martedì 27 dicembre 2011

LA DEMENZA GENERALIZZATA DEL POPOLO ITALIANO

Un enigma storico da decifrare



di Costanzo Preve






1. Nell’editoriale della rivista Italicum, dicembre 2011, Luigi Tedeschi fa un primo completo bilancio dei provvedimenti della giunta Monti, e ne rintraccia anche correttamente la genesi economica, storica e politica. Alla fine di queste analisi Tedeschi osserva che tutti i partiti, di destra e di sinistra, “volevano che Monti attuasse quelle manovre impopolari che essi non erano in grado di condurre in porto per motivi elettorali”. Mi sembra evidente. E ancora: “Potrebbero un domani tentare di svincolarsi dalle loro responsabilità addossando a Monti la colpa per misure impopolari approvate, contando sulla demenza generalizzata del popolo italiano, che darebbe loro nuovo consenso, non essendoci alternative”.


A livello di filosofia politica, ci si potrebbe chiedere se il popolo in quanto tale è demente (spiegazione nicciana e delle teorie delle élites) oppure se lo è soltanto quando è ridotto a corpo elettorale (spiegazione che risale a Rousseau e ai teorici della democrazia diretta, fra cui anche Lenin).






2. Quindici anni fa scrissi un manifesto filosofico insieme a Massimo Bontempelli, mancato in questo stesso anno 2011 (cfr. Bontempelli-Preve, Nichilismo Verità Storia, CRT, Pistoia 1997). In un capitolo sulla menzogna del linguaggio economico (pp. 23-24), Bontempelli faceva risalire alla generalizzazione della forma di merce la scomparsa della verità delle relazioni sociali. Diagnosi a mio avviso esattissima. E poi elencava una serie incredibile di menzogne del linguaggio economico. Fra di esse si notava che “alcuni decenni orsono, quando la tecnologia e la produzione di merci erano meno sviluppate di oggi, non c’erano difficoltà a finanziare le pensioni e l’assistenza sanitaria dei lavoratori, mentre oggi, dopo tanto sviluppo, gli economisti ci dicono che il sistema economico non può sopportare questo finanziamento”.


Sembrano righe scritte nel dicembre 2011, e invece risalgono ai primi mesi del 1997. Partiamo quindi da questo rilievo.






3. Come tutti gli studiosi di storia e di filosofia, sono attirato dai due estremi complementari della coscienza sociale, la genialità e l’idiozia. E tuttavia l’idiozia è sempre più interessante, anche perché è più divertente. I mezzi di comunicazione di massa ci offrono ogni giorno quantità industriali di idiozia, e con l’arrivo della televisione e dei giornali non c’è neppure bisogno di mescolarsi agli idioti, perché l’idiozia ci viene portata a domicilio in modo semigratuito.


Mi ha colpito una manifestazione di “donne” (una delle maggiori idiozie del nostro tempo è la separazione femminista di donne e di uomini, dopo che c’è voluta tanta fatica per promuoverne la giusta e sacrosanta eguaglianza), in cui una nota regista concionava sostenendo che il nuovo governo Monti almeno “rispettava le donne”, mentre il precedente puttaniere evidentemente non lo faceva. Ora, il precedente puttaniere non era riuscito ad aumentare in un colpo solo l’età pensionabile, mentre Monti, l’uomo che rispetta le donne, lo ha fatto.


Siamo quindi di fronte ad un esempio quasi da manuale di demenza generalizzata. La sua genesi deve essere ancora indagata. A un livello superficiale, per sua natura insoddisfacente, ci si può riferire alla necessità del PD di babbionizzare il suo elettorato, oppure alle conseguenze di vent’anni di antiberlusconismo di “Repubblica”, rinforzato da dosi massicce di Floris e Gad Lerner. E’ senz’altro così. Nello stesso tempo, fermarsi a questo livello è assolutamente insoddisfacente.






4. Partiamo da un dato apparentemente secondario. Scrive il giornalista Stefano Lepri (cfr. “La Stampa”, 14 dicembre 2011): “Colpisce nel Paese, almeno a giudicare dai sondaggi, il contrasto fra gli elevati consensi di cui gode uil governo Monti e il diffuso rigetto della sua manovra di austerità. Non sembra esistere nessuna forza capace di convincere i cittadini che quello che gli viene richiesto è uno sforzo solidale”.


