lunedì 23 gennaio 2012

Popoli e classi dominate senza rappresentanza di Eugenio Orso





Breve premessa

Il presente saggio politico, non specialistico e non politicamente corretto, è diviso in due parti ed ha come oggetto il sopraggiunto deficit di rappresentanza politica e sindacale, all’interno del sistema vigente, di vasti strati della popolazione italiana (e di altri paesi europei) nelle attuali, gravissime contingenze economiche e sociali.

La prima parte è dedicata al passato, e cioè alla condizione delle classi dominate nella seconda metà del novecento ed alle ragioni della rappresentanza “condizionata” di cui godevano nel sistema, che si reggeva grazie al compromesso fra uno Stato ancora sovrano ed il libero Mercato e all’inclusione capitalistica in atto, mentre la seconda parte è dedicata al tempo presente, in cui domina la coppia precarizzazione/esclusione ed in cui un numero sempre più grande di soggetti sociali, colpiti nei loro interessi vitali dagli effetti della crisi strutturale neocapitalistica e delle manovre impoverenti imposte dai governi liberaldemocratici (“tecnici” come nel caso dell’Italia, o politici altrove) non ha più alcuna rappresentanza all’interno del sistema e finalmente, dopo anni di acquiescenza alle dinamiche neocapitalistiche, pur con fatica e fra mille difficoltà (intontimento e disinformazione mediatiche, delegittimazione/criminalizzazione della vera protesta, persistenza delle clientele politiche e sindacali, eccetera), inizia a prenderne coscienza.

Il passato: compromesso, inclusione e rappresentanza condizionata

La liberaldemocrazia, che dal secondo dopoguerra ad oggi ha fatto il paio con il capitalismo liberista anglo-americano e con i modelli capitalistici subalterni affermatisi nell’Europa continentale, ha sempre garantito in passato alle classi dominate, ed in generale ai popoli soggetti al comando capitalistico, una rappresentanza soggetta alle sue regole nei circuiti parlamentari ed in quelli sindacali, attraverso partiti, cartelli elettorali e centrali sindacali.

Un’applicazione parziale e controllata del principio di libertà di associazione ha favorito e promosso, in qualche misura, gli interessi delle classi dominate, e quindi della maggioranza delle popolazioni europee dell’ovest, impedendo che le famigerate “regole del Mercato” (libero da ogni condizionamento) sopprimessero qualsiasi forma di equità sociale e negassero una seppur minima partecipazione alla decisione politica, in posizione subordinata.

Quando la vicenda capitalistica era pienamente inserita in quadro nazionale, e vi era ancora una certa autonomia degli stati-nazione, questa rappresentanza ha potuto trattare con i dominanti borghesi, ancora legati alle sorti dello stato e della nazione di origine, spuntando non trascurabili miglioramenti economici e di vita dei dominati (la classe operaia, i ceti medi in espansione nella società), perché in quei contesti culturali, economici e politici era possibile contrattare con il padrone da posizioni di relativa forza, istituzionalmente garantite.

In quella epoca, in cui a detta dello scrivente il capitalismo ha lasciato intravedere “un volto umano” (o meglio, “quasi umano”), i dominanti borghesi sono stati costretti a cedere qualcosa del loro potere e della loro ricchezza, attraverso una diversa e più equa divisione del prodotto, nonché una maggior partecipazione alla decisione politica garantita delle classi inferiori, che restavano pur sempre in posizione subordinata.

Mediazione e compromesso erano dunque possibili, entro certi limiti invalicabili (in alcun modo avrebbero potuto portare alla costituzione di un entità comunista, fondata sulla socializzazione integrale degli apparati produttivi) e ciò è alla base della nascita e dell’estensione del welfare novecentesco, dei ceti medi, dei processi di relativa emancipazione di una parte significativa della popolazione.

Se questo processo di “riforma capitalistica”, nel dopoguerra, fu caratterizzato sul versante macroeconomico dall’applicazione delle teorie di Keynes (che non era un socialista/ laburista e non ha mai ripudiato capitalismo e liberaldemocrazia), ciò è avvenuto per “salvare il capitalismo” dalle minacce interne (reazioni all’iniquità sociale, eccessiva compressione del lavoro) ed esterne (successi del modello alternativo sovietico e minaccia politico-militare rappresentata dall’URSS) e non per superarlo o affossarlo.

Il “Bengodi” capitalistico del welfare, dell’estensione dei consumi, e della promozione sociale, è diventato possibile dopo la seconda guerra mondiale per un breve periodo, al più trentennale, quale effetto del mantenimento della sovranità politica e monetaria degli stati – pur con limitazioni, rilevanti soprattutto nella politica estera, come nel caso dell’Europa divisa fra i due blocchi, e pur alla presenza degli organi sopranazionali mondializzanti, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, nati con la conferenza di Bretton Woods del luglio 1944.

La Comunità Europea era un simulacro di confederazione, a maglie molto larghe, non aveva ancora una moneta privata e non poteva imporre programmi economico-finanziari integrali agli stati membri, in taluni casi decidendone i governi assieme ad altri organi della mondializzazione come il FMI, a differenza di quanto accade oggi.

Osservando la situazione storica dal punto di vista dei soli paesi dell’Europa occidentale, perché quelli dell’Europa centro-orientale, com’è noto, hanno seguito una strada diversa, con il senno di poi possiamo affermare che il compromesso fra Pubblico e Privato, fra Stato e Mercato, fra la Politica e il Grande Capitale economico e finanziario, ha consentito di imbrigliare un poco la distruttività sociale ed ambientale di questo ultimo, riconducendolo per certi versi sotto un controllo di natura politica, ed ha permesso di ritagliare spazi di emancipazione per l’affermazione (ancora parziale ed insufficiente, bene inteso) dei diritti dei dominati.

Per tali motivi – attenuati con il compromesso e con la parziale, ma significativa rappresentanza politica e sindacale concessa alle classi inferiori i rischi rivoluzionari e di destabilizzazione dell’ordine costituito, il capitalismo del secondo millennio è sembrato godere di un consenso piuttosto ampio, proprio fra quelli che subivano i suoi rigori, mitigati dal welfare e dalla promozione sociale, e così il suo “braccio politico ed istituzionale”, cioè la liberaldemocrazia a suffragio universale fondata sulla rappresentanza.

Nell’Europa occidentale di allora, le rappresentanze politiche e sindacali concesse ai dominati in seguito al compromesso erano naturalmente del tutto interne al sistema e non ne mettevano in discussione – se non a parole, con dichiarazioni roboanti e disattese, per imbonire elettori e lavoratori, i basamenti strutturali.

Si trattava, tutto sommato, di una rappresentanza parziale, condizionata dall’accettazione delle “regole del gioco” liberaldemocratiche, ma soprattutto dal comando capitalistico e dall’appartenenza al cosiddetto mondo occidentale, identificato con il blocco filo-americano, che non si potevano mettere in discussione.

Così, in Italia il partito comunista faceva parte a pieno titolo del cosiddetto “arco costituzionale”, governava importanti regioni e partecipava alla decisione politica (anche alla corruzione politica e della politica, se è per questo), la CGIL, sindacato a maggioranza comunista, condannava quanto il PCI l’azione clandestina e militare delle Brigate Rosse schierandosi con lo stato borghese, mentre nella Germania Ovest, in cui il partito comunista era fuorilegge (ufficialmente dal 1956), impazzava la socialdemocrazia, che dopo aver rifiutato pubblicamente il comunismo e Marx a Bad Godesberg (novembre 1959), approvando il mercato libero, poteva guidare liberamente, senza patemi e sospetti i governi della federazione e caldeggiare la cogestione dei grandi organismi industriali attraverso lo strumento sindacale, ma, naturalmente, senza sognarsi di mettere in discussione l’appartenenza del paese al campo occidentale, che era un tabù e come tale inviolabile.

