giovedì 30 dicembre 2010

La stato-nazione è il male minore di fronte all'adunata di invasati “umanitari”



di Costanzo Preve

Nell’attuale congiuntura storica (e non in uno spazio-tempo astrattamente razionale, ma per ora inesistente) io sono contro l’Europa, non la voglio, preferirei il mantenimento di stati-nazionali sovrani, collegati evidentemente da facilitazioni commerciali e culturali e da alleanze militari difensive, che non impediscano però la piena ed assoluta sovranità. Se penso questo, è perché oggi, con l’attuale classe politica, con l’attuale classe mediatico-niversitaria, con l’attuale senso di colpa collettivo continuamente innaffiato dal peggiore gruppo intellettuale della storia europea dal tempo degli etruschi la sola Europa possibile è quella dell’impero occidentale a guida USA. Stando così le cose, io non voglio questa Europa. Voterei contro in qualunque referendum, e mi spenderei apertamente per la sua pubblica negazione.

Detto questo, per non lasciare equivoci di sorta, credo che l’attuale Europa si basi su almeno due “errori metafisici”. Prendo l’espressione del notevole filosofo tedesco (oggi dimenticato) Georg Simmel, che considerava un “errore metafisico” il privilegiare i mezzi rispetto ai fini nell’uso degli strumenti tecnici e nel consumo dei beni, per cui l’avere prendeva il posto dell’essere (secondo la corretta formulazione di Erich Fromm), e così la stessa finalità (il vivere bene, eu zen, secondo Aristotele) era cancellata. Il primo errore metafisico è di tipo economico, ed il secondo di tipo culturale. Li segnalerò brevemente entrambi, ma è evidente che il tema è di tale importanza da meritare uno sviluppo maggiore.

Il primo errore metafisico è di tipo economico. Le oligarchie hanno infatti pensato che bisognasse “cominciare” con una unificazione monetaria (l’euro) e commerciale, e che - per così dire – il resto sarebbe venuto dopo automaticamente (come diceva Napoleone, l’intendance suivra). Ma i profili nazionali e gli interessi dei popoli non sono affatto una “fureria” come per le truppe in marcia. Questo economicismo esasperato, ideologia spontanea degli imprenditori e dei loro teologi, gli economisti che mentre fumano la loro pipa-totem emettono mantra in lingua inglese, lingua sacra del capitalismo, non corrisponde per nulla alla vita reale degli individui, delle classi, dei popoli e delle nazioni, ma li stravolge tutti per i suoi scopi. I sistemi scolastici, cresciuti in circa duecento anni di storia in ogni paese per corrispondere al suo profilo nazionale, sono stati distrutti per essere “adattati” ai vincoli comunitari. I professori liceali sono stati degradati a prof e a poco più di animatori sociali assistiti da bande di pedagogisti, psicologi e sindacalisti invasivi (il titolo intero di “professore” è stato riservato ai soli professori universitari, il nuovo sacerdozio cosmopolitico globalizzato), e la stessa università è stata distrutta con corsi triennali ridotti ad esamifici per il futuro lavoro flessibile e precario. La spaventosa inflazione derivata dall’introduzione dell’euro ha comportato di fatto (le statistiche lo testimoniano) l’erosione di trenta anni di conquiste del lavoro salariato europeo organizzato. Il dominio militare Usa non è stato minimamente diminuito, ma anzi si aumentano e si ampliano le basi. In definitiva, l’errore metafisico consiste in ciò, che si vorrebbe che gli europei amassero l’Europa quando la stessa Europa si è manifestata di fatto con un peggioramento delle loro condizioni di vita, l’apertura di un epoca di aspettative decrescenti per la classe media, la precarizzazione e la flessibilizzazione del lavoro dipendente, la degradazione del sistema scolastico e universitario, l’aumento del controllo del dominio militare USA, ecc. È il caso di dire: no, grazie!

Il secondo errore metafisico è di tipo culturale. Si è infatti sviluppato una sorta di “gioco al massacro”, o gioco delle cancellazioni reciproche, per cui la casta analfabeta e settaria degli intellettuali europei è stata chiamata a “cancellare” le tradizioni culturali che erano odiose a ciascuna scuola. È come se nel mondo antico i platonici, gli aristotelici, gli epicurei e gli stoici fossero stati chiamati a “cancellare” ciò che non piaceva a ciascuno, per cui alla fine l’identità culturale del mondo antico sarebbe risultata o da cancellazioni, o da veti reciproci, o da una sorta di eclettismo concordato per cui erano messi tutti per quieto vivere e per “politicamente corretto”, senza che però nessuno ci credesse veramente. E così abbiamo assistito al demenziale scontro tra fautori “religiosi” dell’identità detta ebraico – cristiana e fautori “laici” della eredità detta razionalistica, illuministica e dei cosi detti “diritti umani di libertà”. In proposito svolgerò due sommari ordini di ragionamento.

In primo luogo, non capisco che cosa voglia dire eredità ebraico-cristiana, a meno che si intenda il fatto che nella Bibbia c’è sia l’Antico che i Nuovo testamento. L’identità ebraico-cristiana naturalmente non esiste, non è mai esistita come fatto unitario, e non esisterà mai, ed il fatto che questo improbabile concetto sia stato coniato deve essere fatto risalire esclusivamente al complesso di colpa per il così detto “olocausto”. L’Europa ha una tradizione primariamente cristiana (senza dimenticare mai un fatto che nel paese di Padre Pio è costantemente dimenticato, e cioè che i cristianesimi sono tre, e cioè cattolicesimo, protestantesimo ed ortodossia, e sono tutti e tre sul medesimo piano), e solo secondariamente ebraica e musulmana. Se ci si riferisce al monoteismo normativo e prescrittivo, allora non c’è nessun profilo binario ebraico – cristiano, ma c’è un profilo ternario cristiano-ebraico-musulmano. Dire ebraico-cristiano oggi significa soltanto escludere l’Islam. Dica pure qualcuno che gli ebrei sono i nostri “fratelli maggiori”. Per quanto mi riguarda, i miei fratelli maggiori sono i greci, i miei cugini primi sono i cristiani, e tra i miei cugini secondi ho anche sia musulmani che ebrei. Nessuno mi costringerà mai a belare accettando ciò che il politicamente corretto mi appiccica al bavero della giacca.

In secondo luogo, non c’è alcun dubbio che il razionalismo moderno abbia prodotto le due teorie convergenti e complementari del diritto naturale (giusnaturalismo) e del contratto sociale (contrattualismo). E tuttavia il fatto che da queste due componenti (e segnatamente dalla prima) sia derivata l’attuale teologia interventistica dei cosiddetti “diritti umani” (ad apertura alare asimmetrica e con bombardamento interventistico differenziato) non elimina un fatto grosso come la catena delle alpi. E questo fatto sta in ciò, che all’interno di questo stesso pensiero europeo la fondazione giusnaturalistica dei diritti umani è stata criticata “in tempo reale” prima da Hegel (e dai successivi differenziati hegelismi di destra e di sinistra) e poi da Marx (tenendo conto che il pensiero marxiano originario deve essere tenuto ben distinto dalle formazioni ideologiche marxiste posteriori, tipo quella egemone di Stalin). Ora, so perfettamente che in questa provvisoria congiuntura storica Hegel e Marx sono stati cancellati come cani morti e consegnati ad irrilevanti gruppi di hegelologi e di marxologi accademici, ma ripeto che questo è dovuto soltanto ad una provvisoria congiuntura storica. È molto probabile che tra cinquant’anni le cose andranno diversamente, e sarà finita l’epoca della fine della storia (Fukuyama), del disincanto verso le grandi-narrazioni (Lyotard) e del cosiddetto (e ridicolo) “patriottismo della Costituzione” (Habermas, Napolitano, ecc.).

Per il momento, parafrasando i giudici “golpisti” di Mani Pulite, possiamo ispirarci ad un solo motto: resistere, resistere, resistere. Nessuna adesione a profili inesistenti come quelli chiamati “ebraico-cristiano” o “dei diritti umani”.



L’ideologia dei diritti umani è in questo momento storico il male maggiore del panorama ideologico internazionale (dico “ideologico”, non certo filosofico o religioso). In questo momento, essa è una semplice teologia del diritto all’interventismo imperialistico, e come teologia normativa viene insegnata ai giovani studenti dei dipartimenti universitari di studi internazionali, perennemente eccitati all’idea di essere l’equivalente laicizzato professionale dei vecchi missionari (Kosovo, Irak, Birmania, Sudan, eccetera). Mi spiace dover dire una cosa simile, perchè mentre molti filosofi appartengono a correnti apertamente relativistiche (Richard Rorty, Gianni Vattimo, lo stesso Alain de Benoist), io sono invece un vecchio e tenace universalista, della stessa scuola universalistica di Spinoza, Hegel e Marx. Inoltre, ho sempre condiviso la tesi di fondo del filosofo tedesco Ernst Bloch, per cui il diritto naturale è un alleato della dignità dell’uomo. Ma tutto questo non mi impedisce di capire la natura interventistica dell’ideologia dei diritti umani.

Dal momento che l’impero americano ha un fondamento messianico-religioso, e non certamente giusnaturalistico-razionalistico, esso non ha alcun vero interesse per i diritti umani, che sono pur sempre un terreno di dibattito filosofico razionalistico. Ma esso usa strumentalmente questa ideologia, perchè sa bene che essa è il terreno ideale di incontro con la parte più stupida degli intellettuali europei (e cioè la parte che va dal novanta al novantacinque per cento del totale). Questa intellettualità esce da una delusione nei confronti del proprio precedente universalismo, rivoluzionario-comunista o anche moderato-socialista, ed è quindi pronta a sublimare le sue precedenti illusioni con un mutamento di funzione del proprio passato universalismo, che passa così dalla trasformazione sociale al desiderio di punire i dittatori, non importa se glabri, baffuti o barbuti. È anche in questo modo che l’universo simbolico degli USA tiene al guinzaglio tutta questa gente disorientata, confusa e fallita. Bombardare lo Zimbawe! Bombardare il Myanmar! Bombardare il Sudan! Bombardare l’Iran! E se non si può bombardare, almeno embargo, embargo, embargo!

È evidente allora che lo stato-nazione è il male minore, di fronte a questa adunata di invasati “umanitari”! Non ha forse fatto una cosa meravigliosa il generale De Gaulle, cacciando le basi americane e restaurando il sacrosanto stato-nazionale francese? Non deve forse essere ammirato il grande Fidel Castro, nel difendere lo stato-nazionale cubano? Non sarebbe meraviglioso se un vero stato nazionale italiano restaurasse la sovranità politica e militare, congedando tutte le basi USA e Nato presenti nel paese, in modo che in Italia (che nessuno altro stato nazionale vicino minaccia!) ci siano soltanto militari armati del nostro paese?

Con questo, voglio assicurarvi di essere personalmente consapevole che i piccoli stati nazionali non sono sufficienti per resistere e muoversi sullo scacchiere geografico globalizzato. Mi è completamente noto. E nello stesso tempo, l’Europa di oggi è quella dei Solana e dei D’Alema. Pensiamo veramente di fermarli? È molto difficile. Per questa ragione, insisto che una bella indipendenza nazionale (tipo Venezuela e Iran, per intenderci) è comunque un male minore, e quindi un bene maggiore, rispetto al peggio. Ed il peggio è oggi l’ideologia interventistica dei diritti umani.

venerdì 17 dicembre 2010

Ci risiamo: ancora l’infame riproposizione “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati”!
Mentre Gerusalemme-Est … agonizza!



di Giancarlo Paciello




Premessa

Era mia intenzione affrontare in questo saggio la colonizzazione di Gerusalemme-Est, senza per questo dimenticare la violenta e sempre operante colonizzazione, da parte degli israeliani, di tutta la Cisgiordania. E avevo anche deciso di non prendere in considerazione tutto il rumore propagandistico che si nasconde dietro le due formule ormai stantie (e soprattutto false!) “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati” dal momento che, vuote entrambe ormai, e da tempo, di contenuto, avrebbero finito col nascondere nella sostanza la barbarie che si sta consumando in Palestina da parte dello Stato d’Israele nei confronti di un popolo da quarantatre anni (!?) sotto occupazione militare.