Partiamo da questa apparente schizofrenia. Elogi a Monti e al suo burattinaio politico Napolitano, ex comunista riciclato in uomo della NATO e degli USA in Italia, e considerato dalla massa babbiona PD il grande garante e difensore della Costituzione. E nello stesso tempo brontolio contro la manovra sul fatto che “pagano sempre i soliti noti”, “la casta non è abbastanza colpita”, eccetera. Spiegare questa schizofrenia è relativamente facile, ma richiede ugualmente uno sforzo culturale. Facciamolo, tenendo conto che mi limiterò all’Italia, e solo all’Italia, perché altrove i dati culturali egemonici possono essere e sono diversi.






5. Quando al tempo di Pio XII la chiesa cattolica “scomunicò i comunisti” siamo stati in presenza di un episodio, forse l’ultimo, di una strategia controriformistica. La chiesa non aveva mai avuto paura di quella forma di paganesimo estetizzante che era stato un certo Rinascimento, ma aveva avuto veramente paura di una possibile riforma protestante in Italia. La riforma protestante, infatti, non parlava soltanto ai dotti e agli intellettuali del tempo, ma al popolo. Nello stesso modo la chiesa cattolica, pur avendo messo debitamente all’indice le opere filosofiche di Croce e di Gentile, nonostante il loro continuo proclamarsi di “non potersi non dirsi cristiani”, non aveva mai avuto molta paura né della variante liberale del laicismo, né di quella azionista. Sia il liberalismo che l’azionismo erano infatti palesemente fenomeni ristretti di certi intellettuali. Ma con l’arrivo del “comunismo” in Italia (arrivo non precedente la guerra civile 1943-45, almeno nella sua dimensione di massa) le cose cambiavano. Il comunismo italiano, nella versione togliattiano-gramsciana, sfidava invece la chiesa cattolica sul suo stesso terreno, che era l’egemonia culturale sulle classi popolari.


Il segretario di sezione comunista iniziava sempre la sua relazione dalla cosiddetta “situazione internazionale”. Si trattava spesso di una raffigurazione assolutamente mitico-fantasmatica della realtà sociale, basata sulla metafisica storicistica del progresso, su di una immagine antropomorfica del capitalismo come società dei privilegi di mangioni e “forchettoni”, sull’elaborazione dell’invidia sociale dei subalterni, sul presupposto della supposta incapacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, e su altre sciocchezze positivistiche di questo tipo fatte indebitamente risalire a Marx, eccetera. Sarebbe estremamente facile correggere con una matita rossa e blu le ingenuità populistiche di questo messaggio. Sta di fatto che questo messaggio dava pur sempre della realtà un’immagine razionale e coerente, in grado di spiegare con un certo grado di semplificata approssimazione la storia contemporanea, anzi “il presente come storia” per usare una bella espressione di Paul Sweezy.






6. Tutto questo venne progressivamente meno in Italia nel ventennio 1968-1988. Non intendo scendere in una periodizzazione più precisa e analitica perché mi interessa connotare un processo nella sua interezza temporale evolutiva. In questo ventennio le classi popolari italiane restarono semplicemente senza gruppi intellettuali nel senso egemonico gramsciano del termine, e restarono così politicamente mute. Le facili accuse di populismo, leghismo, razzismo, eccetera, con cui vengono ingiuriate da circa un ventennio, nascondono un maestoso processo di spossessamento e di deprivazione culturale complessiva.


In termini sintetici, il comunismo italiano fra il 1968 e il 1988 si è trasformato culturalmente in una sorta di “azionismo di massa”, ma trasformandosi in azionismo di massa non poteva che cambiare radicalmente codice comunicativo ed egemonico. L’azionismo di massa, combinato con il sessantottismo dei costumi di cui il femminismo è certamente stato una componente particolarmente degenerativa in senso sociale, ha infine preparato il clima dell’ultimo ventennio, un occidentalismo di massa esplicito (antiberlusconismo moralistico ed estetico, diritti umani a bombardamento imperialistico legittimato, eccetera). Una tragedia, e soprattutto una tragedia rimasta in larga parte incomprensibile alle sue stesse vittime, oggetto di una babbionizzazione pianificata dall’alto cui era praticamente impossibile resistere.






7. Possiamo sommariamente connotare la cultura popolare promossa dal PCI, e subordinatamente anche dal PSI, fra il 1948 e il 1968 come una forma di populismo di massa. Del resto, questo era chiaro a tutti gli studiosi del tempo, basti pensare all’Asor Rosa di Scrittori e Popolo. Soltanto negli ultimi vent’anni il “populismo” è diventato un insulto applicato non solo a Berlusconi, ma anche a Chavez. Ma non si tratta che di un mascheramento linguistico del ceto intellettuale integrato e politicamente corretto, e anzi integrato perché politicamente corretto, o se si vuole politicamente corretto perché integrato.