Questa rappresentanza parziale ed ancora insufficiente, accompagnata da un certo grado di emancipazione economica e sociale, concessa in Europa occidentale alle classi dominate dentro i recinti del capitalismo del secondo millennio e della liberaldemocrazia parlamentare, ebbe l’effetto di consentire al sistema politico di reggere agli urti rivendicativi di massa, e al capitalismo di riprodursi, fagocitando nei suoi immaginari milioni di subordinati.

I motivi del compromesso raggiunto in quegli anni, ed effettivamente realizzato, erano di origine esogena e di origine endogena: la minaccia collettivista con lineamenti capitalistici dell’Unione Sovietica, e la serrata “concorrenza” del suo modello di società, la necessità di distribuire “panem et circenses” ai dominati per tenerli tranquilli, e poterli manipolare efficacemente creando il profilo del produttore/ consumatore, la necessità vitale di sviluppare le forze produttive, non soltanto per resistere alla “concorrenza” sovietica, ma per la stessa natura del capitalismo, la volontà di una piena “normalizzazione” interna, che portava alla distruzione delle culture particolari, d’ostacolo allo sviluppo, e degli aspetti comunitaristici dell’esistenza per imporre i propri stili di vita.




Il presente: esproprio, esclusione e deficit di rappresentanza

Il mondo sommariamente descritto nella prima parte di questo saggio è finito alla svolta del millennio, che ha visto l’affermazione di un nuovo modo storico di produzione e l’affermazione di un nuovo capitalismo, il quale per riprodursi sembra non avere più la necessità di includere integralmente le masse, concedendo miglioramenti delle condizioni di vita e creando il profilo prevalente del produttore/ consumatore, perché riesce a creare valore ed a moltiplicare il valore creato espropriando i beni collettivi, riducendo le conquiste sociali fino ad azzerarle, precarizzando ed escludendo progressivamente i dominati.

E’ per questi motivi (ed ormai, dopo tre decenni di de-emancipazione nei cosiddetti paesi sviluppati la cosa dovrebbe esser chiara a tutti) che il profilo prevalente imposto alle masse, frantumando l’ordine sociale precedente, tende a diventare quello del precario/ escluso.

Alla precarizzazione e all’esclusione nei rapporti di produzione vigenti, qualitativamente diversi da quelli del secondo millennio, si è accompagnata, in un quadro di strapotere degli organi della mondializzazione e di riorganizzazione globalista dell’Europa comunitaria, diventata Unione all’inizio dei novanta, la progressiva perdita di rappresentanza politica (e sindacale) dei dominati che ha proceduto di pari passo con la riduzione della sovranità degli stati.

E’ proprio dall’inizio degli anni novanta che è cessato definitivamente il “pericolo” sovietico, e con lo svanire delle attrattive ideologiche che per decenni l’hanno caratterizzato è cessata l’insidiosa concorrenza che metteva in pericolo, in Europa occidentale ed altrove, il controllo capitalistico sulle masse.

Trattato di Maastricht del febbraio 1992, riorganizzazione successiva delle istituzioni sopranazionali europee, creazione della BCE ed introduzione dell’euro nella circolazione effettiva, si sono rivelati utili cavalli di troia per espropriare gli stati e flessibilizzare i dominati.

Interi gruppi sociali, a partire dagli operai per arrivare ai ceti medi, hanno perso la tutela dei partiti svuotati di rappresentanza, incaricati di applicare i programmi politici imposti dall’esterno ed incapaci di elaborare vere alternative, e sono stati abbandonati al loro destino, in quanto lavoratori, dai sindacati ascari del nuovo capitalismo, al punto tale che oggi i non rappresentati, coloro che sono destinati a diventare “invisibili” o “irrilevanti”, tendono ad essere maggioranza assoluta.

Questo drammatico deficit di rappresentanza, sconosciuto nelle attuali proporzioni durante la seconda metà del novecento, dall’inizio della crisi sistemica ha iniziato a farsi sentire più drammaticamente, particolarmente in paesi come l’Italia dove è più evidente la subordinazione al comando globalista-neocapitalistico, e dove il degrado della piccola politica sistemica, che non deve elaborare programmi alternativi e deve soltanto obbedire agli ordini esterni (comprovando la perdita di sovranità politica dello stato), è più avanzato che altrove.

I recenti moti siciliani scatenati dalla protesta dei Forconi e da Forza d’urto, pur avendo specifiche motivazioni, quali l’aumento delle accise sulla benzina e il rincaro dei pedaggi autostradali che colpiscono i trasporti dei locali prodotti agricoli, d’allevamento e ittici, in buona misura non fanno riferimento ai partiti di cartapesta della liberaldemocrazia vigente od ai sindacati collaborazionisti che gestiscono dall’alto gli scioperi, ma nascono “fuori e contro”, perché coloro che vi partecipano – siano essi autotrasportatori, agricoltori, pastori, pescatori, operai, disoccupati, studenti, hanno compreso, sulla loro pelle, che non hanno e non potranno avere alcuna rappresentanza in questo sistema, diventato straniero e nemico quanto l’euro.

Oltre a chiedere, in concreto, la defiscalizzazione dei carburanti e l’applicazione dello statuto della regione Sicilia, per trattenere nell’isola le imposte che gravano sulle locali imprese, per bocca di uno dei loro capi, i “Forconi” invitano la classe politica tutta, e senza distinzioni di schieramento (spesso soltanto apparenti) a mollare la presa e ad andarsene a casa, e inoltre avanzano la provocatoria richiesta che si inizi a battere una moneta siciliana.

Parimenti, i tassinari in rivolta contro le assurde liberalizzazioni del governo fantoccio di Monti, che avanzano richieste specifiche come quella che la decisione sull’assegnazione e sul numero delle licenze resti ai comuni, e rifiutano l'extra-territorialità con la libertà di prestare servizio in altri comuni, faranno sempre meno riferimento ai sindacati di categoria (esistono ben 23 sigle sindacali), perché hanno capito che questi, con un piede saldamente piantato dentro il sistema, cercheranno sempre e comunque, ed a qualsiasi costo sulla pelle dei lavoratori, di arrivare a compromessi con la controparte.

La decisione a riguardo del temuto sciopero di dieci giorni dei gestori delle pompe di benzina, passa interamente attraverso i sindacati ufficiali (come ad esempio Faib-Confesercenti e Fegica-CISL), ma non è escluso che si potrà arrivare in futuro, anche in questo settore, a situazioni di tensione come quelle di Roma del 19 di gennaio, in cui c’è stata una frattura fra tassisti (“i sindacati ci hanno tradito e sono scappati via”, come hanno dichiarato gli interessati) e sindacati acquiescenti nei confronti di un governo fantoccio, voluto dai globalisti che controllano l'UEM e la BCE.

Dopo la capitolazione del segretario generale della Fiom Landini alla segreteria CGIL della Camusso (dietro la quale c’è il Pd che sostiene Monti a spada tratta), è probabile che una parte degli iscritti e dei delegati si risolverà ad abbandonare il sindacato sistemico di categoria, per intraprendere “fuori e contro” lotte veramente efficaci, mentre chi resterà dovrà languire nell’inedia, attendendo gli eventi, e dovrà rispettare l’ordine di scuderia di non fare scioperi (già di per sé inutili nelle forme note e praticate) contro l’esecutivo Monti, limitandosi a contrastare in modo simbolico e blando (e quindi inefficace) singoli provvedimenti governativi.

