giovedì 30 settembre 2010



Venezuela
Scritto da Atilio A. Boron   

La destra tiene, ma la fascistizzazione delle masse non c’è
La scorsa domenica in Venezuela si sono tenute varie elezioni. Una è stata di carattere nazionale, realizzata a circoscrizione amministrativa unica, e ha eletto i deputati venezuelani che entreranno nel Parlamento Latinoamericano (Parlatino). L'altra, quella dei deputati del Parlamento, è stata la capricciosa somma di un insieme di situazioni statuali e nella quale fattori come la sfortunata – a volte impopolare - designazione di alcuni candidati chavisti e il discredito o l'indifferenza delle autorità locali hanno decisamente giocato contro le aspettative ufficiali. A nessuno sfugge, inoltre, che le elezioni legislative invariabilmente producono risultati diversi dalle presidenziali, poiché in esse l'attrazione di un leader di massa - e niente meno che un leader della statura di Chávez! - è assoggettata alla qualità dei suoi rappresentanti locali, e spesso per disgrazia. Analizzare queste due consultazioni, convocate simultaneamente, ci offre un quadro quasi sperimentale che permette di calibrare alcuni importanti dati che caratterizzeranno gli scenari politici in Venezuela dopo il 26-S.
Nelle elezioni per il Parlatino il voto popolare, espresso a margine di condizionamenti locali, ha prodotto i seguenti risultati: 5.268.939 per l'alleanza PSUV-PCV contro 5.077.043 dei suoi avversari, ovvero 46.71 % dei voti contro il 45.01 dell'inusitato agglomerato oppositore. Nel referendum del 2007 il chavismo aveva ottenuto 4.404.626 voti, contro 4.521.494 dei partiti del rifiuto della nuova costituzione socialista. Da ciò si deduce che nelle elezioni del 26-S il governo ha aumentato la propria attrazione elettorale di quasi 900.000 voti, mentre l'opposizione qualcosa meno di 500.000. Nelle presidenziali del dicembre del 2006 Chávez era stato (ri)eletto con 7.309.080 voti, contro la coalizione di destra capitanata da Manuel Rosales, che ottenne 4.292.466 suffragi. Ovviamente qualsiasi comparazione con queste cifre va vista con molta cautela e tuttavia esse indicano aspetti interessanti, almeno come tendenza: (a) che il governo si debilita, e molto, nelle elezioni nella quali Chávez non è candidato. Fra il 2006 e il 2010 si sono allontananti circa due milioni di voti dalle fila bolivariane, anche se sarebbe un grosso errore dedurre, a giudicare da quello che è successo dal 1998, che questo allontanamento sia definitivo. La cosa più probabile è che i disillusi dai candidati locali ritornino (persino aumentando) a votare Chávez alle presidenziali del 2012, a condizione, ben inteso, che il candidato sia lui; (b) anche se la destra cresce quando Chávez non compete, la sua crescita sembra avere un tetto relativamente basso. In condizioni molto favorevoli come è stata questa, che è piuttosto improbabile si ripresentino in futuro, l'opposizione raggiunge appena i cinque milioni di voti. In altre parole, non c'è migrazione di voto chavista verso la destra, che era ciò che speravano i reazionari. C'è invece un (comprensibile) disincanto o collera della base bolivariana per alcune offerte elettorali proposte dal PSUV e un (altresì comprensibile) malessere di fronte ai problemi che affliggono la vita quotidiana dei settori popolari, come vedremo più avanti. Ma non c'è, e questa è una grande vittoria ideologica del governo Chávez, una fascistizzazione o una virata a destra dei settori popolari, cosa non da poco. La popolazione, al di là dei limiti dell'azione del governo, della sua corruzione e inefficienza, sa che è grazie alla rivoluzione bolivariana che ha acquisito dignità e diritti fondamentali di una cittadinanza che non è solo politica e giuridica, limitata al suffragio, ma anche economica e sociale. E tale rivoluzione operata sul piano delle coscienze resiste agli avatar, alle penurie economiche, agli inconvenienti e alle scomodità derivanti, per esempio, da situazioni come la crisi energetica. Lì, sul piano delle coscienze, troviamo una formidabile muraglia che la propaganda della destra non è riuscita ad abbattere.
Bisogna tenere presente i vari fattori che hanno inciso negativamente per il governo in queste elezioni e hanno generato il malumore sociale contro i non pochi candidati governativi: la crisi energetica, l'inflazione, il boicottaggio degli approvvigionamenti, l'insicurezza, l'inefficienza nel funzionamento dell'apparato statale, l'influenza demoralizzante dell'ostentosa e corrotta borghesia bolivariana, fenomeni obbiettivi ma che sono stati straordinariamente ingigantiti dall'oligarchia mediatica venezuelana e internazionale con un'estesa e costosissima campagna che non ha precedenti nella regione: la CNN ha prodotto un insolito documentario chiaramente orientato a terrorizzare la popolazione alla vigilia delle elezioni!, e la “stampa seria” di America Latina, Stati Uniti ed Europa - che di serio non ha nulla - ha fustigato quotidianamente Chávez, scaricandogli addosso vagoni di menzogne che, malgrado l'impegno profuso nell'intento, non hanno sortito l'effetto desiderato, peraltro volto ad ottenere ben più del 40 % dei seggi nella Assemblea Nazionale! Tramavano ben altro: volevano ricreare in Venezuela le condizioni parlamentari che in Honduras hanno reso possibile il colpo di stato contro Mel Zelaya, ma la giocata non gli è riuscita bene e probabilmente torneranno alla carica. Tale sfrontata campagna mediatica è stata accompagnata da un vero diluvio di dollari, più di 80 milioni solo per l'anno in corso, sono stati canalizzati – attraverso “innocenti e indipendenti” ONG europee e statunitensi, perfidi strumenti di interventismo statunitense, verso l'agglomerato di forze politiche oppositrici con il pretesto di “rafforzare la società civile”, sviluppare la “educazione civica” e altri trucchi del genere.
Malgrado tutto ciò, Chávez ha ottenuto una comoda maggioranza in Parlamento e la destra adesso ha 20 seggi meno di quanti ne avesse, per esempio, nel 2000; e sebbene il presidente non avrà straordinari poteri politici, ha comunque una maggioranza abbastanza ampia per andare avanti nel processo di trasformazione in cui è immerso il Venezuela. Per questo, non ha alcun senso, parlare dell'inizio di una fase Terminale quale conseguenza del recente risultato elettorale. Sempre e quando, questo è chiaro, si legga correttamente il messaggio inviato dal popolo bolivariano evitando di negare le evidenze, come fa chi crede che i problemi si risolvano ignorandoli; si prenda corretta nota degli errori commessi e delle grandi sfide che deve affrontare il governo e, si ricordi, soprattutto, che non sarà il parlamento a insufflare nuova vita alla Rivoluzione Bolivariana bensì l'efficace lavoro di organizzare, mobilitare e coscientizzare della base del chavismo, procedimenti che o sono in forte ritardo o sono stati realizzati in modo molto carente. Il lavoro che resta è enorme, ma non impossibile. Bisogna rivedere e rettificare molte cose, dalla qualità della gestione pubblica fino al funzionamento del PSUV e dei suoi procedimenti di selezione dei dirigenti, che in alcuni casi è un vero fallimento. Nonostante quel che dicono i portavoce dell'impero, ammiratori per esempio della democrazia uribista in Colombia, Chávez ha un record democratico straordinario, ineguagliato a livello mondiale: in elezioni rigorosissimamente controllate, ha trionfato 15 volte sulle 16 consultazioni convocate dal 1998. A differenza di ciò che è avvenuto in tanti paesi - dal furto delle elezioni del 2000 negli USA, quando Al Gore vinse su George Bush Jr. per mezzo milione di voti e il Tribunale Superiore dello Stato della Florida, vedi caso governato da Jebb Bush, “corresse” in tribunale questo “malinteso” dell'elettorato, fino agli incredibili furti perpetrati in Messico prima dal PRI, nel 1988, contro Cuauhtémoc Cárdenas, e poi dal PAN, nel 2006, contro Andrés Manuel López Obrador - nel Venezuela bolivariano non ci sono mai state frodi. Questa eccezionale missione di Chávez, che radica nella profonda identificazione che esiste fra il popolo e il suo leader, ci permette di pronosticare che se saprà correggere ciò che deve essere corretto e rilanciare il processo rivoluzionario, il suo popolo saprà fare ancora un plebiscito alle elezioni del 2012. Non solo il Venezuela, ma tutta l'America Latina e i Caraibi hanno necessità che ciò accada.

da www.atilioboron.com
 La questione nazionale
 




di Spartaco Puttini


La questione nazionale, vale a dire la difesa della sovranità nazionale, la lotta per l’indipendenza della propria patria e la mobilitazione di solidarietà con i movimenti di liberazione nazionale degli altri paesi, ha fatto a lungo parte del bagaglio dei comunisti nel corso del Novecento.

Eppure oggi tale tematica è assolutamente bandita dall’orizzonte politico della così detta “sinistra”. Se si effettuasse oggi un sondaggio tra le persone che si dicono di “sinistra” una maggioranza più o meno netta sosterrebbe che nozioni come quella di nazione, patria e sovranità siano concezioni a loro estranee. Anche nei settori più accorti e preparati spesso pare che la questione nazionale esista solo in riferimento a coloro che lottano nei paesi in via di sviluppo contro il colonialismo, vecchio o nuovo che sia. Al di fuori di quest’orizzonte nulla sembra più esistere. La rimozione della questione nazionale rappresenta indubbiamente l’ennesimo tassello di un’opera edulcorante che la sinistra italiana ha subito e che ha portato agli attuali disastri. Un tassello di particolare importanza, per gli aspetti politici, culturali e strategici che esso riveste e che ne fanno, piaccia o meno, un elemento determinante per la costruzione di una forza vitale, utile ed efficace nelle presenti condizioni.
L’importanza che riveste la questione nazionale al giorno d’oggi impone una riflessione che non è più possibile rinviare.

Nella prima parte dello scritto tratteremo come e perché la questione nazionale è importante e prioritaria nell’attuale fase. Nella seconda parte faremo una breve carrellata dell’importanza che le veniva attribuita dal movimento comunista nel ‘900, del successo di cui ha goduto, dei risultati che ha portato. Infine tratteremo brevemente la sua possibile e necessaria riproposizione oggi per una forza che voglia essere efficacemente alternativa all’americanizzazione dilagante della nostra società e alle spinte disgregatrici che minacciano la Repubblica.


- La questione nazionale nell’età della globalizzazione

La caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda hanno lasciato il mondo privo di contrappesi di fronte alla potenza americana. Gli Usa hanno potuto approfittare del vuoto che si era venuto a creare nell’equilibrio internazionale per tentare di ottenere un’egemonia globale incontrastabile. Negli anni Novanta del Novecento gli Usa sembravano inarrestabili nella loro marcia trionfale verso l’instaurazione di un nuovo ordine mondiale unipolare. Nel primo decennio del nuovo secolo il quadro è in effetti assai mutato grazie all’emergere (o al riemergere) di alcuni paesi che hanno tutta l’intenzione di riportare l’equilibrio nella vita internazionale. Ciò non toglie che il tentativo egemonico statunitense sia ancora in corso. Per la prima volta nella storia l’umanità si trova di fronte ad una Potenza che, con il 5% della popolazione mondiale, dedica alle spese militari più di quanto non investa il resto del pianeta messo assieme! Se a questo sommiamo la capacità di influenza guadagnata dagli Stati Uniti nel corso degli ultimi 60 anni pressoché in ogni campo (da quello economico tramite il controllo della Banca mondiale e del FMI, a quello “informativo-culturale”, grazie all’ascendente che hanno sulle grandi catene mediatiche occidentali, per non parlare delle grandi possibilità a loro offerte dal quasi monopolio telematico) ci rendiamo agevolmente conto della portata della minaccia all’indipendenza ed alla sovranità delle nazioni del pianeta.

Grazie ad una politica estera aggressiva ed assertiva Washington ha mirato in tutti questi anni ad erodere ed a scardinare la sovranità nazionale degli Stati che potevano arginare l’imporsi dei propri ambiziosi piani. Da questo si può evincere l’importanza cruciale che riveste in questa fase la questione nazionale e la difesa della sovranità.