Al ventennio del populismo di massa 1948-1968, seguì il ventennio dell’0azionismo di massa 1968-1988. Non a caso, Norberto Bobbio diventò il principale autore di riferimento dell’ex PCI spodestando completamente Gramsci, diventato autore di cult per i cultural studies delle università anglosassoni. Per comprendere il passaggio dal populismo di massa all’azionismo di massa è utile “rinfrescare” la nostra conoscenza delle fasi di sviluppo del capitalismo.






8. Il principale errore della metafisica di “sinistra” consiste nell’identificazione del capitalismo con la borghesia. In termini spinoziani, questo dà luogo a una antropomorfizzazione del capitalismo, cui sono attribuite di volta in volta caratteristiche antropomorfiche, come la conservazione o il progressismo. In termini hegeliani, questo dà luogo a una esaltazione di tipo weberiano del razionalismo astratto, per cui la razionalizzazione progressiva delle sfere sociali e il loro adattamento al consumo delle merci viene chiamato “modernizzazione”. In termini marxiani, questo significa scambiare la falsa coscienza necessaria dei gruppi intellettuali “modernizzatori” per il fronte scientifico avanzato della coscienza sociale, cui sottomettere con l’educazione i plebei invidiosi rimasti invischiati nel razzismo, nel populismo e nel leghismo.


Secondo la corretta analisi dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, la “sinistra” che conosciamo si è costituita in un ben preciso periodo e in una ormai sorpassata fase dello sviluppo capitalistico. Si è costituita fra il 1870 e il 1968 circa, sulla base di un’alleanza fra la critica sociale alle ingiustizie distributive del capitalismo di cui erano titolari le classi popolari, operaie, salariate e proletarie, e una critica artistico-culturale all’ipocrisia conservatrice della borghesia di cui erano titolari i cosiddetti “intellettuali d’avanguardia”. Questo schema corrisponde abbastanza bene, per quanto concerne l’Italia, al ventennio 1948-1968 e trova ad esempio in Pier Paolo Pasolini un rappresentante significativo.


Con il Sessantotto, una delle date più controrivoluzionarie della storia mondiale comparata, questa alleanza viene meno perché è il capitalismo stesso a liberalizzare i costumi sociali e sessuali in direzione non solo post-borghese , ma addirittura anti-borghese (e ancora una volta il femminismo dei ceti ricchi è solo la punta dell’iceberg).


L’azionismo di massa del ventennio 1968-1988 progressivamente dominante in Italia non è altro che la versione italiana di un fenomeno europeo e mondiale, ma soprattutto europeo, perché Cina, India, Brasile, eccetera, continuano a essere Stati sovrani e non occupati da basi militari USA dotate di armamenti atomici.


Un popolo privato di ogni profilo culturale autonomo è quindi preda di un processo che si può definire sommariamente come “sindrome di demenza generalizzata”. Mi spiace che possa sembrare sprezzante ed offensivo, ma non riesco a trovare altro termine per connotare la perdita totale di un “centro di gravità permanente”, per rifarci all’espressione di un noto compositore.






9. La sindrome di demenza generalizzata insorge quando vengono meno tutti gli schemi dialettici di interpretazione sociale e riguarda tutti, ma assolutamente tutti gli ambiti sociali, in alto e in basso, a destra e a sinistra, anche se ovviamente in forme diverse.


A “destra” la sindrome di demenza generalizzata assume le consuete forme paranoiche. Las paranoia è infatti una malattia soprattutto di “destra”, mentre la schizofrenia è invece una malattia soprattutto di “sinistra”. Prestiamo attenzione a fenomeni degenerativi come il pogrom di gruppi di plebei torinesi delle Vallette (non uso infatti mai la nobile parola di “popolo” per plebi decerebrate e imbarbarite) contro un insediamento di nomadi, o addirittura l’uccisione a freddo di due senegalesi a Firenze da parte di un allucinato paranoico. E’ assolutamente evidente che fatti come questi non devono essere giustificati in alcun modo con contorti argomenti sociologici da bar. E tuttavia essi sono soltanto la punte dell’iceberg di una perdita totale di comprensione del mondo, cui si supplisce con la scorciatoia della paranoia. Naturalmente il concerto politicamente corretto non è in grado di spiegare questi fenomeni di alienazione paranoica, perché si culla con i rassicuranti stereotipi del fascismo, nazismo, populismo, leghismo, revisionismo, negazionismo, eccetera. Ma la cura di queste sindromi di demenza generalizzata non può consistere in geremiadi moralistiche.


