesco. La storia delle idee ha infatti un andamento più ciclico che lineare, dipendendo strettamente non tanto da una logica conoscitiva e veritativa, che resta sempre e solo “ideale” (donde appunto l’idealismo), quanto da una più modesta sociologia degli intellet- tuali accademici, editoriali ed universitari. Oggi il padrone é a Washington, e nel giorno stesso in cui sto scrivendo queste righe (sabato 12 febbraio 2011) i giornali commentano la cacciata dei Mubarak, sostengono che non si tratta di una vittoria del popolo egiziano, pagata con un grande tributo di sangue, ma di una vittoria di Obama e del modello neoliberale dì gestione “democratica” del capitalismo. I rapporti di forza in cui viviamo ci costringono a sopportare impotenti questa dittatura della manipolazione, ma speriamo che si tratti soltanto di una congiuntura temporanea.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2317

mercoledì 23 marzo 2011

Contro l’interventismo “umanitario” bombardatore. Fuori l’Italia dalla guerra, no alle ingerenze imperialiste. Solidarietà alla Libia




Comunicato del laboratorio politico Comunismo e Comunità

Da ormai quattro giorni persiste l’attacco aereo contro la Libia ed i bombardamenti hanno già prodotto decine di morti e distrutto importanti infrastrutture del paese. L’aggressione, di pieno carattere neocoloniale e imperialistico, è stata avallata da un’opportunistica e ambigua risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU approvata dalla maggioranza dei membri con l’astensione di Russia, Cina, India, Brasile e Germania. Tale risoluzione, partendo dalla declamata esigenza di creare una zona di interdizione aerea sui cieli libici, sta avallando di fatto (anche se formalmente non li prevede) i bombardamenti condotti dalla coalizione delle potenze imperialistiche “volenterose”: Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti in primis con l’ausilio di altri paesi, tra cui l’Italia, che ha concesso le proprie basi militari ed inviato suoi aerei da combattimento.


Ancora una volta, con la scusa grottesca dell’intervento umanitario, i paesi occidentali violano militarmente un paese sovrano. La scusa questa volta è stata una ribellione di gruppi dissidenti interni alla Libia da sempre ostili a Gheddafi, circoscritti peraltro alla regione della Cirenaica. Una ribellione almeno in parte foraggiata fin dal principio con armi, denaro e appoggio logistico dagli stessi paesi oggi in prima fila nel lanciare bombe sulla Libia. Questa ribellione armata, che ha ovviamente anche le sue componenti endogene, è stata tuttavia presentata falsamente come rivolta popolare generalizzata, alla stregua delle rivolte popolari avvenute in Tunisia ed Egitto. Per giorni i media al fine di preparare l’opinione pubblica ad accettare la soluzione “inevitabile” dell’intervento armato hanno insistentemente descritto uno uno scenario inesistente: quello cioé di una massa inerme rivoltosa e di un regime spietato che bombarda la folla e il suo stesso popolo. Fonti numerose, analogamente a quanto accadde in Jugoslavia, hanno poi smentito molte delle immagini e dei racconti ad alto impatto emotivo che venivano riportati.


Lo scenario reale interno, va detto, non é di immediata e semplice comprensione e probabilmente sarà conoscibile pienamente quando gli eventi prenderanno una direzione più chiara. Tuttavia a grandi linee si può dire che vi sia stata ed è in corso una ribellione armata relativamente ristretta e territorialmente limitata, di cui non è affatto chiara la composizione sociale e che non ha mai esplicitato con chiarezza quali siano i suoi obiettivi politici (salvo il generico rovesciamento di Gheddafi) e i suoi riferimenti (salvo esporre a più riprese la bandiera della Libia monarchica e filo-coloniale del Re Idris, rievocando così il passato di avamposto dell’imperialismo). A tale ribellione armata il governo libico ha reagito duramente (se la reazione sia stata più o meno sproporzionata o totalmente fuori misura e criminale è assai difficile saperlo) . E’ cosa certa, tuttavia, che alle armi si è risposto con le armi e che, come sarebbe avvenuto in qualsiasi altro paese del mondo, un esercito armato ha risposto ad una ribellione armata. Negli ultimi giorni degli scontri tra truppe governative e ribelli, l’esercito aveva recuperato gran parte del territorio libico finito sotto il controllo dei rivoltosi e la situazione sembrava volgere al termine (vi era stata anche una proposta governativa di cessate il fuoco e amnistia generale per i ribelli). Nel frattempo i paesi sudamericani dell’ALBA avevano proposto una soluzione diplomatica di mediazione congiunta di tutti i paesi per favorire il cessate il fuoco.


