lunedì 26 settembre 2011

 Fuori dal debito! Fuori dall’Euro!



di Costanzo Preve




1. Un’organizzazione denominata Rivoluzione Democratica (cfr. sollevazione.blogspot.com) ha convocato a Chianciano per il 22 e 23 ottobre 2011 un incontro nazionale con parola d’ordine: Fuori dal debito! Fuori dall’Euro! Voglio qui riportare il mio contributo (sia pure non richiesto), data l’importanza del tema in questione.


2. Le possibilità concrete di ottenere a breve ed a media scadenza questi due obbiettivi (che condivido nell’essenzialità) sono pressoché nulle. E dicendo nulle intendo proprio dire nulle. In una simile situazione, non potendoci aspettare risultati anche solo parziali a scadenza ragionevole, è il come si devono impostare le rivendicazioni che diventa decisivo. Se esse infatti si impostano male o in modo inappropriato, presto o tardi se ne avranno le conseguenze. Farò fra poco il grottesco esempio del Movimento detto No Global, partito un decennio fa con grandi speranze e finito nel nulla e nel ridicolo. Le cause di questo esito poco glorioso devono essere approfondite.


3. Il settembre 2011 l’Unione Sindacale di Base (USB) è sfilata a Roma con rivendicazioni qualitativamente diverse da quelle della CGIL, Di Pietro, di Vendola, di Bersani e della stessa FIOM. E’ stato posto il problema della cancellazione del debito e della uscita dall’eurozona. Si tratta pur sempre di un’organizzazione che rivendica di avere circa 250.000 membri, e quindi di una forza piccola, ma reale. Si tratta di una relativa novità nella scena politica italiana, in cui l’Unione Europea è fino ad oggi rimasta un feticcio intoccabile, dall’estrema destra all’estrema sinistra “visibili”.


4. Nel numero di settembre 2011 di “Le Monde Diplomatique” (edizione italiana) è uscito un fondamentale articolo dell’economista francese Frèdèric Lordon intitolato “La deglobalizzazione ed i suoi nemici”. Questo testo è importante, perché pone con chiarezza i problemi fondamentali. Rimandando ad esso il lettore, ne svolgerò con autonomia un mio commento personale.


5. Così come la imposta Lordon (e la intendo io) la de globalizzazione non ha nulla a che vedere, e non è quindi una ripresa, di ciò che per un decennio è stato chiamato Movimento No Global. La debolezza strategica del Movimento No Global era di non essere affatto no global (al di là dei riti pittoreschi di piazza, dai lamenti pecoreschi ritmati alle simulazioni del black bloc), ma di essere un movimento no global di estrema sinistra, e cioè una caricatura ultra-global. La stragrande maggioranza delle sue rivendicazioni (per non cadere nell’autarchia, nel protezionismo, nello stato nazionale, eccetera, tutte cose viste a priori come di “ultradestra”) erano ricavate da una radicalizzazione di ultra-sinistra del paradigma neoliberale in politica e neoliberista in economia. Estensione in tutto il mondo dei “veri” diritti umani, abolizione delle frontiere, libera immigrazione, “superamento” del meschino orizzonte della sovranità dello stato nazionale, retorica contro i dittatori (distinti in semplicemente corrotti, ed in corrotti ed anche sanguinari), giovanilizzazione e femminilizzazione dei valori sociali, mitologia del progresso, eccetera. Un programma che sembrava stilato dalle stesse oligarchie liberali. In campo “marxista”, Negri e Hardt scrissero una trilogia che propagandava questa concezione liberista rovesciata (ma un dado rovesciato è sempre un dado), e non a caso questa trilogia divenne popolare presso i due estremi sociali apparentemente antitetici ed in realtà complementari del capitalismo, i centri sociali in basso e l’aristocrazia accademico-universitaria di sinistra in alto.


6. In Italia abbiamo vissuto una variante particolarmente pittoresca e provinciale del movimento no global, con il picconatore Bertinotti che sosteneva che con la globalizzazione spariva l’imperialismo. Il fatto che questa colossale sciocchezza potesse essere presa sul serio segnala la desertificazione del pensiero critico per opera degli apparati ideologici post-moderni mediatici ed universitari. Ed il fatto che il successore più astuto e rigoroso di Bertinotti, il poeta barese Vendola, abbia elettoralmente svuotato sia i “merli” di Ferrero sia i “passeri” di Diliberto, mostra come il non avere preso sul serio in tempo le sciocchezze porta poi a conclusioni distruttive. Quali lezioni trarre dagli esiti grotteschi del movimento no global dieci anni dopo?


