domenica 30 gennaio 2011

 E' attuale parlare di lotta di classe?





 Maurizio Neri

È ancora attuale parlare di lotta di classe? È ancora possibile declinare questo concetto senza sentirsi dei dinosauri storici? Questi interrogativi sono in questo quindicennio all'attenzione di molte riflessioni, proverò a dare qualche spunto di riflessione sull'argomento, seppur parziale.
Incominciamo dalla corrente di pensiero maggioritaria in Occidente che ha visto il passaggio di campo di moltissimi apologeti della lotta di classe, perlopiù intellettuali che negli anni Sessanta e Settanta si sperticavano in "osanna" verso gli operai e il proletariato, alla negazione più totale del fatto che oggi si possa in alcun modo fare riferimento a questo concetto.
Caduto il Muro di Berlino, finito il comunismo, fallito (per loro) il metodo marxista, costoro, in linea con la teoria della presunta fine della storia, non concepiscono in una società democratica e liberale avanzata che possa esistere una lotta tra interessi contrapposti di classe, ma che al massimo vi debba essere una politica redistributiva più equa ed a garanzia delle fasce più deboli della società.
La terziarizzazione dell'economia, il venir meno della centralità della classe operaia in quanto classe più rappresentativa, sia a livello numerico sia sul piano della combattività sociale, le teorie sul lavoro immateriale e le nuove figure flessibili nel lavoro sono, secondo costoro, la prova evidente ed inconfutabile di quanto affermano.
È curioso notare come molti di questi convertiti al liberalismo siano stati in realtà, almeno in Italia e in Francia, gli assertori del più convinto operaismo di 30 anni fa, ma questo non vuol dire molto perché si può e si deve poter cambiare idea nella vita.
L'importante è, però, non stravolgere i fatti. Come questi seppellitori della lotta di classe ne profetizzavano scioccamente negli anni Sessanta e Settanta l'inevitabile affermazione, prendendo come riferimento la centralità della classe operaia, come paradigma di riferimento epocale, così oggi eccedono nella visione opposta, cioè liquidando la questione una volta per tutte. Cambiano idea, ma non l'infantile estremismo intellettuale, a quanto pare.
Come in uno specchio rovesciato, abbiamo anche gli identitari, molto meno numerosi, in realtà, che continuano pedissequamente a riproporre la classe operaia come classe capace di trasformare i rapporti di forza nello scontro Capitale/Lavoro, senza indietreggiare di un centimetro e riproponendo analisi del tutto datate e con esiti fallimentari, scontati sul piano politico.
Quello che manca oggi, credo, è un'onesta disamina, senza paraocchi ideologici, della classe operaia e del proletariato in generale, del suo peso sociale e politico, della lotta di classe nella nostra epoca attuale e dei suoi possibili sbocchi futuri.
Ora, se è attendibile affermare che la forza contrattuale della classe operaia in quanto tale, costituita dalla massa di lavoratori, è oggi del tutto imparagonabile a quella degli anni Settanta (cosa ovvia e scontata), non si riesce a capire come si possa partire da questa constatazione e ricavare l'ulteriore passaggio logico della fine di questa classe né, tantomeno, dell'assoluta fine della lotta di classe in generale.
Un primo dato ci dice che gli operai, dopo un ventennio di ristrutturazioni e riorganizzazioni avvenute nell'ambito della grande industria e che ha visto una sensibile diminuzione della manodopera nelle grandi fabbriche, sono tornati a crescere numericamente, sia per l'ingresso di numerosi lavoratori interinali sia per l'afflusso di immigrati che, ad esempio, nel Nord-Est sono ormai una percentuale non marginale della forza lavoro di fabbrica. Un secondo dato ci dice che il malcontento e la rabbia per la diminuzione costante delle condizioni salariali e di aspettativa per il futuro sono in aumento tra gli operai, come ha ben descritto anche la puntata televisiva della trasmissione di Michele Santoro "Anno Zero", dedicata a questo argomento (www.annozero.rai.it).