Le potenze interventiste, consce del rischio di una situazione che andava normalizzandosi poco a poco), avevano fretta di entrare in scena, determinare per vie dirette la caduta del governo libico (evidentemente fallita tramite la ribellione) e spartirsi le ingenti risorse energetiche del paese strappandole prima di tutto ai libici e in secondo battuta alle potenze concorrenti (tra cui l’Italia) che usufruivano di contratti in loco. E così in fretta e furia, facendo leva sulla cosiddetta “legalità internazionale” si sono adoperati per scatenare quella che si configura contemporaneamente come una guerra di aggressione neo-coloniale e una guerra “mondiale” tra blocchi geopolitici e tra potenze, dove da un lato vi sono gli Stati Uniti e i loro accoliti francesi e inglesi (dove i francesi guidati dal cinico Sarkozy, ormai padre consolidato dell’occidentalismo di regime, appaiono come i più determinati ad assumere un ruolo di spicco); dall’altro vi sono altri paesi emersi come potenze sempre più insofferenti verso la volontà di egemonia (ormai solo politico-militare, non più economica) del blocco occidentale. In proposito va sottolineata l’apparente stranezza del mancato veto posto da Russia e Cina che dall’alto del loro ruolo, avrebbero potuto bloccare la risoluzione ONU. Probabilmente, alla luce delle nette dichiarazioni di indignazione dei due paesi all’indomani dell’attacco si è trattato di un atteggiamento guidato dalla paura che la guerra sarebbe stata ugualmente scatenata, ma sotto l’egida NATO (quindi totalmente fuori dal loro controllo). Da sottolineare lo scontro interno (di cui da tempo vi erano segni premonitori di difficile interpretazione) manifestatosi in Russia tra Putin (cha ha usato parole coraggiose e chiarissime) e Medvedev (che le ha ufficialmente respinte e ridotte a opinione personale del presidente).


L’Italia si trova a giocare la parte più paradossale, imperialistica e insieme servile verso nazioni terze, in quanto paese legato da propri interessi consolidati con la Libia nonché da un trattato di amicizia e reciproco rispetto sovrano, avvenuto con tanto di risarcimento dei crimini coloniali. Il nostro paese si è lasciato vilmente trascinare nella criminale avventura bellica fondamentalmente per due ragioni: 1- ha subito pesantissime pressioni esterne poiché le sue basi mediterranee erano la condizione per un comodo attacco non basato soltanto sul dispiegamento di portaerei in mare; 2- ha ceduto vigliaccamente alle pressioni non solo per paura di ritorsioni, ma anche per sperare di ottenere le briciole della spartizione coloniale della Libia posto che probabilmente la guerra sarebbe stata scatenata ugualmente. Un atteggiamento dunque della peggior specie: prepotente, imperialista e servile.


Il governo (con l’eccezione delle Lega) e l’opposizione (quest’ultima con maggior convinzione e protervia umanitaria), (fatta salva l’IdV) hanno votato a favore del coinvolgimento del paese nell’attacco. Di rilievo la posizione quasi fanatica espressa più volte dal nostro presidente della Repubblica prodigo nel ribadire l’importanza dell’intervento umanitario, legandolo tra l’altro sciaguratamente alla celebrazione dell’unità d’Italia, scatenando quella nazionalizzazione imperialistica delle masse (oggi umanitaristica, ieri razzista, ma ugualmente suprematista) che è il vero scivolamento ed effetto collaterale principale verso cui precipita il senso di appartenenza nazionale (di per sé elemento di forza e solidarismo) quando egemonizzato da forze sistemiche.


Il governo ha mostrato e mostra tutt’ora un evidente imbarazzo nella gestione della vicenda, proprio perché stretto tra i due fuochi dei suoi stessi interessi energetici e geopolitici e della paura di emergenza immigrati di vaste proporzioni, da un lato, e delle pressioni ricevute dalle potenze protagoniste dell’attacco nonché dalla volontà di spartirsi le briciole del paese neo-colonizzato, da un altro lato. Di qui le posizioni di attuale prudenza che però, malgrado le spinte leghiste, non si traducono al momento in nessuna significativa scelta di ripensamento almeno neutralista (come ad esempio ha fatto la Germania fin dall’inizio, naturalmente per proprio interesse).