Ma non ci sono riuscito! Troppo forte il rumore, troppo deformante la lettura dei fatti reali per non dover premettere qualcosa. Di qui, la modifica sostanziale del titolo, fuorviante in parte sul contenuto del saggio, ma teso ad evidenziare la colossale menzogna che si nasconde dietro alla riproposizione di un processo da tempo defunto e che di pace non ha mai avuto nemmeno la sembianza, se non nella formulazione originaria degli accordi di Oslo di un lontanissimo 1993. Ed era all’interno degli accordi di Oslo la formulazione “Due popoli, due Stati”. Di conseguenza …

L’ultima goccia, per un vaso che è traboccato almeno da 12 anni, è rappresentata da un evento molto recente, del 10 ottobre: l’approvazione della legge sul giuramento di fedeltà da parte del governo israeliano, avvenuto mentre riprendono le costruzioni di abitazioni nelle colonie, del tutto illegittime (sia le costruzioni sia le colonie!), e mentre, alla base della trattativa ripresa con l’ANP, Netanyahu ha posto il riconoscimento, da parte dei palestinesi, dello stato d’Israele come stato ebraico!

Ecco cosa ne pensa Gideon Levy, di quest’ultima goccia. L’articolo, apparso sul numero 868 (15-21 ottobre 2010) di Internazionale dal titolo assai significativo “La Repubblica ebraica d’Israele” è tratto da Haaretz, un coraggioso giornale progressista israeliano:


“Segnatevi la data. Il 10 ottobre è il giorno in cui Israele ha cambiato natura. E magari cambierà addirittura nome e si chiamerà ‘Repubblica ebraica d’Israele’, come la Repubblica islamica dell’Iran. D’accordo: la legge sul giuramento di fedeltà che il premier Benjamin Netanyahu ha fatto approvare al governo e ora vuol far votare dal parlamento riguarda, o almeno così dice, solo i nuovi cittadini israeliani non ebrei.

Ma in realtà avrà effetti sul destino di tutti. Perché d’ora in poi vivremo in un nuovo paese etnocratico, teocratico, nazionalista e razzista. E chi pensa che la cosa non lo riguardi si sbaglia. Già, perché in Israele c’è una maggioranza silenziosa che accetta tutto questo con un’allarmante apatia. Invece chiunque creda che dopo l’approvazione di questa legge il mondo continuerà a considerare Israele come una qualsiasi democrazia non ha capito cos’è questa legge: è un nuovo grave danno all’immagine d’Israele.

Il premier Netanyahu ha dimostrato di essere come Avigdor Lieberman, il suo ministro degli esteri e leader del partito di estrema destra Yisrael Beitenu. Il parttito laburista ha dimostrato di essere solo uno zerbino. E Israele ha mostrato la sua indifferenza. La diga è crollata, minacciando di annegare ogni traccia di democrazia, fino al punto in cui forse finiremo per ritrovarci in uno stato ebraico, la cui natura nessuno capisce veramente, ma che di sicuro non sarà democratico.

Si prevede che la Knesset, nella sua sessione invernale, discuta un’altra ventina di disegni di legge anti-democratici. L’Associazione per i diritti civili in Israele ha appena pubblicato una lista nera di provvedimenti che comprende: una legge sul giuramento di fedeltà per i parlamentari, una legge sul giuramento di fedeltà per i produttori cinematografici, una legge sul giuramento di fedeltà per le associazioni senza fini di lucro. E ancora: un provvedimento che vieta ogni proposta di boicottaggio e un provvedimento sulla revoca della cittadinanza. Siamo di fronte a un pericoloso balletto maccartista, da parte di parlamentari ignoranti che non hanno capito cos’è la democrazia.

Non è difficile giudicare il duo Netanyahu-Lieberman: sono due fanatici nazionalisti, quindi nessuno può pretendere che capiscano che democrazia non significa solo potere della maggioranza, ma anche – anzi soprattutto – diritti delle minoranze. E’ molto più difficile da capire, invece, l’inerzia dei cittadini. Le piazze di tutte le città israeliane avrebbero dovuto riempirsi di persone che rifiutano di vivere in un paese dove la minoranza è oppressa da leggi severissime come quella che le obbligherebbe a prestare un falso giuramento di fedeltà ad uno stato ebraico. E invece quasi nessuno sembra pensare che la cosa lo riguardi. E’ sbalorditivo.

Ci siamo dedicati per decenni al futile dibattito su cosa significhi essere ebrei. Un interrogativo che a quanto pare ci impegnerà ancora per molto tempo. Cos’è infatti lo “stato della nazione ebraica”? Appartiene forse agli ebrei della diaspora più che ai cittadini arabi d’Israele? E i cittadini arabi potranno decidere delle sue sorti, così che la nostra si possa chiamare ancora democrazia? Cosa caratterizza l’ebraicità? Le festività? Le prescrizioni alimentari della kasherut? L’aumento del peso politico dell’establishment religioso, come se non fosse già sufficiente a distorcere la democrazia?


L’introduzione di un giuramento di fedeltà allo stato ebraico ne deciderà il destino. E rischia di trasformare Israele in una teocrazia simile all’Arabia Saudita. E’ vero: per il momento giurare fedeltà allo stato ebraico è solo uno slogan ridicolo, e non esistono tre ebrei che riescano a mettersi d’accordo su come dovrebbe essere uno stato ebraico. Ma la storia ci ha insegnato che la strada per l’inferno può essere lastricata anche di slogan inutili. Nel frattempo, la nuova legge non farà altro che aggravare il senso di estraneità degli arabi israeliani e finirà per alienare le simpatie nei confronti d’Israele di settori ancora più vasti dell’opinione pubblica mondiale.Ecco cosa succede quando non si ha piena fiducia nella strada intrapresa. Solo questa sfiducia può indurre a presentare proposte di legge perverse come quella approvata il 10 ottobre.

Il Canada non sente il bisogno di che i suoi cittadini giurino fedeltà allo stato canadese, né lo richiedono altri paesi. Solo Israele. Questa decisione è stata pensata per provocare di nuovo la minoranza araba e spingerla a dimostrare ancora più distacco dal paese, così che un bel giorno venga finalmente il momento di disfarsene. Oppure per affossare la prospettiva di un accordo di pace con i palestinesi. Comunque sia, lo stato ebraico – come diceva Theodor Herzl – fu fondato nel primo congresso sionista, che si svolse a Basilea nel 1897. Il 10 ottobre invece è stata fondata l’oscurantista Repubblica ebraica d’Israele”.

Un articolo dignitosissimo che, se sottoscritto al 50% dalla classe politica italiana (di destra e di sinistra, centrista o radicale) mi riempirebbe veramente di gioia, ma temo che dovrò continuare a soffrire! Alla sordità della nostra classe politica si è contrapposto in questo frangente, un documento del Sinodo del Medio Oriente del 18 ottobre 2010.

Gli scopi del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente sono stati ribaditi dal relatore generale dell’assemblea, Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti, che ha tenuto la ‘Relatio post disceptationem’ nella quale ha riassunto quanto emerso negli interventi dei padri sinodali la scorsa settimana. “Confermare e rafforzare i cristiani nella loro identità e rinnovare la comunione ecclesiale per offrire ai cristiani le ragioni della loro presenza, per confermarli nella loro missione di rimanere testimoni di Cristo”.

Naguib ha passato in rassegna la situazione dei cristiani in Medio Oriente evidenziando la necessità dell’essere missionari, e parlando di “laicità positiva”, ha ribadito che la “religione non deve essere politicizzata né lo Stato prevalere sulla religione. E’ richiesta una presenza di qualità perché possa avere un impatto efficace sulla società. Ciò che conta non è il numero di persone nella Chiesa ma che queste vivano la fede e servano onestamente il bene comune”.

“Per assicurare la sua credibilità evangelica – ha rimarcato il Relatore – la Chiesa deve trovare i modi per garantire la trasparenza nella gestione del denaro”.

Ripercorrendo le principali sfide che i cristiani devono affrontare, tra le quali i conflitti politici nella regione, il patriarca Naguib “pur condannando la violenza da dovunque provenga ed invocando una soluzione giusta e durevole del conflitto israelo-palestinese”, ha espresso la solidarietà del Sinodo al popolo palestinese, “la cui situazione attuale favorisce il fondamentalismo. Chiediamo alla politica mondiale di tener sufficientemente conto della drammatica situazione dei cristiani in Iraq. I cristiani devono favorire la democrazia, la giustizia, la pace e la laicità positiva. Le Chiese in Occidente sono pregate di non schierarsi per gli uni dimenticando il punto di vista degli altri”.

Nella Relatio il Sinodo condanna anche “l’avanzata dell’Islam politico che colpisce i cristiani nel mondo arabo” poiché “vuole imporre un modello di vita islamico a volte con la violenza e ciò costituisce una minaccia per tutti” e la limitazione dell’applicazione di diritti quali la libertà religiosa e di coscienza che comporta anche, ha ricordato il patriarca, “il diritto all’annuncio della propria fede”. Conseguenza delle crisi politiche, del fondamentalismo, della restrizione delle libertà è l’emigrazione, che pur essendo “un diritto naturale”, interpella la Chiesa che “ha il dovere di incoraggiare i suoi fedeli a rimanere evitando “qualsiasi discorso disfattista”. […] “Le nostre chiese rifiutano l’antisemitismo e l’antiebraismo”: riafferma il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente.

“Le difficoltà dei rapporti fra i popoli arabi ed il popolo ebreo sono dovute piuttosto alla situazione politica conflittuale. Noi distinguiamo tra realtà politica e religiosa. I cristiani hanno la missione di essere artefici di riconciliazione e di pace, basate sulla giustizia per entrambe le parti” ribadisce il testo che, parlando di dialogo interreligioso, ricorda le iniziative pastorali di dialogo con l’ebraismo, come ad esempio “la preghiera in comune a partire dai Salmi, la lettura e meditazione dei testi biblici”.

Per il Sinodo il dialogo interreligioso e interculturale tra cristiani e musulmani “è una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro”. E riprende le parole di Benedetto XVI a Colonia (2005) per riaffermare l’importanza del dialogo islamo-cristiano.

“Le ragioni per intessere rapporti con i musulmani sono molteplici, sono tutti connazionali, condividono stessa cultura e lingua, le stesse gioie e sofferenze. Fin dalla sua nascita l’Islam ha trovato radici comuni con Cristianesimo ed Ebraismo. Il contatto con i musulmani può rendere i cristiani più attaccati alla loro fede”. Per il Sinodo vanno, tuttavia, “affrontati e chiariti i pregiudizi ereditati dalla storia dei conflitti. Nel dialogo sono importanti l’incontro, la comprensione reciproca. Prima di scontrarci su cosa ci separa, incontriamoci su ciò che ci unisce, specie per quanto riguarda la dignità umana e la costruzione di un mondo migliore”.

“Serve – si legge nella Relatio – una nuova fase di apertura, sincerità e onestà. Dobbiamo affrontare serenamente e oggettivamente i temi riguardanti l’identità dell’uomo, la giustizia, i valori della vita sociale dignitosa e la reciprocità. La libertà religiosa è alla base dei rapporti sani tra musulmani e cristiani. Dovrebbe essere un tema prioritario nel dialogo interreligioso”.


Continua qui:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=1960

mercoledì 15 dicembre 2010

Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia: I buoni [terzo e ultimo capitolo] 

 

di Eugenio Orso


I buoni nel futuro scontro sociale in Italia

Nell’individuazione degli amici e dei nemici sul piano sociale e politico, in questa sede provocatoriamente definiti “buoni” e “cattivi”, è necessario precisare che il Nemico Principale nella dimensione sociale è e rimane la Global class, in qualità di agente del capitalismo contemporaneo, ed in quella politica è rappresentato dalla cosiddetta liberaldemocrazia, che universalizza un suffragio impotente e impone l’istituto della rappresentanza.

La longa manu dei globalisti è penetrata nel nostro paese fin dagli inizi degli anni novanta e nel prossimo futuro cercherà di “stringere il pugno”, per impossessarsi delle ultime risorse, compromettendo la sopravvivenza di quel che rimane della grande industria nazionale, ancora totalmente in mani pubbliche [in quelle del tesoro, per quanto riguarda la Fincantieri], o comunque ancora legata al settore pubblico con partecipazioni e “golden share” [Eni, Enel, Finmeccanica].

Altri pesanti effetti negativi si produrranno in conseguenza dell’attacco finale al sistema pensionistico e ai diritti dei lavoratori, che da qualche tempo è in cantiere e si svilupperà probabilmente dopo la caduta di Berlusconi o dopo la sua capitolazione compromissoria.

Workfare di matrice anglosassone o forme simili e meno “costose” in sostituzione del welfare, “contratto leggero” a tutele ridotte in sostituzione del Ccnl, estensione dell’area della precarietà e pensioni ridotte all’osso, rappresenteranno altrettante minacce per la maggioranza della popolazione italiana, modificando completamente il quadro dei rapporti sociali e le prospettive future.