Ho già notato come la sindrome di demenza assuma a “sinistra” aspetti più simpatici e politicamente corretti perché solo schizofrenici e non paranoici (Monti è buono, ma la manovra è cattiva; Monti è buono perché rispetta le donne a differenza del laido puttaniere, eccetera). Certo, le scemenze non violente sono pur sempre meglio delle scemenze violente, ma scemenze restano e resta il problema della opacità sociale, cioè di un sistema di cui si è completamente perduta la chiave d’interpretazione. Ma non c’è nessuna chiave, dicono gli intellettuali pagliacci di regime alla Umberto Eco, e bisogna abituarsi a vivere gaiamente senza più nessuna chiave. Ma le grandi masse popolari, appunto, non possono vivere a lungo senza alcuna chiave interpretativa della riproduzione sociale, pena la caduta in sindromi di demenza generalizzata. E di questa bisogna quindi parlare.






10. Vi è un interessante passo, credo di John Reed, che può aiutarci a impostare la questione della demenza sociale generalizzata. Reed parla con un “soldato rosso” dopo il 1917 che gli dice: “I bolscevichi sono buoni perché ci hanno dato la terra. Sono invece i cattivi comunisti che ce la vogliono togliere”. Ora, è inutile assumere la spocchia della persona colta che sa che bolscevichi e comunisti sono in realtà le stesse persone. Ciò che invece conta è il modo in cui erano percepite da chi aveva tutto il diritto di non conoscere le teorie di Marx e del conflitto fra tattica bolscevica e strategia comunista.


Monti piace, mentre le sue manovre no, perché si pensa che esse colpiscano sempre i “soliti noti”. Errore. Colpiscono anche le libere professioni “borghesi” consolidate e organizzate da almerno due secoli di civiltà borghese. Naturalmente, Berlusconi si era fatto votare per “fare la rivoluzione liberale”, ma questa rivoluzione liberale, oggi come oggi, colpisce il 95% delle persone e ne salva invece solo il 5%. I vari Giavazzi e Alesina non sono affatto “liberali”, come opinano i lettori ingenui del Corrierone, ma sono solo “maschere di carattere” (le marxiane charaktermasken) di un processo anonimo e impersonale di globalizzazione liberista. Questo processo non può presentarsi apertamente nella sua concreta natura che chiamare “nazista” è dire poco. Si tratta di una società del lavoro flessibile, precario e temporaneo generalizzato, della fine di ogni democrazia e di ogni sovranità nazionale, di un interventismo imperiale continuo fatto in nome di generici “diritti umani” ad arbitrio assoluto, e della stessa fine dell’Europa come centro autonomo di civiltà non ancora del tutto “occidentalizzato”.


In un simile quadro la demenza sociale riflette l’opacità della riproduzione sociale, e assume toni schizofrenici a sinistra e paranoici a destra, anche se di diverso grado di pericolosità criminale. A sinistra, un antifascismo paranoico in totale assenza di fascismo. A destra, l’ennesima stucchevole tendenza a prendersela con i soliti capri espiatori, i nomadi, i negri, gli immigrati, eccetera. Questa demenza non verrà meno fino a che una nuova credibile interpretazione della natura degli avvenimenti in corso, e cioè del “presente come storia”, sostituirà gli spettacoli schizofrenici e paranoici in corso. I pazzi di Oslo e di Firenze non possono essere previsti. Il casuale in quanto tale è necessario, scrisse Hegel. Ma la reintroduzione della razionalità storica nella politica, questa sì, sarebbe possibile.


Torino, 17 dicembre 2011

giovedì 22 dicembre 2011

Fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo? 



di Eugenio Orso

Il passaggio da un vecchio modo storico di produzione dominante al nuovo ha richiesto per compiersi, nel corso della storia umana, tempi plurisecolari nonché trasformazioni culturali, economiche e sociali rilevanti.


La storia ha traghettato attraverso i secoli le popolazioni europee nel lungo passaggio dal feudalesimo al capitalismo, così come questione di secoli è stato l’avvento del feudalesimo che ha fatto seguito al modo di produzione schiavistico.


In questi ultimi decenni, però, le trasformazioni si sono progressivamente velocizzate, grazie all’azione congiunta della tecnoscienza e del cosiddetto sviluppo economico.


Così, dopo circa un trentennio di rapide e profonde trasformazioni culturali, politiche, ed economiche, che hanno inciso in profondità sul dato antropologico e su quello sociale, si sta realizzando il passaggio dal capitalismo del secondo millennio al Nuovo Capitalismo finanziarizzato, destinato a diventare il modo di produzione dominante.