Siamo di fronte ad un vasto tentativo di riposizionamento strategico delle grandi potenze, in primis degli Stati Uniti (il cui ruolo è in apparenza mascherato dal protagonismo anglo-francese) che tramite le continue aggressioni belliche, le rivoluzioni colorate e le pesanti ingerenze negli affari delle nazioni sovrane tentano di mantenere la propria egemonia nel mondo arginando la forza e l’influenza delle nuove potenze emerse. Come in tutte le fasi di declino, lo scontro interimperialistico diventa diretto ed acceso e chi ne fa le spese sono i popoli e gli Stati che assumono posizioni scomode di autonomia decisionale magari optando per strategie geopolitiche indipendenti.


La Libia di Gheddafi, nel 2003, a seguito dell’invasione dell’Iraq fece scelte in chiave di “riappacificazione” con l’occidente e sottomissione ai voleri nord-americani ed Europei, in buona parte proprio per evitare di finire sotto i colpi assassini delle bombe umanitarie. Le privatizzazioni (parziali) e le liberalizzazioni dell’economia libica evidentemente non sono bastati per accontentare l’imperialismo USA e le scelte geostrategiche di Gheddafi favorevoli alla formazione di un accenno di asse geopolitico inedito (Italia, Russia, in parte la stessa Germania) gli sono costate care.


Inoltre l’Africa, come il MedioOriente e l’Asia centrale è un continente che fa gola alle potenze imperialiste (tra i paesi europei spicca la Francia che ha sempre mantenuto il suo legame post-coloniale), sia come “discarica” delle scorie radioattive, sia come sorgente di rifornimento energetico ed infine come asse geografico di scontro con l’espansione commerciale cinese.


Non possiamo che denunciare con fermezza l’ennesima guerra “umanitaria” devastatrice ribadendo il principio di sovranità degli Stati e dei popoli manipolato ancora una volta dalle Nazioni Unite tramite un vero e proprio colpo interno delle nazioni occidentali.


I problemi interni alla Libia sono e restano problemi della Libia, nei confronti dei quali l’unica ragionevole soluzione è quella di una mediazione diplomatica promossa da tutti i paesi di concerto al solo fine di evitare spargimenti di sangue da una parte e dall’altra (senza ingerenza alcuna nelle scelte politiche sovrane del popolo libico). Ma questo non è naturalmente l’obiettivo dei paesi che hanno scatenato la guerra, dal momento che mentre scriviamo la popolazione del Bahrein è sotto occupazione militare saudita e subisce i colpi della repressione del proprio governo; analoga repressione governativa avviene nello Yemen; la Costa d’Avorio è insanguinata da una nuova guerra civile, i palestinesi subiscono la quotidiana repressione dei corpi di sicurezza israeliani e rimangono imprigionati in uno Stato occupato senza sovranità. La sicurezza e la tutela dei civili privati di diritti e libertà non è evidentemente la preoccupazione delle potenze imperialiste.


La posizione da assumere in queste ore non può essere ambigua. Slogan opportunistici “né Gheddafi, né la guerra” non possono trovare spazio. I giudizi per certi versi anche negativi sul governo Gheddafi e le dinamiche, senz’altro complesse, interne al paese libico fanno parte di tutt’altro piano del discorso che non può essere confuso con le urgenze attuali. Se lo si fa si cade nella confusione interpretativa finendo per legittimare indirettamente l’ottica suprematista e la protervia interventista dei paesi occidentali.


Quello che oggi dobbiamo reclamare con urgenza qui in Italia é:


1-l’immediato ritiro dell’Italia dalla guerra d’aggressione.


2-la chiusura di tutte le basi militari alle forze armate aeree straniere.


3-l’assunzione esplicita da parte dell’Italia di una politica autonoma e sovrana di contrarietà all’aggressione militare e di riabilitazione del trattato di non aggressione e non ingerenza italico-libico.


Esprimiamo inoltre un messaggio di esplicita solidarietà alla Libia aggredita, rivendicandone il diritto naturale alla resistenza contro gli occupanti.