Gli apparati ideologico-mediatici ed accademici sono arrivati al punto di arruolare i demografi [come è accaduto con Antonio Golini, in Italia] per giustificare futuri innalzamenti dell’età pensionabile, da collegare all’innalzamento progressivo della vita media ed alla sconfitta della cosiddetta morte precoce.

Oppure si fa credere che il processo di deindustrializzazione innescato dalle delocalizzazioni, dal reengineering volto a ridurre gli occupati e dalle chiusure aziendali che hanno interessato l’Italia in questi ultimi dieci o quindici anni può essere fonte di competitività, e quindi un dato positivo, un’opportunità, sviluppando in sostituzione delle unità produttive decedute, delocalizzate o ridotte all’osso un terziario evoluto [ricerca, consulenza, servizi informatici] non certamente in grado di riassorbire la massa dei lavoratori espulsi dal manifatturiero, e non in grado di porre veramente rimedio alla “desertificazione” avanzante.

Rilevanti effetti negativi discenderanno dalla compressione dell’occupazione nel settore pubblico, dagli enti locali all’amministrazione centrale, dalla scuola alla sanità, ben oltre le millantate esigenze di “efficientamento” dello stesso.

Dopo anni di propaganda incessante “contro le inefficienze” della pubblica amministrazione e di attacchi mirati contro il pubblico impiego – I Nullafacenti, dell’ex comunista Pietro Ichino riconvertitosi in supporter dei macellai sociali, ne rappresentano una significativa testimonianza – ai quali non si è peraltro accompagnata un’adeguata riforma dello stesso, ma soltanto qualche misura punitiva nei confronti di gruppi di dipendenti dell’amministrazione [pensiamo ai “tornelli” di Brunetta o al più importante blocco delle retribuzioni e del turn-over], ridurre drasticamente i posti di lavoro nel settore pubblico potrà risultare più facile, suscitando minori opposizioni e resistenze in una compagine sociale prostrata dalla crisi, manipolata e flessibilizzata.

La violenza verbale di Ichino nei confronti dei dipendenti pubblici, descritti come portatori di un’odiosa rendita parassitaria nella sua opera più tristemente famosa [I Nullafacenti] e nelle interviste, nasconde il fine di tagliare le retribuzioni e soprattutto l’occupazione nel settore pubblico, rilasciando risorse per l’”iniziativa privata” ed in definitiva per la speculazione finanziaria, nel solco dei diktat globalisti.

Se si vuole che tutto funzioni come un’azienda – scuole ed ospedali compresi – tutto sarà sempre di più assoggettato alle regole stringenti ed alle espropriazioni del Libero Mercato, senza alcuna considerazione per gli aspetti sociali, per il diritto al lavoro e allo studio, per i diritti dei malati e per la stessa conservazione dei “beni pubblici puri”, i quali, per la loro stessa natura, sono estranei ai meccanismi di funzionamento del mercato.

Business della sanità e business dell’istruzione, frontiere irrinunciabili dell’esproprio e lucrosi mercati da sfruttare, nella più perfetta aderenza alle logiche di questo capitalismo si sostituiranno sempre più velocemente alla scuola ed alla sanità pubbliche che hanno garantito dal dopoguerra ad oggi scolarizzazione di massa e la mutua per tutti, così come al diritto al lavoro, all’istruzione e all’accesso ai medicinali ed alle cure mediche si sostituirà la posizione imposta a ciascuno, nell’ordine sociale, dal Mercato, e per i più deboli ed esposti ci sarà pur sempre il conforto della carità privata, del volontariato diffuso e della religione.

La riduzione ai minimi termini delle competenze e dell’azione dello stato, nonché della spesa pubblica nel suo complesso, sarà l’obbiettivo precipuo del prossimo governo nazionale – con o senza federalismo fiscale bossiano e “spesa standard” imposta alle regioni – poiché, come ha scritto il padre del peggior liberalismo contemporaneo, Milton Friedman, il ruolo del governo è quello di fare soltanto ciò che il Libero Mercato non può fare da sé, e L’esistenza di un governo, da questo punto di vista, è resa necessaria dal fatto che la libertà assoluta è impossibile. Per quanto seducente possa essere, sotto il profilo dottrinale, l’anarchia, essa, tuttavia, non è attuabile in un mondo di uomini imperfetti. [Efficienza economica e libertà, titolo originale Capitalism and Freedom, Vallecchi editore Firenze, 1967]

Dato che il Mercato sembra in grado di fare ogni cosa, o almeno così si fa credere, esattamente come faceva il Friedman che osservava la società americana negli anni cinquanta e sessanta – sostenendo, all’epoca, che il Mercato Libero era perfettamente in grado di occuparsi del servizio postale e di rompere finalmente uno storico monopolio dello stato – il ruolo del governo e delle amministrazioni pubbliche in generale, all’interno dell’organizzazione statuale, non può che ridursi all’essenziale, fissando “le regole del gioco” [oggi peraltro fissate dagli organi della mondializzazione, con ricadute negative, attraverso gli stati e i singoli governi, sulle popolazioni] e assicurando, di conseguenza, il più agevole scorrimento dei capitali finanziari in ogni dove.

I lineamenti anarchici di questo capitalismo senza ridistribuzione della ricchezza, con la pretesa della riduzione aziendalistica di ogni attività sociale, saranno evidenti anche nelle misure adottate dai futuri governi italiani, che faranno seguito al quarto esecutivo Berlusconi.

Nel tentativo di evitare l’insorgere di un’autentica protesta sociale in tutta la penisola, certe misure estreme d’esproprio e di de-emancipazione dei subalterni potranno essere più facilmente imposte da un governo compromissorio post-berlusconiano [con la partecipazione di futuristi, centristi, rutelliani, eccetera] o scopertamente anti-berlusconiano e di “centro-sinistra” [da Bersani a Vendola].

Allo bisogna potrebbe anche servire, pur se non rappresenta la soluzione migliore per gli interessi finanziario-globalisti, un nuovo esecutivo Berlusconi – che sarebbe il quinto e l’ultimo – in grado di reggere fino alla fine della sedicesima legislatura.

Si vedrà dopo la fatidica data del 14 di dicembre del 2010.

Un simile esecutivo non potrebbe che nascere da un compromesso segreto, che da un lato manterrebbe in carica l’attuale premier, interessato esclusivamente a non finire nel buco nero dei processi e dell’esproprio del suo impero privato, e dall’altro – autentico “patto leonino” imposto al conducador mediatico italiota, ormai indebolito dalle fronde interne, dagli scandali e dalla perdita di gradimento nei sondaggi – consentirebbe l’attivazione piena e l’accelerazione delle predette politiche economiche e sociali.

Gli attacchi contro la socialità, il lavoro, la giustizia distributiva e l’etica, bene impostati dagli ultimi esecutivi berlusconiano-leghisti, continueranno a spron battuto, estendendosi e approfondendosi dopo la caduta del “cavaliere festaiolo” o la sua capitolazione compromissoria, che gli consentirebbe di evitare i processi e di chiudere la legislatura alla bella età di settantasei anni, mantenendosi in sella fino al 2013.

Nel cupo contesto sociale, politico ed economico che si prospetta, sembra perciò ragionevole attendersi nuove e più estese tensioni sociali, l’insorgere di rischi di conflitti insanabili fra gruppi contrapposti, quanto ad interessi e condizioni materiali di vita, e fra questi ed il governo nazionale che sarà in carica.

La frantumazione dell’ordine sociale imposta da questo capitalismo, l’isolamento dei singoli destinati a diventare merce-lavoro e unità di consumo, oppure degli esclusi perché “inutili” nella Creazione del Valore finanziaria, azionaria e borsistica, hanno la funzione di blandire, ed anzi di prevenire, le reazioni sociali all’esproprio e al nuovo sfruttamento integrale dell’uomo, e perciò seminano l’inimicizia fra i gruppi sociali e i singoli, attivano una competizione esasperata di cui può beneficiare soltanto, per riprodursi all’infinito, l’impersonale ed anonimo meccanismo capitalistico.

Se l’individuazione dei nemici nel futuro scontro sociale risulta piuttosto agevole, a partire dal Nemico Principale contemporaneo, fino a giungere a quei gruppi sociali e politici interni nel precedente capitolo di questo saggio definiti “cattivi”, l’individuazione degli amici, qui definiti un po’ enfaticamente i “buoni”, non lo è altrettanto, poiché i veri amici si rivelano tali nel momento del bisogno, nel corso di un’emergenza o nello sviluppo di un processo rivoluzionario di liberazione costellato di lotte e di pericoli, e tuttavia si può ragionevolmente cercare, fin d’ora, di individuarli con sufficiente chiarezza.

Il processo di liberazione umana è un percorso lungo ed incerto, un percorso storico inconcluso che non può che iniziare con una rivoluzione, e svilupparsi nei secoli attraverso rivoluzioni successive, le quali rappresentano la condizione necessaria ma non sufficiente per consentire lo sviluppo futuro di tale processo, nel corso del quale, ed in particolare nei suoi momenti più critici e decisivi, si potranno riconoscere i veri “amici”.

Il quadro generale è certamente fosco, e lo è anche in Italia, in cui ai fattori esogeni di crisi, che investono con i loro effetti negativi buona parte dell’occidente, si sommano fattori endogeni preoccupanti ed altrettanto rilevanti – quali l’inadeguatezza di una politica che oscilla fra corruzione endemica e totale incompetenza, la forza crescente della criminalità organizzata, gli squilibri sociali approfonditisi di recente e quelli territoriali ormai storici, le spinte separatiste e dissolutive – ma esiste pur sempre una speranza che si riattivi il processo rivoluzionario di liberazione, e questa speranza risiede nella stessa natura umana, poiché L’uomo è per natura un essere sociale e comunitario o, più precisamente, un ente naturale generico. E’ dunque impossibile manipolarlo al punto tale da ridurlo ad una sorta di individuo puro ed astratto, un semplice supporto del sistema dell’individualismo proprietario capitalistico. [Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente]

Il dubbio che può sorgere in questa analisi – dubbio che lo scrivente purtroppo non è in grado di sciogliere completamente – è se i gruppi amici, potenzialmente anticapitalisti, mostreranno compattezza nell’affrontare il nemico e lineamenti solidaristico-classisti, in una lotta finalizzata a riattivare processi emancipativi che da un paio di decenni il nuovo capitalismo ha inceppato, o se si tratterà, al contrario, di sporadiche battaglie di retroguardia delle vecchie classi sociali morenti, le quali resisteranno all’avanzare del nuovo ordine prima di estinguersi completamente.

O peggio ancora, non è facile prevedere se il futuro ci riserverà insurrezioni spontanee, scollegate le une dalle altre, suscitate da emergenze sanitarie, ecologiche e sociali, a macchia di leopardo sul territorio, e torbidi non più limitati alle esplosioni di rabbia delle sotto-classi urbane, che si accenderanno improvvisamente e rapidamente si spegneranno, lasciandosi alle spalle macerie e caos.

In questo ultimo caso, che è il più insidioso ed anche il più “illeggibile”, sia dal punto di vista politico sia da quello sociale, gli scenari tipicamente insurrezionali non potranno portare nulla di buono, in particolare per i subalterni.

Il futuro scontro sociale, a secondo della strada che prenderà e che oggi non è ancora prevedibile, si aprirà a diversi esiti possibili, che si possono riassumere, in sintesi, come segue:



1) Esiti positivi, emancipativi e trasformativi, che delineano l’innesco di un processo rivoluzionario, con la riemersione definitiva del problema sociale e l’attivazione della lotta di classe, esiti ai quali lo scrivente non crede [purtroppo] che si possano assegnare grandi probabilità, poiché la classe subalterna, nel nuovo ordine, è ancora in via di formazione e l’indispensabile elemento coscienziale non sembra ancora emergere con la dovuta chiarezza, come è apparso negli ultimi scioperi e nelle ultime manifestazioni dei lavoratori, nonché nella recente rivolta di studenti e precari della scuola contro la cosiddetta riforma Gelmini.



2) Esiti sostanzialmente negativi, in conseguenza di pure battaglie di retroguardia delle vecchie classi sociali morenti, o lotte di natura prettamente sindacale e rivendicazionista, o peggio ancora di natura corporativa e “lobbistica”, destinate a spegnersi in breve tempo senza lasciare troppe tracce nella società, oppure ad arrestarsi bruscamente davanti ad una più decisa repressione sistemica. Se così sarà, il potere vigente coglierà l’occasione per lanciare una nuova offensiva propagandistica flessibilizzante, e quindi per un suo ulteriore rafforzamento. L’incognita del separatismo regionalista, di matrice leghista ma con possibilità di diffusione anche nel sud della penisola, permarrebbe immutata.