- Attualità ed importanza dello Stato-nazione e della sua sovranità


Per affermare la loro egemonia gli Usa mirano a distruggere la sovranità nazionale degli altri paesi. Un luogo comune straordinariamente diffuso e duro a morire pretende che gli Stati nazionali siano al loro crepuscolo e siano in crisi. Nell’era della globalizzazione ha ancora senso parlare di sovranità nazionale? Gli stati nazionali non sono forse destinati a sparire in grandi spazi aggregati?

In realtà la crescente interdipendenza tra le nazioni e le aree geografiche del globo non sta in alcun modo conducendo alla scomparsa degli Stati nazionali e delle loro prerogative. Vi sono, come sempre è stato nella storia moderna e contemporanea, compagini statali che si dissolvono ed entrano in crisi ma questo non comporta la crisi dello Stato nazionale in quanto tale, in quanto attore della storia. Prova ne sia che queste crisi (ad esempio quella jugoslava) sono spesso alimentate e strumentalizzate da altri Stati nazionali ai fini della loro politica di potenza. Certamente determinate evoluzioni, specie in ambito finanziario e telematico, travalicano con sempre maggiore facilità i confini ed i controlli. Ma se ci guardiamo attorno possiamo vedere con chiarezza come le prerogative sovrane degli Stati-nazione non siano affatto svuotate od impotenti. Basta guardare alle potenti politiche di sviluppo avviate dai governi progressisti in America latina (a partire dal Venezuela) od ai provvedimenti presi dalla Cina popolare nel frangente dell’ultima crisi economica (per non parlare del suo stesso modello di sviluppo), od alle parziali nazionalizzazioni in corso in Russia. Lo Stato, laddove vi siano élites politiche che ne hanno la volontà e la capacità è il protagonista assoluto dello stesso sviluppo economico. Per gestire i problemi delle nostre società sempre più complesse non è possibile affidarsi all’anarchia del mercato, occorre avvalersi di una programmazione dirigista e chi lo fa è avvantaggiato nella competizione globale. La presente crisi ha dimostrato che quando si parla di interesse generale, di stabilità del sistema paese, di investimenti, di guardare al futuro, di benessere e stabilità sociale, il sistema liberista anglosassone è fallimentare e genera una diffusa povertà. E’ quanto ha recentemente ammesso l’ex primo ministro francese Dominique De Villepin, punto di riferimento dei settori transalpini che vogliono riproporre la tradizione gollista. La discontinuità tra XX e XXI secolo non è poi stata tale da stravolgere completamente tutto. La forza di gravità esiste ancora e così anche alcuni principi strategici di base che, come notava il geopolitico americano Alfred Mahan, per la loro stessa natura sono sempre quelli che risentono meno dei segni del tempo.

La stessa tendenza degli Stati a coordinarsi in grandi spazi aggregati di dimensione semicontinentali non comporta automaticamente il riconoscimento della crisi dello Stato nazionale. Questo processo di aggregazione spesso non avviene mortificando la sovranità, ma esaltandola. Né l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, né l’Unasul od il Mercosur o l’Alba svuotano la sovranità nazionale dei partecipanti. Anzi, queste organizzazioni, che radunano Stati nazionali che si oppongono all’imperialismo, proprio perché rappresentano un contrappeso alle forze mondializzanti dell’Anglo-America, garantiscono la difesa della sovranità nazionale da processi di svuotamento e di imposizione di un neocolonialismo post moderno. Quando si guarda a queste esperienze si cita troppo spesso a sproposito il precedente e l’esempio del processo d’integrazione europea. E’ vero che quegli stessi paesi guardano a quanto (bene o male) l’Europa ha fatto in termine di integrazione. Ma ciò è naturale essendo quello europeo un primo e “grande” tentativo. Che stiano ripercorrendo i nostri passi o che siano intenzionati a farlo rappresenta un altro paio di maniche. In quanto primo tentativo non è certo alieno da difetti. Nell’Ue ci si è spinti certamente avanti nel delegare a commissioni supernazionali molte delle prerogative dello Stato sovrano. Questo ha portato però a porre in posizioni chiave una burocrazia tecnocratica legata a doppio filo alla finanza transnazionale anglo-americana ed ai centri atlantici ed ora questa burocrazia gode di competenze che sfuggono ad una gestione democratica. L’europarlamento non è altro che un’obesa sovrastruttura priva di potere reale ed attraversata dalle lobbies. Da notare che l’integrazione arranca proprio in quei settori (esteri e difesa) che più di altri dovrebbero mostrare la vitalità di una costruzione nuova. Qui pesa la mancata volontà politica delle élites europee. Perché? Evidentemente perché integrate in una trama atlantica cui sono subalterne da ormai 60 anni. Qualsiasi paese voglia aderire all’Ue deve prima passare dalle forche caudine dell’ammissione alla Nato, cioè da una struttura subordinata agli interessi geopolitici degli Usa. Chi vuole entrare ma diverge dalle strategie di Washington è tenuto ai margini (emblematico è il trattamento riservato alla Turchia prima e dopo l’avvento dell’AKP). Da noi di fatto l’integrazione, se potenzialmente ha ritagliato alcuni spazi di potenziale sfida agli Stati Uniti (come in ambito monetario), dall’altro ha segnato una marcata atlantizzazione e quindi soggezione agli stessi. Questo è solo uno dei problemi posti dal modello integrativo dell’Unione europea. Un altro grande, rilevante problema, è dovuto al fatto che in una struttura sopranazionale come la Ue gli Stati che ne fanno parte non sono solo sottoposti ad una pressione dall’alto, da Bruxelles, ma anche a spinte centrifughe dal basso, in senso anche pericolosamente secessionista. Si vedano i casi del Belgio e dell’Italia. L’essere in un contenitore più grande, cui si delegano prerogative proprie che dovrebbero essere inalienabili per una democrazia degna di questo nome, favorisce lo spudorato manifestarsi di opzioni separatiste che si sentono sicure di poter agire in una cornice che sarà in grado di evitare rotture brusche.
Se guardiamo alle altre integrazioni regionali possiamo notare che esse, se puntano ad un aumento del coordinamento tra i paesi partecipanti in tutti i settori e ad una messa in comune delle risorse per far fronte a sfide cruciali nei settori strategici, sono ben lungi dal porsi l’obiettivo del superamento dello Stato nazionale o della delega della sovranità.


- La questione nazionale nella storia del movimento comunista

Contrariamente ad una superficiale interpretazione, data a seconda dei casi per ignoranza o per malafede, i partiti comunisti, così come si sono caratterizzati nel corso del Novecento, non sono affatto estranei all’idea di nazione. Lo stesso concetto di internazionalismo non significa affatto, contrariamente a quanto ritenuto da molti, negazione delle nazioni ma fratellanza tra le nazioni, cioè tra i popoli. Inter significa tra, solamente nell’eterodossia trozkista ed in determinati segmenti della nuova sinistra post-sessantottina il suffisso inter è stato sostituito concettualmente dal suffisso a, fino ad arrivare a coniare slogan come: “il proletariato non ha nazione, internazionalismo rivoluzione!”, uno degli slogan tra i più pericolosi e fuorvianti che vi siano. Disgraziatamente tale modo di vedere ha finito con il prendere il sopravvento in una sinistra sempre più sinistrata, sempre più alla deriva ideologica, politica e strategicamente priva di bussola.

Nel corso del Novecento il movimento comunista internazionale in fase di ascesa aveva invece prestato una particolare attenzione alla questione nazionale. Si spiega così perché i vari partiti comunisti, in diverse aree del globo, si siano posti alla guida dei movimenti di liberazione nazionale. Oltre a ricordare l’elaborazione bolscevica della questione nazionale dovuta principalmente a Stalin, che meriterebbe una trattazione a parte, ciò è particolarmente evidente nell’esperienza cinese e in quella vietnamita. Entrambi i partiti comunisti di questi paesi, che pure hanno operato ed operano in contesti diversi, hanno conquistato una solida egemonia politica sulle masse perché hanno saputo mettersi in primo piano nella lotta nazionale per la liberazione della loro patria dalle Potenze coloniali e neocoloniali e dai traditori che le hanno appoggiate, vendendo il proprio popolo.
In particolare il successo della rivoluzione cinese nel 1949 arriva al termine di un lungo ciclo di lotte per restituire alla Cina la propria indipendenza ed unità e per scongiurare il pericolo reale e drammatico della scomparsa della Cina a causa della dissoluzione dello Stato centrale seguito alla crisi di fine Ottocento ed al tentativo di conquista e colonizzazione giapponese avvenuto negli anni ’30 e ’40 del Novecento. Il successo della strategia di Mao e dei comunisti cinesi non si può comprendere solo alla luce della centralità data alle miserabili masse contadine nel processo rivoluzionario, aspetto comunque di fondamentale importanza. Si deve comprendere nel quadro più ampio della lotta condotta per la liberazione nazionale del popolo cinese e per la sua sovranità. E’ questo che ha spinto il giovane PCC all’alleanza organica con i nazionalisti guidati da Sun Yatsen su una base programmatica avanzata. Non è un caso che i primi sviluppi e successi del PCC si registrarono proprio nella fase del governo di Canton, quando congiuntamente nazionalisti e comunisti si allearono contro il flagello rappresentato dai signori della guerra, quinte colonne dell’imperialismo.
Quando, in seguito alla morte di Sun, nel Kuomintang presero il sopravvento con Chang Kaishek generali felloni, capi dell’aristocrazia latifondista e traditori in combutta con le Potenze imperialiste, l’alleanza si ruppe ed iniziarono le spietate campagne contro i “rossi”. Il Pcc ebbe la capacità di riprendere la bandiera di Sun (nazionalismo, democrazia, benessere del popolo) e di farla propria contrapponendola al tradimento compiuto da Chang. Anche durante il periodo più difficile della lunga marcia, i comunisti tennero sempre come stella polare la questione nazionale. Il Pcc, in quello sforzo gigantesco, trasse incredibili energie dalla prospettiva di insediarsi nelle nuove basi del nord-ovest al fine di poter essere in prima linea per contendere agli invasori giapponesi, penetrati dalla Manciuria, palmo a palmo il territorio del proprio paese.
Durante la guerra antigiapponese il comportamento del Pcc, in prima linea nella guerra di liberazione nazionale, fece si che i comunisti si affermassero come la forza più prestigiosa ed affidabile cui il popolo cinese poteva rivolgersi (come all’epoca notarono anche numerosi inviati statunitensi). Il comportamento ambiguo e deleterio del regime di Chang Kaishek, più occupato a tramare per la guerra civile che a difendere la propria gente dall’occupazione straniera, divenne allora evidente. Fu nel corso di quella guerra che mutarono i rapporti di forza tra i comunisti ed i nazionalisti. E’ grazie alla coerente adozione della questione nazionale come orizzonte ideale e strategico se nel 1949 i tempi furono maturi per rovesciare la dittatura di Chang, riunificate la Cina ed avviarla lungo la strada dell’emancipazione più vasta che la razza umana abbia mai visto.
Come ha notato la più importante sinologa italiana, Collotti Pischel, grazie a questa politica l’unico fronte nazionale che acquisiva un senso era quello costruito attorno all’egemonia del PCC: “Il legame tra la lotta di classe e la lotta nazionale fu la caratteristica dell’opera storica di Mao e anche delle forti e non riassorbibili caratteristiche nazionali del Partito comunista cinese. A questo punto dobbiamo cessare di vedere l’intensità delle caratteristiche nazionali in un partito comunista come il segno di una ‘carenza’: in Ho Chi Minh non fu una carenza l’essere il maggior dirigente nazionalista del Vietnam e al tempo stesso un marxista che sapeva condurre un’analisi di classe interna e internazionale”1.

L’importanza della questione nazionale nell’elaborazione e nella strategia dei comunisti non è mai stata una devianza, un fenomeno deleterio ma ha rappresentato un aspetto imprescindibile ed una carta vincente del loro operare. Imprescindibile perché qualsiasi forza politica nasce e si sviluppa in un contesto nazionale specifico, in una comunità che ha una sua storia e delle caratteristiche sue proprie.
Ciò non è vero solamente per le realtà dell’Asia ed in generale di quelle regioni del globo che hanno conosciuto il giogo coloniale o che comunque si sono trovate schiacciate dal rullo compressore imperialista. Anche in Europa tale questione si impone alla riflessione in tutta la sua portata. Non si può accettare il patriottismo di quanti lottano nel così detto Terzo mondo e poi negare il proprio. Non si può inserirlo nel proprio orizzonte culturale quasi si trattasse di un’appendice esotica e non saperlo armonizzare in un più ampio e fecondo orizzonte politico e strategico. Innanzitutto perché anche la storia dei comunisti in Europa è una storia segnata dall’importanza della questione nazionale.