7. La prima e pressoché unica lezione consiste nel capire che la sacrosanta lotta alla globalizzazione non può e non deve essere ripetuta e riproposta sulla base ideologica del movimento no global. Lordon chiarisce che i cantori del vecchio movimento no global (ad esempio l’organizzazione Attac, che ha definito la deglobalizzazione un concetto semplificato e superficiale) comincino già ad alzare le barricate, paventando poi “contaminazioni” con il protezionismo dell’eterna “destra”. Fa eccezione l’economista francese Jacques Sapir, che a mio avviso ha impostato le cose nel modo più radicale e anche meno estremistico ed avventuristico possibile: si tentino pure tutte le soluzioni possibili dentro l’euro e l’unità europea, ma se per caso fallissero, allora deve diventare “pensabile” anche l’uscita dall’euro.


8. Inutile dire che una simile prospettiva possibile, anche se posta solo come eventualità praticabile nel caso che tutte le altre opzioni “riformatrici” fallissero, viene virtuosamente rifiutata dal centro e dalla destra liberale. Il fatto è che ormai il liberalismo classico non esiste nemmeno più, divorato dal passaggio dalla sovranità politica alla governance economica. Ma anche la sinistra (con quella appendice patetica ed inutile chiamata “estrema sinistra”) la rifiuta, temendo virtuosamente che “un conflitto di classe venga trasformato in un conflitto di nazioni” (Jean Marie Harribey).


Ecco, questo è lo scoglio. Il voler negare il dato nazionale, rimuovendolo virtuosamente, aveva già portato Attac a passare dalla “anti-globalizzazione” al cosiddetto “altermondialismo”. Ma l’altermondialismo per ora non esiste, ed è una utopia futuribile come il comunismo o il comunitarismo universale. Ma il dato nazionale non significa automaticamente razzismo, protezionismo assoluto, autarchia totale o decrescita virtuosa agro-pastorale, anche se viene ovviamente così diffamato dai cantori (interessati) della cosiddetta irreversibilità della globalizzazione.


La globalizzazione è emendabile? Il futuro è ignoto, ma si può già rispondere: per ora, nelle attuali condizioni geopolitiche ed economiche, no. I quattro elementi intrecciati insieme (le sfide della globalizzazione, il giudizio dei mercati, il vincolo dei debiti, la sovranità delle agenzie di rating) ci fanno rispondere di no. E quindi bisognerebbe trarne le conseguenze.


9. Per ragioni che sarebbe lungo e noioso spiegare, mentre mi sono estraniato (e sono stato estraniato) dal dibattito italiano, sono invece attivo e presente nel dibattito greco (articoli, interviste, interventi, eccetera). Ora, tutti conoscono la situazione della Grecia, e di come il problema del debito e dell’eventuale uscita dall’euro sia in Grecia particolarmente acuto ed attuale, molto più che in Italia, dove è ancora per ora largamente “teorico” e virtuale. In Grecia è possibile studiare come in un laboratorio le conseguenze immediate del dibattito sul debito.


Il commissariamento della Grecia, che ha comportato la sua totale perdita di sovranità, ha comportato anche la completa distruzione di tutte le conquiste “socialdemocratiche” conseguite dopo la caduta della giunta dei colonnelli del 1974 (metapolitefsi), svuotando quasi quaranta anni di storia della Grecia moderna. Così come l’Italia dell’agosto 2011 è stata “commissionata” dal duopolio Draghi-Napolitano (un banchiere ed un ex-comunista riciclato), così la Grecia è stata commissionata da una “giunta economica” costituita da tutti partiti (destra, sinistra e centro) favorevoli alla sottomissione ai diktat della banca Centrale Europea e della Germania in primo luogo. A questo punto, come reagire?


Da quanto ho potuto capire partecipando al dibattito, ci sono stati fondamentalmente due modi. In primo luogo la rivendicazione di una autonomia nazionale è stato subito incorporata nel ribellismo ultra-comunista di estrema sinistra, che invita all’abbattimento del capitalismo. In secondo luogo, un modo più patriottico e nazionale, incarnato dal grande musicista Mikis Theodorakis e dal suo movimento, che non porta in piazza bandiere rosse ma soltanto bandiere azzurre greche, e lo fa per non dividere ideologicamente il popolo, che al di fuori di una ristretta oligarchia soffre indipendentemente dalle sue opinioni politiche, filosofiche o religiose.