3) Esiti dissolutivi, che la repressione delle insurrezioni e dei torbidi potrà non riuscire a contenere, con il rischio del collasso delle istituzioni e la diffusione di violenze incontrollate. Ne trarrebbero qualche vantaggio, nel breve, in primo luogo lo”stato di mafia”, che potrebbe estendere significativamente il controllo del territorio a sud, e forse le bande leghiste e separatiste del nord, che potrebbero spingersi fino a proclamare l’indipendenza di parti del territorio settentrionale. Affinché simili scenari si concretizzino, oltre a forti spinte dissolutive endogene dovute ad un precipitare della situazione economica, sociale e politica interna già oggi in bilico, dovrebbero verificarsi eventi esogeni di una certa gravità, di natura finanziaria, valutaria, ecologica e/o militare. Tuttavia, è probabile che in simili circostanze interverrano d’autorità gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea, se necessario servendosi dello strumento NATO, per porre il paese sotto la loro diretta “tutela”.



I primi due gruppi sociali amici, che dovrebbero porsi alla guida della protesta riattivando il motore della lotta di classe da troppo tempo ingrippato, sono costituiti dagli operai, abbandonati da quasi tutti i sindacati [con l’eccezione lodevole della Fiom di Rinaldini, Landini e Cremaschi] e da tutti i partiti sistemici, compresa quella sinistra “radicale” che è stata espulsa dal parlamento nel 2008, e da quella parte dei ceti medi in via di rapida ri-plebeizzazione che esprime il lavoro dipendente intellettuale, tecnico, specialistico, impiegatizio, soggetta ai contratti di precarietà ed alle espulsioni dal ciclo produttivo quanto gli operai, con i quali ormai condivide non pochi interessi e un destino comune.

Questa ultima componente è stata fortemente penalizzata negli ultimi anni assieme al lavoro operaio qualificato, oltre che dai processi di globalizzazione economica che ne hanno seriamente compromesso i redditi e lo status, dalle politiche dei governi berlusconiano-leghisti e da quelle del breve esecutivo prodiano.

Si tratta dei gruppi sui quali si fa e si farà ricadere il peso maggiore della [presumibilmente] lunga crisi economica che ha investito l’economia reale dalla seconda metà del 2008, con l’onda d’urto dei cali di produzione, dell’aumento della disoccupazione e della contrazione dei consumi.

La crisi si è riverberata su un’economia già stagnante, in un paese con i salari fra i più bassi dell’Europa occidentale, e non potrà non avere effetti di lungo periodo sul piano sociale, destabilizzandolo, perché gli ammortizzatori, abbondantemente usati a partire dalla cassa integrazione, non potranno “tamponare le falle” indefinitamente non essendo sostenibili nell’arco dei prossimi otto o dieci anni, né dalle imprese né tanto meno dai lavoratori [fra i quali molti cassaintegrati a zero ore], decine e decine di milioni di ore di CIG.

Considerando operai, impiegati e ceti medi legati al lavoro dipendente, pubblico e privato, si riesce ad abbracciare la grande maggioranza della popolazione attiva in questo paese [circa i tre quarti della stessa], quella che nel bene e nel male veramente “regge la baracca”, consentendo la bella vita da sub-dominanti a politici, impresari, speculatori, evasori fiscali e criminali, organizzati e non.

Il fatto che questi gruppi, fondamentali per la produzione delle basi materiali della vita associata, non abbiano oggi dei veri rappresentanti politici – pur essendo chiamati, periodicamente, a partecipare al rito del voto liberaldemocratico per legittimare una falsa rappresentanza – e nei fatti non partecipano alle decisioni strategiche che li riguardano, che devono soltanto subire, avrebbe dovuto rendere in breve la situazione esplosiva, ma lunghi anni di manipolazione, di dominazione simbolica, di flessibilizzazione e precarizzazione, oltre a svalutare economicamente e culturalmente il loro lavoro, hanno contribuito a dividere questi gruppi, a disperderli per evitare adunate “sediziose” e quindi pericolose per il potere, fiaccandone la resistenza, ed almeno in apparenza, compromettendone la combattività.

Ogni atto compiuto dai lavoratori dipendenti, anche se blando come il lancio di uova o di insulti, che possa soltanto lontanamente ricordare la lotta di classe novecentesca, viene oggi preso a pretesto dai cialtroni del circo mediatico e dai vili intellettuali subalterni per colpevolizzare in modo disgustoso le vittime, fino ad arrivare alle accuse di squadrismo e di terrorismo.

La lotta di classe deve perciò essere bandita anche dai ricordi, o selvaggiamente criminalizzata se riappare come uno spettro inquietante, perché la dominazione della Global class filtrata attraverso i poteri locali sub-dominanti deve essere assoluta, ed il sistema liberaldemocratico deve fornire il necessario supporto agli interessi e alle strategie dei dominanti.

Liberalizzazioni, privatizzazioni, delocalizzazioni e lavoro-merce rispecchiano i suddetti interessi nella nostra società, e quindi non devono incontrare indebite resistenze.

Colpendo il lavoro ed i lavoratori in questo modo, si vuole “fiaccare la resistenza” nella società, rendendola malleabile, controllabile e pienamente gestibile dall’alto, e perciò vi è una parte di verità in quanto è riportato nelle “Considerazioni generali” del 44esimo Rapporto Censis, in cui l’intera società italiana è descritta come “appiattita” con i riferimenti più alti soppiantati dalla delusione per gli esiti del primato del mercato, della verticalizzazione e personalizzazione del potere, del decisionismo di chi governa, ma quello che per il Censis è il declino della soggettività, prostrata da processi che hanno radici e motori fuori della realtà italiana, altro non è che l’esito del processo di flessibilizzazione di massa per la costruzione sociale dell’uomo precario.

Il processo manipolatorio per la diffusione della precarietà ha colpito tutto il corpo sociale, ma in primo luogo ha interessato i lavoratori, essenzialmente per impedire che determinazione, coesione e solidarietà potessero rinvigorirne la protesta.

Lo stesso Censis ci avverte, nel medesimo Rapporto, che nell’ultimo decennio [dal 1999 al 2009], il lavoro dipendente ha mostrato una forte crescita, superiore ai due milioni di unità, mentre il cosiddetto lavoro autonomo si è ridotto complessivamente di ben duecentomila unità, incidendo sul totale degli occupati per meno di un quarto, a dimostrazione che nei fatti lo slogan liberista “diventa imprenditore di te stesso” attrae sempre di meno [vista la “delusione” che ha comportato il Libero Mercato primeggiante], ma anche perché, per poter iniziare un’attività imprenditoriale, è preferibile avere buoni mezzi alle spalle e “il culo coperto”.

In sostanza, la minor propensione di giovani e meno giovani a diventare imprenditori, professionisti e consulenti, od anche soltanto bottegai, può essere imputata alla necessità di possedere, per incamminarsi su questi percorsi, i mezzi patrimoniali e finanziari necessari, ed in effetti, in una società in cui la coperta delle risorse è sempre più corta e gli squilibri economici fra i gruppi sociali sempre più grandi, sono sempre di meno coloro che anelano a diventare “imprenditori di sé stessi”, e soprattutto, coloro che hanno concretamente le risorse per poterlo fare.

L’alleanza fra operai e ceti medi riplebeizzati è fondamentale, a detta dello scrivente, affinché la lotta possa avere qualche speranza di successo, ma questa alleanza, e la comunanza di interessi che la renderà possibile, costituirà la migliore prova che l’ordine sociale non è più quello che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento, che tutto è mutato, e che una nuova classe subalterna, la Pauper class, sta per affacciarsi all’orizzonte della storia.

Se le vecchie organizzazioni dei lavoratori si sono trasformate in agenzie di supporto del nuovo capitalismo ed i partiti di massa sono ormai definitivamente scomparsi, sostituiti da vergognosi ed effimeri cartelli elettorali privi di anima e di storia [PdL, Pd, UDC], oppure da congreghe di separatisti ed evasori fiscali che inventano nuove patrie [Lega Nord], i due gruppi sociali amici dovranno ricostruire integralmente le loro organizzazioni, senza cadere nella trappola liberaldemocratica della “novità”, del nuovo prodotto politico di rapido consumo, della formazione nuova di zecca che millanta di rappresentare i non rappresentati e che finge un’improbabile alternativa, per poi confluire in maggioranze di governo incaricate dagli interessi dominati di massacrare il lavoro e la socialità.

Un lavoro dipendente sempre più povero e compresso, privo di rappresentanza politica e di tutele sociali rientra perfettamente nei disegni dei dominanti, per un futuro interamente nelle loro mani, ed allora le retribuzioni devono essere sempre più strettamente legate al solo tempo di lavoro ed alla trappola della “produttività individuale”, che rappresenta una giustificazione di matrice economicistica per ridurle progressivamente.

Si vuole, in buona sostanza, ridurre alla completa variabilità l’intero salario, precarizzandolo integralmente insieme al lavoratore.

Per legare le retribuzioni, e quindi lo stesso costo del lavoro da comprimere all’infinito, al solo tempo di lavoro, la via dei contratti di precarietà e del lavoro a termine sembra la migliore, sicuramente la più vantaggiosa astraendo completamente da considerazioni etiche e dalle sofferenze imposte all’uomo, ed è per questo che dagli anni novanta ad oggi è nato un nuovo gruppo sociale, le cui file si sono gonfiate fino ad accogliere alcuni milioni di soggetti, non necessariamente tutti giovani o giovanissimi.

Il gruppo dei precari e dei falsi lavoratori autonomi, cioè i parasubordinati, è da considerarsi un gruppo potenzialmente “amico”, e visto che il massimo della flessibilità del lavoro si realizza con il “nero”, la più piena e totale informalità che non prevede buste paga, contributi, versamenti d’imposta, ferie, permessi e maturazione della pensione, in questo gruppo possiamo comprendere anche molti lavoratori “in nero”.

L’obbiettivo del nuovo capitalismo, attraverso la dominazione del Libero Mercato – sia dal punto di vista del razionamento delle risorse e dell’esclusione dai rapporti sociali di produzione sia da quello ideologico –, è di ridurre integralmente le società ad una mera rete di rapporti commerciali, fondata sullo scambio mercantile e ancor di più sulla Creazione del Valore, e di far nascere e morire precari gli uomini come inevitabile conseguenza.

Se la precarietà c’è sempre stata nel corso della storia umana, ma ha riguardato una piccola minoranza, questo capitalismo l’ha approfondita ed estesa, al punto che tende a diventare una condizione esistenziale sempre più diffusa, anzi, la condizione esistenziale che caratterizza quest’epoca storica, potenzialmente estensibile a tutta l’umanità, e in ciò risiede l’esito, totalmente anti-umano ed anti-etico, profondamente criminale, del capitalismo liberista contemporaneo.

Perciò, criminali sono i pubblicisti e gli “ingegneri” della precarietà, pagati lautamente da questo sistema ed incensati anche dopo la morte, a partire da Marco Biagi.

La leggenda che la precarietà è stata introdotta in Italia negli anni novanta [1997, la famigerata legge Treu] per favorire “l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro”, e che quindi avrebbe rappresentato una condizione di minorità temporanea, un male necessario ma passeggero per poter accedere al posto fisso, si è rivelata in breve tempo per quello che è, un’atroce menzogna diffusa ad arte dai media, dagli accademici [con la lodevole eccezione di Luciano Gallino, il più grande sociologo italiano vivente] e dai politici di sistema, tutti o quasi concordi nel supportare questa decisiva campagna contro i lavoratori, da sinistra a destra senza distinzioni.

I lavoratori “usa e getta” subiscono più di tutti gli altri le asprezze dello spietato modello liberalcapitalistico finanziarizzato e transgenetico del terzo millennio, e per tale motivo potrebbero rappresentare un’autentica forza rivoluzionaria – incontenibile in quelle stesse dinamiche capitalistiche che l’hanno generata – nel futuro scontro sociale in Italia.

Precari contrattualizzati, parasubordinati spacciati per lavoratori autonomi o “consulenti” e lavoratori in nero, oggi non coprono soltanto le esigenze di una produzione tradizionale, offrendo lavoro dequalificato, meramente esecutivo, a basso contenuto tecnologico e a bassa scolarità, ma offrono sempre più spesso un lavoro intellettuale, ad alto contenuto scientifico e tecnologico, in settori cosiddetti di nicchia o nella ricerca applicata.