Un'altra considerazione è che la classe operaia non si percepisce più come tale ed è incapace di progettare un'alternativa alle politiche sindacali di questi ultimi anni che hanno sicuramente intaccato le condizioni di vita dei lavoratori, in nome delle solite emergenze economiche e di sistema.
Ma l’errore di fondo compiuto dai denigratori della lotta di classe e dagli apologeti fuori tempo massimo, dicevamo, è il medesimo: sovrapporre ed identificare nella sola classe operaia la classe motrice della lotta; quindi, finita l'una deve finire anche l'altra. Non è mai stato così, nella realtà. L'aver fatto coincidere classe operaia e la lotta tra dominati e dominanti è stato un errore allora e lo è ancora di più oggi se si vuole usare questa sovrapposizione per buttare il bambino con l'acqua sporca. L'operaismo italiano ed europeo è il grande responsabile di questo gigantesco equivoco che perdura ancor oggi e che consente ai teorici del liberalismo economico e sociale di cantare vittoria e di liquidare ogni possibilità di lotta di classe.
Quindi il problema, oggi come ieri, è definire la classe dominata, alla luce dei mutamenti intercorsi in questi ultimi 30 anni e capire che le nuove forme di lavoro, l'impoverimento del ceto medio, o la sua proletarizzazione, la concentrazione del potere economico e della ricchezza in fasce sempre più ristrette della popolazione, non fanno che aumentare anziché diminuire l'importanza degli interessi contrapposti. Certo, ci si obietterà che non c'è assolutamente nessuna coscienza di classe in questo nuovo agglomerato sociale (è vero!), che non c'è nessuna autocoscienza di sé in quanto soggetto sociale (è verissimo...), che la disgregazione atomistica imposta dal consumismo e dall'edonismo hanno distrutto ogni vincolo solidaristico tra chi è nelle stesse condizioni di dominato (è altrettanto vero!!!). Ma ci chiediamo se questo basti ad eliminare del tutto la lotta tra dominati e dominanti, quando le ragioni di questa lotta sono sempre più evidenti ogni giorno che passa. Ci chiediamo anche se si sia dato troppo credito e ascolto a chi ha voluto fortemente liquidare insieme al socialismo reale anche le ragioni degli oppressi, come se le due cose non fossero attualmente diverse e non necessariamente correlate. Noi pensiamo che non si possa né si debba concedere questo favore a chi detiene culturalmente, politicamente e socialmente le leve del comando e che sia ora di ricominciare a riflettere nuovamente su questi temi, ma con strumenti culturali nuovi e linguaggi adeguati ai tempi, evitando, ben inteso, ogni superficiale analisi autoconsolatoria. Ed è per questo che da tempo stiamo tentando di rielaborare il concetto di proletariato, che tenga conto delle trasformazioni avvenute negli ultimi 30 anni e che ruoti attorno al perno delle Comunità proletarie (come punto di riferimento) e di Resistenza all'omologazione culturale e politica che, in nome dell'americanismo imperante, cerca di annacquare le differenze nel calderone della classe unica e indistinta. Conosciamo bene le difficoltà di un discorso del genere, che deve procedere, secondo noi, da una riappropriazione identitaria della classe, di un suo stile, di una sua coscienza, di una sua cultura e di una sua dimensione storico-politica che oggi non ha, frammentata, atomizzata e dispersa com'è. Nelle Comunità proletarie resistenti cosi come le immaginiamo, entrano il nuovo ceto medio impoverito e privo di riferimenti per il futuro, i precari e i disoccupati, così come le categorie tradizionali di riferimento, che insieme devono trovare l'amalgama di una nuova sintesi politica che ne raccolga le aspirazioni. Ma non si può esaurire il discorso senza parlare di liberazione nazionalitaria connessa alle esigenze di liberazione sociale del proletariato in un'epoca in cui le due questioni ancora una volta si intrecciano in modo simbiotico, senza fare riferimento anche all'importanza di contrapporre alla religione del profitto della classe dominante nazionale ed internazionale una nuova idea-forza che sia insieme un messaggio di riscatto sociale, nazionalitaria, antimperialista, anticapitalista, comunitaria e innervata da una forte tensione etica e spirituale, comunista.