Ci sentiamo vicini a tutti quei comunicati che sono stati diffusi in questi giorni i cui contenuti e le cui priorità si accostano a quelle qui espresse. Ribadiamo inoltre la necessità di un coordinamento il più ampio e trasversale possibile di tutte le forze contrarie alla guerra e favorevoli all’assunzione da parte dell’Italia di una politica autonoma di pace.

La redazione, www.comunismoecomunita.org

sabato 12 marzo 2011

Acéphale




I miti moderni sono fascisti per natura?

Sugli stessi problemi che ora riguardano la crisi della sinistra e le attrattive acquisite dalla macchina del fascismo si erano interrogati sia Furio Jesi, che, quarant'anni prima, Bataille, Caillois e gli altri «congiurati» raccolti intorno alla rivista «Acéphale» La crisi della capacità comunicativa della sinistra non si limita alla sola incomprensione della realtà e delle sue modificazioni, ma investe, ben più gravemente, il piano simbolico. Infatti, ad essersi inceppata è la «macchina mitologica», la capacità di produrre un senso mitologico

di Rocco Ronchi

In una intervista pubblicata alla vigilia delle elezioni che avrebbero segnato l'azzeramento della sinistra radicale e il trionfo della peggiore reazione, Fausto Bertinotti lamentava una grave crisi nella capacità comunicativa della sinistra italiana. Le proporzioni della disfatta, l'onda lunga e nera che ha generato, costringono a una riflessione radicale sulla natura di questa crisi che, a differenza di quanto credono gli operatori del marketing elettorale, non è riducibile alla ben nota difficoltà di far arrivare alla base un «messaggio» convincente e chiaro da parte di gruppi dirigenti sempre più distaccati dalla realtà. Comunicare, infatti, non è trasmettere. Nel suo senso proprio, significa creare un luogo comune in grado di «legare» una comunità, anche minoritaria, dando ad essa identità e riconoscibilità. Comunicazione è questa produzione di un senso comune, il quale, come una stella cometa, deve poter orientare in modo quasi irriflesso la concreta prassi politica, fungendo da tacito e indiscutibile presupposto.

Quel che scrisse Sartre

Il «comunismo» (che è altra cosa dal «marxismo») nella storia italiana del dopoguerra è stato soprattutto la lenta sedimentazione nelle coscienze di milioni di persone dell'immagine condivisa di una comunità: una comunità alternativa a quella data, della quale i «comunisti» denunciavano proprio la carenza di legame, la dispersione atomica degli individui e la loro trasformazione in elementi sostituibili al servizio del capitale. Bene lo spiegava Sartre, nel primo tomo della Critica della ragion dialettica, un libro che apparve all'indomani della catastrofe ungherese e che si rivolgeva «da sinistra» ai marxisti. L'analisi sartriana della pratica rivoluzionaria era imperniata sulla opposizione tra due tipi di «insiemi pratici»: il «collettivo», che è caratterizzato da serialità e fungibilità, nel quale ognuno è anonimamente come gli altri, e il «gruppo in fusione» rivoluzionario, che è invece alimentato dal calore bianco di un fuoco comunitario. A differenza del collettivo, che è in una «relazione di esteriorità» con i suoi elementi, il gruppo, al pari della sostanza di Spinoza che per esistere non ha bisogno di nulla all'infuori di sé, insiste invece come un tutto in ognuno dei suoi «modi».