Ciò è particolarmente evidente in Russia, dove i comunisti arrivarono al potere in un periodo di torbidi segnati dalla difficile eredità del fiasco zarista nella prima guerra mondiale, dalla guerra civile e dall’interveto straniero. Dopo aver superato queste difficoltà, si trovarono nelle condizioni di gestire un paese accerchiato nel quale tutto ciò che non era da ricostruire era da edificare. Così, come ha notato Losurdo, divennero con Stalin i principali edificatori della Russia in quanto stato-nazione su nuove basi2.
Dopo il fallimento della rivoluzione in Occidente le attese messianiche vennero messe da parte dalla svolta realista operata da Stalin. La costruzione del socialismo in un paese solo, lungi dal rappresentare una marcata discontinuità di natura ideologica volta a rompere con l’internazionalismo, rappresentò una scelta obbligata in un contesto definito: quello dell’accerchiamento imperialista del nuovo Stato sovietico. Il fine era costruire una Potenza moderna su basi sovrane e non capitalistiche che potesse difendersi da un possibile assalto esterno e dare vita ad un nuovo ordine che garantisse i bisogni di un popolo che aveva affrontato la terribile prova della rivoluzione e della guerra civile. Il mezzo per giungerci era dato da una industrializzazione necessariamente rapida che avrebbe dovuto incrociare la generale modernizzazione della società sovietica tramite la scolarizzazione di massa, la meccanizzazione dell’agricoltura, la mobilitazione totale delle risorse umane e materiali disponibili nell’immenso paese. La molla per far fronte a questa titanica sfida fu data non solo dall’afflato a costruire una società socialista od a quello più prosaico di ottenere un netto miglioramento delle proprie condizioni e delle proprie aspettative di vita per milioni di persone (ed in questo la strategia di Stalin incontrava sicuramente le aspettative della maggioranza della popolazione più di qualsiasi altra suggestione, come ha notato lo stesso dissidente Alexander Zinoviev) ma anche dal richiamo al patriottismo. L’inserimento della rivoluzione bolscevica e della successiva difesa del paese dall’intervento straniero nell’epopea storica nazionale furono un primo passo per legittimare il nuovo regime come l’incarnazione di un potere nuovo, popolare, sulla base della gloriosa, tradizionale, storia del paese. La prova della seconda guerra mondiale contro la Germania hitleriana, non a caso chiamata “Grande guerra patriottica”, fu il momento culminante di questo processo3. Ancora oggi la vittoria sul nazifascismo rappresenta un elemento chiave del patriottismo russo ed un momento particolarmente sentito della loro storia, della loro identità. Un fatto questo che ha indissolubilmente legato la Russia al periodo sovietico, pur tramontato.

Anche in Europa la questione nazionale si è imposta. Basti pensare al fenomeno della Resistenza europea ed al peso che in essa ebbero i comunisti, specialmente in alcuni paesi (dalla Jugoslavia alla Grecia, dalla Francia all’Italia…).
Il caso del Pci è in particolar modo indicativo dell’attenzione e del rilevo che venivano dati alla questione nazionale. Non va dimenticato che Gramsci e Togliatti erano innanzitutto uomini di una profonda cultura che si sentivano eredi delle correnti più avanzate del Risorgimento e che si ponevano (analogamente ad altre tendenze democratiche di diversa ispirazione) il problema dell’inserimento delle masse popolari e lavoratrici nella vita dello Stato unitario, da cui erano state escluse dal regime liberale. I due storici leader del Pci nascevano cioè da un brodo culturale tipicamente nazionale, con i suoi pregi ed i suoi difetti. Approdarono al comunismo nella convinzione che esso rappresentasse il moto storico, la prospettiva strategica, capace di condurre all’emancipazione delle classi popolari ed alla risoluzione di tutte quelle contraddizione che la nostra storia nazionale aveva, per un insieme complesso di cause, lasciate aperte. Questo aspetto è evidente in tutta l’azione svolta dal Pci nella Resistenza e nella costruzione dello Stato democratico, dalla svolta di Salerno in poi. Ma la questione nazionale ed il richiamo al patriottismo emergono già prepotentemente dai discorsi che Togliatti rivolse agli italiani da Radio Mosca.
Anche nella guerra di Liberazione, proprio nella guerra di Liberazione, il Pci si pone come forza patriottica ed internazionalista al tempo stesso. Si pone l’obiettivo di lottare contro l’occupante tedesco e contro i residui del fascismo che hanno seguito Mussolini nel suo tradimento. Ma la sfida in quel frangente è anche un’altra, non meno impegnativa, cercare di risollevare il paese dalla sconfitta in cui era stato trascinato dal precedente regime e garantire all’Italia la possibilità di disporre nuovamente di sé, unita e sovrana, all’indomani della guerra. Contrariamente alle interpretazioni oggi in voga l’assetto postbellico era allora assai fluido ed a Yalta non venne deciso tutto. L’ordine bipolare sanzionato dalla cortina di ferro prese corpo progressivamente per effetto delle ambizioni e delle reciprocità che caratterizzarono le relazioni tra le Potenze nell’immediato dopoguerra. Beninteso, l’avanzata degli eserciti degli occidentali piuttosto che dei sovietici poneva certamente delle ipoteche, ma quale effetto queste avrebbero avuto e fin dove il controllo dei vincitori si sarebbe spinto era questione aperta a più soluzioni.
L’impegno profuso nella lotta avrebbe dovuto garantire al Pci il peso ed il prestigio necessari per esercitare un’influenza nelle vicende politiche italiane al fine di superare l’istituto monarchico e completare il processo rimasto incompiuto con il Risorgimento accanto ed in sintonia con le altre forze patriottiche. Queste erano le intenzioni alla base della svolta.
E’ da notare che anche quando la collaborazione con i partiti di massa venne rotta dall’esplodere della guerra fredda fu il Pci ad ergersi a difensore della sovranità nazionale contro la tutela crescente esercitata dagli Usa tramite il patto atlantico. Da allora nella storia politica dell’Italia repubblicana la lotta per l’attuazione della Costituzione e quella per uno sviluppo democratico del paese fecero il paio con quella per l’autonomia della politica estera italiana come appare evidente nel periodo di scontro cruciale tra queste opzioni (1953-1963), allorché ci si trovò alle prese con la transizione dal centrismo al centrosinistra.
Ma i richiami al patriottismo erano insiti anche nella simbologia, con il ricorso al tricolore nello stemma del partito o (ancora precedentemente) con la scelta del nome “l’Unità” quale testata del proprio organo ufficiale.

Successivamente questa ricca ed efficace elaborazione è venuta meno. E solo paradossalmente questo scivolamento della questione nazionale nell’oblio si è prodotto proprio quando, con il nuovo corso dell’eurocomunismo, il Pci ha attuato uno strappo con gli altri partiti comunisti ed ha accettato l’ombrello atomico della Nato. La rimozione della questione nazionale è avanzata lentamente ma inesorabilmente nella sinistra italiana di pari passo con altre rimozioni analoghe fino a configurare uno snaturamento o, come qualcuno lo ha definito, un processo di “mutazione genetica” del partito e del corpo militante che vi faceva riferimento. Resta una questione aperta comprendere quanto a tale svolta abbia concorso la penetrazione di alcune suggestioni e di alcune interpretazioni della storia del movimento operaio che confusamente si sono affermate dopo lo sconvolgimento politico, ideologico e culturale prodotto dal ’68 fino agli inizi degli anni ’70.


- Cos’è il patriottismo e perché è necessario

Il patriottismo ed il sentimento di appartenenza ad una comunità nazionale non comportano affatto l’estraneità, l’insofferenza od il disprezzo verso coloro che di quella comunità non sono parte. Vi è una differenza abissale tra chi apprezza la propria cultura e lotta per il proprio paese mostrandosi solidale con le lotte compiute da altri popoli per le stesse ragioni e chi sostiene la superiorità del proprio paese e vuole negare ad altri ciò che per lui vi è di importante. Il generale De Gaulle soleva dire che il patriottismo è amare il proprio paese, il nazionalismo odiare quello degli altri. Questo inciso è piuttosto efficace, ma non vi è bisogno di risalire allo statista francese per trovare nella storia elementi che dovrebbero bastare per archiviare l’insulsa osservazione in base alla quale basta sentirsi parte di una comunità per avere atteggiamenti esclusivi o ghettizzanti nei confronti degli “altri”. Dal Risorgimento in poi tutti i veri patrioti non hanno mai mancato di mostrare solidarietà alle lotte di liberazione di altri popoli, spesso non solo a parole. In questa chiave il patriottismo si sposa con l’internazionalismo. Nell’età dell’imperialismo il nazionalismo è invece stato utilizzato per rivendicare alle Potenze il diritto di soggiogare altri popoli, altre nazioni. Notava Pietro Secchia che nell’età della più aspra competizione inter-imperialista i ceti alto borghesi ed oligarchici dei paesi sviluppati, legati tra loro dal comune sentimento cosmopolita, utilizzarono l’arma del divulgare una visione astratta della nazione al fine di irreggimentare i popoli in una solidarietà di facciata con le loro élites e farli marciare contro gli altri per i propri scopi. L’idea di nazione che avevano i comunisti era, sosteneva l’ex commissario delle brigate garibaldine, più concreta perché la nazione è nella sua stragrande maggioranza il popolo e l’interesse della nazione è quello del popolo. Quanto avesse il senso della nazione la grande borghesia italiana lo si vide quando, nel secondo dopoguerra, corse a ripararsi sotto l’ombrello atomico americano. Il patriottismo non è la sua degenerazione imperialista ed il cosmopolitismo non c’entra nulla con la solidarietà internazionalista4.

In realtà nel linguaggio corrente degli ultimi decenni il termine di patriottismo è stato reso interscambiabile con quello di nazionalismo laddove si descrivevano i movimenti di liberazione di gran parte del mondo (dall’Algeria alla Palestina, dall’Africa nera all’Oriente asiatico).
Si può distinguere l’ambiguità dei termini tenendo presente ciò che sosteneva Huey Newton, fondatore del Black Panther Party: “Ci sono due generi di nazionalismo, il nazionalismo rivoluzionario ed il nazionalismo reazionario. Il nazionalismo rivoluzionario dipende dal processo rivoluzionario del popolo ed ha come obiettivo di portare il popolo al potere. Di conseguenza essere un nazionalista rivoluzionario porta necessariamente ad essere socialista”.
Nel suo celebre scritto Il marxismo e la questione nazionale Stalin metteva in relazione le rivendicazioni nazionali con il segno di classe che esse di volta in volta assumevano in un dato contesto e soprattutto con l’effetto che esercitavano nel computo generale della lotta contro l’imperialismo. Che vi sia un legame tra questione nazionale e classe sociale appare vero sin da quando, all’inizio della rivoluzione francese, Sieyès sostenne che il “Terzo Stato” era la nazione e che gli ordini aristocratici perciò non erano nulla, se non un corpo estraneo che campava parassitariamente su di essa. Che vi siano stati nella storia, e che vi siano oggi nella storiografia, diversi e molteplici modi di guardare alla questione nazionale, di definire il senso di concetti utilizzati frequentemente in modi diversi e divergenti (come appunto quelli di nazione e nazionalismo) è un fatto acclarato e che meriterebbe però una più ampia ed esaustiva trattazione.

Qui interessa per il momento togliere una prima patina di ambiguità ad un termine e ad un concetto, ad una prospettiva, che sono stati posti per lungo tempo all’indice con risultati catastrofici.