Nonostante abbia amici soprattutto fra i “sinistri” greci, devo dire che a mio avviso la linea giusta è quella di Theodorakis. Il popolo non deve essere diviso ideologicamente, ma unito in nome della sovranità nazionale e di quella che Lordon e Sapir chiamerebbero deglobalizzazione. Cerchiamo di tirarne la conseguenze “italiane”. Anche in Grecia Theodorakis è stato accusato di essere “rosso-bruno”, di lasciare spazio alla destra, di essere ambiguo, eccetera. Accuse completamente false. Theodorakis ha le carte in regola, sia per la Resistenza (1941-1944), sia per la guerra civile (1946-1949), sia per il “lungo inverno” dell’autoritarismo successivo (1949-1967), sia per l’opposizione alla dittatura dei colonnelli (1967-1974). E’ solo la stupidità settaria che non ha le carte in regola, né in Grecia né in Italia.


10. Passiamo ora all’Italia. Se le considerazione fatte fino ad ora sul fallimento dei no global e degli altermondialisti, sulla deglobalizzazione (Lordon, Sapir), sulla corretta impostazione “nazionale” (non nazionalistica) di Theodorakis in Grecia, eccetera, sono corrette, che cosa fare in Italia?


In primo luogo, non lasciare spazio ai deliranti che dicono che “bisogna fare come in Tunisia”. Gli italiano se ne guarderebbero bene. Dalla Tunisia si scappa e si scapperà ancora a lungo, perché non c’è pane e non c’è lavoro (il che non significa che non fosse ovviamente sacrosanta la rivolta contro Ben Alì!). In questo momento una (non auspicabile) rivolta di tipo tunisino porterebbe soltanto alla fuga del puttaniere Berlusconi ed ad un governo degli “onesti”, e cioè dei funzionari del FMI e della BCE, che porterebbero a termine i programmi di liberalizzazione totale.


In secondo luogo, non bisogna in nessun modo attaccare al programma della deglobalizzazione (perché è ovvio che lo sarebbe sia l’uscita dall’euro che dal debito) i tradizionali (e deliranti) programmi di estrema sinistra, attraverso massimalistiche adunate di refrattari. Mi spiace scendere sui nominativi e sul personale, perché non sarebbe stata questa la mia intenzione. Ma che cosa ci fanno Rizzo, Ferrando e Babini dei CARC? I CARC vogliono la dittatura del proletariato. Ferrando vuole fare come in Tunisia, e lasciamo stare per carità di patria le sua posizioni sulla Libia e sulla Siria, in cui uno scontro tra masse divise da una guerra civile è stato magicamente trasformato in scontro tra le masse unite ed i dittatori burocratico-capitalisti. E Badiale? A mia conoscenza Badiale vuole la decrescita, programma del tutto legittimo, ma che è una fuga in avanti attaccare alla deglobalizzazione. Trattandosi di una sorta di “intergruppi” di estrema sinistra, il solo modo in cui molti vedono l’anticapitalismo, a mio avviso il fallimento è inevitabile. A breve scadenza, fallirebbe anche se ci fossero Gesù, Maometto, Marx e Lenin. Ma almeno porrebbe le basi per una lotta di lunga durata. Così avremo il solito intergruppi estremistico urlante.


A dire queste cose, si passa necessariamente per rompiscatole e guastafeste, ma in definitiva è meglio parlare che tacere.





Torino, settembre 2011

mercoledì 7 settembre 2011

CONSIDERAZIONI SULLA GUERRA DI LIBIA
E SULLA COSIDDETTA “PRIMAVERA ARABA”




di Costanzo Preve

1. Ho recentemente aderito ad una manifestazione e ho firmato un appello per la richiesta di dimissioni di Napolitano, Berlusconi, La Russa e Frattini per violazione della Costituzione a causa del nostro intervento in Libia. So perfettamente che si tratta di un atto simbolico perfettamente inutile. Come ha scritto Brecht, “anche l’ira contro l’ingiustizia rende roca la voce”. Sarebbe facile insolentire l’unanimità guerresca che ha unito sinistra e destra, estrema sinistra ed estrema destra, ex comunisti ed ex fascisti (qui la coppia Napolitano/La Russa è assolutamente impagabile, per chi studiasse il cosiddetto “trasformismo” fuori dai libri di scuola). Cerco di non farmi sopraffare dall’indignazione e mi limito ad offrire qualche spunto per la riflessione.