Da Kéreny a Furio Jesi 

Il «militante» insomma non è mai solo: l'assoluto della Storia, del Partito, della comunità a venire, è sempre con lui. Anzi è lui, pervade ogni fibra del suo essere, non essendo il militante altro che una «incarnazione» del gruppo: un individuo comune. Gli stessi orrori del comunismo erano spiegabili, secondo Sartre, alla luce di questa dialettica: il terrore rosso era da intendersi come feroce «totalizzazione» delle differenze individuali che minacciano di incrinare l'unità mistica del gruppo. La crisi della capacità comunicativa della sinistra italiana è allora qualcosa di ben più grave di una semplice incomprensione della realtà e delle sue modificazioni. È una crisi che investe il piano simbolico. Ad essersi inceppata, in modo forse definitivo, è la «macchina mitologica» della sinistra, la sua capacità di produrre un luogo comune e del senso condiviso. E tanto non funziona più a sinistra quanto «marcia» perfettamente sul fronte opposto. Un fatto, questo, in grado di spiegare meglio di qualsiasi analisi socio-economica il travaso di voti da uno schieramento all'altro. Il desiderio di comunità - un desiderio al quale si è disposti a sacrificare perfino il proprio interesse personale (gli operai che votano Lega...) - resta infatti una grandezza invariante che può essere soltanto diversamente distribuita tra le forze in campo.
Per trovare una ragione che rendesse conto della fascinazione fascista Furio Jesi, il germanista studioso del mito e della cultura di destra, aveva coniato l'espressione «macchina mitologica» e quando la utilizzò, nel 1977, erano ormai passati quarant'anni dai problemi che avevano tormentato il gruppo di dissidenti comunisti e surrealisti raccolto dal 1936 al 1939 intorno alla rivista «Acéphale». Collegata alle attività del Collegio di sociologia, fondato nel '37 da Georges Bataille, Roger Caillois e Michel Leiris, la rivista si poneva gli stessi obiettivi, sebbene proiettandoli su un piano più speculativo: non si trattava solo di spiegare l'origine del contagio che, partendo dall'Italia, attraversava la civile Europa, ma anche di preparare le armi più efficaci per combatterlo. La «sociologia sacra» non era, insomma, il nome di una nuova disciplina, bensì una professione di antifascismo militante.
Dal suo maestro Károly Kéreny, Furio Jesi aveva ripreso la nozione di «mito tecnicizzato», vale a dire di mito imbastardito escogitato per mobilitare quelle masse che, come il loro stesso nome indica, sono caratterizzate da una inerzia costitutiva. I fascisti italiani avevano compreso che la tendenza all'immobilismo delle masse poteva essere vinta solo riaccendendo il più inattuale dei fuochi, quello che due secoli di critica illuminista avrebbe dovuto da tempo spegnere. La ragione era infatti impotente a muoverle e a commuoverle. Non solo il Thomas Mann del Doctor Faustus ma anche la più avveduta storiografia contemporanea - da Zeev Sternhell a Emilio Gentile fino al recente Avant-garde FASCISM di Mike Antliff - è ormai concorde nell'individuare il battesimo del fascismo europeo nella rivalutazione del mito da parte di Georges Sorel. Il mito - secondo la diagnosi fatta dal filosofo francese in Riflessioni sulla violenza - era infatti il solo fondamento capace di indurre alla mobilitazione, e siccome il mito è fondato sul rapporto con l'arcaico, la sola mobilitazione effettiva si riduce, di fatto, alla mobilitazione reazionaria. Di certo, quel che veniva chiamato in causa non era il mito autentico che, traducendosi in sublime poesia, estasiava colti umanisti come Kérenyi. Se ne rese ben conto, peraltro, anche lo stesso Jesi, in saggi che segnarono il suo violento distacco dal maestro, riflettendo sul fatto per cui una macchina mitologica non ha affatto bisogno, per funzionare, che al suo interno si celi una immagine del dio. Funziona benissimo anche senza quella immagine. Funziona anche se dio è morto o è assente. Secolarizzazione, desacralizzazione e demitizzazione, il «moderno», insomma, non scalfiscono la macchina mitologica.

L'eredità dei congiurati di sinistra

L'importante, scrive Jesi in pagine memorabili, è che dalla macchina fuoriesca una musica «che faccia danzare», che trascini cioè piedi stanchi in un ritmo che, come il sogno, non presuppone coscienza, distanza, critica. La macchina mitologica è una macchina onirica che, mobilitando le anime, crea un «luogo comune» condiviso.
Ed è una macchina enunciativa: la sua musica è, come ogni musica, fatta di «frasi» che sono come ritornelli capaci di catturare la mente costringendo a una ripetizione ottusa: basta, per verificarlo, che si sfogli la nostra stampa e si ascoltino i nostri telegiornali. Prima di tutto la comunicazione è questa danza che celebra l'esserci della comunità. Ogni etnologo che abbia lavorato sul campo lo può confermare.
In Spartakus. Simbologia delle rivolta (Bollati Boringhieri), ragionando sulla insurrezione berlinese del 1919, Jesi si interrogò anche su un possibile funzionamento alternativo della «macchina». Quei rivoluzionari comunisti che volevano sospendere l'ordine del tempo, identificato con quello dell'oppressione, attingevano anch'essi ad un mito «tecnicizzato». La rivoluzione, insomma, incrocia la storia, ma non le appartiene interamente. A differenza del fascismo, tuttavia, il «luogo comune» che sogna - il comunismo come «sogno di una cosa» - è una comunità di uomini liberi e la dea che onora è la ragione.
Quarant'anni prima, in qualità di testimoni dell'epidemia fascista, Bataille e gli altri «congiurati» di sinistra raccolti intorno a «Acéphale» si erano interrogati su questi problemi che sono ancora i nostri. Data la crisi comunicativa della sinistra (che per loro era evidente nella torsione sostanzialmente fascista del comunismo staliniano e nell'impotenza della sinistra parlamentare) e data la necessità della comunità, senza la quale resta solo quella caricatura di uomo che è l'individuo astratto dal legame sociale, come inceppare la macchina mitologica fascista?
È possibile un altro mito, alternativo a quello fascista, oppure il mito, nella modernità, è fascista per natura? È possibile una «comunicazione» che sia emancipazione oppure la comunicazione è soltanto produzione di un legame, di un «fascio», di una «lega», di una identità posticcia e violenta?