- La questiona nazionale al crocevia delle scelte nodali


Il recupero del patriottismo e il ritorno alla riflessione sulla questione nazionale si impongono all’Italia di oggi, da più punti di vista. Dal punto di vista economico solo il ritorno ad un qualificato intervento pubblico può permettere di lasciarci alle spalle il fallimentare modello neoliberista importato dall’Anglo-America. Il neoliberismo ha azzoppato la nostra economia e scosso fino alle fondamenta la nostra società generando miseria, esaltando la cancrena individualista, seminando disillusione, sfiducia, rabbia, sottocultura e violenza. E’ la punta di lancia di un più ampio e preoccupante processo di americanizzazione che rischia di distruggere la nostra civiltà (messa in crisi da qualcosa di assai più concreto del fenomeno migratorio). La crisi economica e sociale lascia ampio spazio alla demagogia disgregatrice di forze secessioniste e xenofobe, oggettivamente anti-nazionali. Sul piano economico solo una politica di programmazione può raccogliere le risorse che servono per far fronte alla sfida portata dalla crescita dei paesi emergenti. L’investimento nella ricerca e nelle tecnologie d’avanguardia non è più rinviabile e deve rappresentare uno sforzo lucidamente coordinato verso obiettivi definiti. Dal punto di vista sociale occorre sostenere la necessità di restituire agli italiani quel potere d’acquisto la cui erosione ha bloccato l’economia e lo sviluppo del paese. Il recupero della questione nazionale, dell’attaccamento ai valori della Patria repubblicana, la riscoperta dei momenti alti della nostra storia rappresenta il filo di un discorso da riprendere e da riallacciare alla necessaria politica di giustizia sociale che impone, per il bene dell’intera comunità nazionale, una equa ripartizione del carico fiscale ed una capillare redistribuzione della ricchezza nella spesa sociale. Dal punto di vista più strettamente politico e istituzionale consente di imprimere maggior forza ed incisività alla necessaria e vitale battaglia di sostegno alla Costituzione Repubblicana, che rappresenta “quel patto giurato tra uomini liberi che si chiama ora e sempre Resistenza” e che, piaccia o meno, rappresenta la base sulla quale è rinata la Nuova Italia ed al tempo stesso contiene in nuce gli elementi utili per il suo felice ed armonico sviluppo.
Il recupero di tale tematica permette di raggruppare e di parlare ad un numero maggiore di persone, quale che sia la loro origine, la loro ideologia, o le loro sensibilità; rappresenta qualcosa di rassicurante, proprio perché nelle attuali convulsioni la gente è in cerca di certezze, punti fermi. La questione nazionale consente di traghettarla ad approdi sicuri, consente di rimettere in circolo una alternativa politica su tutte le questioni essenziali e strategiche del nostro tempo. Rappresenta, infine, una potente arma di delegittimazione e di legittimazione che non è possibile lasciare a coloro che operano contro gli interessi nazionali. Consente, infine, di disegnare una prospettiva strategica di uscita da una crisi che non è solo economica e/o congiunturale. Senza tale prospettiva qualsiasi singola battaglia, benché giusta, resta una scaramuccia di retroguardia che non può diventare controffensiva.

La drammatica fase che attraversiamo impone la ripresa di una bandiera per fare intendere determinati, cruciali, discorsi a tutti gli italiani, quali che siano le loro origini, le loro sensibilità le loro appartenenze. Impedisce che il tricolore venga strumentalizzato da coloro che concretamente operano contro l’Italia trascinandola alla rovina e consente di additare di fronte a tutti ciò che è necessario in questo momento. Non è poco.

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Note

1. E. Collotti Pischel, “Fenomeno nazionale” e questione coloniale; in: AA.VV., Momenti e problemi della storia dell’URSS; Roma, Editori Riuniti 1978, pp.242-243

2. Si veda: D. Losurdo, Stalin: storia e critica di una leggenda nera; Roma, Carocci 2008

3. Per tali aspetti rimando al pur discutibile saggio di Giuseppe Boffa, Componente nazionale e componente socialista nella rivoluzione russa e nell’esperienza sovietica; in: Momenti e problemi, op. cit., pp.15-32

4. P. Secchia, Nazionalismo borghese e patriottismo proletario; Roma, La stampa moderna, 1951



Fonte: www.lernesto.it
Link: http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=19447

Comunità, libertà e giustizia 


  di Stefano Moracchi


La libertà è un concetto che ha dato e continua a dare grandi prospettive ideali alle varie correnti e movimenti che operano nella società.
Nel nome della libertà sappiamo che si sono commessi i più grandi delitti, come anche si sono avute le più cocenti delusioni.
La parola libertà è stata invocata dalle più diverse strutture autoritarie, come anche nelle diverse democrazie.
La libertà, quindi, non è appannaggio di una determinata costruzione politica, anche se senza una chiara impostazione di diritti naturali e diritti positivi ( a questo proposito il giusnaturalismo e il giuspositivisimo hanno contribuito all’accrescimento delle tematiche sul concetto di diritto) la stessa libertà diviene arbitraria.
Il problema che vorrei porre è il seguente: la libertà senza sicurezza materiale, senza sostegno economico, senza possibilità di garanzie sociali garantite, può essere possibile?
La libertà invocata dal liberismo, dal neoliberismo, si poggia, sul piano economico, sul famoso laissez- faire. Si suppone che il libero mercato (libero in che senso?) possa trovare al suo interno le capacità di sviluppo e di occupazione che, altrimenti, non sarebbero possibili. In questa visione della società il mercato e la libera impresa possono ciò che lo Stato non potrebbe.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=1633

  La fine del paradigma

thomas_kuhn 
di Federico Stella

Il crollo dell’Unione Sovietica non ha rappresentato solo la fine del mondo bipolare: con esso abbiamo assistito alla crisi, alla disintegrazione e alla successiva e inevitabile fine del marxismo così come era a noi noto. Ciò che ci rimane ora sono le macerie di una teoria ed è nostro dovere cercare tra i resti e prenderne alcuni pezzi al fine di costruire la nuova teoria rivoluzionaria che si ergerà sulle rovine della precedente.

Dalla crisi del marxismo a un marxismo della crisi?

 
petrolio 

di Piero Pagliani

Il progetto imperiale statunitense è in visibile riflusso. L’elezione di Barack Obama ne è il sintomo più vistoso. Ormai solo gli ottusi senza speranza non riescono a capire che quella attuale è una crisi capitalistica sistemica che, quindi, non lascerà gli assetti geopolitici come li ha trovati. Ciò che è in crisi non è la finanziarizzazione minata dai titoli tossici, non è l’economia reale lasciata senza ossigeno creditizio e tradita da finanzieri e manager attratti dalle chimere della speculazione finanziaria: ciò che è in crisi è il ciclo capitalistico di accumulazione globalmente egemonizzato e coordinato dagli Stati Uniti, ciclo iniziato alla fine della II Guerra Mondiale, l’evento che risolse la grande crisi del ’29 e consentì di riempire il vuoto egemonico mondiale lasciato dal declino dell’impero britannico. Il resto sono conseguenze, sintomi, fenomeni ed epifenomeni collegati.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=341

mercoledì 29 settembre 2010

Area Programmatica “La CGIL che vogliamo”: il futuro Movimento Anticapitalista italiano? 



di Eugenio Orso 

Venerdì 24 settembre ho partecipato alla costituzione dell’Area Programmatica “La CGIL che vogliamo” in provincia di Trieste, città in cui lavoro e in cui risulto uno dei tanti tesserati Fiom. L’incontro fondativo dell’Area è avvenuto di pomeriggio, nella Casa del Popolo [ebbene sì, le Case del Popolo esistono ancora, pur non essendo esattamente quelle dei tempi “arcadico‐guareschiani” di Peppone e Don Camillo] in quel di Borgo San Sergio alla periferia di Trieste. Le componenti sindacali presenti in loco, con prevalenza di membri dei direttivi, erano quelle solite dei metalmeccanici Fiom, della Funzione Pubblica e dei bancari all’interno della CGIL – coloro che hanno sostenuto la mozione congressuale numero due, per intenderci, in contrapposto alla CGIL burocratico‐formale e “attendista” di Guglielmo Epifani – ma l’incontro era aperto a tutti i lavoratori interessati, senza preclusioni di sorta, così come dovrebbe essere quando si cerca di “riattivare” in situazioni sociali difficili l’efficacia dell’azione sindacale, e di estendere la base del consenso a tutta l’area del lavoro dipendente, intellettuale e materiale, impiegatizio e operaio, pubblico e privato, sfruttato e ri‐plebeizzato da questo capitalismo con l’evidente complicità della politica “ufficiale” e del sindacalismo giallo.

Continua qui:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=1621

martedì 28 settembre 2010


Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi

 
Quello che segue è uno degli ultimi lavori teorici di Costanzo Preve. Come diciamo da tempo, manca quasi del tutto la pars costruens e  non può essere considerato come un manifesto programmatico del Laboratorio di Comunismo e Comunità, ma va letto, perché può costituire un valido elemento per alimentare il dibattito intorno al comunismo.

di Costanzo Preve
 
1. Il problema. Rimettere sui piedi il problema del comunismo ed il problema della percezione complessiva del ruolo di Marx nella storia universale del pensiero umano
2. Il modo di produzione comunitario, forma storico-naturale della riproduzione umana complessiva
3. Dalla natura alla storia, Il passaggio dalla comunità egualitaria al dispotismo comunitario.
4. Le forme asiatiche del dispotismo comunitario: Cina, India, Incas
5. La dialettica sociale della comunità greca antica: eccezionalismo ed universalismo filosofico potenziale
6. La logica di sviluppo della comunità nel modo di produzione schiavistico europeo antico
7. La logica di sviluppo della comunità nel modo di produzione feudale europeo medievale
8. Lo sviluppo storico progressivo dell’innovazione individualistica occidentale
9. L’idealismo tedesco come grande reazione filosofica comunitaria all’innovazione individualistica occidentale ed i suoi tre grandi esponenti (Fiche, Hegel, Marx)
10. Il necessario riorientamento gestaltico integrale di Marx. Dal futurismo utopico del coronamento della modernità al ricollegamento ad una tradizione millenaria di difesa della comunità contro la dissoluzione individualistica
11. La legittimità del comunismo storico novecentesco e le ragioni del suo fallimento
12. Il modo di produzione comunitario oggi nell’epoca della dittatura totalitaria della globalizzazione capitalistica neoliberale

Continua qui:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=1559
 Brevi note sulla ristrutturazione del mercato del lavoro in Italia e sulla riforma del diritto del lavoro.


  

di Giovanni De Francesco

Da diversi anni è in corso un progetto di ristrutturazione generale del mercato del lavoro presentato ufficialmente come politica di sviluppo economico del Paese. Questo deve passare attraverso la creazione di nuovi mercati per le imprese con la competitività dei prodotti. Competitività che significa vendita dei prodotti a prezzi inferiori di quelli di altre imprese.

Nel ciclo produttivo l’unica variante su cui incidere per ridurre il prezzo di un prodotto è il costo della manodopera. La competitività passa, pertanto, attraverso la riduzione del costo della manodopera. Non a caso una delle accuse che da diverso tempo viene rivolta ai lavoratori italiani è quella che costano troppo per le imprese.

Segue:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=268
PROVE TECNICHE DI EURASIA?




di Maurizio Neri

In questo numero di «Comunitarismo» i lettori troveranno la recensione all’ultimo libro di Costanzo Preve che tratta da un punto di vista filosofico, ma non solo, l’argomento geopolitica, con un capitolo dedicato all’Eurasia, intendendosi con questa espressione la possibile unione geopolitica tra l’Europa ed il Continente asiatico. Abbiamo già espresso su questa Rivista la nostra diffidenza verso certe concezioni eurasiatiche provenienti da ambiti di estrema destra neonazista che cercano di appropriarsi del concetto per inserirvi elementi imperialistici mutuati dall’esperienza nazionalsocialista e di riproporre il concetto di Lebensraum come motore di quest’unione.

Segue:  http://comunitarismo.it/prove_tecniche_eurasia.htm
  Intervista a Costanzo Preve a cura di Franco Romanò 


Franco Romanò

Nell’ampia intervista che pubblichiamo, s'insiste sui punti nevralgici della Trilogia: Storia dell’etica, Storia della dialettica e Storia del materialismo, scritti dal filosofo torinese e tutti pubblicati dall’editore Petite Plaisance. In essa Preve suggerisce alcune linee per un bilancio teorico del socialismo reale, da lui definito comunismo novecentesco. Prendendo spunto dalla critica di Lucáks al materialismo dialettico e dalla sua positiva intuizione dell’ontologia dell’essere sociale, Preve individua nella sovrapposizione fra dialettica logica e dialettica storica, uno dei motivi della sconfitta comunismo novecentesco, che l’autore vede fortemente inquinato da residui positivisti. In tale contesto Preve interpreta il marxismo come filosofia della prassi e non della natura, interpretazione avanzata per la prima volta da Gentile e fatta propria da Gramsci. Da questa convinzione nasce la riflessione su Marx, da Preve considerato un filosofo idealista che ha prodotto una teoria strutturalista del modo di produzione capitalistico, servendosi della dialettica hegeliana e applicandola al nuovo oggetto sociale. Critico nei confronti di tutte le correnti di pensiero marxiste che tendono ad allentare il legame fra Marx ed Hegel e a negare l’importanza del concetto di alienazione, Preve considera Marx un pensatore tradizionale che risale alle radici greche della filosofia e reagisce alla mancanza di etica comunitaria del moderno capitalismo, così come il pensiero filosofico greco aveva reagito all’avanzare della società schiavista. Nella parte finale dell’intervista la riflessione filosofica s’intreccia a questioni riguardanti la crisi economica attuale, il venir meno della correlazione dialettica necessaria fra proletariato e borghesia e altri temi di più stretta attualità, come i nuovi soggetti sociali, l’area dei cosiddetti nuovi diritti e le aspettative suscitate dalla presidenza Obama.