2. Troppe cose non sono ancora note e si sapranno forse solo nei prossimi anni. Quanto è durata e quando è cominciata la preparazione dei servizi segreti francesi e inglesi in Cirenaica e nella zona berbera della Tripolitania? Quanto è contata la collaborazione fra la strega sionista Hillary Clinton ed il seppellitore del gaullismo Nicolas Sarkozy per spingere il (forse) riluttante Obama a dare il semaforo verde all’intervento armato? Come è stato possibile ingannare Russia e Cina all’ONU per dare via libera all’ipocrita no fly-zone, o quanto invece c’è stata sporca connivenza? Che nel caso ci fosse veramente stata, farebbe cadere tutte le speranze sul BRICS e sulla politica eurasiatista? Vorrei saperne di più, ed invece non lo so.

3. Dal momento che sono uno studioso esperto di storia della filosofia, non cesso di stupirmi per la facilità con cui la legittimazione della guerra è passata dalla dottrina della “guerra giusta” alla dottrina del cosiddetto “intervento umanitario”. Risparmio al lettore possibili dotte ricostruzioni di questa storia. Inizialmente, la guerra giusta era la guerra giustificata dalla necessità di esportare il cristianesimo, ed era pertanto una guerra di “crociata”. Poi la guerra giusta diventò la guerra in difesa della patria invasa (in latino pro aris et focis), ma è chiaro che in questo modo l’attacco preventivo può essere fatto ipocritamente passare per guerra di difesa.
L’apparente successo del pacifismo nell’ultimo cinquantennio non deve trarre in inganno. Esso è sempre stato una protesta contro lo “sterminismo nucleare”, per cui, se si poteva fare una guerra senza l’uso di bombe nucleari, la guerra era rilegittimata (Norberto Bobbio per Iraq 1991 e Jugoslavia 1999). I riti pecoreschi e ipocriti delle cosiddette Marce della Pace di Assisi sono sempre e solo stati cerimonie istituzionali, in cui al belare rituale si accompagnava sempre l’esecrazione per i dittatori e la possibilità di esportare i diritti umani.
Nella storia dell’umanità, è raro che si siano condotte guerre sulla base delle carte fornite dallo stato maggiore nemico. Invece gli ultimi trent’anni ci hanno fatto assistere a questo kafkiano paradosso. I pacifisti belavano richieste ritmate di sostituire alle armi i diritti umani, proprio quando gli stessi produttori di armi scrivevano sui loro missili “peace is our profession”, e i contingenti di invasori venivano ribattezzati “contingenti di pace”.
Tutto questo, ovviamente, è ampiamente noto. Bisogna però chiedersi, al di fuori di tutti gli identitarismi di partito o di schieramento, come sia stato possibile nell’arco di pochi decenni il passaggio della Grande Menzogna, dalla guerra giusta all’intervento umanitario, reso più facile anche dal passaggio dalla leva militare obbligatoria (che richiedeva motivazioni di manipolazione ideologica allargata) al mestiere di professionista delle armi (con donne comprese), che è compatibile con strategie ideologiche meno sofisticate (si pensi alla trasmissione di Sky-tv denominata Herat-Italia, senza dimenticare chi è Murdoch, il miliardario sionista padrone di Sky).

4. Secondo il modello mediatico pubblicitario americano, oggi le guerre vengono “vendute” alla cosiddetta “opinione pubblica” in forma personalizzata, attraverso la personalizzazione diabolica e demonizzante del “Sanguinario Dittatore”. Qui il copione si ripete. Nel 1999 il sanguinario dittatore era il serbo Milosevic (ribattezzato Hitlerovic in una oscena copertina de “l’Espresso”, la nave ammiraglia del gruppo Scalfari-De Benedetti), nel 2003 Saddam Hussein, ed ora nel 2011 il sanguinario dittatore è Gheddafi. Questo ritorno personalizzato del sanguinario dittatore deve far riflettere. Tutto questo è certamente legato al medium televisivo che richiede icone facilmente riconoscibili, ma non basta.
Il dittatore sanguinario è anche un’estrema metamorfosi degenerativa dell’immaginario antifascista della seconda guerra mondiale. L’immaginario antifascista partiva bensì dalla triade diabolica personalizzata dei tre grandi dittatori (nell’ordine di malvagità, Hitler, Mussolini e Franco), ma non si limitava certamente a quest’ultima, perché si aggiungeva il socialismo, il comunismo, la lotta al colonialismo, al razzismo, all’imperialismo, eccetera. Dopo la catastrofe del triennio 1989-1991 e la vittoria tennistica nei circoli universitari del paradigma del Totalitarismo di Hannah Arendt, tutti questi elementi sono stati spazzati via, ed è rimasto soltanto lo stereotipo del sanguinario dittatore, se possibile con le sue ville con i rubinetti d’oro e le vasche Jacuzzi rivestite di pelle umana.
Questo potrebbe in parte spiegare la totale resa della cultura di “sinistra” al modello del sanguinario dittatore. Perfino Samir Amin (Cfr. “il manifesto”, 31 agosto 2011), pur condannando l’intervento NATO e diagnosticando con precisione le ragioni “imperialistiche” della guerra di Libia, sente il bisogno di infierire sullo sconfitto qualificando Gheddafi come “buffone”. Sono contrario a infierire sul vinto, magari con motivazioni pseudo-marxiste. Non mi interessa correggere con la matita blu le ingenuità del Libro Verde o sanzionare gli indubbi elementi kitsch del suo comportamento. Gheddafi è stato ed è un grande patriota ed un combattente antimperialista, panarabo e panafricanista, mille volte superiore ai cani e ai porci che linciano i neri e che hanno vinto esclusivamente per i bombardamenti NATO.