L'impossibile comunità

Bataille esitò a lungo tra queste ipotesi. Tra i suoi compagni di strada, Roger Caillois fu quello che si mostrò più ottimista e anche più ingenuo. Per lui era insomma possibile rifare «da sinistra» quello che era stato fatto dalla destra fascista (e, prima di tutti, dai seguaci di Sorel) e cioè mobilitare con il mito masse rivoluzionarie. Lo battezzò un «sublime socialmente imperativo», ma le sue raffinatissime analisi delle pulsioni mitologiche che attraverserebbero le masse metropolitane, rendendole permeabili a un contagio del sublime, altro non erano che una brillante fenomenologia del fascismo incipiente. La macchina mitologica, sposandosi con i nuovi media della comunicazione di massa, continuerebbe di fatto a funzionare in una sola direzione.
Tutt'altra era la consapevolezza della situazione che Bataille andava maturando. Proprio lui, che aveva dato il via all'impresa del Collegio e di «Acéphale», sembrava persuaso che, sul piano pubblico, il fascismo nella modernità avesse sempre l'ultima parola. L'aggettivo che più spesso ritornava nella sua prosa per qualificare la natura di una comunità finalmente libera è infatti «impossibile». Negli ultimi trenta anni brillanti filosofi hanno versato fiumi di inchiostro a proposito di questo aggettivo. Il senso di quella impossibilità è tuttavia chiaro ed è un senso tragico: non si dà nessuna libera comunità che sia effettuale, non si dà luogo comune che possa aspirare a farsi in senso lato «stato». Appena esso si dà è già immancabilmente perduto (i membri del Collegio rifletterono a lungo sul senso mitologico dell'imbalsamazione di Lenin nel 1924).

Sotto il segno dell'Acefalo 

Non resta allora che la comunità «inoperosa» (e vagamente aristocratica) di chi si sa irrimediabilmente sconfitto sul piano della storia effettuale? La comunità degli amanti o dei letterati? Molti tra quelli che oggi spengono sprezzanti la televisione lo pensano, ma non è stata questa la risposta di Bataille, il quale, nel 1937, individuava il proprio modello di comunità in Numanzia, l'eroica città che resiste fino alla morte all'assedio fascista di Scipione.
L'indicazione è precisa e suona assai inattuale alle nostre orecchie bipartisan: solo l'antifascismo può costituire il cuore di una comunità in divenire, solo l'antifascismo - un antifascismo vissuto fino allo spasmo nella sua dimensione metapolitica e «impossibile» - può essere il mito che fonda il luogo comune di uomini liberi. L'Acefalo disegnato da Masson sul frontespizio della rivista ne fu l'immagine convulsa.