Per quanto il governo ha fatto dei passi indietro, in molti settori, in relazione alle liberalizzazioni imposte all’Italia dalla BCE (dalle farmacie ai notai, dalle assicurazioni RC auto ai carburanti il rigore liberalizzante sembra che si sia attenuato), ciò che importa rilevare in questa sede, in cui non si tratta da un punto di vista tecnico delle liberalizzazioni stabilite con decreto, è che l’inizio delle proteste contro le misure di Monti rivela qualche importante elemento di novità, ed in particolare un ulteriore, grave “scollamento” fra la popolazione, da un lato, ed i partiti, i sindacati, le stesse istituzioni liberaldemocratiche, dall’altro.

Sta emergendo a fatica, ma con una certa chiarezza in questa difficilissima congiuntura, la consapevolezza dei dominati di non avere alcuna rappresentanza all’interno del sistema, e di essere trattati, dal sistema stesso che opera per conto della classe dominante globale (esterna allo stato), come armenti da portare alla tosatura, o, nella peggiore ipotesi, da condurre al macello.

Ciò non potrà non comportare una certa disaffezione nei confronti della liberaldemocrazia (volendo usare espressioni fin troppo moderate), il montare della sfiducia in tutte le sue istituzioni (sempre con espressione moderata), ed un’aperta ostilità nei confronti dell’Europa unionista, con il risentimento nei confronti dei partiti che è già evidente, ed è stato furbescamente usato per imporre senza colpo ferire l’attuale governo italiano, emanazione dell’occupatore del paese più che del presidente della repubblica.

Come si è detto, la protesta dei Forconi e quella dei tassinari hanno motivazioni specifiche, locali, di categoria, e non esprimono con chiarezza le richieste di un cambio integrale di sistema, della ri-appropriazione della sovranità nazionale e dell’uscita dall’Europa unionista dell’euro, ma costituiscono pur sempre un passo in avanti rispetto alle blande e ridicole proteste degli Indignados/ Occupy, che sbraitano genericamente contro le banche ed occupano a casaccio (se ci riescono, con metodi pacifici dei quali si vantano) sedi bancarie, piazze, edifici pubblici e parchi.

Vi è la consapevolezza – in chi partecipa a queste semi-rivolte che coinvolgono, pur nella dimensione locale, molti soggetti e molte categorie, oltre che delle concrete e dirette ragioni della protesta vissute sulla propria pelle (il reddito, la continuità dell’occupazione, le condizioni future di lavoro), di non avere alcuna rappresentanza in un sistema ostile ed in mani nemiche, di non essere in alcun modo tutelato, e di dover farsi sentire fuori degli schemi degli inutili scioperi di quattro od otto ore, politicamente corretti, rigidamente programmati e controllati dall’alto (quelli “alla Camusso”, per intenderci).

Chi scrive ha avuto la netta sensazione che molti subordinati, davanti alle contingenze drammatiche del momento, hanno compreso che non si può più demandare ad altri la difesa dei propri diritti e dei propri interessi, semplicemente perché non vi è nessuno al quale demandare, nessuno che può rappresentarli, nessuna sigla di partito, nessun “corpo intermedio” frapposto fra il singolo e il potere effettivo che possa (o voglia) difendere i loro interessi vitali, e ciò che in passato poteva godere della loro fiducia – partiti politici sistemici, sindacati ammessi ed altre organizzazioni, è oggi saldamente e totalmente in mani nemiche e lavora contro di loro.

Anche se i sondaggi ammaestrati mantengono artificiosamente alta la fiducia nei confronti del presidente Napolitano (uno dei peggiori politici di tutta la storia d’Italia, ben peggiore di Berlusconi, per ciò che ha permesso che si faccia al paese e alla popolazione), al solo scopo di far credere che vi è almeno un’istituzione salda ed apprezzata dall’opinione pubblica, è probabile che l’ondata di “sfiducia” nel sistema si estenda a macchia d’olio ed investa in pieno il mondo delle libere professioni, i ceti medi non legati al lavoro dipendente, poiché un obbiettivo inconfessabile del governo Monti, sponsorizzato dal presidente Napolitano, è proprio quello di falcidiare nel numero e nei redditi questi soggetti sociali, per conto della classe globale.

Dopo aver disintegrato la classe operaia, precarizzandola e togliendole qualsiasi possibilità rivendicativa e di lotta, dopo aver colpito i ceti medi legati al lavoro dipendente, da riplebeizzare con gli operai, si cerca di depatrimonializzare e di flessibilizzare i ceti medi che praticano le libere professioni, “acclimatandoli” nel nuovo habitat capitalistico che ci è imposto.

Quindi non sono in ballo soltanto le sorti degli agricoltori, degli autotrasportatori e degli allevatori siciliani, o dei tassinari di Napoli e Roma, ma anche quelle degli avvocati e dei farmacisti in tutta la penisola, con la Grecia che in tal senso ha fatto da “apripista”.

Poi, forse, toccherà ai politici, ai parlamentari, a deputati e a senatori, oggi in grande maggioranza così condiscendenti ed ossequiosi nei riguardi di Monti, e ciò potrà accadere quando non serviranno più per dare una parvenza di legalità costituzionale, votando i provvedimenti dei governi dell’occupatore.

I politici, i loro capi, i VIP dei cartelli elettorali liberaldemocratici continuano con le loro assurde polemiche anche in questa situazione eccezionale, in cui diventa chiaro a moltissimi che il loro ruolo è soltanto quello di far passare, votandole in parlamento in cambio del mantenimento dei privilegi di cui godono, le manovre di un governo tecnicista-globalista dal quale sono stati tassativamente esclusi.

Così Bossi minaccia Berlusconi di far saltare la giunta regionale lombarda se non toglie la fiducia a Monti, ben sapendo che è solo l’ennesimo bluff e che non lo farà, Sacconi, ex ministro del welfare, e Cicchitto, capo gruppo parlamentare del PdL, criticano un poco il decreto delle liberalizzazioni, per scopi elettoralistici, prima di “fare il loro dovere” e votarlo (si poteva fare di più, per Sacconi, non si voterà un testo fotocopia, secondo Cicchitto), mentre Bersani, capoccia dell’osceno Pd, approva pedissequo, con qualche entusiasmo di troppo che non riesce a trattenere in un eccesso di servilismo (bisogna difendere, rafforzare e accelerare le misure approvate dal governo, dichiara il nostro), ed infine Vendola, l’astuto comunista individualista postsovietico, dichiara di non voler rompere con gli alleati presenti in parlamento sul governo Monti, il quale, per Vendola, non è certo un nemico da combattere in quanto sta massacrando la popolazione, ma è soltanto un po’ “spiazzante” per la sinistra.

Tutto ciò non farà altro che aumentare la distanza, destinata a diventare incolmabile, fra una popolazione abbandonata al suo destino e i partiti (tutti liberaldemocratici, anche gli ex comunisti) che da tempo non la rappresentano più, ed accrescerà la consapevolezza, nei soggetti sociali reali che dovranno sopportare l’insopportabile, cioè gli effetti concreti delle controriforme di questo governo, che per loro non vi è salvezza nel sistema, ma vi potrà essere soltanto “fuori e contro”.

Sembra finalmente manifestarsi dopo decenni di flessibilizzazione di massa, di idotizzazione collettiva e di precarizzazione del lavoro, in tutta la sua pericolosità per la riproduzione neocapitalistica e la sopravvivenza del sistema liberaldemocratico, lo spettro del conflitto verticale.

E’ bene chiudere questo saggio ponendosi la domanda che segue.