5. La vergogna della cultura di sinistra a proposito della guerra di Libia è stata tale da essere quasi difficile da descrivere. Tutti si sono fatti babbionare dalla retorica sulla “primavera araba” sponsorizzata dall’emiro del Qatar e da Al Jazeera. Il fatto è che questa “cultura di sinistra” (esemplare è il giornale “il manifesto”, di cui “Liberazione” è soltanto una variante sindacalistica) è ormai soltanto una variante radicale dell’individualismo di sinistra post-sessantottino, indubbiamente post-borghese, ma anche e soprattutto ultra-capitalistica.
In questa vergogna si è particolarmente distinto il trotzkismo, in tutte le sue varianti, da Sinistra Critica al Partito Comunista dei Lavoratori (Ferrando) al Partito di Alternativa Comunista (Ricci). Tutti costoro hanno inneggiato alla stupenda rivolta delle masse libiche, che essendo però prive di un buon partito rivoluzionario trotzkista, hanno visto “scippata” la loro magnifica vittoria dall’intervento NATO.
Qui la coglionaggine dottrinaria ha celebrato in solitudine il suo massimo trionfo. I residui dogmatici del trotzkismo vogliono sempre una rivoluzione “pura”, anzi purissima, perché se non è pura è sempre bonapartista, burocratica, “campista” (Castro, Chavez, eccetera). Questi sventurati mi ricordano un frustrato che, non potendo sposare la donna più bella del mondo, la sola che avrebbe voluto sposare, si rinchiude in bagno a masturbarsi sognando questa Venere ideale. Miserabili! La NATO, i sionisti e gli USA massacrano un combattente antimperialista, e questi sciocchi inneggiano alla caduta del dittatore sanguinario!

6. Non ce l’ho assolutamente con Napolitano e gli ex PCI. Si sono riciclati bene, nel 1956 erano con l’URSS ed oggi nel 2011 sono con gli USA. Dal momento che non li ho mai stimati in precedenza, non mi hanno neppure deluso. I soli che hanno mantenuto un atteggiamento onesto sono stati i collaboratori de “l’Ernesto” (oggi Marx XXI), ma costoro sono gli stessi che per anti-berlusconismo vogliono allearsi con Bersani e Napolitano, cioè con i bombardatori della Libia. Lo spieghino ai loro militanti, e se riescono a farlo bisogna concludere che i loro militanti non sono militanti, ma militonti.
Il vero problema è quello di fare ipotesi sulle cosiddette “primavere arabe”. Come ha detto argutamente Zygmunt Bauman in una intervista a La Stampa, la cosa interessante sarà l’estate araba, perché la primavera è già passata. Per ora siamo nel campo delle ipotesi. Credo che in un certo senso il 2011 arabo sia, venti anni dopo, il corrispondente del 1991 sovietico. Il 1991 sovietico chiudeva il ciclo delle rivoluzioni comuniste novecentesche nel loro aspetto di rivoluzioni operaie e proletarie (burocraticamente degenerate o meno, questa è un’altra storia), attraverso una maestosa controrivoluzione restauratrice delle nuove classi medie cresciute all’interno dello stesso apparato formalmente “comunista”. Il 2011 arabo chiude il ciclo delle rivoluzioni nazionaliste arabe a partire dal 1945 (nasserismo egiziano, gheddafismo libico, baathismo iracheno e siriano, eccetera), in cui le nuove classi borghesi favorite dallo stesso dispotismo partitico-militare precedente si sono ora autonomizzate, e cercano un rapporto diretto e non militarmente mediato con la grande globalizzazione finanziaria capitalistica.
Mi sbaglio? Sono troppo pessimista? Il futuro ce lo dirà presto.

Torino, 3 settembre 2011