Sullo scaffale
Qualche indicazione su «Acéphale» e i titoli di Furio Jesi

La rivista «Acéphale» venne fondata da Georges Bataille, Pierre Klossowski e André Masson, e uscì in quattro numeri tra il giugno del 1936 e il giugno del 1939. Nel primo numero apparve, con il titolo «La congiura sacra», il suo manifesto, a firma di Bataille, nel quale si rivendicava il carattere «ferocemente religioso» e metapolitico dell'impresa. I due numeri del 1937 presentano, tra l'altro, la fondamentale lettura batailleana di Nietzsche con la quale il filosofo tedesco veniva sottratto all'uso ideologico che ne avevano fatto i nazisti. La grafica della rivista era affidata a Masson che disegnò a più riprese l'Acefalo simbolo del movimento. Ma «Acéphale» è anche il nome della società segreta che raccoglieva attorno a Bataille alcuni dei suoi amici e collaboratori. Di questa avventura intellettuale e umana tratta il volume titolato «Georges Bataille, La congiura sacra» (a cura di Marina Galletti con una introduzione di Roberto Esposito), Boringhieri, Torino 2008 (ristampa). Tra i titoli di Furio Jesi reperibili: per Bollati Boringhieri, «L'accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita», «Bachofen» e «Spartakus. Simbologia della rivolta»; per Quodlibet «Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke», e «Letteratura e mito», per Einaudi, «Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea»

giovedì 10 marzo 2011

Libia e il Ritorno dell’Imperialismo Umanitario 

 

 
Il ritorno di tutta la vecchia gang

Di JEAN BRICMONT
da CounterPunch (trad. di Piero Pagliani)