Segue: http://comunitarismo.it/Intervista%20a%20Costanzo%20Preve.pdf

lunedì 27 settembre 2010

Comunismo, Comunità, Classe
 




 di Maurizio Neri


«Ma non scoppiano forse tutte le sommosse, senza eccezione, nel disperato

isolamento dell’uomo dalla comunità (Gemeinwesen)?» Karl Marx, 1844



Riflessioni e proposte per promuovere il dibattito, per la costruzione del Movimento Anticapitalista.



Questo saggio vuole contribuire a delineare i tratti del pensiero del Comunismo Comunitario inserendosi nel discorso iniziato nelle pagine di Comunitarismo diversi anni fa in due diversi saggi sul comunitarismo.1

I due articoli in questione rappresentano una importante e lucida ricostruzione delle varie influenze del pensiero comunitarista italiano e riescono a cogliere come i termini «comunità» e «comunitarismo» siano stati utilizzati dalle più eterogenee forze politiche a dai più diversi Autori. Ritengo però che il volersi rifare ad analisi ed elaborazioni fatte da altri, o il voler ricondurre il proprio agire politico a quello di movimenti del passato, rappresentino entrambi un limite.

Continua qui:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=1280
Quando ad agitarsi sono i dominanti




di Maurizio Neri


Quello che stiamo assistendo in questi giorni ha del paradossale: ad agitarsi sono i dominanti e a tacere sono i dominati. Il governo, in assenza di una opposizione, se la crea a tavolino.
Questo ad un primo sguardo. Se scendiamo più a fondo nell’analisi, constatiamo che questa esplosione di tensioni tra dominanti non è in sé una malattia, ma il sintomo di un male più grave: la struttura di potere è nella sua fase più acuta di trasformazione.
Questa trasformazione ha cause endogene e cause esogene.
Fu in base allo studio di queste crisi strutturali che Marx definì la nozione di “borghesia>, come concetto storico-descrittivo riferito a un settore specifico delle classi dominanti sorte in competizione con gli strati tradizionali, e che aveva assunto l’egemonia sull’antica nobiltà in società configurate come formazioni sociali capitaliste autonome.
Noi ci troviamo, in questa fase, a dover ripensare tutto il sistema di potere che, evidentemente, non riesce più a mantenersi con le attuali strutture pesanti e ingombranti: immense clientele civili, militari, ed ecclesiastiche.
Una nuova classe di dominanti si sta facendo avanti a colpi di accetta. Altro che il picconatore!
Al contrario della borghesia di cui parla Marx, questa struttura di potere ha avuto la funzione di una rete costrittiva, che alle conseguenze prodotte dallo sfruttamento di classe, esercitato dal padronato nazionale e straniero, univa un’altra forma complementare di appropriazione: quella patriziale-burocratica. Noi ci troviamo in questa condizione.
Il fatto che lo scontro tra capitale e lavoro non è più possibile dipende proprio dalla nuova formazione dominante e dall’arretratezza dei vecchi dominanti che cercano di frenare il nuovo corso. Nuovo corso che è impossibile arginare perché ha contaminato tutti gli aspetti della nostra vita. Qui non si tratta di una struttura che ha cambiato il suo modo di pensarsi, ma tutte le strutture che formano una società hanno subito questa evoluzione.
Il nostro Stato è stato per troppi anni un sorvegliato speciale e, proprio grazie a questa sua posizione di sudditanza, ha fatto sì che le classi dirigenti si trasformassero in un’élite straniera sovrapposta alla società nazionale, governando lo Stato come una grande società patrimoniale destinata ad essere sfruttata.
E’ probabile che in questa fase, le vecchie elite che saranno sostituite dalle nuove, chiederanno l’appoggio delle classi dominate che per anni hanno sfruttato e disprezzato. E’ probabile che si faranno paladini delle masse. Per molti versi questi cambi di rotta repentini si stanno già manifestando.
Se a guidarci saranno i Marchionne di destra, con all’opposizione un Montezemolo, tutto dipende da noi, e proprio per questo non c’è da stare allegri.

Marxismo come metodo scientifico!

Marxismo come metodo scientifico!






 Di Maurizio Neri 


Come metodo scientifico, d’analisi economica e sociale, il marxismo resta un ottimo strumento ma si è esaurito come ideologia rivoluzionaria. Questa sua “inattualità” è strettamente collegata alla “crisi d’identità” del soggetto politico-sociale-storico di riferimento: il proletariato!
Questo, pur continuando ad esistere come un insieme di classi sfruttate, disagiate e subalterne, si è socialmente e politicamente modificato ed alterato e non può più essere considerato “soggetto sociale” protagonista come veniva individuato in precedenza dall’ideologia marxista. Il proletariato ormai non “insegue” affatto una missione storica universale poiché ha perduto le sue caratteristiche rivoluzionarie.
Le cause di questo sono molte: prima fra tutte, l’estrema riduzione della classe operaia industriale (di fabbrica) causata dallo smantellamento di molte industrie e dalla robotizzazione ed automazione delle poche restanti (al nord), di contro, l’assenza di una classe operaia industriale vera e propria al sud.
Inoltre l’emergere di un capitalismo fluido e dinamico dove l’esistenza delle classi come soggetti definiti e autocoscienti è confusa dalla miriade di nuove forme di lavoro subalterno non classificabili in base alla distinzione tradizionale proletario-capitalista.
Il lavoro umano è stato espropriato, alienato e sfruttato dal capitalismo per imporre il suo dominio totalizzante.
All’interno del proletariato, inteso sociologicamente e non in senso puramente economico, è rimasto un vuoto ideologico provocato anche dallo “sprofondamento” in esso di altri ceti piccolo-borghesi impoveriti, regrediti ad una neo-condizione proletaria salariata o piccolo-autonoma, resa fluida e intricata dall’emersione delle tipologie contrattuali precarie, a carattere parasubordinato o falso-autonomo.

È un risultato tipico delle folli contraddizioni del modo di produzione capitalistico il fatto che l’enorme aumento di produttività ottenuto grazie alla “rivoluzione microelettronica” non renda possibile un buon livello di vita per tutti. Al contrario: il lavoro viene compresso, i ritmi di lavoro accelerati e le prestazioni intensificate. Dappertutto nel mondo sempre più persone devono vendersi alle peggiori condizioni affinché la loro forza-lavoro possa venir sempre di nuovo valorizzata
rispetto al livello di produttività vigente.
Alle contraddizioni del capitalismo appartiene però anche che esso stesso mina i propri fondamenti, poiché una società che si basa sullo sfruttamento della forza-lavoro umana incontra i propri limiti strutturali quando essa rende superflua in sempre più crescente misura
questa stessa forza-lavoro

Il conflitto tra classi non è scomparso ma si è modificato. Da veicolo potenziale di trasformazione sociale, legato ad una classe sfruttata che, attraverso uno sconvolgimento politico radicale (rivoluzione-presa del potere) avrebbe cambiato i rapporti di produzione, a “lotta” per la sussistenza e difesa dei bisogni primari immediati in una logica alterata dalla permanente guerra tra poveri incrementata fra l’altro dallo scontro strumentalizzato dalle classi dominanti tra lavoro autoctono e manodopera immigrata.

Senza dubbio alcuno, tutto ciò vuol dire che il ritorno dei comunisti nella realtà quotidiana della classe, in tutte le sue sfaccettature, si è fatto più difficile, eppure questo ritorno, con l’emergere della crisi attuale, è diventato una questione impellente. Per quanto difficile esso sia, comunque, un’alternativa non c’è.
La scelta obbligata non mi pare però priva di prospettive. Non troppo tempo prima dell’inizio della crisi si poteva già notare un’evidente ripresa di lotte, in modo più radicale in Europa, e di rivolte i cui protagonisti, uomini e donne, si relazionavano in forma solidale, sviluppavano modi di intervento egualitari, e rifiutavano sempre più radicalmente di pagare il costo sociale della crisi.

La lotta di classe, originariamente rivoluzionaria e potenzialmente portatrice di un nuovo ordine sociale, è stata canonizzata come parte integrante del sistema e quindi incorporata, assorbita, ma contemporaneamente “spogliata”, da ogni finalità rivoluzionaria delle origini! Dimesso il suo ruolo storico rivoluzionario di classe, il marxismo può e deve rimanere metodo di lettura del reale e delle contraddizioni sociali caratterizzanti la contemporaneità. Pensare la rivoluzione oggi, implica il superamento di ogni visione deterministica e la rimessa in discussione radicale degli strumenti e delle forze potenzialmente inclini alla trasformazione sociale.
I vari strati che compongono il proletariato odierno hanno una visione strettamente “categoriale” e non di classe e spesso entra in funzione addirittura una forma di antagonismo interno fra i nuovi soggetti del mondo salariato. Impossibile, in tale contesto, creare i presupposti di comuni interessi materiali ed ideologici in previsione di una unità politica futura.
Una lotta rivoluzionaria non può assumere un aspetto unicamente “rivendicativo” ed “economico” pena la totale impotenza di fronte al sistema economico ed ideologico dominante.

L’errore di fondo compiuto dai denigratori della lotta di classe e dagli apologeti fuori tempo massimo è il medesimo : sovrapporre ed identificare nella sola classe operaia la classe motrice della lotta quindi finita l’una deve finire anche l’altra.
Non è mai stato così, in realtà. L’aver fatto coincidere classe operaia e lotta di classe è stato un errore allora e lo è ancora di più oggi, se si vuole usare questa sovrapposizione per buttare il “bambino con l’acqua sporca”.
L’operaismo italiano ed europeo è il grande responsabile di questo gigantesco equivoco che perdura ancora oggi e che consente ai teorici del liberalismo economico e sociale di cantare vittoria e di liquidare ogni possibilità di lotta di classe.
Quindi il problema oggi come ieri, è definire la classe, alla luce dei mutamenti intercorsi in questi ultimi 30 anni e capire che le nuove forme di lavoro, l’impoverimento del ceto medio, o la sua proletarizzazione, la concentrazione del potere economico e della ricchezza in fasce sempre più ristrette della popolazione, non fanno che aumentare anziché diminuire l’importanza degli interessi contrapposti.
Certo, ci si obietterà che non c’è assolutamente nessuna coscienza di classe in questo nuovo
“ agglomerato sociale” ed è vero, che non c’è nessuna autocoscienza di sé in quanto soggetto sociale, verissimo…., che la disgregazione atomistica imposta dal consumismo e dall’edonismo hanno distrutto ogni vincolo “solidaristico” tra chi è nelle stesse condizioni di “dominato” ed è altrettanto vero.
Ma ci chiediamo se questo basti ad eliminare del tutto la lotta di classe, quando le ragioni di questa lotta sono sempre più evidenti ogni giorno che passa.
Ci chiediamo anche se si sia dato troppo credito e ascolto a chi ha voluto fortemente liquidare insieme al “socialismo reale” anche le ragioni degli oppressi come se le due cose non fossero attualmente diverse e non necessariamente correlate.
Noi pensiamo che non si possa né si debba concedere questo favore a chi detiene culturalmente, politicamente e socialmente le leve del comando e che sia ora di ricominciare a riflettere nuovamente ma con strumenti culturali diversi sulla lotta di classe, evitando, ben inteso, ogni superficiale analisi auto consolatoria.

Una vera lotta anticapitalista non può cadere nelle contingenze di mera reazione “economicistica” agli effetti pur deleteri e negativi sulle classi subalterne, di una crisi economica come quella che stiamo attualmente vivendo. E’ necessario, al contrario, impostare la lotta riappropriandosi di una pratica comunitaria aggregativa che sappia unificare critica economica, culturale ed esistenziale in una prassi coerente con i fini della realizzazione di un ordine sociale fondato sul bene comune e sulla giustizia.

Il discorso del Presidente Iraniano alle Nazioni Unite

Il discorso del Presidente Iraniano alle Nazioni Unite

"Scandalo" Ahmadinejad

Questo è il contenuto dell'intervento del presidente iraniano, cosa ci sia di scandaloso è difficile vederlo, ma  l'Occidente (con Stati Uniti ed Israele in prima fila)  grida, per l'ennesima volta, allo scandalo, con la solita scena  dell'abbandono dell'aula.