Ma la condizione economica ed esistenziale del professore universitario precario o del ricercatore a termine, che deve contarsi in tasca i soldi per il biglietto del treno quando deve partecipare ad un seminario o ad una conferenza in una città lontana, nella sostanza non è diversa da quella del lavoratore interinale impiegato da una falsa cooperativa nelle pulizie industriali, e la situazione economica del primo tenderà sempre di più ad approssimare quella del secondo.

Se sarà possibile unire il lavoro operaio, orfano della classe storica antagonista novecentesca “operaia, salariata e proletaria”, i ceti medi riplebeizzati che esprimono il lavoro intellettuale ed impiegatizio stabilizzato ai precari, ai parasubordinati e a molti lavoratori “in nero”, si produrrà una forza sociale antagonista che difficilmente potrà essere arginata dall’applicazione dei sistemi repressivi e disciplinari del potere vigente, e questa dovrebbe rappresentare una mera evidenza per tutti, perché è proprio nella svalutazione e nella compressione capitalistica del lavoro, portate alle estreme conseguenze, che matureranno le future istanze rivoluzionare ed emancipatrici.

La distanza fra gli stabilizzati ed i precari tenderà rapidamente a ridursi, poiché se operai, impiegati, tecnici non soffrono la precarietà occupazionale in quanto hanno un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, molti fra loro non sfuggono alla precarietà nelle prestazioni, che rappresenta un grimaldello, nella persistenza dei vecchi contratti di lavoro, per scardinare progressivamente le tutele e i diritti.

E’ ben vero che fino ad ora si è cercato, con un certo successo, di mettere i lavoratori stabili e quelli precari l’uno contro l’altro, in un divide et impera contemporaneo che tende a preservare le strutture di potere e i meccanismi riproduttivi capitalistici, ma è anche probabile [e chi scrive ne è sinceramente convinto] che esiste un limite fisico e psicologico all’esproprio di risorse e di diritti, alla compressione materiale del lavoro ed al peggioramento complessivo delle condizioni di vita dei subordinati, valicato il quale ci si deve attendere una reazione generalizzata, che potrà portare all’unione di questi gruppi sociali, ad una loro stretta alleanza quali membri di un’unica, nuova classe sociale: la classe povera del terzo millennio.

Il penultimo grande gruppo sociale iscrivibile fra i “buoni” è un gruppo di recente formazione, che lo scrivente ha deciso di autonomizzare in considerazione delle sue caratteristiche e delle sue specificità, anche se i soggetti che lo compongono esprimono il lavoro operaio, quello precario, il lavoro informale, o addirittura il lavoro schiavizzato in certe parti della penisola [Rosarno e la piana di Gioia Tauro, Puglia, provincia di Latina e Agro Pontino, eccetera], ed in misura minore esprimono il lavoro intellettuale e impiegatizio.

Si tratta dei lavoratori immigrati, che in questo paese sono circa un milione e novecentomila – secondo i dati ufficiali, con la necessaria avvertenza che il sommerso e il lavoro schiavo sono difficili da quantificare – e per oltre i due terzi del totale provengono da paesi extracomunitari, in molti casi da regioni del pianeta profondamente diverse dalla nostra.

A questi lavoratori, considerati indispensabili per mandare avanti le attività produttive ed i servizi nel paese più vecchio del mondo, quale è l’Italia insieme al Giappone, e richiesti dagli stessi industriali che da tempo hanno puntato sul lavoro a basso costo [se non “a sconto”], stanno imprimendo al paese una vera e propria svolta demografica [di suo, l’Italia sarebbe in una situazione di pesante calo delle nascite], e nel tempo sono usciti progressivamente dallo stereotipo che gli assegna quei lavori “che gli italiani non vogliono più fare”, perché sono presenti ormai in numerosi settori di attività, ed in una minoranza dei casi esprimono il lavoro qualificato, scientifico [ad esempio i medici] e creativo.

Non si tratta esclusivamente delle badanti filippine o rumene che curano gli innumerevoli anziani non autosufficienti sparsi in tutto il paese, poiché gli apporti del lavoro immigrato interessano tutti i settori produttivi e sono diventati fondamentali per la produzione delle basi materiali della vita associata in Italia.

Certo, in generale gli immigrati sono quelli che hanno sopportato e sopportano le peggiori condizioni lavorative ed i peggiori abusi da parte di impresari senza scrupoli, pur con delle differenze fra regione e regione [in Calabria ed anche in Veneto, ad esempio, la loro situazione è complessivamente peggiore di quella che vivono nel Friuli Venezia Giulia], e sono più colpiti degli italiani, in proporzione, dalla recente ondata di disoccupazione, per questi lavoratori superiore al dieci per cento nelle stesse stime ufficiali.

Altra considerazione importante – lasciando perdere le diffamanti accuse di matrice leghistico-bossiana che presentano gli immigrati come un gruppo interamente costituito da delinquenti abituali e rapinatori, indegne persino di essere considerate – è che non si tratta affatto di un gruppo omogeneo, dal punto di vista delle origini culturali, religiose, etniche, il quale sconta anch’esso il divide et impera capitalistico, nel senso che si utilizza per abbattere il costo del lavoro e per un ennesimo ricatto capitalistico [“o tu lavori a condizioni peggiori di prima o c’è sempre un immigrato disposto ad accettarle”], ponendolo artatamente in competizione con i lavoratori autoctoni.

Tuttavia, pur essendo il lavoro immigrato, contrattualizzato o informale che sia, espressione di una miriade di etnie, di religioni e di culture diverse, in certi casi portatrici di contenziosi storici l’una nei confronti dell’altra [i serbi non amano gli albanesi, e viceversa, i mussulmani del Kashmir non amano gli indù, eccetera], pur trovandosi in competizione reciproca e soprattutto in competizione con gli autoctoni nell’universo del lavoro astratto capitalistico, questo stesso lavoro, la sua sostanza, la comune condizione di sfruttamento e de-emacipazione che oggi si riafferma con prepotenza nei concreti rapporti di produzione, potranno costituire l’elemento unificante, il collante più duraturo, che vale ben di più di una generica e formale integrazione nel paese che li ospita.

Infatti, una nuova coscienza di classe estesa ai lavoratori immigrati, è il più potente veicolo per l’integrazione e il cambiamento.

L’ultimo gruppo potenzialmente amico, in questa breve panoramica che riguarda la strutturazione sociale in rapporto ai futuri, possibili conflitti nella società italiana, è rappresentato dai disoccupati, dagli inoccupati, da coloro che sono senza lavoro e resteranno in questa condizione per lungo tempo.

Nell’iscrivere disoccupati, inoccupati ed in generale i senza lavoro fra i “buoni” è necessario adottare alcune cautele, avanzare qualche legittimo dubbio ed operare qualche distinguo, poiché in Italia dimora un esercito di giovani [dai 15 ai 34 anni] i quali non studiano, non hanno un posto di lavoro né lo cercano, un esercito di dimensioni superiori a quello dei lavoratori immigrati, forte di oltre due milioni e duecentomila unità, se dobbiamo credere alle analisi del Censis, del suo direttore Giuseppe Roma e del suo presidente, il noto sociologo Giuseppe De Rita.

L’inerzia, l’assenza di stimoli, la stessa indifferenza per il proprio stesso futuro che questi giovani inoccupati in apparenza esprimono, si inserisce perfettamente nel discorso di Giuseppe De Rita sull’”appiattimento” generale della società italiana, ma, a ben vedere, è un riflesso dell’azione devastante sul piano sociale del Libero Mercato, inteso quale supremo sistema di razionamento e di esclusione, che condanna un numero sempre più grande di persone all’esclusione a vita dal lavoro e dai rapporti di produzione [vedi, a tale proposito, Nuovi signori e nuovi sudditi. Ipotesi sulla struttura di classe del capitalismo contemporaneo. C. Preve – E. Orso].

Ma il discorso sulla rinuncia generazionale al lavoro e allo studio non si esaurisce con il richiamo al funzionamento dei meccanismi di Mercato, e deve essere ulteriormente approfondito.

Se qualche ipocrita ben retribuito e spacciato per grande sociologo [neppure serve fare il nome] tempo fa ha scritto sulla prima pagina del Corriere che questo inquietante fenomeno, parte del più ampio fenomeno della disoccupazione e dell’esclusione, è frutto della pigrizia, dell’indolenza dei singoli, della loro propensione a ricevere i soldi a casa senza lavorare [Soldi e successo senza fatica. Così il pigro si gode la vita, Il Corriere della sera, 7 settembre 2009], porgendo una spiegazione depistante che come spesso accade tende a colpevolizzare la vittima, dovrebbe esser chiaro che dietro questa scelta, maturata in giovane età, si nasconde quello che per molti ragazzi è un deciso rifiuto, in molti casi non consapevole, delle dinamiche capitalistiche nel loro complesso.

E’ vero che questo rifiuto origina in primo luogo dal funzionamento del Mercato, e dalla sua sempre più frequente tendenza ad escludere, a scoraggiare, ad allontanare dal lavoro, piuttosto che ad includere creando il profilo del produttore-consumatore, come accadeva nella seconda metà del Novecento, ma non può essere certo tutto qui, ed ancor meno si tratta del vecchio “effetto del lavoratore scoraggiato” che smetteva di cercare lavoro, una volta constatata l’inutilità dei suoi sforzi, come accadeva in altre età del capitalismo.

Il rifiuto profondo, che molti giovani scivolati nella condizione “Not Employed in Education and Training” esprimono, per qualche verso sostituisce l’esplicito ribellismo giovanile sessantottesco, e se gli studenti sessantottini volevano cambiare il mondo, gli attuali giovani inoccupati “per scelta” seguendo questa via – che forse è l’unica oggi praticabile se non si vuole lanciare le molotov contro i blindati o premere il grilletto di una P38 – mostrano di voler uscire dal mondo, simboleggiato dalla società capitalistica di mercato onninvasiva, e così predispongono l’”esodo”.

Un “esodo” silenzioso che forse non li porterà da nessuna parte, se non interverranno eventi scioccanti che potranno rimettere la storia in movimento perturbando l’orizzonte della riproduzione capitalistica.

Oggi, in luogo del vecchio profilo del produttore-consumatore sembra prevalere il profilo del precarizzato-escluso, ma questi giovani, senza attendere che li escluda una sentenza del Mercato, scelgono l'auto-esclusione e se ne vanno, sbattendo la porta dietro di sé.

I giovani "NEET" intendono forse, pur non consapevoli di questo, togliere l’acqua al pesce capitalistico, a poco a poco, per farlo morire boccheggiando?

Oppure è soltanto una forma silenziosa di ribellismo giovanile, destinata a rientrare con la prossima generazione, che non avrà alcun esito politico e sociale determinante?

Chi scrive non sa dare una chiara risposta a queste domande, purtroppo, ma per gli scopi che si prefigge il presente saggio, è sufficiente far rilevare che questo ultimo gruppo di “buoni” è molto composito, e pone non pochi problemi proprio per la sua “varietà”, poiché accanto ai cinquantenni disoccupati che hanno perso un posto di lavoro stabile e ne cercano senza esito un altro, vi sono giovani inoccupati per scelta “silenziosamente ribellistica” e parzialmente inconsapevole, oppure, in una minoranza dei casi, sfaccendati che tali sarebbero anche in un’altra epoca storica.

D’altra parte, il concetto di disoccupazione è nato all’interno del mondo capitalistico, in cui è stato costituito e sempre mantenuto con funzioni ricattatorie [anche ai tempi del pieno impiego keynesiano, del welfare e dell’inclusione moderatamente emancipatrice] quel ”esercito industriale di riserva” che nel terzo millennio rischia di assumere dimensioni pletoriche, diventando più propriamente l’”esercito degli esclusi”, ma gli sfaccendati che talora non sfuggono alle rilevazioni statistiche sono sempre esistiti, come minoranza bizzarra e tollerata, fin dal mondo antico ed anche prima di esso.

Eppure la pubblicistica liberale e liberista, al servizio del capitale a tempo pieno, ci racconta la storiella dello sfaccendato, del perdigiorno, del pigro, del “furbo” che attende il sussidio di disoccupazione e che preferisce dormire fino a tardi la mattina, o del giovane che vive comodamente in famiglia con i soldi del padre, per nascondere la vera origine del problema della disoccupazione e dell’esclusione, rigirando l’accusa che potrebbe essere mossa a questo capitalismo contro le sue vittime prestinate.

In Italia si fa molto affidamento sulle “reti familiari e amicali”, storicamente molto sviluppate in tutta la penisola, per sostentare il più a lungo possibile disoccupati, inoccupati, e vari altri soggetti non concretamente attivi.

In particolare, si tende sempre di più a scaricare questo problema assieme a tanti altri [anziani non autosufficienti, invalidi], a mano a mano che il welfare rifluisce, sulla famiglia, sulle reti di rapporti personali e sulla comunità.