Tutta la vecchia gang ritorna: I partiti delle Sinistra Europea (che raggruppano i partiti comunisti europei “moderati”), il “Verde” José Bové ora alleato con Daniel Cohn-Bendit che non c’è stata guerra USA-NATO che non gli sia piaciuta, vari gruppi trotzkisti e, ovviamente, Bernard-Henry Lévy e Bernard-Henry Lévy, tutti ad esortare a qualche tipo di “intervento umanitario” in Libia o ad accusare la sinistra latino-americana, le cui posizioni sono molto più ragionevoli, di essere degli “utili idioti” per il “tiranno libico”.
Dieci anni dopo siamo di nuovo al Kosovo. Centinaia di migliaia di Iracheni morti, la NATO bloccata in Afghanistan in una posizione impossibile, e non hanno capito nulla! La guerra in Kosovo fu fatta per bloccare un genocidio inesistente, la guerra afgana per proteggere le donne (andate a vedere la loro situazione ora) e la guerra in Iraq per proteggere i Curdi. Quando capiranno che tutte le guerre proclamano di avere una giustificazione umanitaria? Anche Hitler “proteggeva le minoranze” in Cecoslovacchia e in Polonia.
Dalla parte opposta, Robert Gates avverte che ogni futuro segretario di stato che consigliasse ad un presidente USA di inviare truppe in Asia o in Africa “dovrebbe farsi esaminare la testa”. L’ammiraglio Mullen, similmente, invita alla cautela. Il grande paradosso del nostro tempo è che i quartier generali del movimento pacifista devono essere cercati nel Pentagono o nel Dipartimento di Stato, mentre il partito della guerra è una coalizione di neo-conservatori e di progressisti interventisti di varia specie, inclusi guerrieri umanitari di sinistra, così come Verdi, femministe e comunisti pentiti.
Così ora tutti devono tagliare i loro consumi per via del riscaldamento globale, ma le guerre della NATO sono riciclabili e l’imperialismo è diventato parte dello sviluppo sostenibile.
Ovviamente gli USA andranno o non andranno ad una guerra per ragioni che sono del tutto indipendenti dai consigli offerti dalla sinistra guerraiola. Il petrolio non sembra essere uno dei fattori più importanti nelle loro decisioni, dato che ogni futuro governo libico dovrà vendere petrolio e la Libia non è sufficientemente grande per influire in modo significativo sul prezzo del greggio. Chiaramente i disordini in Libia danno il destro alla speculazione, che invece influenza i prezzi, ma questo è un altro paio di maniche. I sionisti hanno probabilmente due opinioni riguardo la Libia: odiano Gheddafi e lo vorrebbero vedere rimosso, come Saddam, nel modo più umiliante possibile, ma nemmeno sanno se la sua opposizione gli piacerà proprio (e dal poco che sappiamo, non sarà così).
L’argomento principale a favore della guerra è che se le cose andranno velocemente e facilmente gli interventi umanitari della NATO saranno riabilitati, dato che la loro immagine è ora appannata dall’Iraq e dall’Afghanistan. Una nuova Grenada o, al più, un nuovo Kosovo, è proprio ciò che ci vuole. Un altro motivo per intervenire è quello che così si controllano meglio i ribelli, poiché si arriva per “salvarli” nella loro marcia per la vittoria. Ma questo è proprio difficile che funzioni: Karzai in Afghanistan, i nazionalisti kosovari, gli Sciiti in Iraq e, ovviamente, Israele, sono perfettamente felici di ricevere l’aiuto americano, quando serve, dopo di che lo sono di seguire la loro proprio agenda. E un’occupazione della Libia a tutto campo dopo la sua “liberazione” sembra tutto tranne che sostenibile, cosa che ovviamente rende l’intervento poco attraente per gli USA.
D’altro canto, se le cose si dovessero mettere male, si tratterebbe dell’inizio della fine dell’impero americano; da qui la cautela della gente che è realmente in posizione di decidere e non solo di scrivere articoli su Le Monde o sbraitare contro i dittatori davanti alle telecamere.
E’ difficile per un normale cittadino conoscere esattamente cosa sta succedendo in Libia, dato che i media occidentali si sono completamente screditati in Iraq, Afghanistan, Libano e Palestina e le fonti alternative non sono sempre affidabili. Questo, chiaramente, non impedisce alla sinistra pro-guerra di essere assolutamente convinta della verità dei peggiori resoconti su Gheddafi, così come lo erano dodici anni fa riguardo Milosevic.
Il ruolo negativo della Corte Internazionale dell’Aja è di nuovo evidente in questo caso così come lo fu quello del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia per il caso del Kosovo. Uno dei motivi per cui c’è stato un relativamente modesto spargimento di sangue in Tunisia ed Egitto è che c’è stata una via d’uscita per Ben Ali e Mubarak. Ma la “giustizia internazionale” vuole assicurarsi che non ci sia una via d’uscita per Gheddafi e probabilmente per le persone vicine a lui, così da costringerli a lottare a tutti i costi.
Se un “altro mondo è possibile”, così come la sinistra europea continua a ripetere, allora anche un altro Occidente dovrebbe essere possibile e la sinistra europea dovrebbe lavorare in quel senso. Il recente incontro dell’Alleanza Bolivariana dovrebbe servire da esempio: la sinistra latino americana vuole la pace e vuole evitare ogni intervento da parte degli USA, poiché sanno che sono nelle mire degli USA e che il loro processo di trasformazione sociale richiede innanzitutto la pace e la sovranità nazionale. Per cui hanno suggerito di inviare una delegazione internazionale, possibilmente guidata da Jimmy Carter (difficilmente definibile un tirapiedi di Gheddafi) per iniziare un processo negoziale tra il governo e i ribelli. La Spagna ha espresso interesse per l’idea, che ovviamente è stata rifiutata da Sarkozy. Questa decisione può sembrare utopistica, ma non sarebbe così se fosse sostenuta da tutto il peso delle Nazioni Unite. Questo sarebbe il modo per onorare la propria missione, cosa che ora è resa impossibile dall’influenza statunitense ed occidentale. Tuttavia non è impossibile che oggi, o in qualche crisi futura, una coalizione di nazioni non interventiste, includente la Russia, la Cina, l’America Latina ed eventualmente altri, possa lavorare assieme per costruire alternative credibili all’interventismo occidentale.
A differenza della sinistra latino americana, la sua patetica versione europea ha perso ogni idea di cosa significhi fare politica. Non cerca di proporre soluzioni concrete ai problemi ed è solo capace di prendere posizioni morali, in particolare denunciando dittatori e violazioni dei diritti umani con tono magniloquente. La sinistra socialdemocratica insegue la destra se va bene con qualche anno di ritardo e non ha nessuna idea propria.
La sinistra “radicale” spesso riesce a denunciare i governi occidentali in ogni modo possibile e chiedere contemporaneamente che quegli stessi governi intervengano militarmente in tutto il globo per difendere la democrazia. La sua mancanza di riflessione politica la rende altamente vulnerabile alle campagne di disinformazione facendola diventare una passiva ragazza pon-pon delle guerre della NATO.
Questa sinistra non ha un programma coerente e non saprebbe cosa fare nemmeno se un dio la rimettesse al potere. Invece di “sostenere” Chávez e la Rivoluzione Venezuelana, una affermazione priva di senso che alcuni amano ripetere, dovrebbero umilmente imparare da loro e, prima di tutto, re-imparare cosa significhi fare politica.
Jean Bricmont insegna Fisica in Belgio ed è membro del Tribunale di Bruxelles. Il suo libro “Imperialismo Umanitario” è pubblicato dalla Monthly Review Press. Può essere contattato all’indirizzo Jean.Bricmont@uclouvain.be.