Nel nostro presente storico non stiamo vivendo un semplice cambiamento di fase capitalistica, per quanto travagliato e gravido di eventi negativi, ma possiamo osservare l’inizio di una nuova era.


Eppure, complice la crisi globale che ha investito come un onda d’urto le vecchie strutture sociali sopravviventi, c’è qualcuno che in relazione a questo capitalismo in via d’affermazione già parla di collasso e di conseguente cambiamento epocale.


Le dinamiche finanziarie innescate dai meccanismi riproduttivi neocapitalistici, in effetti, sembrano portare al disastro, sia dal punto di vista economico e sociale sia da quello ambientale, e nessun governo, a partire dall’amministrazione federale americana, ha provveduto sinora ad imbrigliarle, per tentare di metterle sotto controllo.


Il che implicherebbe sicuramente il ritorno alle logiche del capitalismo del secondo millennio, alla “cura” keynesiana, all’interruzione, o quantomeno al rallentamento, dei processi di globalizzazione economica e finanziaria, che sono di esiziale importanza per l’affermazione del nuovo modo storico di produzione e per la sua riproduzione allargata.


Ma un ritorno al capitalismo postbellico novecentesco – oltre a non sembrare possibile, giunti a questo punto, richiederebbe un esteso consenso fra i membri della classe dominante, e la nuova Global class capitalistica, nata e cresciuta nella progressiva affermazione del neoliberismo e della globalizzazione dei mercati, non potrebbe mai accettarlo.


Al contrario, la classe globale ha voluto l’invasione e l’occupazione dell’Italia, con l’imposizione di un governo fantoccio, per preservare i meccanismi riproduttivi del Nuovo Capitalismo ed eliminare le resistenze all’avanzata neoliberista, che ormai è travolgente.


Non potranno più esistere “isole”, nel mondo occidentale, in cui sopravvivono consistenti tracce del vecchio capitalismo, ed in cui sono ancora possibili significative deviazioni dal modello neoliberista dominante.


Gli scopi dei governi liberaldemocratici soggetti al potere globalista sono di distruggere le sopravvivenze keynesiane, i residui di stato sociale e i diritti dei lavoratori, di soffiare sul fuoco dello scontro generazionale fra giovani precari e anziani tutelati, togliendo le tutele agli stabilizzati senza dare nulla ai precari, di distruggere il sistema pensionistico, di costringere i subordinati a lavorare fino alla morte con l’inganno dell’elevarsi della vita media (mentre quella massima, cruciale a tale riguardo, resta immutata), di privatizzare anche laddove non è necessario, di mantenere la precarietà e di creare disoccupazione per sostituire al profilo produttore/ consumatore quello del precario/ escluso, di mettere in liquidazione il patrimonio pubblico e di indebolire lo stato, come accade in queste settimane in Italia con l’osceno governo fantoccio di Monti (e Napolitano).


Paesi come l’Italia, che hanno già perduto la sovranità monetaria, perdono completamente anche quella politica e subiscono nell’inerzia di massa (almeno per ora) la tirannide liberista della classe globale.


Dovrebbe essere ormai chiaro anche ai più distratti che un governo come quello di Papademos, o come quello di Monti, non rappresenta il popolo (greco, italiano) o comunque una parte significativa anche se minoritaria di esso, ed anzi agisce contro il popolo, contro lo stato, contro le vecchie istituzioni.


La cosa più lontana dall’interesse collettivo, se mai questo è esistito, è il programma di un simile governo, che si regge sulla minaccia, sulla paura, sul ricatto e sull’inganno.


Agli italiani, quindi, Monti dovrebbe apparire come il peggiore fra i distruttori, in questo confortato dai suoi sodali Draghi e Napolitano.


Ma la sua, in fondo, è pur sempre “distruzione creatrice”, in quanto portatore del nuovo per conto degli unici veri referenti che ha e ai quali deve rispondere: i membri della classe globale.


Ed il nuovo può pur essere terribile, ma rappresenta la realizzazione concreta, con costi sociali che presto si riveleranno insopportabili, del modello di capitalismo vincente.


La “distruzione creatrice” di Monti e del suo esecutivo sta proprio nella disintegrazione del welfare e nella proliferazione dell’iniquità sociale (nuovo ordine sociale fondato sulla dicotomia Global class/ Pauper class), come nel porre interamente al servizio di Mercati e Investitori l’Italia e l’intero apparato produttivo nazionale, sottomettendo la sua popolazione, privata della possibilità di disporre delle risorse nazionali, alla nuova classe dominante neocapitalistica.