Peccato che queste reti siano state seriamente indebolite dalla crisi, dal giugno del 2008 ad oggi, e se la crisi continuerà per buona parte del prossimo decennio [com’è molto probabile, anzi, com’è praticamente certo] queste reti salvifiche rischieranno di collassare.

Le pensioni del padre e della madre, anche loro ridotte all’osso, potranno non bastare per poter mangiare in tre come prima, dando sollievo al figlio inoccupato, ed è così che si registrano cali nei consumi e nella stessa spesa alimentare delle famiglie, con circa un quarto delle famiglie italiane che già da tempo è in forte difficoltà e deve rinunciare a prodotti e a servizi essenziali… altro che solide “reti familiari e amicali” di sostegno!

I disoccupati di lungo periodo, in un paese in cui esiste l’ammortizzatore sociale della cassa integrazione per gli occupati con contratti “regolari”, ma non esiste un degno sussidio di disoccupazione o un’auspicabile salario di cittadinanza garantito a tutti, sono fra gli attivi quelli che vivono più di ogni altro l’esclusione capitalistica.

I disoccupati sono prigionieri che il Nemico Principale utilizza come monito per piegare le resistenze dei subalterni, per scongiurare rivendicazioni di retribuzioni più alte e di nuovi diritti, e sempre più spesso per ridurre le retribuzioni e cancellare i diritti.

Il Nemico utilizza disoccupazione ed esclusione come armi nella “sua” lotta di classe.

Tralasciando gli sfaccendati per vocazione o coloro che sono dediti ad attività criminali e perciò risultano disoccupati, i molti milioni di lavoratori espulsi dal processo produttivo, di attivi inoccupati e di giovani “NEET” – l’esercito degli esclusi che ha sostituito il vecchio esercito industriale di riserva – potrebbero costituire un altro significativo gruppo nel futuro scontro sociale in Italia, non soltanto dal punto di vista numerico, e un alleato importante per gli operai, i ceti medi riplebeizzati, i precari, i parasubordinati, i lavoratori informali ed i lavoratori immigrati.

In conclusione di questo capitolo, una menzione particolare va riservata agli studenti, delle scuole medie superiori e delle università, che hanno iniziato una lotta per il diritto allo studio e per la difesa della scuola pubblica contro l’orrenda riforma Gelmini, con la quale si vuole svendere il patrimonio delle istituzioni universitarie e scolastiche e tagliare drasticamente i costi dell’istruzione.

Gli studenti non accettano il dominio della logica aziendalistica ed economicista, e tanto meno quello delle imprese private, che penerebbero nella scuola pubblica non tanto per armonizzare i programmi di studio con le fatidiche esigenze “del mondo della produzione”, ma con secondi fini ed a scopo di lucro.

Questa battaglia è cruciale quanto quella per la difesa del diritto ad un lavoro decentemente retribuito e dignitoso, o per l’accesso universale ai medicinali e per la difesa dell’acqua pubblica.

Gli studenti non rappresentano certo uno specifico gruppo sociale, e quindi nel presente saggio sono stati un po’ trascurati, ma la loro lotta, vigliaccamente silenziata da molti media sistemici e dalle numerose televisioni sotto il controllo dei mercenari berluscones, ha in questo momento un grande significato simbolico, e perciò chi scrive spera che questa lotta non si arresti ma riprenda con un certo vigore, incontrando sempre maggiori adesioni nel mondo della scuola ed anche al di fuori di esso.

Una domanda è bene porsi, prima di chiudere definitivamente: da quale parte staranno gli studenti che oggi occupano e manifestano quando inizierà il vero scontro politico e sociale in questo paese?

La risposta è scontata.

domenica 12 dicembre 2010

Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia: I cattivi [capitolo secondo]



I cattivi nel futuro scontro sociale in Italia

di Eugenio Orso

Dopo l’uscita di scena di Berlusconi, i guasti provocati nella società italiana dal berlusconismo e dal regionalismo tribalistico leghista continueranno, seppure presumibilmente in misura decrescente nel tempo, e quei gruppi sociali che effettivamente hanno sostenuto per oltre un quindicennio Berlusconi e/o Bossi, sosteranno chiunque in futuro, pur di poter mantenere indefinitamente il loro status e i loro ingiusti privilegi, concessigli oltre il limite della legalità dalla politica sistemica.

Una prima individuazione dei “cattivi” nel futuro scontro sociale in Italia, oggetto del presente elaborato assieme alla necessaria individuazione dei “buoni”, ci riporta proprio a questi gruppi, storici sostenitori del berlusconismo e del leghismo, che per numerosi ipocriti ed alcuni imbecilli rappresenterebbero i veri e i soli “ceti produttivi” e l’unica speranza futura della nazione.

Il discorso anticapitalista della corretta individuazione di nemici, avversari e amici, nella dimensione politica e in quella sociale, bene impostato dal filosofo Costanzo Preve sul piano teorico in alcuni dei suoi saggi più recenti e in alcune conferenze, può essere compendiato, per quanto riguarda specificamente la questione sociale italiana, dalla breve analisi che seguirà.

Per una corretta definizione dei gruppi che storicamente hanno supportato il tribalismo leghista e il “dispotismo dolce” berlusconiano – i quali stanno presumibilmente giungendo al capolinea – sarebbe troppo superficiale, e quindi sarebbe un errore, credere che nel primo caso avessero agito in primo luogo pulsioni di natura comunitaria, desiderio di indipendenza o autonomia, e legittime resistenze alle imposizioni del capitalismo globale finanziarizzato, e che nel secondo caso si sia trattato semplicemente di una ricerca di rappresentanza politica da parte di elettorati resi “orfani” da Tangentopoli-Mani pulite, che per lunghi anni hanno fatto riferimento ai vecchi partiti di massa, strutturati sul territorio, come furono la DC e il PSI.

Commercianti, impresari, patrimonializzati che devono la loro fortuna alle eredità di famiglia, professionisti ambiziosi e piccoli rentiers, benestanti vari ed altri simili soggetti hanno sostanzialmente accettato – unicamente per perseguire i loro personali interessi economici, senza che in ciò vi sia alcuna traccia di idealità e di riferimenti più alti e collettivi – un mercimonio elettoralistico, fondato sullo scambio del consenso con la praticabilità effettiva dell’evasione fiscale e contributiva, la concreta rinuncia alla lotta all’evasione ed una relativa “impunità” concessa agli evasori.

Quanto precede compendiato, naturalmente, dal rifiuto berlusconiano “di mettere le mani in tasca agli italiani” – ma soltanto nelle tasche di certi italiani, bene inteso – che guarda caso ha portato in prima battuta all’abolizione dell’imposta di successione e donazione [18 ottobre 2001] ed ha risparmiato fiscalmente le rendite finanziarie, grandi e piccole, a scapito dei redditi da lavoro.

E’ bene precisare che il consenso elettorale ottenuto dal berlusconismo e dal leghismo in questi anni difficili, di crisi complessiva della società italiana e di peggioramento delle condizioni di vita per gran parte della popolazione, ha valicato i confini di questi specifici gruppi, fino a carpire il voto di molti disoccupati, operai, casalinghe, impiegati, pensionati, del nord, nel caso della Lega, ed in tutta la penisola per quanto riguarda i cartelli elettori che fanno direttamente riferimento al nostro sgraziato “Tycoon di provincia”, ma la sostanza del discorso non cambia, perché la base essenziale del consenso, quella irrinunciabile, quella intorno alla quale è stata costruita la “fortuna” di tutto il cento-destra nell’agone della politica sistemica, si identifica con i predetti gruppi sociali e con la tutela dei loro particolari interessi.

Nel caso di Berlusconi e del suo cartello elettorale primigeneo, Forza Italia, è soprattutto una “distorsiva”, istupidente e continua azione mediatica – iniziata negli anni ottanta [dal Drive In di Antonio Ricci su Italia 1, partito nel 1983, in poi], ben prima della sua improvvisa intrusione nella politica – che ha consentito al suddetto di estorcere a piene mani i consensi elettorali di soggetti deboli, culturalmente e non di rado socialmente, sommandoli ai voti del suo “zoccolo duro”.

Nel caso della Lega Nord, i consensi sono stati gonfiati fin dall’inizio da una generica protesta, nel settentrione del paese, rivolta integralmente contro la politica di sistema e le sue dinamiche, nonché, più di recente, dall’incolpevole voto operaio che non sa più a quale santo votarsi …

Un giorno, ricordando il fenomeno del berlusconismo indissolubilmente legato a questo tetro periodo della storia d’Italia, apparirà chiaro che dietro il cosiddetto scudo fiscale concesso alla grande speculazione e alla criminalità organizzata, e dietro la stessa “licenza d’evadere” concessa ai piccoli impresari e ai furbi, si nasconde una precisa scelta di natura sociale e politica e nel contempo la necessità di conservare lo “zoccolo duro” del consenso elettorale.

E’ per tale motivo, tenuto conto che in questo caso parliamo in prevalenza della “piccola evasione fiscale”, che le dimensioni del fenomeno in Italia hanno raggiunto livelli intollerabili, anche per un sistema liberaldemocratico che massacra i lavoratori coccolando i bottegai, gli impresari ed i furbi, esprimendo volumi d’evasione non facilmente quantificabili, i quali oscillano fra i cento ed i duecento miliardi di euro l’anno, IVA compresa o esclusa e in dipendenza della fonte.

Tale mercimonio, determinante negli ultimi due decenni assieme all’avanzare della globalizzazione per gli equilibri politici e gli squilibri sociali prodottisi in questo paese, è profondamente segnato dall’illegalità, ed anzi, è a sua volta fonte di illegalità, di ingiustizia dal punto di vista sociale – e quindi sul piano etico –, rappresentando uno dei principali fattori che alimentano il degrado complessivo del paese.

Considerando questo aspetto, si riesce a cogliere un po’ meglio la vera sostanza del cosiddetto berlusconismo ed anche quella del leghismo bossiano.

L’illegalità nasce, in prima battuta, dalla mancata applicazione e dal mancato rispetto della legislazione fiscale italiana, che pur esiste ed è in vigore, ed è un’illegalità voluta, tollerata e promossa, nel concreto, dalla politica berlusconiana e leghista, con lo scopo precipuo della difesa dei loro principali “bacini elettorali” e di consenso nella società.

Questo aspetto deleterio e per qualche verso decisivo nella vicenda italiana – non assolutamente corretto da una penosa sinistra sistemica, totalmente asservita ai potentati finanziari e militari anglo-americani, nei periodi in cui è stata al governo – ha comportato minori risorse pubbliche da destinare alla scuola, alla sanità, all’assistenza dei malati e dei soggetti deboli, e a quelle stesse infrastrutture che avrebbero dovuto favorire, in un’ottica squisitamente capitalistica, una ripartenza economica che non c’è mai stata.

Ecco perché, banalmente, porgendo un unico esempio qualificante, in questo paese si è condotta una campagna di criminalizzazione rivolta contro i “falsi invalidi”, intendendo in realtà colpire – in nome di quella stessa giustizia che l’evasione fiscale ammessa quotidianamente viola – tutte le pensioni di invalidità, indiscriminatamente, nel tentativo di lasciare senza mezzi di sostentamento, peraltro già da tempo insufficienti in relazione al crescente costo della vita e dei servizi di assistenza, proprio gli invalidi veri, in paese in cui vivono oltre quattro milioni di disabili.

Del resto, come si sbandiera ad arte per far passare in secondo piano i tagli alla socialità, questo è il paese del volontariato diffuso, che fortunatamente con la sua azione caritatevole allevia le sofferenze dei più deboli e supplisce a quei vuoti assistenziali, sempre più ampi, lasciati da uno stato sociale storicamente in ritirata.

Non solo, ma diventa una scelta obbligata, in tali frangenti, massacrare fiscalmente i redditi di lavoro dipendente, dopo averli abbondantemente ridotti con l’applicazione dei contratti precari e a termine, con l’invenzione dei parasubordinati [i falsi lavoratori autonomi] e con i contratti nazionali truffa della cui parte economica beneficia la sola Confindustria, scaricando su questi redditi la parte maggiore della spesa pubblica.

Infine, la questione dell’evasione fiscale e contributiva si sovrappone a quella del lavoro nero, del sommerso, dell’economia informale, con il lavoratore in nero che è costretto ad accettare condizioni di massima flessibilità, senza versamenti contributivi, senza il diritto alle ferie, alla malattia ed agli assegni familiari, semplicemente per poter lavorare e avere un reddito, o che in qualche caso accetta tali condizioni di buon grado, onde sfuggire all’allucinante pressione fiscale esercitata sui redditi da lavoro dipendente.