venerdì 28 gennaio 2011

Nazione e comunità: definizioni e chiarimenti
  
 Maurizio Neri

Il comunismo, inteso nel senso di Marx, si è storicamente proposto come movimento spontaneo possibile dall' insorgere di una contraddizione tra classi esasperata, che avrebbe portato la sempiterna lotta di classe a sfociare nell'ultimo stadio dell'evoluzione sociale: l'avvento di una società senza classi attraverso l'egemonia temporanea del proletariato e la successiva estinzione naturale dello Stato, del potere, delle istituzioni e di tutte le sovrastrutture a ciò connesse. In questo processo di liberazione dalle catene, non vi era alcuna comunità politica pensata come intermediazione tra uomini singoli e vita sociale, poiché la vita sociale, superata la contraddizione del capitale avrebbe superato la scissione rispetto alla vita personale tipica dei modi di produzione conflittuali.
Da tale visione prende forma l'idea di un comunismo spontaneo che si afferma per via decostruttiva, ovvero destrutturando poco a poco l'uomo dalle incrostazioni sociali che lo condizionano.
Proporre un comunismo comunitario, cioè incentrato sulla complessa nozione di comunità, significa in realtà respingere dalla base la concezione del comunismo come movimento spontaneo che non necessita di alcuna entità autocosciente collettiva ( se non la comunità umana ultima universale), e aver chiara l'idea che tra singolo ed universale, come tra singolo e sociale, vi sarà sempre un salto ontologico troppo grande per poter credere in un innesto armonico senza filtri di sorta.
La comunità, allora, è proprio quel filtro che segna il passaggio tra uomo e universale, e tra uomo e suo essere in comune con l'altro. E lo è in due maniere:da un lato essa rappresenta il momento politico di riflessione comune, che si interpone tra persona e società, permettendo ad ognuno di rivelare il suo essere politico.
Dall'altro è reale momento di unità intermedia tra uomini, e si declina come identità collettiva sotto innumerevoli forme: familiare, affettiva, di conoscenza, di mestiere, di professionalità, territoriale, nazionale, linguistica, statale, ed infine universale umana ( la vera comunità umana/gemeinwesen).

Affinchè la comunità umana universale (gemeinwesen) sia davvero un concetto reale, e non un'astrazione consolatoria del nostro essere a-comunitari precipitati nel cinismo sociale conflittuale, bisogna fare in modo che la comunità intermedia in ogni sua forma sia riconosciuto luogo di legame sociale tra uomo e uomo.
“La furia del dileguare” espressione utilizzata da Hegel nella sua critica all'astrattezza dell'utopia comunitaria roussoviana, è stata elemento dominante nel comunismo storicamente predicato e proposto.
Re-immettere il comunismo nella comunità reale, significa rigettare utopie dissolutorie, rigettare appunto la furia del dileguare, in favore di utopie e di pratiche costruttive. Costruttive senza ansia rigeneratrice.
Non si costruisce su terra bruciata, ma si costruisce su ciò che già c' è.
Così come i medioevali costruivano le città sui resti di quelle romane, riutilizzandone il materiale e valorizzandone i siti, il comunismo deve essere costruito con il materiale reale esistente, e non con inesistenti purezze creazioni da laboratorio.
Questo significa valorizzare la comunità, come forma immanente dell'azione umana, come realizzazione quotidiana del singolo teso all'universale.