E’ possibile che dall’estensione di moti come quello siciliano ad altre aree del paese e dall’attivarsi cosciente di un numero sempre maggiore di soggetti sociali e di categorie produttive, colpiti dalle dinamiche impoverenti imposte dall’alto, nasca un programma politico alternativo dai lineamenti rivoluzionari, contro questo capitalismo socialmente criminale e fuori della trappola delle istituzioni e dei partiti liberaldemocratici, in grado di riattivare la solidarietà fra i dominati, di ripudiare l’euro e l’Europa dei globalisti, di liberare l’Italia dall’occupatore, di cacciare il bocconiano Monti e il suo sodale Napolitano, prima che il saccheggio globalista si compia, dal nord al sud della penisola?

Chi scrive non è mai stato troppo ottimista, ma spera ardentemente di sì.


 da: http://pauperclass.myblog.it/

mercoledì 11 gennaio 2012

Più Europa o meno Europa? Meno Europa, e perché.




di Costanzo Preve






1. Il progetto di un'Europa politicamente e culturalmente unita è, in quanto tale, qualcosa di nobile. Esso trova le sue radici in una lunga storia, in cui peraltro le discontinuità ed i conflitti sono almeno altrettanto grandi della continuità e dell'affinità. Il discorso culturali visti con sulle cosiddette "radici comuni" dell'Europa è molto diffuso, ma a seconda dei punti di vista diventa un gioco di aggiunte e di esclusioni. I credenti insistono sulle "radici cristiane" dell'Europa, mentre i laici cercano di toglierle in tutti i modi, ed insistono invece su temi a loro cari, come la rivoluzione scientifica e l'illuminismo. Dal momento che non sono per ora di moda nel difficile mondo dei ceti intellettuali politicamente corretti, Hegel e Marx sono però esclusi, in quanto sono ancora scritti sulla "lavagna dei cattivi".


Le generazioni trainanti dell'unificazione politica dell'Europa sono state soprattutto due. La prima è composta da coloro che hanno vissuto il trauma della prima guerra mondiale, e sono ormai tutti defunti (Adenauer, De Gasperi, Schumann, eccetera). La seconda è composta da coloro, oggi ormai quasi centenari, che hanno vissuto il trauma della seconda guerra mondiale (il tedesco Schmidt, l'italiano Ciampi, eccetera). E’ allora del tutto chiaro il loro movente psicologico, che possiamo tranquillamente riconoscere come nobile: mai più il macello sanguinoso della prima guerra mondiale! Mai più il macello sanguinoso della seconda guerra mondiale! Pace ed unità fra i popoli europei!


E tuttavia, anche la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni. L'aver cancellato Hegel e Marx come padri filosofici dell'Europa comporta anche la cancellazione della dialettica storica, e la sua sostituzione con l'innocuo moralismo kantiano e con le buone intenzioni retoriche.


In questa fine del 2011 i nodi sono giunti al pettine. L'unificazione economica europea è stata un atto di irresponsabile avventurismo storico. E allora non intestardiamoci nell'errore. Facciamo un passo indietro, finché siamo ancora in tempo.






2. In primo luogo, l'Europa non è un popolo o una nazione. Non esiste una nazione europea. Non esiste un popolo europeo. Chi prende in giro la bossiana Padania, dicendo che non esiste, ha effettivamente ragione (e anche io penso che la Padania non esista, già il Veneto ed il Friuli esistono molto di più), ma ha poi torto se pensa che invece l'Europa esista. Per dirla con Metternich, l'Europa è solo un'espressione geografica. L'Italia invece non lo è.


Un progetto politico, anche nobile, non può costituire una nazione. Ci vuole il consenso dal basso dei suoi cittadini. L'esempio della Bosnia dovrebbe insegnare qualcosa, se si volesse ancora imparare, e non fossimo nelle mani di manipolatori mediatici e di bombardatori Nato, con i loro vergognosi finti magistrati dell'Aia. I serbi e i croati non volevano stare insieme, e i musulmani da soli non potevano obbligarli. Un esempio contrario è la Svizzera, che infatti è un'unica nazione multiculturale. I ticinesi non sono stati costretti a stare con i tedeschi ed i francesi in una grottesca "elezione maggioritaria", ma sono in stragrande maggioranza d'accordo a starci insieme. E potremmo fare molti altri esempi.


Paradossalmente, il solo che ha parlato di "Europa nazione" è stato il nazionalsocialista belga Jean Thiriart. Chiedetelo ai miei due amici Franco Cardini e Claudio Mutti, che da giovani ci hanno creduto. Ma il progetto era semplicemente politico, e non aveva vere radici nazionali. In un primo momento, si trattava di sbattere fuori dall'Europa sia gli Usa che l'Urss. In un secondo momento, suicidatasi l'Urss a causa del nichilismo antropologico dei "comunisti", si trattava solo di sbattere fuori gli Usa (si tratta del progetto eurasiatico, che peraltro io condivido nel suo aspetto geopolitico). Ma, ancora una volta, le nazioni non si possono inventare.


Paradossalmente, da circa trent'anni il ceto universitario ha scoperto che le nazioni non esistono, che sono state inventate in epoca romantica da poeti e scrittori, e che sono semplici "comunità immaginarie". Naturalmente, non è affatto vero. Le nazioni esistono, i popoli esistono, e soltanto le oligarchie finanziarie ed i loro intellettuali asserviti vorrebbero distruggerle. Non dimentichiamoci mai che, secondo la corretta impostazione di Bourdieu, gli intellettuali come gruppo sociale sono un gruppo dominato interno alla classe dominante. Gli intellettuali universitari hanno un guinzaglio lungo, perché devono dare l'impressione di essere liberi opinatori, certo molto più lungo di poliziotti, militari, diplomatici, eccetera, ma hanno sempre un guinzaglio, anche se lungo. Se il gruppo dominante della classe dominante, e cioè le oligarchie finanziarie globalizzate a guida imperialistica Usa, decidono che si deve archiviare lo Stato nazionale sovrano sulla moneta, è solo questione di tempo perché i pagliacci del circo universitario "scoprano" che le nazioni sono solo "comunità immaginarie".


Ma ovviamente non è così. Le nazioni ed i popoli non si clonano dall'alto con una decisione economica. Nessuna Bce e nessuna giunta tecnocratica Monti potrà mai farlo.






3. Inoltre, il continente europeo è occupato da basi militari Usa, dotate di armamento nucleare, a quasi settant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Non ci può essere democrazia ad Atene con una guarnigione spartana insediata stabilmente sull'Acropoli. Non ci può essere democrazia in Europa con le decisioni strategiche di politica internazionale prese in un diverso continente. La strategia imperiale Usa decide sovranamente di invadere l'Afghanistan, e gli europei sono tenuti a mandarci i loro soldati, per di più pagando le spese. Gli Usa decidono di aggredire la Serbia (1999), la Libia (2011), di tenere sotto pressione il Libano, la Siria, l'Iran, eccetera, ed i pagliacci europei seguono.


Per il circo mediatico e la corporazione universitaria questo non è un problema, e le basi nucleari Usa sono di fatto invisibili. Ma il fatto che siano invisibili per questi corrotti non significa che siano inesistenti, e questo sarebbe un bel problema per la corrente filosofica dei cosiddetti "nuovi realisti" (new realists), se per questi paludati pagliacci il "realismo", e cioè la realtà esterna esistente oggettivamente, non si limitasse al cosiddetto "populismo mediatico" di Berlusconi e della sua corte di sicofanti e puttane.