In tal senso, l’euro ha rappresentato il cavallo di troia globalista per depotenziare e poi ridurre a completa impotenza (o quasi) gli stati nazionali, ma il Quisling Monti, spalleggiato dal tristo Napolitano aduso alla menzogna e al tradimento (anzitutto quello dell’ideale comunista), opera ufficialmente per far restare l’Italia nell’Europa fasulla dell’Unione e per la difesa a spada tratta dell’euro maligno.


La “crescita”, tanto santificata anche da questo governo, è un mero pretesto per scardinare l’ordine sociale attraverso le contro-riforme globaliste e per “aprire” l’Italia ancor di più al mercato, riducendo gli spazi di intervento pubblico nell’economia (e le iniziative a difesa dell’industria e dei prodotti nazionali), fino a completa estinzione.


Questi passaggi, che avranno effetti terribili su almeno tre quarti della popolazione italiana, sono indispensabili per l’adozione senza riserve del modello capitalistico neoliberista estremo.


Perciò Mario Monti, in un certo senso, “sta facendo soltanto il suo dovere” – così come lo facevano i comandanti dei campi di Treblinka e Dachau nello scorso secolo, e quanto più massacrerà gli italiani (anziché ebrei, zingari, armeni, disabili, dissidenti ariani, eccetera), riducendoli all’impotenza per gli anni a venire, quanto più sottrarrà risorse al collettivo rendendole disponibili per la creazione del valore finanziario, azionario e borsistico, tanto più la sua azione di governo avrà avuto successo.


Dopo Monti e dopo il completamento della sua opera, fatta la frittata senza una concreta possibilità di tornare alle uova, si concederanno “finalmente” le elezioni, perché questo rito, ad alto contenuto simbolico, è ancora importante per sostenere il sistema politico liberaldemocratico e per ingannare le masse, purché non interferisca – sia ben chiaro, con le decisioni politico-strategiche che veramente contano (moneta, finanza, spesa pubblica, welfare), rallentandole o vanificandole.


Se questo è il contesto in cui siamo costretti a muoverci, e in cui ci muoveremo nel prossimo futuro, le speranze di rapida estinzione dell’euro o addirittura di collasso del capitalismo finanziario mondiale che affiorano negli ambienti alternativi, sembrano non avere troppa consistenza, almeno per quanto riguarda il breve-medio periodo, ed anzi è probabile che vicende come quella italiana possano chiudersi con un successo globalista e neoliberista,


Inoltre, potrebbero non esserci improvvise precipitazioni degli eventi – una guerra non convenzionale contro l’Iran, ad esempio, con il coinvolgimento di Russia e Cina, tali da compromettere la riproduzione sistemica.


L’Italia è ormai un paese occupato, l’esperimento greco si è concluso con successo ed è probabile che seguiranno altre occupazioni senza l’uso dello strumento militare, per “normalizzare” quanto meno l’Europa e l’occidente.


Perciò, possibilità concrete di fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non se ne vedono ancora all’orizzonte, ma le strade future da seguire a tale scopo, nel medio-lungo periodo quando si arriverà ad un ennesimo bivio storico, saranno almeno due, l’una alternativa all’altra:


1) Quella rivoluzionaria anticapitalista e anti(liberal)democratica, oggi impensabile e per la quale è necessario che la situazione sociale precipiti ancora e l'impoverimento vero morda alle chiappe gran parte del cosiddetto ceto medio, che oggi è il vero obbiettivo delle controriforme neocapitalistiche.


2) Quella rappresentata dal ritorno al keynesismo assistenziale, con accentuati lineamenti antiliberisti, caratterizzata da un’economia dal lato della domanda, dall’esaltazione del ruolo della spesa pubblica destinata a sostenere consumi e investimenti, dalla ridistribuzione dei redditi, dall’interventismo statale nell'economia, dalla nazionalizzazione non più ostracizzata delle banche e della grande industria, dalla distruzione dei potentati finanziari privati, dall’"eutanasia del redditiero" che si ingrassa fidando sul valore della scarsità del capitale, come scrisse con intima soddisfazione J.M. Keynes nella General Theory, e da altri elementi ancora. Questa ultima possibilità – ossia il ritorno a Keynes, non sarebbe altro che un tentativo di “ritorno al passato”, e cioè all’età dell’oro (i trenta gloriosi anni) dello storico ebreo di formazione marxista Eric Hobsbawm (all'incirca il trentennio 1945-1975), e non implica come quella rivoluzionaria la fuoriuscita dal capitalismo verso il nuovo e l’ignoto, in quanto si tratta dell'unico riformismo mostratosi efficace, in grado di produrre effetti sociali moderatamente emancipativi e nel contempo di mantenere in piedi il capitalismo. Ma questo “ritorno al passato” sembra quanto mai improbabile, soprattutto nel breve, perché la maggioranza degli economisti, degli intellettuali e degli accademici – valletti ideologici della classe globale ed untori ultraliberisti, è schierata dall'altra parte, mentre i veri keynesiani, come i marxisti novecenteschi, gli sraffiani ed altri, rappresentano una minoranza destinata all'estinzione. Inoltre, una riproposizione della riforma keynesiana non incontrerebbe alcun gradimento, nei centri di potere che veramente contano (oggi controllati dalla classe globale), e gli economisti arditamente riformisti non troverebbero alcun referente di alto profilo disposto ad appoggiarli e ad accogliere le loro tesi.