Per quanto riguarda il clown paramafioso e satireggiante di Arcore, tutti dovrebbero ricordare le sue passate dichiarazioni, in relazione ad una possibile riforma del sistema di imposizione fiscale sui redditi personali che fortunatamente non si è mai concretizzata.

Un’imposta sui redditi personali strutturata su due, o peggio su una sola aliquota uguale per tutti, come era nelle intenzioni di Berlusconi quando ha esternato, pur essendo tecnicamente possibile rappresenta una palese ingiustizia che colpisce i redditi bassi, poiché, riflettendo sul caso di una sola aliquota pari ad un terzo dell’imponibile e soprassedendo sul mantenimento di un'insufficiente no tax area, diecimila euro su trentamila non pesano di certo nell’affrontare le spese della vita quotidiana come trentamila su trecentomila, ed ancor meno come trecentomila su tre milioni.

La correzione dovuta ai carichi familiari, anche se rilevante, non può cambiare la sostanza del discorso.

Del resto, se l’unica aliquota rappresenterebbe un’iniquità troppo scoperta, il progetto di riforma dell’imposizione sui redditi a due aliquote, del 23% e del 33%, risale all’ormai lontano 1994, ma è chiaro che quanto più si riduce il numero delle aliquote, e di conseguenza degli scaglioni di reddito, tanto più ci si allontana dall’equità fiscale.

Questa “semplificazione” del sistema impositivo, agognata dal conducador mediatico italiota, è strettamente correlata alla volontà di rappresentare certi gruppi sociali, nella logica prima ricordata del voto di scambio, e di mantenersi al potere fidando sul loro appoggio, contrapponendosi muro contro muro al resto della società italiana.

Non una parola, naturalmente – al di là di vaghe dichiarazioni di principio e di generiche condanne del fenomeno – sulla necessità e sull’urgenza dell’effettivo potenziamento del settore degli accertamenti fiscali, e quindi, sull’effettiva praticabilità di una capillare lotta all’evasione.

Berlusconi e i caporioni leghisti sanno bene che impegni concreti in tal senso comprometterebbero la fiducia dello “zoccolo duro” elettorale, poiché la base delle loro fortune è rappresentata proprio dall’inquità fiscale e dall’illegalità espressa da un’evasione diffusa, che si concede a certi gruppi e a certe categorie a scapito di tutti gli altri.

Strano che il personaggio in questione non sia andato oltre, fino a proporre un’imposta sui redditi regressiva, con aliquote decrescenti all’aumentare del reddito imponibile, che rappresenta eticamente e socialmente il punto massimo dell’iniquità.

Certo è che chi non paga attualmente le imposte, perché appartiene ad una di quelle categorie che beneficiano della “tolleranza” politica nei confronti dell’evasione, elettoralmente interessata e nel pieno disprezzo della legislazione vigente, continuerà in futuro a non pagarle se gli sarà assicurata una relativa impunità, sia nel caso in cui le aliquote per scaglione scenderanno tutte di uno o due punti percentuali, ed anche se si imporrà il sistema ancor più iniquo a due sole aliquote.

Per quanto riguarda Bossi – furente e volgare, a ruota libera davanti al suo miserabile popolume, del quale per l’occasione “parla la lingua”, ma sicuramente lucido e finalizzato ad ottenere precisi effetti politici ed elettorali in certe sue dichiarazioni pubbliche – nel tempo il suddetto non ha perso occasione per ricordarci pelosamente che il nord “paga le tasse”, insinuando che le pagherebbe anche per tutti gli altri.

Peccato che il nord, così come lo intende Bossi, è rappresentato esclusivamente dal grottesco, feroce e per fortuna minoritario popolume leghista, e questo richiamo frequente alle “tasse” che il nord pagherebbe per intero, fino all’ultimo euro, rivela la volontà di nascondere la vera sostanza del legame fra Bossi e il suo elettorato, quella più concreta e tangibile, cioè lo scambio “voti contro la possibilità dell’evasione”.

In quest’ottica va visto lo stesso federalismo fiscale – minaccia incombente per buona parte delle regioni italiane, comprese alcune regioni settentrionali che entrerebbero in serie ambasce –, il quale federalismo, nell’attuale versione leghista, si accompagna all’illusione, diffusa ad arte fra il popolume bossiano, che “i soldi resteranno a nord”, cioè nelle sue tasche.

I “soldi che restano nelle nostre tasche” rappresentano un’illusione pericolosa, che i fatti puntualmente smentiranno, e costituiscono, oggi, l’unica e la sola giustificazione del federalismo leghista capace di catturare il consenso dei cosiddetti ceti produttivi padani.

E pensare che nel 1993 l’ideologo leghista Gianfranco Miglio, a quel tempo eletto come indipendente nelle liste della Lega Nord e oggi quasi del tutto dimenticato, metteva in guardia contro i “falsi federalisti”, descrivendo un progetto federale [che comunque lo scrivente non condivide, è bene precisare subito] ben più ambizioso, complesso ed articolato di ciò che Bossi chiama federalismo, il quale prevedeva un governo direttoriale per garantire a tutte le repubbliche diritto di voto su materie importanti per l’intera federazione, la conseguente ricostruzione dello stato fin dalle sue fondamenta, sulla base di una rinnovata legalità, e infine un’ampia autonomia impositiva concessa ai municipi ed alle repubbliche federate …

Anche Miglio parlava, dal suo particolare punto di vista, di federalismo fiscale come passo decisivo della “rivoluzione”, senza il quale non ci potrebbe essere vero e compiuto federalismo, ma il fatto è che oggi il federalismo leghista sembra ridursi esclusivamente a questo – visto che le burocrazie politiche padane sono ormai del tutto interne al sistema di potere vigente – e rischia di provocare l’accentuarsi degli squilibri fra le regioni, rappresentando per l’intero paese una potente ed ulteriore spinta dissolutiva.

Il sogno ereditato da Miglio per una nuova costituzione federale di ampio respiro sembra essersi, dunque, definitivamente infranto, e ciò è accaduto, in buona sostanza, per la stessa natura del consenso leghista, ed anche del consenso berlusconiano, entrambi fondati sulla pratica del voto di scambio e dell’illegalità diffusa, nonché sulla tutela dell’interesse particolare di gruppi minoritari nella società italiana.

E’ impossibile fondare sull’illegalità diffusa una nuova legalità e nuove istituzioni degne di rispetto.

Il fondamento illegale ed anti-etico del berlusconismo e del leghismo bossiano dovrebbe risultare ormai chiaro come il sole alla generalità delle persone, ma così non è, purtroppo, perché ipocrisia, disinformazione e distrazione mediatica, imbecillità artificialmente diffusa impediscono di vedere la vera sostanza sulla quale si regge il loro potere.

Del resto, ricordando le parole dello scomparso professor Gianfranco Miglio, apprendiamo che In molti credono che questo sia il momento del demiurgo. Cioè del personaggio che arriva con poteri speciali, si impone e salva tutti. E’ un’idea profondamente antidemocratica, oltre che criminalmente stupida. [Gianfranco Miglio, Attenti al demiurgo!, Panorama, 16 aprile 1994].

Il demiurgo in questione, stigmatizzato come un pericolo immanente dal professor Miglio, non è altri che Silvio Berlusconi, quello stesso Berlusconi che oggi la Lega bossiana puntella instancabile, cercando di assicurargli la maggioranza, per evitare la sua uscita di scena e il conseguente allontanamento della burocrazia politica leghista dal governo di Roma …

E’ chiaro che uno come Gianfranco Miglio, il miglior intellettuale [se non l’unico] che la Lega ha avuto dalla sua parte fin dal debutto nella politica nazionale, non avrebbe visto di buon occhio le pretese berlusconiane, avanzate in questi ultimi anni di governo e di ampio consenso, di estendere i poteri e le prerogative del capo dell’esecutivo.

L’epoca di Berlusconi sembra però essere giunta alla fine, come ci rivelano molti segnali, a partire da quegli stessi sondaggi che hanno orientato il demiurgo “de noantri”e nel contempo influenzato il consenso, ed anche il 44esimo Rapporto Censis avverte che il lungo ciclo iniziato negli anni ottanta – quello del decisionismo e della voglia di governabilità che ha suscitato l’illusione antipolitica, ed ha portato alla verticalizzazione ed alla distruttiva “politica del fare” – è ormai arrivato al capolinea, dopo l’apogeo toccato nel primo decennio di questo secolo.

Se Berlusconi ha “spopolato” nei primi anni del nuovo millennio, il ruolo della sinistra politica sistemica, da quella liberalsocialista a quella ridicolmente chiamata radicale, o ancor più ironicamente massimalista, in questo decennio è sembrato non a torto secondario, decisamente minore.

In questi anni la sinistra è andata a rimorchio, e quando ha avuto responsabilità di governo, non solo non ha cercato di invertire la tendenza – combattendo ad esempio l’evasione, quanto meno la “piccola” evasione che non può rifugiarsi negli intangibili paradisi fiscali, rivalendosi di conseguenza sui gruppi sociali che la esprimono – ma, al contrario, ha dato il suo contributo al massacro dei lavoratori dipendenti, dei pensionati, dei giovani, della socialità in generale, fino allo “scippo” delle tredicesime operato dal secondo governo Prodi, che ha alimentato l’indimenticabile “tesoretto” di Prodi, Visco e Padoa-Schioppa lasciato in eredità a Berlusconi, Bossi e Tremonti [un extragettito “virtuoso” stimato in circa 10,7 miliardi di euro], secondo i suddetti frutto della lotta all’evasione …

Questa sinistra, totalmente priva di programmi politici e di idealità, ma non priva di rapaci burocrazie, se mai tornerà ad assumere responsabilità di governo, non si sognerà neppure di rispondere con un deciso “niet” alle richieste dei dominanti americani, anche se queste dovessero comportare lo smantellamento definitivo degli ultimi grandi gruppi industriali italiani [Eni, Finmeccanica, Fincantieri], non salverà ciò che rimane dello stato sociale e della scuola pubblica, non combatterà l’evasione fiscale e contributiva, a partire dalla “grande evasione”, e non si sognerà di contrastare concretamente ed efficacemente l’economia criminale propriamente detta, il lavoro nero, il sommerso.

Si tratta, insomma, di una sinistra mercenaria, lontanissima dai bisogni reali e dalle istanze concrete dei subalterni, che non avrà alcuna difficoltà a continuare sulla strada della flessibilizzazione del lavoro dipendente, supportando quella lotta di classe che in occidente è portata avanti dai globalisti, e nel contempo ad imporre privatizzazioni e liberalizzazioni a tutto vantaggio del grande capitale finanziario.

Per quanto riguarda i gruppi sociali definiti dallo scrivente, senza mezze misure o ipocrisie di sorta, i “cattivi” nel futuro scontro sociale in Italia, rileviamo che da qualche mese è stata costituita la R.ETE. Imprese Italia – in rappresentanza di oltre due milioni di piccole entità con circa quattordici milioni di addetti, fra botteghe, piccole imprese, laboratori artigianali e simili –, la quale nel suo breve manifesto sostiene che Il futuro del Paese è inscindibilmente legato alle piccole e medie imprese ed all’impresa diffusa, chiave di volta della sua competitività, struttura portante dell’economia reale e dei processi di sviluppo territoriale, luogo di integrazione e costruzione delle appartenenze. [Il Manifesto delle Imprese del Territorio]

In queste parole è contenuta parte significativa del dramma della società italiana e dei suoi assetti produttivi, perché dovrebbe essere ormai chiaro che la frantumazione del tessuto produttivo in una miriade di piccole entità esposte a tutte le intemperie e non di rado inefficienti, che sopravvivono grazie ai contratti di precarietà, al nero, alla compressione del costo del lavoro e all’evasione diffusa, in alcun modo può e potrà costituire un punto di forza, all’interno delle stesse logiche capitalistico-globaliste.

Questa associazione mercantile-industriale-artigianale dei piccoli e dei medio-piccoli, cioè dei più poveri fra i ricchi anche loro a rischio di ri-plebeizzazione negli anni venturi, è nata dal “Patto del Capranica” [maggio del 2010, Roma] che ha unito varie entità quali la Confcommercio che fu di Sergio Billè, Confartigianato, Confesercenti, Casartigiani, CNA, in rappresentanza, nella realtà sociale ed economica italiana, della piccola intermediazione commerciale, caratterizzata sostanzialmente da un pletora di botteghe che da decenni appesantiscono la rete distributiva nazionale, facendo lievitare i costi dei prodotti al dettaglio, e delle medio-piccole, piccole o piccolissime imprese, proliferate grazie da una serie di fenomeni economico-sociali pregressi in buona parte negativi, quali, ad esempio, la frantumazione del tessuto produttivo nazionale e la progressiva scomparsa [grazie a privatizzazioni e svendite] della grande industria, o la difficoltà di accesso a posti di lavoro stabili e decentemente retribuiti nel settore pubblico ed anche in quello privato.