La ragione per cui il termine comunità è molto più pregnante e onnicomprensivo del temine nazione, è a questo punto ben comprensibile.
La nazione è valida e sacrosanta forma comunitaria, ma non è l'unica declinazione possibile del concetto comunitario.
Se così fosse, e se il termine nazionale, nazionalitario o nazione divenissero momenti univoci sloganistici, si incorrerebbe nel rischio di fare della nazione un lasciapassare a tutto campo per l'incontro tra singolo e universale. Così non è, poiché la nazione, è semplice espressione particolare di una comunità possibile, e, sopratutto all'interno di essa, vivono e nascono comunità intermedie di vitale importanza.
Rinunciare al nazionalitarismo come fattore sloganistico non significa affatto rigettarlo come pensiero forte relativo alla concezione della nazionalità.
Il nazionalitarismo che dobbiamo difendere è tutto nella considerazione dell'importanza dell'espressione libera culturale, linguistica e tradizionale di popoli coesi ed autocoscienti.
Ma essere nazionalitari, non può neanche assurgere a forma ideologica aprioristica, che induce alla difesa dell'indipendenza statuale possibile di nazionalità o etnie, indipendentemente dai contesti e dalla reale percezione che i popoli hanno realmente di loro stessi nel presente.
Credendo che la nazione sia un concetto dinamico, aperto, in divenire, applicare un nazionalitarismo ideologico -accademico, per cui ad ogni etnia-lingua deve corrispondere la difesa senza quartiere del diritto di indipendenza, è pura operazione astratta, fatta dall'alto di una teoria e non dall'interno delle dinamiche reali di popoli liberi.
In termini concreti il nazionalitarismo reale ( da opporre a quello ideologico ) deve avere quattro priorità:
1) la difesa della libertà formale di ogni popolo potenzialmente autocosciente di determinare in forma democratica il proprio futuro, manifestando attraverso libere elezioni eventuali volontà indipendentiste.
2) La difesa della lotta, anche armata, qualora realmente necessaria, dei popoli oppressi, ovvero viventi in forme di impossibilità di esprimere in alcun modo la propria cultura e specificità. In proposito, senza scendere nei singoli esempi, bisogna essere molto chiari, perchè l'argomento si presta a manipolazioni demagogiche o a logiche di tipo lobbistico ed imperialistico che nulla hanno a che vedere con un nazionalitarismo puro e verace. L'oppressione reale e giuridica è il vero criterio dirimente per legittimare lotte che travalicano i confini della democraticità e l'uso della violenza, ricordando che il ricorso a lotte impositive è legittimo solo laddove non esiste in alcun modo altra possibilità.
3) La lotta per forme di inter-comunitarismo politico (questo si indipendentemente dalle condizioni specifiche d'ogni nazionalità) all'interno degli stati politici esistenti, difendendo la possibilità della convivenza plurinazionale, difendendo la sovranità politica statale dove minacciata da separatismi etero-diretti
4) La propagazione di uno spirito patriottico democratico, fondato sulla fede nella comunità politica, in senso costituzionale e progettuale, da intendersi dunque in opposizione alla visione nazionale di tipo culturale ed etnico. Esempi luminosi di patriottismo politico immerso tra presente e passato e dunque non metastorico, è quello sudamericano, di nazioni come Cuba , il Venezuela, la Bolivia. La proposizione di un sano patriottismo civico, aperto e plurietnico, estraneo ad ogni logica di sciovinismo o di etnicismo, è uno dei nostri obiettivi politici e culturali al tempo odierno in Italia, paese sempre più supino a logiche esterne alla propria vita politica nazionale autonoma, e sempre più in crisi di rappresentanza strutturale causata dalla dipendenza del potere dominante da poteri esterni consacrati persino dalla presenza di basi militari di controllo.
In tale senso la lotta per un'Italia indipendente nell'alveo di un Europa da ricostruire, deve essere ideale faro d'azione: non certo per affermare un italianismo culturale sciovinistico ed annichilitore di altre etnie, o persino potenziali nazionalità coesistenti presenti nel nostro territorio, ma, al contrario, per sviluppare il senso d'appartenenza intercomunitario in un alveo politico storicamente formatosi in unità e potenziale condivisione nella differenza e nel rispetto delle tradizioni delle varie comunità interne.

Su queste quattro linee guida si può sviluppare una sensibilità nazionalitaria non ideologica.