Dovrebbe apparire a tutti fin troppo chiaro, non soltanto in Italia, ma in buona parte dell’Europa e dell’occidente, che “la Rivoluzione può attendere” ancora a lungo e che la fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non è certo dietro l’angolo.

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giovedì 15 dicembre 2011

MOVIMENTO POPOLARE DI LIBERAZIONE
PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE
LA VIA MAESTRA E' IL SOCIALISMO



(Bozza di Manifesto del M.P.L.)




Rompendo gli indugi

L’Assemblea di Chianciano Terme del 22-23 ottobre “Fuori dal debito! Fuori dall’Euro” adottò per acclamazione una mozione che istituiva un «Comitato di coordinamento nazionale provvisorio con l’incarico di preparare una seconda assemblea entro la fine di gennaio 2012», e di stilare, in vista di quest’ultima, «una bozza di Manifesto».


Alla nostra prima riunione, svoltasi il 5 novembre, oltre a confermare l’impegno a scrivere e proporre alla prossima assemblea il Manifesto, abbiamo anche indicato la necessità di andare verso la costituzione di un nuovo soggetto politico, il Movimento Popolare di Liberazione.


Il 17 novembre, mentre ci apprestavamo a scrivere il Manifesto, la crisi economica e politica subiva l’accelerazione che sfociò nelle dimissioni del governo Berlusconi e nell’insediamento di quello Monti. Ci sembrò doveroso indicare che si trattava «una congiura ordita dal grande capitalismo finanziario internazionale», e che il paese passava «dalla padella alla brace». Per questo diffondemmo un «Appello al popolo lavoratore», segnalando come urgente il compito di formare un ampio Fronte di resistenza. In quell’Appello indicammo i sette punti di un «programma d’emergenza» per fermare Monti, per «dare uno sbocco all’opposizione sociale diffusa ma ancora incerta e frammentata... affinché si candidasse a guidare il paese per portarlo fuori dall’abisso».


Centinaia sono stati i cittadini che, sottoscrivendo quell’Appello, hanno sottolineato la volontà di aderire.


I fatti hanno superato i più foschi timori. La manovra economica del nuovo governo, giustificata con l’obbligo di “onorare il debito”, non solo è senza precedenti, è concepita come una puntata di un massacro sociale senza fine.


Gli eventi recenti se ci dicono che è urgente costruire un ampio Fronte di resistenza per contrastare Monti e fermare l’offensiva antipopolare, ci confermano che è necessario dare vita ad un nuovo movimento politico. Non ci saremmo decisi a compiere questo passo se fossimo vissuti in tempi ordinari, e se fosse esistita una forza solida e coerente capace di interpretare la fase politica attuale e che avesse ideee e proposte all’altezza della gravissima situazione che viviamo.


Che ci sia bisogno di un nuovo movimento politico, ciò è avvertito da larghi settori del popolo lavoratore che ormai da troppo tempo si trova senza un soggetto di riferimento credibile e certo.


Rompiamo così gli indugi e, tenendo fede alla promessa, proponiamo questo Manifesto [che alleghiamo affinché ognuno possa farlo circolare e stamparselo per leggerlo con la dovuta attenzione].


Fronte ampio di resistenza e movimento politico, com'è ovvio, non sono la stessa cosa.


Un’allenza sociale per far fronte all’emergenza è tanto più forte e ha tante più possibilità di vincere, quanto più è ampia, e per questo essa deve fondarsi su pochi e semplici obbiettivi.


Un Movimento politico degno di questo nome deve invece avere un programma di più ampio respiro, una visione d’insieme, un progetto di alternativa di società, che noi indichiamo appunto nel socialismo.


Speriamo di esserci riusciti con questo Manifesto .
Lo sottoponiamo dunque alla attenzione di coloro i quali, dopo l’Assemblea di Chianciano Terme, sono stati solidali con le nostre battaglie ed hanno espresso interesse a partecipare alla prossima Assemblea del 4-5 febbraio 2012.