Questi gruppi, come appare nei loro documenti, sostengono che Il federalismo fiscale può arginare il dilagare della spesa pubblica: il passaggio dalla spesa storica a quella standard per le funzioni essenziali delle Regioni e ai fabbisogni standard per il finanziamento delle funzioni fondamentali degli enti locali dovrebbe garantire il contenimento della spesa coniugata ad un miglioramento nella qualità della spesa. [Ripensare alla crescita del paese: strategie e scelte di medio termine]

Non li sfiora minimamente il dubbio che sulla questione della spesa pubblica, la quale trova sempre minor copertura nelle entrate fiscali, pesi come un macigno – quale importante ma non unico fattore, bene inteso – la questione dell’evasione, grande e piccola, questa ultima espressa da una parte non trascurabile dei loro affiliati.

Né considerano il piccolo particolare che una parte rilevante delle entrate delle regioni e degli altri enti locali territoriali deriva dai trasferimenti di risorse dal centro, e non dall’imposizione fiscale locale.

O meglio, chiedono per loro stessi nuove agevolazioni fiscali, con la solita scusa, trita e ritrita, dell’estensione della base occupazionale, ed un fisco meno oneroso, ma soltanto per le loro attività e per chi vuole diventare, in accordo con la propaganda neoliberista flessibilizzante, “imprenditore di se stesso”, naturalmente se dispone dei mezzi privati per poterlo fare.

Perfettamente nel solco della politica berlusconiana, i suddetti richiedono: la prosecuzione della detassazione della componente “di risultato” del salario, cioè quella più aleatoria e variabile, che riguarda essenzialmente straordinari e premi di produzione e che risulta vantaggiosa soprattutto per i datori di lavoro, la riforma dei contratti di lavoro nel senso voluto dal governo, da Confindustria e dalla Cisl, ed un rafforzamento degli Enti bilaterali, per scongiurare il riapparire di una più che giustificabile conflittualità, di matrice antagonistica, negli attuali rapporti di produzione.

Leggendo con la dovuta attenzione i testi disponibili in rete, la R.ETE. Imprese Italia – che parla esclusivamente per i “titolari”, è bene ricordarlo, e non certo per i molti milioni di dipendenti che in tali aziende lavorano – mostra di aderire pienamente alle politiche berlusconiane ed anche a quelle leghiste, a partire dal federalismo fiscale, e tutto questo non può certo essere privo di un chiaro significato politico e sociale.

Credere che sia possibile una saldatura fra costoro, da un lato, il lavoro operaio e quello dipendente in generale, dall’altro lato, fra costoro e quella parte del vecchio ceto medio che esprime, in qualità di dipendenti pubblici o privati, il lavoro intellettuale, fra costoro e i giovani in cerca di un’occupazione stabile e dignitosamente retribuita, fra costoro ed i precari della scuola e delle università, costituisce, per come la pensa lo scrivente, un esercizio di pura fantasia, o un modo subdolo per cercare di neutralizzare la sacrosanta protesta sociale che potrà montare, nei prossimi due o tre anni, anche in questo paese, imbrigliandola attraverso alleanze controproducenti e innaturali.

Nel novero dei “cattivi” rientrano a pieno titolo le burocrazie politiche dei partiti sistemici, svuotati di rappresentanza effettiva, ridotti ai minimi termini come numero di militanti attivi, portatori di programmi-fotocopia od anche di nessun programma politico definito [vedi in proposito il caso penoso del Pd], ma comunque dotati di costose strutture e di numerosi quadri “voraci”, che operano esclusivamente allo scopo di assicurarsi privilegi, lauti redditi personali e comode scorciatoie per la carriera.

Il peso dei predetti tende a diventare particolarmente intollerabile, in periodi di crisi, poiché si tratta di quasi cinquecentomila individui, consigli circoscrizionali, “consulenze” e portaborse compresi.

Data la numerosità degli “occupati in politica” e il peso che hanno nella società, la loro manifesta subalternità al mondo degli affari, la mancanza totale di idealità ben testimoniata da programmi politici “replicanti”, fotocopia o addirittura dall’assenza degli stessi [come se rappresentassero una protesi inutile], nonché la concordanza di interessi concreti e la corruttibilità che generalmente li caratterizza, da intendersi come propensione a scambiare qualsiasi cosa sia nella loro disponibilità [appalti e risorse pubbliche, pacchetti di voti, eccetera] con vantaggi personali ed immeritati benefit, li possiamo ormai considerare come un gruppo sociale a sé stante.

Un gruppo sociale compatto nel difendere i propri interessi, al di là delle apparenti differenze di schieramento, integralmente parassitario e scopertamente nocivo.

La prova che la politica minore dell’epoca si è trasformata in una “professione”, particolarmente lucrosa per chi riesce a raggiungere certi livelli, si è avuta innumerevoli volte in questi anni, ed infatti, molti parlamentari dell’opposizione sistemica sperano che Berlusconi riesca ad ottenere nuovamente la fiducia, in questo mese di dicembre del 2010, piuttosto di arrivare allo scioglimento delle camere e a nuove elezioni politiche, essenzialmente perché fanno parte di quegli oltre trecento membri del parlamento che non hanno ancora “maturato la pensione”.

Rilevante è anche il peso degli affiliati alla grande criminalità organizzata, che spesso si intreccia con la politica sistemica a tutti i livelli, quelli locali e quello nazionale, il che non significa considerare nel novero soltanto la manovalanza camorrista nei quartieri di Napoli, i gruppi di fuoco della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta, ma anche i colletti bianchi, i professionisti di supporto, gli “impiegati” e simili figure sempre più essenziali, diffuse a sud come a nord della penisola.

L’Italia intera è attraversata da un gran numero di “zone grigie”, in cui l’illegalità si leva come una nebbia che rischia di avvolgere l’intero paese.

Queste “zone grigie” non di rado si sovrappongono, e così è, infatti, per quanto riguarda l’evasione e l’elusione fiscale, il lavoro nero e l’economia informale, il lavoro schiavo, la politica minore che si lascia corrompere da impresari e malavitosi, e purtroppo ciò risulta particolarmente vero per l’economia formalmente e penalmente definibile criminale, al punto che oggi si afferma che la capitale “finanziaria” della grande malavita organizzata è diventata quella Milano in cui si concentrano i “danè” e gli affari, e non è più la Palermo dei tradizionali “mammasantissima”.

Se il nord è territorio d’affari per la criminalità organizzata, è comunque nel sud che questa riesce ad espandersi, nella crisi generale della società italiana, estendendo progressivamente il controllo effettivo del territorio, quale stato nello stato, come risulta dal 44esimo Rapporto del Censis: La regione dove la presenza della criminalità organizzata e il controllo del territorio sono più pressanti è la Sicilia (dove il 52,3% dei Comuni presenta almeno un indicatore di criminalità organizzata, coinvolgendo l’83,1% della popolazione), segue la Puglia (con il 43% dei Comuni), la Calabria (38,4%) e la Campania (36,3%).

E’ persino evidente che l’espansione dello “stato di mafia” a sud, con importanti diramazioni affaristiche nel nord, è reso possibile dalla connessione sempre più stretta fra la criminalità organizzata e la politica sistemica, di maggioranza [Lega Nord compresa] e di minoranza.

Con oltre cento e quaranta mila iscritti in rappresentanza di imprese di ogni dimensione, ma in particolare di quella grande e media industria che è minoritaria in un tessuto produttivo frantumato in una miriade di piccole entità, Confindustria fa indubbiamente parte dei “cattivi” che animeranno il futuro scontro sociale in Italia.

Si può agevolmente notare che se da un lato questa organizzazione è interessata a spingere fino alle estreme conseguenze la manovra precarizzante e flessibilizzante nei confronti del lavoro dipendente, iniziata negli anni ottanta, proseguita negli ultimi due decenni e mai più arrestatasi, dichiarando pubblicamente di farlo in nome della “competitività”, dell’”efficienza”, della “produttività” – in una, in nome della Legge del Mercato –, dall’altro chiede continuamente iniezioni di soldi pubblici, in via diretta o indiretta, fino a spingere per la svendita del patrimonio dello stato e degli enti locali, risorse che una politica compiacente non ha avuto e non avrà difficoltà a sottrarre al welfare ed alla socialità nel suo complesso.

Confindustria, in poche parole, esprime la tendenza liberal-capitalistica consolidata a socializzare le perdite private ed a privatizzare le risorse collettive, agitando l’improbabile carota della creazione di nuovi posti di lavoro nel settore privato, e il bastone minaccioso dei licenziamenti e della disoccupazione.

Oltre all’incapacità manageriale e all’”arretratezza” che caratterizzano molta parte dell’industria privata italiana grande e piccola – diversa da quel “capitalismo della borghesia” tedesco che resiste meglio alla crisi –, dietro questa tendenza si nasconde neppure troppo bene la vera sostanza del Libero Mercato, fondato su espropri, razionamenti e ricatti socialmente intollerabili.

Un altro gruppo di “cattivi” è ben rappresentato dai quadri dei sindacati gialli – Cisl, Uil e Ugil – che hanno svenduto i diritti dei lavoratori e il loro stesso futuro, con accordi volti a demolire progressivamente sia la parte economica sia quella dei diritti nei rinnovi dei contratti nazionali di categoria, anzi, questi pseudo-sindacati partecipano attivamente all’attacco complessivo al lavoro, in qualità di truppe ascare, rendendosi immediatamente disponibili a supportare operazioni come quella della Fiat a Pomigliano, oppure per la “riforma” dello Contratto collettivo nazionale, ultimo baluardo dei lavoratori assieme allo Statuto dei Lavoratori del 1970, che con tutta evidenza si vogliono togliere rapidamente di mezzo.

Deroghe sempre più ampie al Ccnl nell'attesa di sostituirlo con un “contratto leggero” a tutele ridotte, attivazione degli Enti bilaterali, inerzia davanti all’approvazione in parlamento dell’arbitrato, accettazione del piano Marchionne per Pomigliano d’Arco, costituiscono il prezzo che un certo sindacalismo ha accettato di pagare – o meglio, ha deciso di far pagare a tutti i lavoratori – per il mantenimento dei suoi centri di potere e dei suoi privilegi.

Questo ultimo gruppo di “cattivi” – degnamente simboleggiato dalla figura di Raffaele Bonanni al vertice della Cisl, che è il pesce più grosso nello stagno putrescente del sindacalismo giallo – è particolarmente odioso, perché disposto a vendere anche la pelle dei propri stessi iscritti, che sono pur sempre lavoratori dipendenti minacciati quanto gli altri dalla de-emancipazione e dalla disoccupazione, in cambio del mantenimento di un potere ormai del tutto autoreferenziale.

In coda, è opportuno far riferimento a quei settori della magistratura che si sono costituiti, de facto e non de iure, in potere politico autonomo, con la pretesa di condizionare i governi – Prodi o Berlusconi non importa – per mantenere il proprio status di privilegio e “orientare” la politica nel senso voluto, mentre i processi, per la gente comune che in questo sistema non conta, si accumulano come montagne di pratiche inevase, poiché non garantiscono rapide carriere, lustro mediatico e non rientrano nella logica perversa della lotta fra poteri dello stato.

Così, all’inizio del 2009 i procedimenti civili pendenti erano cinque milioni e quattrocentomila, ed i procedimenti penali “non evasi” oltre tre milioni e duecentomila.

Questa incuria, della quale dovrebbe rispondere in primo luogo la magistratura, oltre a causare danni e sofferenze crescenti alla popolazione, alimenta l’abuso, la prevaricazione, la violenza e contribuisce a diffondere l’illegalità, nella fondata speranza che la pena potrà non arrivare mai, se i tempi medi sono lievitati negli anni a quasi mille giorni per il primo grado del processo e ad oltre mille e cinquecento per il giudizio di appello.

Gli attacchi al lavoro, l’evasione concessa, la giustizia inceppata, il garantismo castale, l’economia criminale tollerata, gli appalti truccati, i costi e le vistose inefficienze della politica liberaldemocratica non sono che altrettanti sintomi dell’estinzione dell’etica, il miglior humus per la diffusione dell’illegalità, e le principali ragioni endogene del futuro conflitto sociale nella penisola.


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