Per concludere questo breve scritto chiarificatore, il ricorso al termine comunità, come primo riferimento politico ( di presentazione e di sostanza) è inerente all'onnicomprensività e alla trasversalità del termine comunità, rispetto alla parzialità ed all'univocità del termine nazione.
La nazione, come detto, non è che una possibile comunità particolare, ma non incarna in toto il senso di comunità che nella nostra elaborazione teorica vuole essere il centro motore di riproposizione di un comunismo politico fondato sul comunitarismo filosofico.
La sovranità della nazione politica, nonché la valorizzazione della nazionalità culturale coesistente, sono obiettivi politici e istanze collettive di cui ci facciamo portavoce e difensori, contro la cultura anti-democratica ed atomistica del potere globale concentrato nella mani di gruppi oligarchi senza patria né comunità.
Ma la comunità, intesa in ogni sua forma, livello e declinazione, è il vero oggetto di interesse complessivo cui ci rivolgiamo per ricostruire un pensiero anti-capitalista forte e radicato nella vita reale dell'uomo.

venerdì 21 gennaio 2011

La Scuola di Marx. Il problema dei rapporti fra Comunismo e Comunitarismo

 di Costanzo Preve

1. Riferirsi congiuntamente al comunismo ed al comunitarismo è una relativa novità nel panorama culturale e politico italiano ed europeo-occidentale. Sono esistiti in passato i cosiddetti nazionalcomunisti e nazionalbolscevichi, ma noi non abbiamo letteralmente nulla a che fare con loro, perché non ci collochiamo sul terreno delle rivendicazioni di una nazione contro altre nazioni. Sono esistiti ed esistono i cosiddetti eurasiatisti, ma il nostro profilo culturale e politico prescinde interamente dalla geopolitica, comunque concepita, in quanto si fonda su di un profilo economico, politico e culturale del tutto estraneo alla geopolitica, di difesa o di offesa che sia.

La ragione per cui fino ad oggi non siamo ancora stati fatti oggetto di attacchi diffamatori sistematici (prescindo dal contingente spurgo di fogna dei frenetici diffamatori di professione della rete, ad un tempo fastidiosi e irrilevanti) sta unicamente nel fatto che per ora siamo talmente piccoli da essere quasi invisibili per il circo dello spettacolo ideologico. Nel caso crescessimo, possiamo aspettarci che una muta di cani feroci ci salterebbe alla gola. Questi cani feroci si possono dividere in tre “razze canine” diverse.

In primo luogo, ci salterebbe alla gola la cosiddetta “estrema destra”, e questo per una ragione semplicissima. La tradizione dell’estrema destra, infatti, vede di buon occhio certe forme di comunitarismo ideologico del passato, in variante razzista, nazionalista, tradizionalista, organicistica, cavalleresca-neofeudale, eccetera, ma non vuole ovviamente avere nulla a che fare con il “comunismo”, che ha combattuto per un secolo, e di cui per principio rifiuta il “salvataggio” attraverso la distinzione fra Marx ed il comunismo storico successivo, in base al presupposto tetragono per cui Marx sarebbe stato il “fondatore” del comunismo che aborriscono.

In secondo luogo, ci salterebbe alla gola la cosiddetta “estrema sinistra”, e questo per una ragione semplicissima. La tradizione dell’estrema sinistra, infatti, il cui presupposto metafisico indiscutibile è l’eternità dell’antifascismo in assenza palese e conclamata di fascismo, è disposta ad accettare la pittoresca varietà delle tradizioni comuniste, o presunte tali (anarchismo, comunismo consiliare, togliattismo, mito dell’onesto Berlinguer, nobile sardo dalle mani pulite, bordighismo, trotzkismo nelle sue quattrocento varianti, stalinismo più o meno giustificazionistico, marxismo onirico-utopistico, maoismo filocinese, guevarismo eroico, castrismo esotico, eccetera), ma non vuole ovviamente avere nulla a che fare con il “comunitarismo”, in cui vede, grazie soprattutto alla paranoia che costituisce l’elemento fondante del suo profilo umano e antropologico, una perfida infiltrazione ed una orrenda contaminazione del Fascismo Eterno.

In terzo luogo, infine, ci salteranno alla gola tutti gli appartenenti al grande centro neoliberale politicamente corretto, che in Italia va da Fini a D’Alema e da Bertinotti a Berlusconi, i quali odiano ecumenicamente sia il comunismo, dichiarato “indicibile”, sia il comunitarismo, dichiarato “fascista”. Le pallottole-ismi che ci rovesceranno addosso sono già tutte nei loro depositi, e sono già tutte collaudate dal circo universitario politicamente corretto (anti-americanismo, anti-semitismo, nazionalismo, populismo, totalitarismo, passatismo, organicismo, eccetera).