Eppure, si vorrebbe fare l'Europa senza sovranità geopolitica. Ipocritamente ci prendono in giro dicendoci che, una volta fatta l'Europa, potremo contare di più anche rispetto agli Usa. Sfacciati mentitori! Il congedare le basi Usa in Europa non può essere l’esito finale di un processo, ma solo un presupposto per poter parlare di sovranità europea. Un bambino lo capirebbe, purché non imbonito e corrotto da giornalisti, opinionisti superpagati e professori universitari boriosi.


Ad un'espressione geografica che non era né un popolo né una nazione, e che per di più è occupata da basi militari straniere, si è voluto imporre una unificazione economica avventuristica. Fermiamoci prima che sia troppo tardi.






4. Molti degli oligarchi si sono accorti che l'Europa economica non può funzionare. Il gioielliere Bulgari (cfr. Repubblica, 6/12/2011) scrive che "la ricetta oggi non è tanto come salvare l'euro, ma come salvarci dall'euro". Non si poteva dire meglio, ma lo scandalo è che debbano essere gli oligarchi a dirlo, perché la "sinistra" degenerata è passata dal culto del socialismo sovietico al culto dei "grandi insiemi commerciali" globalizzati (e questo tutta la sinistra, e non solo certo Bersani, Napolitano e Veltroni, ma anche Vendola, Ferrero e Diliberto, ansiosi di tornare in un parlamento commissionato e svuotato di ogni sovranità ). Il santone degli economisti Joseph Stilglitz è ancora più chiaro di Bulgari: "gli economisti su entrambe le sponde dell'Atlantico non discutono più se l'euro sopravviverà, ma come far sì che il suo crollo provochi il minor sconquasso possibile" (cfr. Repubblica, 7/12/2011). Faccio notare che queste due sentenze oracolari dell'oligarchia (Bulgari e Stilglitz) sono state entrambe pubblicate da un quotidiano che nelle altre pagine urla che per salvare l'euro gli italiani sono chiamati a fare sacrifici terribili in termini di welfare ed età pensionabile.


È spiegabile questa palese schizofrenia, che fa a pugni con quella logica formale (le opposizioni reali senza contraddizione) che gli intellettuali dell'oligarchia contrappongono virtuosamente alla maledetta logica dialettica (con contraddizioni) di Hegel e Marx?


Io credo di sì, e cercherò di spiegare perché.






5. Noi siamo dominati da una oligarchia completamente fuori controllo. E fuori controllo perché si è sottomessa volontariamente, per avidità e rancore verso la plebaglia pezzente e le sue richieste di welfare e benessere, ad un meccanismo anonimo ed impersonale di accumulazione incontrollata del capitale finanziario. Nell'ultimo trentennio essa ha saputo incorporare nelle sue tecniche di dominio vecchi rappresentanti politici della plebaglia pezzente, esperti in manipolazione, demagogia e gestione della storica babbionaggine dei subordinati trinariciuti (in Italia curiosamente definiti "comunisti", sit venia verbo). Essa ha incorporato sia il circo mediatico, in particolare televisivo, sia il circo intellettuale, in particolare universitario. Essa ha metabolizzato le vecchie identità di destra e sinistra in una nuova metamorfica identità, il Politicamente Corretto, nuovo conformismo sociale flessibile (culto religioso della Shoah ad espiazione perpetua, americanismo mimetico di schiavi e proconsoli vari, diritti umani a bombardamento incorporato, liberalizzazione del costume, confinamento della religione ad assistenza di drogati, malati, poveracci e al pentimento di ripugnanti assassini, vedi il caso Erica di Novi Ligure, colpevolizzazione delle masse politicamente scorrette come leghisti, fascisti, nazisti, eccetera). Il mercenariato "comunista" (preferisco chiamarlo scandalosamente così piuttosto che esorcizzare l'orrore con il rassicurante e deviante termine di ex-comunisti) è stato un esempio di quello che i teorici delle élites (Mosca, Pareto e Michels, ma particolarmente Pareto) hanno a suo tempo definito come un processo di circolazione e di rinnovamento delle élites stesse.






6. Questi figuri ci porteranno nel baratro non tanto perché siano soggettivamente malvagi (anche se in molti casi lo sono), ma perché si sono consegnati mani e piedi ad un meccanismo riproduttivo fuori controllo, una religione idolatrica di economisti che ha sostituito la vecchia religione artigianale monoteistica di preti, pretini, pretori, pastori, rabbini, ulema, bonzi, stregoni sioux, oggi convocati spesso in riunioni di babbioni salmodianti, non si sa se più ipocriti o cretini (o tutti e due).


Quest'Europa, quindi, è fuori controllo. A scadenza storica, passati i tempi nervosi dell'attualità politica, l'euro sarà servito alle oligarchie a distruggere 150 anni di risultati, sia pure modesti e miseri, di riformismo socialista e "borghese". Gramsci non avrebbe mai potuto immaginare che questo sarebbe stato fatto, in un'inedita combinazione di tragedia, commedia e dramma satiresco, con la collaborazione attiva di alcuni mostri da lui stesso evocati, come D'Alema e Napolitano. Ma chi conosce la storia di Frankenstein non dovrebbe stupirsi.


Soltanto la dialettica, hegeliana e poi marxiana, può spiegare questo processo. Per questo la dialettica è esorcizzata, sia in alto (i sofisticati intellettuali) sia in basso (la plebaglia ansiosa di linciare prima Craxi e poi Berlusconi). Ma forse la giunta Monti, arrivata al potere con un vero golpe freddo (la minaccia al Berlusca di far fuori le sue aziende in borsa) innescherà un processo di ripensamento. Non ci spero molto, perché conosco la stupidità dei miei polli. Ma cerchiamo di crederci.

mercoledì 4 gennaio 2012

Una recente moda filosofica: il nuovo realismo (new realism).



Note di interpretazione.

di Costanzo Preve



1. Ai primi di dicembre 2011, in contemporanea con il commissionamento della politica italiana da parte della giunta Monti (filosoficamente interpretabile come il passaggio dall'illusionismo idealistico di Berlusconi al realismo materialistico di Monti) si è tenuto a Torino un convegno di lancio pubblicitario di un nuovo brand filosofico, il nuovo realismo, definito direttamente in inglese new realism per piacere subito ai padroni imperiali americani, che oltre ad avere sport nazionali (baseball e football americano) hanno anche ovviamente una filosofia nazionale, la filosofia analitica. Il padrone di casa era Maurizio Ferraris, vecchio allievo di Vattimo che ovviamente ha ucciso il padre (come fanno regolarmente i filosofi, Giorello con Geymonat, Rovarotti con Paci, Vattimo ed Eco con Pareyson, eccetera). Presenti anche molti membri del jet-set colto italiano, dal bobbiano di regime Zagrebelski al moralista antiberlusconiano ed antiratzingeriano Flores d'Arcais fino al prezzemolo di incontri come questo, il pagliaccio Umberto Eco.


Non vado mai a fare lo spettatore passivo di questi riti accademici di intellettuali. Ma commentarle questo sì. E mi sembra anche giusto.