Il discorso del Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad all’assemblea generale delle Nazioni Unite - 23 settembre 2010

Nel Nome di Dio il Clemente il Misericordioso

Lode al Signore dei due mondi e la pace di Dio sul nostro Profeta Muhammad, sulla sua sacra famiglia e sui suoi discepoli (Sahaba). O nostro Signore. Affretta l’apparizione di Mahdi, garantisci a lui la salute e la vittoria e fa di noi i suoi migliori seguaci, pronti a lottare per la sua nobile causa.

Signor Presidente

Gentili colleghi, signore e signori;
Prima di ogni altra cosa ringrazio Iddio Altissimo per avermi donato la possibilità di presentarmi in questa importantissima sede internazionale. Negli anni passati vi ho parlato di alcune delle speranze e delle preoccupazioni dell’umanità di oggi, le loro radici e la necessità di rivedere il pensiero egemonico e il suo modo di agire, compreso la crisi della famiglia, la sicurezza, la dignità umana, l’economia mondiale, i mutamenti del clima, come delle aspirazioni per la giustizia e per una pace duratura.

Vi ho parlato di due correnti contrastanti tra di loro che da secoli hanno governato la terra: la prima che pur di salvaguardare i propri interessi materialistici diffonde l’ingiustizia e disuguaglianza, povertà, l’inganno, l’aggressione e l’umiliazione dell’umanità, dipingendo così una prospettiva di futuro fatta di disperazione più grande e di sfiducia generale per il genere umano. Ora dopo circa 100 anni di predominio, il sistema capitalistico e l’attuale ordine mondiale si sono dimostrati incapaci di offrire soluzioni valide ai problemi delle società, e sono quindi giunti alla fine. Cercherò di esaminare i due principali motivi per questo fallimento, e di descrivere alcuni aspetti di un futuro ordine ideale.

L’altra corrente invece è quella che si basa sulla fede in Dio Onnipotente e sul messaggio divino dei profeti che avevano la missione di chiamare tutti al monoteismo, all’amore e alla giustizia, e di mostrare all’umanità la strada verso la prosperità e verso la luce. Essi invitavano gli uomini alla contemplazione e alla conoscenza, per poter meglio apprezzare la verità, e per evitare l’ateismo e l’egoismo. La natura essenziale del messaggio di tutti i profeti è sempre stata la stessa. Ogni profeta ha ripreso il messaggio di quello che lo ha preceduto, e ha acceso nell’uomo la luce della speranza in un futuro migliore e fatto di giustizia,, legalità, libertà e pace.

Nel corso dei miei interventi precedenti in questa sede, ho cercato di presentarvi ogni volta una versione sempre più completa della religione, in misura della capacità dell’uomo di comprenderla in quel momento. Questo è continuato fino all’ultimo messaggero di Dio, che ci ha portato la religione perfetta e più completa. Contro di essa si sono schierati gli egoisti e gli avidi, nel tentativo di combattere il suo limpido messaggio. Nimrod ha combattuto il profeta Abramo, il Faraone ha combattuto il profeta Mosè, e gli avidi hanno combattuto il profeta Gesù Cristo ed il profeta Mohammad (che la Pace sia con tutti loro).

Nei secoli più recenti l’etica ed i valori umani sono stati respinti in quanto rallentavano il progresso. Sono stati persino dipinti come nemici della conoscenza, della saggezza e della scienza, per il modo in cui essi furono imposti dai propugnatori delle religioni nei secoli bui dell’Occidente.


Il distacco dell’uomo da Dio lo ha separato dalla sua vera essenza

L’uomo, con la sua capacità di comprendere i segreti dell’universo, il suo istinto nel cercare la verità, le sue aspirazioni verso la giustizia e la perfezione, la sua ricerca della bellezza e della purezza, e la sua capacità di rappresentare Dio sulla terra, fu ridotto ad una creatura limitata al mondo materialistico, il cui compito era di soddisfare al massimo il piacere individuale. Fu così che l’istinto prese il posto della natura umana.

Gli esseri umani e le nazioni furono trasformati in rivali, e la felicità di un individuo o di una nazione venivano definite dal conflitto e dall’eliminazione degli altri. La cooperazione costruttiva ed evolutiva fu sostituita da uno scontro distruttivo per la sopravvivenza. L’avidità per la ricchezza e per il potere sostituirono il rispetto di Dio [lett. “il monoteismo”], che è la chiave verso l’amore e l’unità.

Il diffondersi del divario fra l’egoismo e i valori divini diede origine alla schiavitù e al colonialismo. Una grande porzione del mondo fu sottomessa al dominio di pochi stati occidentali. Decine di milioni di persone furono fatte schiave, e decine di milioni di famiglie furono distrutte come conseguenza. Tutte le ricchezze, i diritti e le culture delle nazioni colonizzate furono saccheggiati. Molte terre furono occupate, e gli abitanti di quelle terre furono umiliati e decimati.

Nonostante questo, certe nazioni si ribellarono, il colonialismo fu respinto, e l’indipendenza delle nazioni fu riconosciuta. Fu allora che rinacque la speranza per il rispetto, per la prosperità e per la sicurezza. All’inizio del secolo scorso belle parole come libertà, diritti umani e democrazia crearono la speranza di poter guarire le profonde ferite del passato. Ma oggi purtroppo quei sogni non sono stati realizzati, e abbiamo anzi aggiunto ricordi a volte ancora peggiori di quelli precedenti. Come conseguenza delle due guerre mondiali, dell’occupazione della Palestina, delle guerre di Corea e del Vietnam, della guerra dell’Iraq contro l’Iran, dell’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq, come di molte altre guerre in Africa, centinaia di milioni di persone sono state uccise, ferite o sradicate dal loro territorio.

Il terrorismo, le droghe illegali, la povertà e il divario sociale sono aumentati. Le dittature e i governi nati dai colpi di stato in America latina hanno commesso crimini mai conosciuti prima, con il supporto dell’occidente. Invece del disarmo, la proliferazione e l’accumulo di armi atomiche, biologiche e chimiche sono aumentati, ponendo il mondo sotto una minaccia sempre maggiore.

Come risultato, gli stessi esatti scopi del colonialisti di una volta sono stati perseguiti sotto questa nuova facciata.


Il governo globale e le strutture di comando

Non scordiamoci che le Nazioni Unite furono istituite con la promessa di diffondere la pace, la sicurezza e l’affermazione dei diritti umani, che di fatto significava governare il mondo.

Per analizzare l’attuale situazione di controllo del mondo, si possono esaminare questi tre eventi:
Primo, i fatti dell’11 settembre 2001, che hanno condizionato la storia del mondo per quasi un decennio. Da un momento all’altro le notizie degli attacchi alle Torri Gemelle sono state trasmesse con la diffusione delle numerose immagini dell’incidente.

Quasi tutti i governi e i personaggi importanti hanno condannato con forza questa azione. Poi però è stata messa in moto una macchina della propaganda nella quale si implicava che l’intero mondo fosse ora esposto ad un pericolo enorme, quello del terrorismo, e che l’unico modo per salvare il mondo sarebbe stato quello di mandare forze armate in Afghanistan.

In seguito l’Afghanistan, e poco dopo l’Iraq, furono occupati.

Vi prego di fare attenzione: è stato detto che circa tremila persone furono uccise l’11 settembre, fatto per il quale siamo tutti molto rattristati. Fino ad oggi però in Afghanistan e Iraq centinaia di migliaia di persone sono state uccise, milioni sono stati feriti o sradicati dal loro territorio, e il conflitto è ancora in corso, ed in via di espansione.

Nel ricercare i responsabili dell’attacco terroristico, vi furono tre punti di vista:

1 - Che un gruppo terrorista molto potente e sofisticato, in grado di perforare tutti i livelli di intelligence e sicurezza americani, abbia portato a termine gli attacchi. Questa è la tesi principale sostenuta dagli uomini di governo americani.

2 - Che alcuni settori, all’interno del governo americano, abbiano orchestrato l’attacco, per capovolgere il corso negativo dell’economia americana, legata al Medio Oriente, salvando nel contempo il regime sionista. La maggioranza degli americani, come la gente e i politici di altre nazioni, condividono questo punto di vista.

3 - Che gli attacchi siano stati portati a termine da un gruppo terrorista, ma che il governo americano li abbia supportati e abbia tratto vantaggio dalla situazione. Apparentemente questa versione non ha molti sostenitori. La prova più importante, relativa a questi attacchi, furono alcuni passaporti trovati nella montagna di macerie, e il video di un certo individuo, il cui luogo di domicilio era sconosciuto, ma del quale si sapeva che avesse partecipato ad accordi petroliferi con alcuni importanti personaggi americani. C’è stato anche un insabbiamento, nel senso che è stato detto che a causa dell’esplosione e del fuoco non si è trovata altra traccia degli aggressori- suicida.
Rimangono però alcune questioni a cui dare una risposta.

Non sarebbe stato più logico condurre prima una completa investigazione, da parte di gruppi indipendenti, per identificare con certezza i responsabili degli attacchi, e poi mettere a punto un piano razionale per prendere misure contro di loro?

Pur dando per buona la versione del governo americano, vi sembra logico scatenare una classica guerra, con ampio impiego di truppe - che hanno portato alla morte di centinaia di migliaia di persone - per combattere un gruppo terrorista?

Perché non si è agito nello stesso modo in cui ha fatto l’Iran, contro il gruppo terrorista Riggi, che aveva ucciso o ferito 400 persone innocenti in Iran? In questa operazione condotta dall’Iran nessun innocente è stato toccato.

Voglio annunciare che l’anno prossimo si terrà nella repubblica islamica dell’Iran una conferenza per studiare il terrorismo e i modi per combatterlo. Invito i responsabili governativi, gli studiosi, i pensatori, i ricercatori e gli istituti di ricerca di tutte le nazioni a partecipare.

Secondo argomento: l’occupazione dei territori palestinesi.

Il popolo oppresso della Palestina ha vissuto per sessant’anni sotto il giogo di un regime di occupazione, avendo perduto la libertà, la sicurezza e il diritto all’autodeterminazione, mentre gli occupanti vengono legittimati.

Quotidianamente vengono distrutte le case che danno riparo a donne e bambini innocenti. La gente è privata di acqua, cibo e medicine in casa propria. I sionisti hanno scatenato cinque guerre totali contro i paesi confinanti e contro il popolo palestinese. I sionisti hanno commesso crimini orribili contro popoli indifesi, nelle guerre contro il Libano e a Gaza.

Il regime sionista ha aggredito una flottiglia umanitaria, in palese disprezzo di tutte le norme internazionali, uccidendo dei civili.

Questo regime, che gode del totale supporto di alcuni paesi occidentali, minaccia continuamente le nazioni vicine, e prosegue negli assassini annunciati pubblicamente di personaggi palestinesi e di altri, mentre coloro che difendono i palestinesi vengono sottoposti a pressioni ed etichettati come terroristi e antisemiti. Tutti i valori, compreso quello della libertà di espressione, in Europa e negli Stati Uniti vengono sacrificati sull’altare del sionismo.

Tutte le soluzioni sono destinate a fallire, poiché non contemplano i diritti del popolo palestinese.

Avremmo davvero assistito a questi crimini orribili, se invece di legittimare l’occupazione fosse stato riconosciuto il diritto sovrano del popolo di Palestina? Noi proponiamo senza ambiguità il ritorno degli esuli palestinesi alla loro terra madre, per poter esercitare il diritto di voto del popolo palestinese, con il quale riaffermare la propria sovranità e decidere il proprio tipo di governo.

Terzo: La questione dell’energia nucleare
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L’energia nucleare è pulita e poco costosa, ed è un dono divino fra le più accessibili alternative per ridurre l’inquinamento prodotto dai combustibili fossili.

Il trattato di non proliferazione nucleare permette agli stati membri di utilizzare l’energia atomica senza limiti, mentre l’agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) ha il compito di assistere gli stati membri, con supporto tecnico e legale.

La bomba atomica è la peggiore arma disumana mai inventata, e va completamente eliminata. Il trattato di non proliferazione nucleare proibisce lo sviluppo e l’accumulo di armi atomiche e invita al disarmo nucleare. Nonostante questo vorrei far notare quello che hanno fatto alcuni membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, che sono anche possessori di armi atomiche.