Insomma, possiamo aspettarci il peggio, e se crescessimo (cosa niente affatto sicura, perché non possiamo offrire nulla, né posti politici, né cattedre universitarie, né intrallazzi ben pagati, né leccamenti mediatici, eccetera), i cani rabbiosi ci salteranno certamente alla gola.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2065

giovedì 20 gennaio 2011

LA PRODUZIONE LIBERATORIA DELL'INDIVIDUO SOCIALE

in Gilbert Simondon




di fabio Raimondi



Un sentiero di lettura sull'opera del filosofo francese a partire da due
volumi che pongono con forza il tema del rapporto tra tecnica e natura
umana. Una riflessione che rivela la sua capacità di cogliere i nodi
irrisolti della modernità e che pone con evidenza la necessità di una
concezione del «politico» come capacità del conflitto di trasformare il
legame sociale. E delle istanza di libertà e eguaglianza in un mondo che
le nega in nome della supremazia del mercato.

Come Thomas Hobbes costruì la sua scienza della politica basandosi sulla
fisica galileiana e come Immanuel Kant si appoggiò invece sulla fisica
newtoniana, così il tentativo del filosofo francese Gilbert Simondon è
stato di aggiornare la consapevolezza epistemologica della filosofia con
riferimento, in particolare, all'indecifrabile e amletica fisica
quantistica, che, diceva il fisico statunitense Richard Feynman,
«nessuno capisce». Un tentativo la cui ambizione epistemologica e
politico-sociale è ben evidenziata da due studi recenti, che pongono
l'accento sulla ridefinizione simondoniana del rapporto tra scienze
umane e scienze «dure» contro lo scientismo e l'utilitarismo
capitalistico delle merci.
Il primo è di Xavier Guchet - Pour un humanisme technologique. Culture,
technique et société dans la philosophie de Gilbert Simondon, Puf, pp.
278, euro 27 -, che insegue lo sforzo simondoniano di indicare un'altra
«modernità», legata alla tecnica intesa come «"supporto" e "termine di
riferimento reale" delle società umane». Il nucleo di tale operazione è
la problematizzazione dell'uomo, la costruzione di un «umanismo» fondato
sulla costituzione biologica e tecnica dell'umano, cioè sul «processo
d'individuazione» che, contro ogni essenzialismo antropologico sfociante
nell'illusione identitaria dell'individuo, mostri come l'umano si
costruisca attraverso l'oggettivazione tecnica della sua relazione
immediata col mondo.


Un dualismo da superare
Non si tratta più, dunque, di appoggiarsi sulla dicotomia tra «uomo
esteriore (sociale) e uomo interiore (mentale)», ma di sostituire al
dualismo sociologia-psicologia il rapporto complesso tra
psicosociologia, tecnologia e umanismo. Solo questa relazione, sempre
mutevole, può fornire il principio d'unità delle scienze sociali, contro
l'individualismo metodologico imperante. La tecnologia, infatti, «non è
solo lo studio del funzionamento delle macchine, ma anche l'analisi del
processo sociale per il quale il rapporto vitale tra l'uomo e la natura
si è progressivamente formalizzato, oggettivato come sistema di
operazioni coordinate». Tutto questo trova il proprio centro
nell'analisi della funzione simbolica dell'oggetto tecnico, veicolo di
una normatività che è promessa implicita di universalità: attraverso
l'oggetto tecnico, infatti, sono trasmessi «degli schemi operatori» in
grado mediare virtuosamente la comunicazione interumana.
Pur non misconoscendo il tema antropologico, Simondon cerca di
«ancorarlo a un'ontologia su misura», per dirigersi verso una
«prasseologia» che, non escludendo il valore della tecnica, destituisca
di ogni fondamento «la tentazione di una comprensione tecnicista della
realtà umana»; realtà «operatoria» perché produce, attraverso processi
di individuazione che si danno a partire da una realtà «preindividuale»,
il passaggio da «una struttura a un'altra, rifiutando la distinzione tra
essere e divenire». L'uomo è legato «al mondo esterno che è il luogo in
cui egli fabbrica la propria realtà fabbricando i propri oggetti»:
questa è l'operazione di «transindividuazione» con la quale egli
«istituisce un ordine umano strutturando ciò che in lui è natura». In
questo modo, l'uomo trasforma la «cultura», che ha una «funzione
regolatrice all'interno dei gruppi umani» e verso la natura.
Il secondo è di Andrea Bardin, che ricostruisce in modo accurato la
terminologia tecnica di Simondon, le sue fonti, il contesto nel quale
opera, le fasi della sua riflessione e l'importanza filosofica della sua
ricerca, allontanandosi dalle interpretazioni più diffuse: Epistemologia
e politica in Gilbert Simondon. Individuazione, tecnica e sistemi
sociali (Valdagno, pp. 410, euro 24) è il volume con cui l'editore
FuoriRegistro inaugura una collana che vorrebbe intercettare, grazie a
bassi costi coniugati a ottima qualità, la produzione di studiosi resi
sempre più invisibili dai tagli criminali alla ricerca.