2. Una premessa. Nonostante la stima personale che nutro per la commentatrice torinese Franca d'Agostini (di cui si legga l'educata stroncatura del convegno in "Repubblica", 7/12/2011), non condivido la messa sullo stesso piano dei cosiddetti "continentali" e dei cosiddetti "analitici". Si tratta di una bestemmia preventiva e di uno in proiezione subalterna del peggior americanismo. I cosiddetti "continentali" sono la sola ed unica filosofia esistente al mondo, la philosophia perennis, che nasce con i greci, passa attraverso l'esperienza cristiana ed infine sfocia in giganti come Spinoza, Kant, Fichte, Hegel, e Marx. I cosiddetti "analitici" sono una curiosa ed irrilevante scuola britannica, esito dialettico dello scetticismo, dell'empirismo e dell'utilitarismo, che si caratterizza per trattare da "oggetti" sia i concetti astratti sia gli oggetti concreti, e che ha come logica immanente la delegittimazione radicale di qualunque universale normativo, in modo che di fatto l'unica universalità normativa rimasta possa essere il dominio totalitario dei mercati economici. Che questo sia già stato chiaro ai suoi fondatori, ad esempio il secondo Wittgenstein, non lo credo. Probabilmente Wittgenstein voleva esercitare una terapia antimetafisica del linguaggio, perché veniva dalla generazione sciagurata degli anni Venti che credeva in buona fede che la metafisica fosse stata responsabile indiretta dello scoppio della prima guerra mondiale. Ma l'inferno è lastricato di buone intenzioni.


Nessuno mi può chiedere di prendere sul serio la teoria della razza di Rosenberg oppure la teologia dei Testimoni di Geova. Il fatto che ci si chieda di prendere sul serio una pagliacciata coloniale come la filosofia analitica è considerato semplicemente più cool a causa dello snobismo degli intellettuali universitari.






3. Che cosa significa in filosofia "realismo"? Nel linguaggio quotidiano, unica bussola da cui partire (a cui non fermarsi, come ha magistralmente dimostrato Hegel, che lo chiamava "sapere immediato"), significa il riconoscimento dell'esistenza oggettiva di una realtà materiale esterna a noi. Gli psicologi cognitivisti sanno addirittura determinare i mesi in cui il bambino vi arriva. L'esistenza del mondo esterno non è un dato filosofico, ma una premessa evolutiva della sopravvivenza, da quando attraversiamo la strada per non farci arrotare a quando prendiamo atto di una difficoltà da affrontare.


Deve essere chiaro, quindi, che l'esistenza "reale" del mondo esterno non è mai, proprio mai, ma assolutamente mai, un problema filosofico. La filosofia inizia quando la totalità della realtà viene interrogata nel suo significato globale di Bene e di Male e di giusto ed ingiusto, non certo quando ci chiediamo se questa concreta tazzina di caffè esista realmente, e non sia solo uno schema interpretativo o costruttivo. Non fatevi ingannare dai pagliacci che mettono sullo stesso piano, chiamandolo magari pomposamente "ontologia", la totalità dell'essere sociale e la tazzina di caffè ed il telefonino.






4. Ho usato volutamente parole forti, perché non bisogna mai "stare al gioco" di chi ci prende in giro. Se un furbastro inscatola la sua "merda d'artista", e la quota sul mercato dell'arte, non bisogna iniziare dotte dissertazioni sul diritto dell'artista allo sperimentalismo o allo "straniamento del punto di vista del moralismo borghese bacchettone". Neppure per sogno. Bisogna immediatamente fargli fare le scale a calci nel sedere insieme con la sua merda d'artista inscatolata. Una società entra in "decadenza" quando diventa incapace, in preda a complessi di colpa, di effettuare una simile facile operazione.






5. Passiamo ora alle cose serie. L'esistenza degli oggetti esterni dati per presupposti (costruiti o meno kantianamente nello spazio e nel tempo come forme a priori della sensibilità) si chiama in filosofia "realismo gnoseologico". Ai greci antichi, a tutti i greci antichi, senza distinzione alcuna fra cosiddetti "idealisti" (Platone) e cosiddetti "materialisti" (Epicuro), questo problema era completamente estraneo, e non poteva neppure essere concettualizzato e verbalizzato. Tutti davano per scontata l'esistenza di oggetti esterni, sia i veritativi (Platone, Socrate), sia i convenzionalisti ed i relativisti (Protagora, Gorgia). La messa in dubbio dell'eventuale esistenza del mondo esterno comincia soltanto quando questo mondo esterno viene concettualmente unificato in modo, direbbe Marx, "sensibilmente sovrasensibile". E questa concettualizzazione unificata dell'essere astratto del mondo può avvenire soltanto in due modi, ed esclusivamente in due: Dio e la Storia. Entrambe le nozioni (teologia monoteistica e filosofia unificata del flusso storico) erano completamente e disperatamente estranee ai nostri padri greci. Il cosiddetto "realismo gnoseologico", infatti, comincia soltanto quando essi si congedano dalla scena europea, e per semplificare citerò soltanto due filosofi sintomatici: Tommaso d'Aquino e Lenin.


Il teologo domenicano Tommaso d'Aquino pratica il cosiddetto "realismo gnoseologico" perché presuppone l'esistenza esterna alla coscienza umana di una realtà suprema, il Dio della tradizione biblica. Dal momento che Dio, lo vogliamo o no, esiste fuori di noi, è chiaro che la vera conoscenza è in vario modo un riflesso, o un rispecchiamento, di oggetti in ultima istanza creati, o permessi, o concessi da Dio. Solo una presunzione luciferina (il cui primo esponente coerente è stato il tedesco Fichte) ci può far pensare che sia l'Uomo (maiuscolo, alla faccia degli anti-umanisti) a creare, non certo il Sole o la Luna, ma l'intero mondo storico e sociale che conosciamo.


Il militante comunista Lenin adotta la stessa teoria, il realismo gnoseologico. Si dirà che è strano, in quanto Lenin non solo era ateo, ma considerava attardati e superstiziosi cretini (in buona compagnia con Odiffredi, la Turchetto e la simpatica rivista l'Ateo, cui pure ho a suo tempo inviato un intervento, in seguito pubblicato) quelli che ci credevano. Ma una realtà esterna per Lenin c'era, ed erano le inesorabili leggi dialettiche della storia (si veda il modo bestiale e furioso con cui si relazionava con chi lo metteva in dubbio, cfr. Valentinov, I miei colloqui con Lenin, il Saggiatore).


Ricapitoliamo: in filosofia realismo gnoseologico non significa ammissione dell'esistenza esterna di oggetti o di processi, tipica del senso comune, ma significa rispecchiamento o riflesso di due datità a loro volta del tutto indimostrabili dal metodo scientifico moderno, cioè Dio e la Storia (intesa come processo storico unificato concettualmente e variamente direzionato).


Non si pensi di poter capire una cosa così semplice con il pagliaccio superpagato Umberto Eco, che ha recentemente definito il teologo bavarese Ratzinger inferiore filosoficamente ad uno studente di scuola media. Possibile che solo loro possano impunemente distribuire pagelle di imbecillità a platee di babbioni semicolti adoranti?






6. La strategia di rilancio del cosiddetto "new realism" è a tutti gli effetti una strategia pubblicitaria, che vede la sinergia di baroni universitari e di giornalisti di regime. Da un lato, una congrega di professori universitari, che lanciano il prodotto in convegni a New York, Torino e Bonn. Dall'altro, la cassa di risonanza di quotidiani come "Repubblica", organo dei semicolti italiani riciclati dal vecchio storicismo gramsciano al cosiddetto new realism attraverso la camera di decompressione provvisoria del cosiddetto pensiero debole, ermeneutico e nicciano.


Le cose sono forse più "complesse"? La complessità è una divinità universitaria cui prestare un culto conformistico. Ma neppure per sogno! I gruppi intellettuali accademici delle facoltà di filosofia sono più prevedibili degli spostamenti dei banchi di pesci, delle migrazioni degli uccelli e delle transumanze di bisonti. Certo, sono prevedibili se li si studia non come insieme aleatorio di singoli individui, ma come gruppo sociale unitario, il gruppo degli intellettuali, che a suo tempo Pierre Bourdieu definì un gruppo dominato della classe dominante. Un gruppo a guinzaglio lunghissimo, per dargli l'impressione della libertà, ma che alla fine deve cadere gravitazionalmente nello stesso posto.


