venerdì 7 dicembre 2012

Precarietà o morte! 

 Eugenio Orso



Le mie analisi pregresse, sviluppate nell’arco di un decennio, mi hanno portato a indentificare con sufficiente chiarezza il possibile profilo neocapitalistico riservato ai membri della classe pauper dominata, molto diverso, se non opposto, al profilo che il capitalismo del secondo millennio riservava ai subalterni. Il profilo in questione è quello del precario/ escluso, che si contrappone al novecentesco produttore/ consumatore, modificando integralmente il panorama sociale e il valore attribuito al lavoro. Il precario deve accettare l’umiliazione dei contratti a termine, d’incerto rinnovo, in un continuo gioco a ribasso delle retribuzioni, per non scivolare nella drammatica situazione dell’escluso, che incide negativamente su tutte le relazioni, sociali, umane e private del soggetto, e persino su quelle più intime di natura affettiva. L’ampio respiro della precarietà non limita i suoi effetti alle cosiddette relazioni industriali, alle quali deve soggiacere il lavoratore flessibilizzato, ma abbraccia l’intera dimensione esistenziale. Per molti anni Luciano Gallino, sociologo ed economista, ha scritto contro la precarizzazione dei lavoratori, introdotta in dosi sempre più robuste nel sistema produttivo italiano e nelle pubbliche amministrazioni, ma trattandosi di una voce assolutamente isolata, benché accademica e prestigiosa, le sue critiche ai modelli neocapitalistici nutriti di lavoro flessibile e precario sono cadute nel vuoto. 
Da un punto di vista politico, la precarietà è stata accettata come destino inevitabile, per i lavoratori, sia dallo spettro destro sia da quello sinistro dell’Unico Partito della Riproduzione Neocapitalistica, che in pari misura hanno contribuito a diffonderla. Tiziano Treu, del centro-sinistra, con la legge 196 del 1997 detta “Pacchetto Treu” e Maurizio Sacconi, del centro-destra, esponente del governo che ha varato la legge 30 del 2003 (detta anche Maroni o Biagi), convergevano entrambi su un comune obiettivo: flessibilizzare il più possibile il lavoro in Italia. I sindacati, sempre più subalterni nei confronti del sistema e sempre più lontani dagli interessi dei lavoratori, non hanno combattuto la precarietà con la dovuta forza, e dunque l’hanno accettata come inevitabile, necessaria e ineliminabile. Tutt’al più, si è detto che la democrazia oggi si ferma davanti ai cancelli delle fabbriche, lasciando intendere che all’interno l’uomo non è più cittadino nella pienezza dei diritti, ma esclusivamente fattore-lavoro da impiegare nei processi produttivi. Questo è un discorso ingannevole, fatto da sindacalisti gialli mascherati e da falsi antagonisti, poiché implica il pieno riconoscimento degli inconsistenti diritti liberaldemocratici, la richiesta del loro ingresso nelle fabbriche e nelle entità produttive di ogni ordine e grado, e quindi l’accettazione acritica di quel sistema davanti al quale ci si prostra. Tutto è stato inventato a livello contrattuale per intensificare e diversificare la precarizzazione dei lavoratori, fin dal loro ingresso nel mondo del lavoro. Accanto ad una precarietà occupazionale, che riguarda la limitazione del tempo di lavoro per contratto secondo le esigenze della parte imprenditoriale più forte, c’è una precarietà prestazionale che investe le mansioni espletate anche nel tempo indeterminato. I contratti atipici sono stati diversificati al massimo, dai co.co.pro. alla somministrazione e al lavoro accessorio, prevedendone per legge una cinquantina, o quasi, molti dei quali abbondantemente praticati. Ci sono voluti un paio di decenni, dall’inizio processo d’incubazione della flessibilità a oggi, per ribaltare una situazione che dagli anni sessanta del novecento è stata di crescita dei diritti dei lavoratori e di stabilizzazione generalizzata, con picchi di tutela come la legge 300/70 eretta a Statuto dei Lavoratori. La struttura del mercato del lavoro è stata investita in pieno, nello sviluppo di questo processo regressivo, al punto che le esigenze riproduttive di un capitalismo qualitativamente diverso dal precedente hanno favorito la differenziazione di tre grandi mercati paralleli: quello del lavoro stabile, indeterminato e tutelato, che ha avuto i suoi capisaldi nella grande industria e nell’impiego pubblico oggi sotto attacco euromontiano, quello del lavoro flessibile e precario per anni in costante crescita e ormai metabolizzato, e quello del lavoro nero, che presenta il massimo possibile della flessibilità occupazionale, prestazionale e una piena libertà di licenziamento. 