L'individuo è un processo sempre aperto di scambio continuo di
informazioni con l'ambiente circostante e con gli altri esseri viventi
(umani e non) e non viventi (oggetti tecnici), in cui è la relazione a
produrre gli elementi che la costituiscono: «la natura umana non è un
dato - né biologico né culturale - ma un divenire biologico-tecnico» che
struttura e destabilizza, al contempo, l'ambiente in cui si genera.


La carica energetica del milieu
La tecnica (non riducibile al funzionalismo del «lavoro», fonte di
«alienazione»), con la sua inventività, rende possibile la comunicazione
tra comunità e natura attraverso la «macchina» dando vita alla società,
che però non è mai stabile, priva di comunicazione con l'esterno, ma
sempre «metastabile» nel suo movimento di interazione, scambio
energetico e conflitto tra le sue componenti, e tra esse e l'ambiente
che le circonda. Se «ciò che è organico e tecnico produce e al contempo
minaccia il sistema sociale», allora la conservazione della società
passa per la costruzione collettiva di «significazioni» (simboli) con la
capacità di equilibrare lo scambio tra potenziali creativi e
distruttivi. Quest'attività è la cultura, che può produrre la «chiusura
in un sistema di credenze» (comunità) oppure «il rilancio della
produzione simbolica stessa» (società): solo nel secondo caso la vita
riceve un impulso conservativo ed espansivo al contempo.
È soprattutto dopo L'individuation à la lumière des notions de forme et
d'information del 1958 che è possibile cogliere «le implicazioni
politiche della filosofia dell'individuazione». Dalla relazione
«organismo-milieu», infatti, si forma il legame sociale. La «produzione
simbolica», essendo il «prolungamento della struttura e dell'azione
dell'organismo», segna il passaggio dalla natura alla cultura istituendo
tra esse una relazione biunivoca. Sono in particolare gli oggetti
tecnici a regolare il rapporto tra organismo e ambiente secondo una
modalità che fa riferimento alla «carica energetica» potenziale
associata al milieu: un potenziale preindividuale che rende ragione sia
della sempre possibile regressione umana al primitivo sia della
produzione di nuove «individuazioni transindividuali».
In quanto «cultura», tecnica e religione (sacralità) sono «modalità
primarie del pensiero»: la prima (oggettivazione) si applica al rapporto
col mondo naturale, la seconda (soggettivazione) «cura la collocazione
dell'individuo un uno sfondo-Tutto», ma nessuna delle due è esclusiva,
perché l'ultima opera «sulla scala dei gruppi» con funzioni di
«stabilizzazione», mentre la prima opera su scale più ampie con funzioni
di «invenzione». L'oggetto tecnico diventa così potenziale vettore di
«apertura sociale», la cui politicità dipende dal suo «valore»
destabilizzante e costitutivo al contempo, non necessariamente
progressivo. Quando la religione non è più in grado di collocare
l'individuo in un Tutto, a fronte della «frammentazione» prodotta dalle
tecniche, sorge la politica, che «riformula il tutto nella sua
dimensione potenziale-progettuale» con lo scopo di costruire una
«compatibilità tra fase tecnica e religiosa». Il tentativo però non
genera sintesi ma conflitto, ed è a questo punto che la filosofia
interviene come produzione di «permanente negoziazione» o «regolazione»
del loro antagonismo, «rallentando o amplificando il divenire» e
modificando così «il milieu attraverso il quale la società agisce su se
stessa».