Sono troppo settario? Sono troppo estremista? Sono troppo politicamente scorretto? Politicamente scorretto certamente sì, ma estremista e settario non credo. Passiamo ad alcuni esempi concreti.






7. Come disse don Abbondio a proposito dei bravi di don Rodrigo: "Le ho viste io quelle facce!". Ho avuto la fortuna di assistere in diretta ed in tempo reale, nel biennio 1977-78, al primo lancio pubblicitario di una scuola filosofica fatto con il metodo delle saponette e dei deodoranti per le ascelle, e cioè dei cosiddetti "nuovi filosofi francesi" (il cui esponente più noto, l'osceno BHL, si è distinto come consigliere di Sarkozy per l'aggressione alla Libia ed è tuttora editorialista del "Corriere della Sera", immagino superpagato). Ricordo quel biennio, perché segnò la fine del mio agitarmi senza scopo da militonto di "sinistra" ed il ritorno ad uno studio serio della filosofia, che avevo praticamente abbandonato per un decennio, travolto dal vergognoso ballo di San Vito sessantottino.


Il lancio pubblicitario dei "nuovi filosofi" segnò in effetti un'interessante sinergia fra il circo mediatico ed il mondo dei cosiddetti "intellettuali". Si trattò di una sorta di grande riciclaggio simbolico, di riconversione e di decompressione. In Italia un'intera generazione si era consegnata a vere e proprie "cupole criminali" (esemplare la cupola di Lotta continua di Sofri e Pietrostefani, mandanti dell'omicidio Calabresi), era entrata nel parossismo della illusione operaista ed aveva addirittura "flirtato" con la lotta armata, ed ora poteva sgonfiarsi e decomprimersi simbolicamente con la "scoperta" che tutto il comunismo con cui aveva rotto le scatole a genitori ed insegnanti non era altro che un'illusione criminale.


Devo ringraziare i "nuovi filosofi". Mi accorsi che si trattava di un riciclaggio generazionale particolarmente miserabile, e che è impossibile che una corrente filosofica seria possa accettare la via pubblicitaria alla "visibilità". Improvvisamente, il situazionismo di Debord e la dialettica negativa di Adorno, che avevo sempre costeggiato senza mai assimilarle, divennero improvvisamente chiare. Avevo permesso ai greci, a Hegel ed a Marx di dormire troppo a lungo. La ripugnanza verso la volgarità porta irresistibilmente a rivalorizzare le cose serie.


Grazie BHL!






8. Un discorso diverso deve essere fatto per il cosiddetto "pensiero debole" legato al nome di Gianni Vattimo. Mentre la nuova filosofia francese è stata soltanto un'operazione pubblicitaria di riciclaggio intellettuale di estremisti deficienti ricondotti all'ovile, con il pensiero debole siamo di fronte a qualcosa di diverso. Il cosiddetto "pensiero debole" si presenta come un'operazione di "indebolimento" non tanto della religione (da Vattimo furbescamente abbandonata dopo essere stato intronizzato all'accademia dal cattolico esistenzialista Pareyson, nemico in tutto di Abbagnano al di fuori del comune odio verso Hegel e la dialettica), quanto della filosofia storicista marxista della storia, cui il comunismo italiano aveva legato il suo profilo teorico (lo storicismo assoluto di tipo crociano, soltanto di "sinistra"). Si trattava di una forma di relativismo nichilistico "educato", che legittimava una liberalizzazione del costume sessuale svincolando questa liberalizzazione da una filosofia comunista della storia, cui gli imbecilli sessantottini l’avevano improvvidamente legata. Qui non esiste lo spazio, e neppure la necessità, di analizzare i due punti fondamentali di questo profilo filosofico, la lettura libertaria di sinistra di Nietzsche, già praticata da Bataille e soprattutto da Deleuze, e la lettura di Heidegger come annunciatore della "consumazione storica dell'Essere", lettura che non sta filologicamente né in cielo né in terra e che lo stesso Gadamer smentì apertamente (ma non c'era neppure bisogno della sua peraltro benvenuta auctoritas).


Tuttavia, l'importanza di Vattimo non sta affatto nella sua predicazione "debolista", quanto nel valore di posizione ideologica nella "congiuntura", che finì con l’incontrare il percorso autonomo di Massimo Cacciari. Se infatti dal "basso" il Pci era sempre di più un partito di cooperatori e di amministratori senza coscienza infelice hegelo-marxiana, dall'"alto" i suoi intellettuali "organici" furono indirettamente chiamati a smantellare la pappa storicistica pseudo-gramsciana ossessivamente fatta ingozzare ai militanti semicolti fra il 1968 ed il 1978.


Non so come Vattimo valuti soggettivamente il successo del suo stesso pensiero. Non gliel'ho mai chiesto, sebbene sia con lui in buoni rapporti, e valuti molto positivamente il suo atteggiamento verso la Palestina, Cuba ed il Venezuela. Può darsi che le interpreti come una giusta ricompensa ai suoi meriti soggettivi. Ma senza essere un "maestro del sospetto", in base all'analisi ideologica di matrice marxiana e dalla deduzione sociale delle categorie del pensiero, credo che il pensiero di Vattimo abbia incontrato una "finestra storica" congiunturale in cui la nausea verso lo storicismo beota era giunta a livelli di parossismo, e gli intellettuali volevano soltanto potersi sganciare dalle grandi narrazioni (Lyotard) e prendere il mondo così com'è (Sloterdijk). A un livello accademico di benpensanti privi di rimorsi "militanti" e di coscienza infelice di ex-estremisti pentiti bastavano Rawls, Habermas e Bobbio, tutti e tre felicemente schierati per il bombardamento etico-umanitario del 1999 su Belgrado.


Ma perché oggi pensiero debole ed il post-moderno sono in crisi? Ma è elementare, Watson!






9. A partire dalla svolta del 1989 il pensiero debole perde ogni funzione di mandato sociale verso la casta degli intellettuali, e può continuare ancora per un ventennio grazie alla terribile vischiosità inerziale delle corporazioni filosofiche universitarie, che riproducendosi per cooptazione possono durare un tempo molto maggiore di quanto spetterebbe al clima culturale che intendono promuovere e legittimare. Il pensiero debole era stato la versione italiana del più vasto fenomeno europeo del post-moderno filosofico, il cui motto era che non esisteva la realtà, ma soltanto la sua interpretazione. Questo rifletteva il desiderio del ceto intellettuale non solo di emanciparsi dal vecchio fardello dell'impegno sociale di legislatori in pectore (da Fichte a Sartre passando per Gramsci), ma anche di fondare il proprio arbitrio soggettivo assoluto su di una metafisica apertamente nichilistica. In Italia il pensiero debole sarebbe impensabile senza connetterlo con il desiderio degli intellettuali di emanciparsi dai due bestioni visti come ormai insopportabili, l'elefante-Chiesa cattolica ed il rinoceronte-Pci.


Oggi il postmoderno debole è presentato in modo manicomiale, come se costoro avessero voluto negare la realtà di oggetti esterni con un telefonino, una tazzina, un'esondazione di fiume, una cardiopatia, una crisi finanziaria, eccetera. Tipico del malcostume filosofico è presentare la tesi avversaria in modo manicomiale, in modo da poterla vincere con facilità. Naturalmente il pensiero debole post-moderno non intendeva affatto negare queste realtà concretamente effettuali. Intendeva negare la normatività di realtà "sensibilmente sovrasensibili" come Dio, la Storia ed il Capitalismo, ed intendeva negare Dio, la Storia ed il Capitalismo perché queste tre realtà sensibilmente sovrasensibili erano in qualche modo fondatrici e normative del mondo dell'esperienza.