La precarizzazione del lavoro, fin dal suo innesco, ha favorito e accelerato la trasformazione sociale imposta dal nuovo ordine neocapitalistico, dando un contributo di rilievo alla trasformazione antropologica e culturale dell’uomo da produttore/ consumatore stabilizzato, con una certa internità al sistema, a precario/ escluso dimentico dei diritti del passato. Per tali motivi, e per la rilevanza dei cambiamenti imposti al lavoro, destinati a sconfinare in tutti gli altri ambiti della vita umana, questo processo è all’origine della costruzione sociale dell’uomo precario. Così, quello che è stato definito lavoro non standard, come se avesse dovuto rappresentare un’eccezione alla regola, principalmente per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, tende a diventare sempre di più la regola stessa, assorbendo la maggioranza delle nuove assunzioni in tantissimi settori. La precarietà rappresenta, nello stesso tempo, un destino individuale gramo e uno status sociale degradato che sarà condiviso, in futuro, da intere generazioni. L’alternativa alla precarietà sarà sempre di più, nei prossimi anni, l’esclusione, che significherà emarginazione, povertà, inutilità, la perdita irreparabile di relazioni sociali e affettive e, in un certo senso, la morte. A questo punto, può essere utile presentare qualche dato, in relazione all’occupazione, alla precarietà e alla disoccupazione, ragionando brevemente sui dati stessi. Facciamo un raffronto fra le stime Istat del 2007 e i dati della recente trimestrale, sempre dell’Istat, in merito al lavoro temporaneo, per capire qual è la tendenza per il lavoro flessibilizzato in periodi di significativa e crescente disoccupazione. Se nel 2007 i lavoratori temporanei (compresi occasionali, co.co.co e lavoro a progetto) erano circa 2.759.000, nel terzo trimestre 2012 sono diventati (“collaboratori” compresi) 2.877.000 circa, quindi sono significativamente aumentati a fronte di un dilagare della disoccupazione e dell’inattività. Già nel 2007, quando l’esplosione della cosiddetta crisi globale era nell’aria, si prevedeva che quasi la metà dei precarizzanti non avrebbe potuto contare su un reddito sufficiente per mantenere se stessi e la propria famiglia. Sul fronte del lavoro part time, nel terzo trimestre dell’anno in corso, secondo l’Istat vi sono ben 3.847.000 lavoratori. Si tratta di soggetti che per oltre la metà non riescono a trovare un impiego decente, a tempo pieno. Se teniamo conto che i disoccupati ufficiali sono quasi tre milioni (ultimo dato Istat a ottobre 2012 2.870.000 unità), che vi è oltre un milione e mezzo di non attivi in età lavorativa che nascondono altrettanta disoccupazione (volendo essere prudenti), che le ore di cassa integrazione autorizzate, a settembre di quest’anno, sono cresciute in totale fino a 86 milioni, sommando Cigo, Cigs e Cassa in deroga, abbiamo il polso della disastrosa situazione del lavoro in Italia. Se gli occupati, a ottobre 2012, secondo l’Istat erano circa 22.930.000, nel secondo trimestre dello stesso anno raggiungevano quota 23.046.000, e quindi in pochi mesi c’è stato un decremento di 116.000 unità, con una perdita valutabile a circa un mezzo punto percentuale. Sommando ai disoccupati gli inattivi che nascondono altrettanta disoccupazione, tenendo conto degli occupati a tempo determinato, del part time e dei lavoratori in cassa integrazione, si sfonda abbondantemente il tetto dei 10 milioni di unità. Precarietà, sotto-occupazione e disoccupazione la fanno sempre più da padroni, in Italia. Se il tempo determinato, compresi i “collaboratori”-falsi autonomi, il part time e la disoccupazione sono in costante aumento, si riduce progressivamente l’area che corrisponde al mercato del lavoro “tradizionale”, a tempo indeterminato e pieno, in cui vi è ancor oggi – ma non sappiamo per quanto tempo ancora – la maggioranza dei lavoratori occupati. La situazione dei cassaintegrati, infine, è diversa dalle precedenti. La cassaintegrazione può corrispondere a un periodo trascorso in purgatorio, sottopagati o addirittura a zero ore, se alla fine si rientra in fabbrica o in ufficio mantenendo il contratto a tempo pieno e indeterminato, oppure può rappresentare l’anticamera per la precarietà e/o la disoccupazione di lungo periodo. 
 
Morale della favola, questo è l’esito concreto, più tangibile, dell’inesistente “Cresci Italia” di Monti, che avrebbe dovuto far seguito al rigorismo estremo, fondato su tagli alla spesa sociale e sulle tasse, degli interventi governativi “Salva Italia”. Ma come abbiamo appreso di recente, proprio per bocca del presidente del consiglio intervistato dagli arabi, è niente di meno che l’austerità ad essere la ripresa, e così le due cose si compenetrano e si sovrappongono, confondendo le idee. Sempre di più, con l’avanzare del lavoro a termine, del part time e della disoccupazione effettiva (quella ufficiale sommata agli inattivi scoraggiati) ci appare chiaro che l’alternativa futura, per i lavoratori, sarà fra la precarietà e l’esclusione, o meglio, in ultima analisi, fra la precarietà e la morte, se l’esclusione rappresenta una forma di morte sociale.