Nella gabbia della merce
Simondon insegue la possibilità di una «cultura tecnica», il cui
antispecismo vorrebbe rompere anche con l'alienazione degli oggetti
tecnici al fine di dar loro «cittadinanza nel mondo delle
significazioni» contro la tecnocrazia borghese e la tecnofobia («omologa
al razzismo») che hanno inondato la cultura del Novecento. Contro il
lavoro e la sua sacralizzazione, bisognerebbe modificare il rapporto
consumistico (passivo) che produce «regressione», perché chiede al
mercato il funzionamento «chiuso» anziché «aperto» dell'oggetto tecnico,
il suo «automatismo» anziché lo sviluppo dei suoi potenziali, il suo
«rendimento» invece che la sua «liberazione», la sua prestazione
«omeostatica» e non «metastabile». Un'etica immanente alle tecniche è
l'orizzonte che Simondon insegue, cadendo spesso in afflati mistici che
lo riportano in un orizzonte positivistico, mitigato però dalla
consapevolezza che la politica è ricerca della «compatibilità
dell'invenzione con le condizioni di stato del sistema sociale», ossia
«atto di governo» giusto, «invenzione di compatibilità» tra l'esistente
e l'emergere aleatorio delle invenzioni: filosofia.

venerdì 14 gennaio 2011

La distorsione geopolitica e i corsi ed i ricorsi capitalistici


 
di Eugenio Orso

Sembra che si stia arrivando “alla frutta”, ed anche oltre, al caffè e al conto, in certi ambienti teorici in cui si dichiara di analizzare le dinamiche capitalistiche in modo rigorosamente scientifico, senza nulla concedere a quisquilie quali la socialità, la complessità antropologica, l’etica e la giustizia distributiva, la difesa dell’ambiente naturale, e chi più ne ha più ne metta, fino ad arrivare all’umanesimo o ancora oltre, alla stessa ricerca di un senso da dare vita, che consentisse di uscire dalle “gabbie d’acciaio “ in cui il modo di produzione dominante tende a rinchiuderci.

L’uomo, in queste analisi, non conta assolutamente niente, è come se in queste vicende avesse una parte esclusivamente nella veste di “agente strategico capitalistico” o di “funzionario del capitale”, diventando un puro ruolo.

Ciò comporta, quindi, l’esclusione di gran parte dell’umanità dalle analisi stesse, analisi che pur dovrebbero riguardare le società umane e la storia universale, non trattandosi certo di osservazioni naturalistiche, come quelle dell’ornitologo che studia le abitudini dei volatili, o di studi scientifici relativi alle particelle di Planck in fisica subatomica.

Segue:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=2020

giovedì 6 gennaio 2011

Comunismo, Comunità, Classe

 



di Maurizio Neri

«Ma non scoppiano forse tutte le sommosse, senza eccezione, nel disperato

isolamento dell’uomo dalla comunità (Gemeinwesen)?» Karl Marx, 1844

Riflessioni e proposte per promuovere il dibattito, per la costruzione del Movimento Anticapitalista.


Questo saggio vuole contribuire a delineare i tratti del pensiero del Comunismo Comunitario inserendosi nel discorso iniziato nelle pagine di Comunitarismo diversi anni fa in due diversi saggi sul comunitarismo.1

I due articoli in questione rappresentano una importante e lucida ricostruzione delle varie influenze del pensiero comunitarista italiano e riescono a cogliere come i termini «comunità» e «comunitarismo» siano stati utilizzati dalle più eterogenee forze politiche a dai più diversi Autori. Ritengo però che il volersi rifare ad analisi ed elaborazioni fatte da altri, o il voler ricondurre il proprio agire politico a quello di movimenti del passato, rappresentino entrambi un limite.

Segue:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=1280