Hanno equiparato l’energia nucleare alla bomba atomica, distanziando molte nazioni dall’accesso a questo tipo di energia, grazie al monopolio ed alle pressioni esercitate sulla AIEA. Nel frattempo hanno continuato a mantenere, espandere e migliorare i propri arsenali nucleari.

Questo ha comportato ciò che segue:
Non solo il disarmo nucleare non è stato realizzato, ma le bombe atomiche sono proliferate in molte regioni, compreso il regime sionista, invasore e intimidatorio.

Vorrei proporre qui che l’anno 2011 sia proclamato anno del disarmo nucleare, con “energia atomica per tutti, armi atomiche per nessuno.”

Nelle diverse situazioni le Nazioni Unite non sono state in grado di mettere in atto nulla di effettivo. Sfortunatamente, nel decennio definito “Decennio internazionale della cultura e della pace” centinaia di migliaia di persone sono state uccise o ferite a causa di guerre,di aggressioni e di occupazioni, mentre le ostilità e gli antagonismi sono aumentati.

Stimati amici, per anni abbiamo assistito all’inefficienza del capitalismo e delle attuali strutture di governo del mondo, e la maggioranza degli stati e delle nazioni sono da tempo alla ricerca di cambiamenti radicali, affinché possa prevalere la giustizia nelle relazioni globali.

La causa dell’inettitudine delle Nazioni Unite sta nella sua ingiusta strutturazione. La maggioranza del potere viene monopolizzato dal Consiglio di Sicurezza, grazie al diritto di veto, mentre il pilastro fondamentale dell’organizzazione, e cioè l’assemblea generale, viene ignorata. In molti dei decenni trascorsi, almeno uno dei membri del consiglio di sicurezza è stato anche parte in causa delle varie dispute.

Il diritto di veto garantisce impunità all’aggressione e all’occupazione. Come ci si può attendere una gestione competente, quando il giudice e l’accusatore sono parti in causa nella disputa? Se l’Iran avesse goduto del diritto di veto, secondo voi il consiglio di sicurezza e il direttore generale della AIEA avrebbero assunto le stesse posizioni sulla questione nucleare?

Cari amici, le Nazioni Unite sono il centro focale per il coordinamento della gestione globale. La sua struttura va riformata, in modo che tutti gli stati e le nazioni indipendenti possano prendere parte attiva e costruttiva alla gestione globale.

Il diritto di veto dovrebbe essere revocato, l’assemblea generale dovrebbe diventare il corpo più importante, il segretario [delle Nazioni Unite] dovrebbe essere in posizione di totale indipendenza, e tutte le sue decisioni dovrebbero essere prese con l’approvazione dell’assemblea generale, ed essere dirette alla promozione della giustizia e all’eliminazione delle discriminazioni.

Il segretario generale delle Nazioni Unite non dovrebbe essere sottoposto a pressioni da parte dei poteri del paese che ospita l’Organizzazione, quando afferma la verità e amministra la giustizia. Suggerisco che entro un anno, nell’ambito di un programma di sessione straordinaria, l’assemblea generale completi la riforma strutturale di questa Organizzazione.

La Repubblica islamica dell’Iran ha delle proposte precise in questo senso, ed è pronta a partecipare in modo attivo e costruttivo al processo di riforma.

Signore e signori, io proclamo chiaramente che l’occupazione di altri paesi, sotto il pretesto di libertà e democrazia, sia un crimine imperdonabile. Il mondo ha bisogno della logica della compassione e della giustizia, e della partecipazione inclusiva, e non della logica della forza, del predominio, dell’unilateralità, della guerra e dell’intimidazione.

Il mondo deve essere governato da gente virtuosa come i Profeti divini.

Due grandi zone geografiche, l’Africa e l’America latina, hanno avuto uno sviluppo radicale nel corso degli ultimi decenni. Il nuovo atteggiamento in questi due continenti, basato su un accresciuto livello di integrazione e di unità, come sulla localizzazione dei modelli di crescita e sviluppo, ha portato frutti notevoli ai popoli di quelle regioni. La saggezza e la lungimiranza dei leader di questi due continenti hanno superato i problemi delle crisi della regione, senza l’interferenza di poteri non regionali.

La Repubblica islamica dell’Iran ha incrementato le proprie relazioni con l’America latina e con l’Africa, negli anni scorsi, sotto tutti i punti di vista.

Stimati amici e colleghi, ora vorrei portare la vostra attenzione sul glorioso Iran, e sulla sua coraggiosa nazione. Una nazione che con la sua partecipazione senza precedenti ha aperto un nuovo capitolo nella volontà dei popoli per la conquista della libertà e della democrazia. Il popolo iraniano, in quanto una nazione che lungo la storia ha avuto l’onore e l’onere di costruire una parte significativa della cultura umana, dal canto suo è una delle prime vittime del terrorismo più cieco. Il popolo iraniano nel corso di questi tre decenni successivi della gloriosa Rivoluzione Islamica, ha dovuto sempre combattere coloro che vedevano nell’Iran islamico il nemico più grande dell’egemonia e della miscredenza.

E tornando ai giorni attuali possiamo citare l’ostilità e l’inimicizia con cui le potenze egemoniche hanno preso di mira il nostro progresso sul campo dell’energia nucleare. La Dichiarazione di Teheran è stata un passo fortemente costruttivo verso la fiducia reciproca, che è stato reso possibile dalla ammirevole buona volontà dei governi del Brasile e della Turchia, insieme alla sincera collaborazione del governo iraniano. Per quanto la dichiarazione sia stata ricevuta in modo inappropriato da alcuni, e sia stata seguita da una risoluzione illegale, rimane del tutto valida. Noi abbiamo rispettato i regolamenti della AIEA ben oltre le nostre intenzioni, né peraltro ci siamo mai sottomessi a pressioni imposte in modo illegale, e mai lo faremo.

È stato detto che qualcuno vuole obbligare l’Iran al dialogo. Bene, prima di tutto l’Iran è sempre stato pronto ad un dialogo che sia basato sul rispetto e sulla giustizia. In secondo luogo, i metodi basati sulla mancanza di rispetto delle nazioni sono diventati da tempo inefficaci. Coloro che hanno usato l’intimidazione e le sanzioni come risposta alla chiara logica della nazione iraniana, stanno di fatto distruggendo quel poco che rimane della credibilità del Consiglio di Sicurezza, e della fiducia delle nazioni in questa organizzazione, dimostrando ancora una volta quanto ingiusta sia la funzione del Consiglio. Quando costoro minacciano una grande nazione come l’Iran, che è conosciuta nella storia per i suoi scienziati, poeti, artisti e filosofi, la cui cultura e civiltà sono sinonimo di purezza, di rispetto di Dio e di ricerca della giustizia, come possono aspettarsi di veder crescere la fiducia delle altre nazioni verso di loro?

È del tutto superfluo affermare che i metodi aggressivi nel cercare di governare il mondo sono falliti. Non solo l’epoca della schiavitù, del colonialismo e del dominio del mondo è tramontata, ma perfino la strada per cercare di restaurare vecchi imperi è ormai bloccata. Abbiamo annunciato che siamo pronti ad un serio ed aperto confronto con il governo americano, per poter esprimere in modo trasparente le nostre opinioni su argomenti di grande importanza per il mondo, in questa stessa sede.
Proponiamo qui che per avere un dialogo costruttivo venga anche istituito annualmente un dibattito all’interno dell’assemblea generale.

E in conclusione, amici e colleghi, la nazione iraniana e la maggioranza delle nazioni e dei governi nel mondo sono contrari all’attuale tipo di controllo discriminatorio del mondo. E la natura disumana di questo tipo di controllo l’ha portato in un vicolo cieco, ed ora richiede di essere rivisto alla radice.

Per ricostruire le relazioni globali e per riportare la tranquillità e la prosperità sono necessari la partecipazione di tutti, intenzioni oneste, e il contributo umano e divino.

Condividiamo tutti questa idea: la giustizia è l’elemento fondamentale per la pace e per una sicurezza duratura, e per il diffondersi dell’amore fra i popoli e le nazioni. E’ nella giustizia che l’umanità cerca la realizzazione delle proprie aspirazioni, dei diritti e della dignità, mentre soffre nell’oppressione, nell’umiliazione e nel maltrattamento.

La vera natura dell’umanità si manifesta nell’amore per gli altri esseri umani e nell’amore per tutto ciò che è bene nel mondo. L’amore è l’elemento fondamentale su cui costruire le relazioni fra i popoli e le nazioni.

Come disse Vahshi Bafqi, il grande poeta iraniano, “Potrai bere mille volte alla fontana della giovinezza, ma comunque morirai se non sei nelle mani dell’amore”.

Nel riempire il mondo di purezza, di sicurezza e di prosperità, gli uomini non sono più rivali, ma compagni.

Coloro che vedono la propria felicità soltanto nelle sofferenze altrui, e il proprio benessere e la sicurezza soltanto nell’insicurezza altrui, coloro che si ritengono superiori agli altri non stanno sul cammino dell’umanità, ma su quello del maligno.

L’economia e i mezzi materiali sono soltanto strumenti per servirne altri, per creare amicizia e per rafforzare i rapporti umani, al fine di raggiungere la perfezione spirituale, e non sono strumenti per vantarsi né un mezzo per dominare gli altri.

L’uomo e la donna si completano a vicenda, e l’unità familiare, con una duratura ammirevole e pura relazione fra gli sposi, sta al centro ed è la garanzia per la continuità e la crescita delle nuove generazioni, per i veri piaceri, per difendere l’amore e per migliorare la società.

La donna è riflesso della bellezza divina, è sorgente di amore e di attenzioni. Lei è la depositaria della purezza e della squisitezza della società.

La libertà è un diritto divino che deve servire alla pace e al perfezionamento dell’essere umano. I pensieri puri e la volontà dei giusti sono le chiavi per accedere ad una vita pura, piena di speranza, di vitalità e di bellezza.

Questa è la promessa di Dio, che la terra resterà in mano ai puri e ai giusti. La gente priva di egoismo prenderà in mano il controllo del mondo, e allora non vi saranno più tracce di dolore, discriminazione, povertà, insicurezza e aggressione. Sta per arrivare il momento della vera felicità e della realizzazione della vera natura dell’umanità, come Dio l’ha sempre intesa.

Tutti coloro che cercano la giustizia e tutti gli spiriti liberi hanno atteso a lungo questo momento, con la promessa di un tempo glorioso.

Il completo essere umano, il vero servo di Dio, il vero amico dell’umanità, il cui padre apparteneva alla generazione dell’amato Profeta dell’Islam, e la cui madre era fra i devoti di Gesù Cristo, attenderà insieme a Gesù figlio di Maria e agli altri giusti di apparire nei tempi luminosi, e di aiutare l’umanità.

Nel dare loro il benvenuto dovranno unirsi tutti e cercare la giustizia.

Onore all’amore e al rispetto della giustizia e della libertà, onore alla vera umanità, all’essere umano completo, al vero compagno dell’umanità, e che la pace sia su tutti voi, e su tutti i giusti e puri.

Che la pace di Dio e la Sua Clemenza sia con voi.