A partire dal 1989 tutto cambia. Il comunismo storico novecentesco (nulla a che vedere con il comunismo utopico-scientifico di Marx, ove l'ossimoro è volontario) si suicida per la sinergia di una maestosa controrivoluzione sociale di massa dei nuovi ceti medi sovietici e cinesi, da un lato, e per la putrefazione antropologica degli apparati comunisti, dall'altro (si presti attenzione all'oscillare dell'ubriacone Eltsin ed al sorriso beota di Gorbaciov mentre pubblicizza le borse Vuitton e la pizza americana Hut). In quanto a Dio, è palese che i preti ormai vengono invocati solo come assistenti sociali per poveracci, drogati, criminali pentiti e come psicologi assistenziali per malati gravi. Dio resiste peraltro più della Storia per ragioni squisitamente filosofiche, in quanto la religione (lo aveva già capito bene Hegel, molto più di Feuerbach e di Marx) è un fenomeno di massa in cui gli uomini, guardando dentro se stessi, danno un senso alla loro vita (vallo a far capire agli atei positivisti!). In Italia Mani pulite, che fu sempre e solo un colpo di Stato giudiziario ed extraparlamentare, volto a distruggere quanto restava di uno Stato keynesiano (sia pure corrotto), iniziò nel 1992 un ciclo privatizzatore neoliberale destinato ad essere perfezionato nel 2011 dalla giunta Monti. Per non far capire quanto stava avvenendo si aprì uno spettacolo di pupi siciliani: il popolo viola, il popolo rosa, le donne in quanto donne, la casta dei mangioni, i diritti umani messi in pericolo da dittatori baffuti o barbuti, il Grande Puttaniere Berlusconi con i suoi due Ciambellani Bruno Vespa ed Emilio Fede, eccetera. Spettacolo riuscitissimo e performativo, se consideriamo la sua spettacolare riuscita popolare.






10. Ripetiamo ancora una volta il punto essenziale del problema. Non bisogna pensare in modo manicomiale che il pensiero debole post-moderno intendesse negare la realtà intesa come scatole, terremoti, cardiopatie, reumatismi, eccetera. Intendeva negare la normatività di realtà "sensibilmente sovrasensibili", sostanzialmente due, Dio e la Storia (intesa come filosofia deterministica e teleologica della storia). Anche il capitalismo venne di fatto derealizzato, in quanto anche le sue crisi persero ogni oggettività, diventando prodotto di errori (si pensi a come oggi la crisi economica in Italia venga ricondotta al malgoverno e all'ottimismo da piazzista del Grande Puttaniere).


La comunità filosofica universitaria, una delle più lente di riflessi e torbide dell'intera Via Lattea, si è finalmente resa conto che la fase di delegittimazione normativa delle due realtà sensibilmente sovrasensibili (ricordiamolo: Dio e la Storia) era ormai finita, e bisognava "tornare alla realtà". Già, ma quale realtà?






11. Il ritorno alla realtà propugnato dai new realists (l’inglese è d'obbligo, e non è solo una raffinatezza cosmopolitica, ma indica un volontario adeguamento servile) è il ritorno ad una realtà frammentata di oggetti del tutto disconnessi dal legame dialettico con una totalità espressiva. Del resto, questo era già chiaro ad Herbert Marcuse, nella sua critica alla filosofia analitica contenuta nel classico novecentesco L'Uomo ad una Dimensione. Purtroppo, anche per responsabilità soggettiva di Marcuse, questo classico fu letto all'interno dell'errore metafisico del pensiero di "sinistra", l'identità fra borghesia e capitalismo. In realtà, il pensiero borghese non era affatto ad una dimensione, in quanto è dialettico per sua propria essenza storica e sociale. Il capitalismo come meccanismo anonimo, impersonale e religioso, invece, non è effettivamente dialettico, ma si basa su di un pensiero della "differenza" che riflette la separazione ontologica fra oggetti e soprattutto fra differenziati e potenzialmente infiniti poteri d'acquisto di merci e di servizi. La lettura sessantottina del capolavoro di Marcuse, invece, la fraintese proprio nel suo nucleo comunicativo essenziale. Entrato in una fase post-borghese, ed appunto per questo ultra-capitalistica, la filosofia analitica rispecchiava questa frammentazione senza più ormai nessuna coscienza infelice di una totalità alienata da emancipare. Non a caso, nel lessico di questi nuovi realisti non trovano spazio i concetti di alienazione e di emancipazione, e qui appunto si può notare -se lo si vuole -la continuità con il pensiero debole e con il post-moderno.


Soggettivamente, questi sciagurati credono che il ritorno alla realtà sia il superamento del "populismo mediatico" di Berlusconi, identificato con un ventennio di sviamento culturale. Questa è proprio la fatua concezione del mondo di un Umberto Eco, cui giustamente costoro hanno riservato un posto da guru e padre nobile.






12. Ci si può legittimamente chiedere se questa operazione mediatico-pubblicitaria riuscirà a "mordere" sulla realtà concreta, la realtà cui pure costoro si appellano. Mi sembra evidente che il loro sia un fuoco di sbarramento preventivo contro un possibile ritorno del pensiero dialettico, che deve essere esorcizzato ad ogni costo.


La totalità capitalistica appare oggi fuori controllo, e soltanto un cosciente ritorno alla dialettica potrebbe interpretarla e cambiarla, secondo la formulazione delle marxiane Tesi su Feuerbach. Il pensiero dialettico è il pensiero che trova il suo coronamento in Fichte, Hegel e Marx, ed ha come presupposti Vico e Spinoza, e come continuatori Adorno, Marcuse, Bloch e soprattutto Lukàcs.


In questa fase speculativa del capitalismo assoluto (assoluto in quanto absolutus, sciolto da precedenti legami borghesi e proletari) abbiamo bisogno di un sapere assoluto nel senso di Hegel. Tuttavia, per evitare pittoreschi equivoci, diamo la parola a Remo Bodei, indiscusso conoscitore della dialettica hegeliana: "Si pensa che il sapere assoluto per Hegel sia qualcosa di manicomiale, come se sostenesse che con la sua filosofia si sa tutto. Ma le cose non stanno così: absolutus vuol dire sciolto da ogni legame, e cioè da ogni condizionamento del passato". Non si poteva dire meglio. Ma oggi sapere assoluto è il sapere filosofico sciolto da ogni legame con la pretesa del presente capitalistico di essere la fine della storia. Questo è oggi il "sapere assoluto" di cui abbiamo bisogno.


Nella sua fase astratta, il capitalismo si è costituito unificando teoricamente il mondo, lo spazio (materia), il tempo (progresso), il lavoro (valore), la società economica, la morale dell'individuo (robinsonismo). Nella sua posteriore fase dialettica, la filosofia ha dato spazio all'elaborazione della polarità tra borghesia e proletariato. In questa terza fase speculativa, in cui il capitalismo si contempla allo specchio (speculum) come insieme oggettuale di merci pure, abbiamo bisogno di ridialettizzare appunto lo speculativo.


La ridialettizzazione dello speculativo non avverrà facilmente. La corporazione dei filosofi universitari con accesso mediatico filtrato, gruppo dominato della classe dominante, vi si opporrà certamente. I new realists sono fra costoro. Certo, occuperanno il davanti della scena, ma sono sicuro che non avranno campo libero.