(fonte Irib)

Il concetto di comunità in Marx




di Stefano Moracchi


In questa riflessione cerco di proporre una lettura della comunità marxiana attraverso l’indagine filosofico-politica “attuazionista”. Opererò una distinzione tra il concetto di Idea e quello di Opinione in base al valore che essi assumono nei rapporti sociali e in che modo essi sono determinanti per la costituzione dei rapporti stessi. Questa distinzione verrà analizzata in rapporto alla descrizione marxiana tra comunità apparente e comunità reale e, secondo la mia ipotesi, il concetto di comunità elaborato da Marx è inteso come concetto di classe che comprende sia il momento di opposizione tra capitale/lavoro sia quello tra consumo/distribuzione, ovvero un concetto di classe capace di incidere sia nel processo di produzione sia in quello di riproduzione.
Nella comunità apparente la circolazione di idee valoriali ha un rapporto circolare in quanto i rapporti sociali che si determinano sono il frutto di una perdita di valore individuale incorporato nella merce che viene prodotta attraverso il modo di produzione capitalistico. Queste idee valoriali come “proprietà” non devono avere nessun attrito con altre idee valoriali e, proprio in virtù di ciò, devono essere “indifferenti” sia ai valori che alle qualità. Nella comunità apparente questo tipo di idee valoriali si trovano sotto il dominio dell’Opinione che rappresenta come concetto l’insieme dei rapporti sociali di produzione e riproduzione del sistema capitalistico, il quale richiede per la sua stessa natura l’indifferenza dei soggetti che producono e riproducono tanto le merci quanto i rapporti mercificati. La comunità apparente pertanto sarà caratterizzata, da questo punto di vista, come la valorizzazione dell’individuo privato del suo stesso valore, costretto in questa costituzione ontologica a ritrovare se stesso nel punto dove è stato costretto a perdersi: nella merce.
Nelle parti dell’Ideologia tedesca, in cui viene criticato Feuerbach, Marx comincia a trattare il comunismo come un movimento, piuttosto che come uno stato ideale, e lo fa principalmente analizzando il concetto di comunità e il rapporto che esso intrattiene con l’individuo. Marx parla della comunità come di una realtà fattuale e di un processo sociale, facendo una distinzione tra comunità apparente e comunità reale. Sappiamo che Marx risente molto della costruzione filosofica di Hegel e, pertanto, il concetto di “reale” contrapposto a quello di “apparente” potrebbe indurre a pensare la comunità apparente come irreale.
Al contrario, per Marx, la comunità apparente è quel tipo di organizzazione sociale in cui gli individui in carne ed ossa si trovano a vivere nella società capitalistica, partecipando a un tipo di rapporto non come individui ma come membri della propria classe. Questo significa che, nel ragionamento marxiano, la comunità apparente non è priva di legami sociali e rapporti sociali, ma che all’interno di questa comunità i vincoli e i legami sono da impedimento al libero sviluppo dell’individuo, costretto ad essere una mera appendice di quel rapporto (rapporti sociali di produzione) e, proprio in virtù di ciò, è solo apparenza. Vediamo che in questo passaggio è significativo l’accento posto da Marx sull’individuo, perché è proprio partendo dall’individuo che vi è possibilità di riscatto e di libertà in quanto individuo consapevole e libero. Abbiamo a che fare con due concetti importanti: individuo e libertà. Il primo come l’ultima resistenza all’oppressione. Marx confida nell’individuo perché solo da lui può venire la scelta di libertà e non ad un soggetto collettivo in cui i propri membri sono prigionieri di rapporti sociali derivanti dalla propria classe.
Se consideriamo che lo Stato hegeliano rappresenta l’universalità delle tante particolarità formate dalla famiglia e dalla società civile, e lo mettiamo a confronto con la lettura che Marx dà della società civile come momento del particolare che prevale sull’universale, ne consegue che la particolarità è universale apparente.
Ecco, allora, che il concetto di comunità sviluppa ulteriormente quello di classe. Marx indica che non basta appartenere ad una classe perché vi possa essere consapevolezza della lotta, ma solo che dall’appartenenza alla classe deriva una comunità apparente dove la lotta che si sviluppa è una riproduzione della propria condizione di assoggettamento e di riconduzione alla propria classe di riferimento.
La comunità reale invece è un tipo di relazione sociale risultante dalla consapevolezza dell’individuo di rompere i propri legami apparenti e di costruirne dei nuovi che possano incidere sullo stato delle cose presente e, proprio per questo, reale. La comunità reale è frutto della consapevolezza individuale e di affermazione della propria autonomia e della propria soggettività, unici baluardi affinché “nella comunità reale gli individui acquistano la propria libertà nella loro associazione e per mezzo di essa”, che Marx definisce come “comunità dei proletari rivoluzionari”.
Analizziamo in che modo avviene la circolazione delle idee e se sia possibile una determinazione che possa raggiungere l’universalità; ossia se è possibile un’uscita da una società civile che, imprigionando le particolarità, le rende universali (attraverso lo Stato) solo apparentemente all’interno del suo movimento.
Un’idea perché possa circolare deve avere come proprietà un valore. Per valore si può intendere sia il valore in sé e per sé oppure un valore d’uso. Ma potrebbe essere anche un valore aggiunto.
Per circolare liberamente, ed essere d’interesse, un’idea si deve costituire di determinazioni. Possiamo prendere queste determinazioni come qualità, quantità e misura.
La qualità le permette di essere scambiabile. Un’idea che abbia una qualche qualità si renderà interessante. Questa idea che possiede una qualità si determinerà ulteriormente attraverso la sua esplicazione e specificazione di idee correlate e sarà, quindi, una complessità di ragionamenti. Questa complessità la determina come quantità di idee espresse.
Questa quantità (di idee espresse) si misurerà con altrettante idee. Abbiamo così anche la determinazione di misura.
Questa Idea di idee in circolazione, che ha la sua caratteristica di valore, si scontrerà con altre idee e con altrettanti valori, come si troverà a convergere con altre idee, che esprimono lo stesso valore anche se con idee differenti. Ma che cosa impedisce a tante idee valoriali convergenti di determinarsi nell’universalità sostanziale del concetto ed essere in grado di uscire dalla compressione della società civile?
In Marx vi è nell’individuo un processo necessario di attuazione che, a differenza di Hegel, non è negazione del particolarismo per affermare l’universalismo ma, al contrario, è definizione e attuazione del particolare dal quale affermare l’universale. I rapporti sociali non sono rappresentazioni ideali ma concreti fatti reali. Solo nella comunità reale, che Marx intende come classe particolare in cui gli individui si pensano come tali e non come espressioni della loro classe, si può realizzare, ovvero attuare, la propria libertà. L’attuazione individuale che Marx descrive ci porta a indagare come il concetto di comunità sia il completamento di quello di classe. Il concetto di classe che Marx sviluppa è un concetto di appartenenza da cui partire per affermare una posizione e per indicare con chiarezza gli interessi che ne derivano. Nel concetto di comunità marxianamente inteso vi è lo sviluppo reale della lotta che comprende sia il modo di produzione capitalistico sia quello di riproduzione. Nella comunità reale il fronte di liberazione è composto da individui consapevoli del loro ruolo all’interno della classe di appartenenza e, pertanto, sanno benissimo che la loro lotta non può essere rivolta soltanto all’interno del posto di lavoro ma, soprattutto, nei posti dove il frutto del loro lavoro viene riversato, ovvero nei luoghi della distribuzione della merce. È per questo che Marx parla di comunità reale come ampliamento della classe dei lavoratori, soffermandosi sulle relazioni sociali che si instaurano nella società capitalista che, proprio perché tale, nasconde alla classe la sostanza delle reali relazioni sociali che si instaurano nel processo riproduttivo, dove le merci hanno ancora in sé il valore del lavoro compiuto dagli operai e in virtù di ciò sono privi di valore come individui, come descrive lo stesso Marx nei Manoscritti economico-filosofici: Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. […] l’operaio è derubato non solo degli oggetti più necessari, ma anche degli oggetti più necessari del lavoro. L’operaio diventa schiavo del suo oggetto e quanto più crea dei valori e tanto più egli è senza valore e senza dignità […].
Bisogna premettere che la circolazione delle idee valoriali (nel senso di scambiabili) per essere “sposate” hanno bisogno di essere fatte proprie.

Cosa significa essere fatte proprie?

Significa uscire dalla comunità apparente dove il momento produttivo e quello riproduttivo non trova nessuna opposizione reale. Nella comunità apparente i fatti mentali in cui i rapporti sono espressi sotto forma di idee sono ontologicamente subordinati rispetto ai fatti materiali con cui gli individui costituiscono le relazioni. Pertanto, parlare di idee subordinate ai fatti materiali, significa parlare della trasformazione delle idee, nel momento produttivo, in opinioni nel momento riproduttivo e, proprio per questo funzionali a creare rapporti sociali di dipendenza.
Dipendenza che parte dall’Idea produttiva (modo di produzione capitalistico) che acquista forza-lavoro (incorporazione del valore individuale sulla merce), perdita da parte dell’individuo della propria dignità (vendere se stesso in cambio di salario), perdita del proprio valore, e pertanto la successiva fase di credere in idee che circolano liberamente (non incidono sul reale) e, in virtù di questa libera circolazione, propriamente idee che si formano sul dominio dell’Opinione che, come tale, non ha una proprietà particolare se non quella di essere universale.
Nella comunità apparente l’Opinione forma le idee-valore che riproducono se stesse in modo circolare.
Nella comunità reale la loro circolazione non ha il carattere del “cerchio” ma quello della linea.
Le idee valoriali hanno un punto di approdo, o meglio, devono trovare un punto di approdo per rendersi universali. Ecco perché Marx nel descrivere la comunità reale presuppone una presa di posizione individuale capace di spezzare il cerchio valoriale espresso nel processo di produzione capitalistico.
Il vero smacco per il lavoratore salariato non è nel momento della produzione ma in quello della riproduzione. Nel momento in cui l’operaio, nel suo lavoro, viene espropriato del suo stesso oggetto lavorato, e quindi della sua dignità, e il valore dell’oggetto lavorato è dato dal valore umano in esso incorporato, ne consegue che l’acquisto da parte dell’operaio (privato del suo valore) di quell’oggetto è doppiamente umiliante. Il valore dell’operaio scompare nel momento stesso in cui compare nell’oggetto e, per riprendersi il proprio valore e la propria dignità, l’operaio è costretto a comprare più oggetti possibile. Ecco allora che l’acquisto e il possesso degli oggetti formano il valore sociale degli individui.
Facciamo l’ipotesi che le idee valoriali abbiano la possibilità di circolare nel modo del “cerchio”.
In questo modo avremo un movimento costante e infinito, con un punto di partenza, punti intermedi e un punto finale, per poi riprendere la partenza, e così via, all’infinito. Queste idee valoriali si diffondono e riprendono a circolare nella continuità.
Marx comprende che il concetto di classe si ferma all’opposizione di lavoro/capitale e si concentra solo sul modo di produzione sociale capitalistico, da cui discende la formazione sociale e la suddivisione in classi e, proprio in virtù di questo, descrive il concetto di comunità reale in contrapposizione a quella di comunità apparente. Nella comunità apparente l’individuo è determinato dalla sua appartenenza di classe e pertanto non riesce a conseguire la vera liberazione e quando ci riesce, ci riesce solo in quanto individuo e non come insieme di soggetti consapevoli. In questa riflessione vi si trovano tutti i limiti che hanno riguardato il marxismo e il comunismo novecentesco. La lotta di classe è stata una lotta importante e significativa per affermare un benessere sociale legato ad un progressivo inserimento dei diritti del lavoratore sul posto di lavoro e in virtù di ciò la classe operaia è rimasta all’interno della comunità apparente. Comunità apparente anche in quanto individuo apparente. L’individuo della classe operaia attraverso le sue lotte sul posto di lavoro conquistava il suo potere di acquisto. Si sentiva valorizzato rispetto alla sua generazione precedente. Quella conquista sociale era frutto di un potere di acquisto e, in quanto tale, era un’affermazione del principio di valorizzazione dell’individuo, e di affermazione dell’individuo in quanto derivazione di una classe particolare determinata dal modo di produzione capitalistico. La valorizzazione dell’individuo aumentava proprio nell’aumentare la sua capacità di consumo, che altro non era, la sua completa perdita di valore come individuo facente parte della comunità reale.


Il problema che si pone a livello di ontologia dell’essere sociale è proprio il rapporto tra l’individuo e la società. Un individuo che perde il suo valore nel momento in cui entra in un rapporto di lavoro ha, come possibilità di recupero di quel valore, solo quello di riacquistarlo attraverso quegli stessi oggetti in cui si è incorporato, e che lui stesso è stato costretto a produrre. La costrizione sul lavoro e quella sull’acquisto, come abbiamo visto, pur facenti parte dello stesso processo sono diversi nella comprensione e nella formazione del soggetto sociale. La lotta sul lavoro se non viene condotta anche sul processo d’acquisto non cambia assolutamente i rapporti sociali di produzione, anzi li rafforza. La classe operaia nelle sue lotte a metà del novecento aveva assunto una forza d’acquisto e un’egemonia culturale. La forza d’acquisto non ha fatto altro che rafforzare il concetto di svalorizzazione dell’individuo, poiché sono aumentati i passaggi di valore dall’individuo alle merci, e l’egemonia culturale altro non era che la svalorizzazione delle idee come cose.
In questo processo di svalorizzazione, la classe di appartenenza nella comunità apparente aveva finito per coincidere con la stessa comunità apparente. Di fatti, la classe operaia consumando il suo valore come individuo di una classe specifica, adottando il comportamento d’acquisto di una classe apparente, ha finito per riprodurre se stessa come classe ininfluente. L’individuo che Marx descrive nella classe appartenente alla comunità apparente è un “individuo medio” un “individuo contingente”, oppure “uomini medi” scarsamente autonomi.

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