Assemblea costituente, non costitutiva, ad indicare il suo carattere aperto a chiunque, condivise le linee generali del Manifesto, volesse unirsi a noi per dare vita, nei tempi e nei modi che comunemente verranno decisi, al MPL.*


Per il Comitato di Coordinamento dell’Assemblea di Chianciano Terme
Massimo De Santi, Leonardo Mazzei, Moreno Pasquinelli.
15 dicembre 2011


* Avremmo voluto svolgere l’Assemblea del 4-5 febbraio a Roma. I costi esorbitanti che ognuno avrebbe dovuto affrontare ci costringono a tornare a Chianciano Terme. Il costo approssimativo del soggiorno per sabato e domenica è di 60 € cadauno. Invitiamo fin da ora chi deve e vuole partecipare a segnalarcelo. La sua richiesta sarà considerata valida come prenotazione.



PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE
LA VIA MAESTRA E' IL SOCIALISMO
(Bozza di Manifesto)


Il capitalismo è come una trottola, può tenersi in equilibrio solo se gira vorticosamente attorno al proprio asse. Per ruotare ha bisogno di due fattori: una spinta che gli imprima movimento e una superficie perfettamente piana. Se viene a mancare anche solo uno di questi due fattori essa smette di ruotare, si accascia al suolo e si arresta.
La trottola del capitalismo occidentale sta schiantando perché la sua forza di spinta è venuta a mancare proprio mentre avrebbe dovuto accrescere a causa della superficie diventata accidentata, essendo la spinta il profitto e la superficie il mercato mondiale.




Il gioco vale la candela?


La forza motrice che muove lo sviluppo capitalistico non è il bene comune ma il profitto, il bene privato di chi detiene il capitale. Quando non può accrescere il profitto il capitale arresta la sua corsa, smette di investire, blocca la produzione, smantella impianti e dunque licenzia, crea disoccupazione, getta nella miseria anzitutto chi non ha altre risorse se non quella di vendere al miglior offerente la propria capacità lavorativa.
Queste recessioni cicliche, connaturate al capitalismo, vengono chiamate “crisi”. Ogni fase di espansione è seguita da una inevitabile contrazione. Alcune di queste crisi sono però più profonde, sono sistemiche, investono la gran parte dei settori economici e possono sfociare in depressioni di lungo periodo. Le conseguenze sociali e geopolitiche possono essere devastanti: pauperismo di massa, inasprimento dei conflitti sociali, caduta di governi e regimi, guerra aperta tra gli stati.
Con simili sconquassi vanno al tappeto i due dogmi che sorreggono l’ideologia dominante: quello per cui il capitale, facendo i propri interessi, realizza quelli di tutti, e quello per cui il “libero” mercato è il luogo che meglio assicura e distribuisce il benessere. La società è quindi costretta, quando il capitalismo mette in luce i suoi limiti congeniti, a considerare il rapporto tra i costi e i benefici del sistema, e ove decidesse che il gioco non vale la candela, a cercare una via d’uscita e a sperimentare nuovi modelli sociali e di vita.


Il boomerang


Di portata epocale fu la crisi che il capitalismo occidentale conobbe negli anni ’70 del secolo scorso. La tenace resistenza proletaria all’interno, l’avanzata delle lotte di liberazione dei popoli oppressi e l’esistenza del “blocco socialista” non consentirono al capitalismo di ricorrere alle vecchie terapie. La risposta alla crisi fu la globalizzazione.
All’interno: smantellamento delle protezioni sociali, privatizzazioni delle aziende e dei servizi pubblici, frantumazione delle grandi roccaforti industriali, precarizzazione del lavoro, agevolazione dei flussi migratori, lento abbassamento dei salari e dei redditi, boom del credito per sorreggere il consumismo di massa.
All’esterno, in classico stile coloniale, rapina sistematica delle risorse dei paesi poveri (non solo di materie prime, appunto, ma pure di forza-lavoro, manuale e intellettuale) e, grazie al ruolo guida imperiale degli Stati Uniti, aggressioni, guerre e pressioni di ogni tipo per soggiogare interi paesi e spazzare via i regimi considerati ostili. L’imperialismo, al prezzo di prosciugare le sue casse, ha vinto la “guerra fredda” e rovesciato regimi nazionali considerati “canaglia”, ma ciò ha prodotto nuovi esplosivi squilibri regionali e mondiali.
Il tutto nel quadro di una deregolamentazione sistematica dei mercati, dell’abbattimento di ogni barriera ai movimenti di capitale, della competizione selvaggia tra multinazionali e aziende, paesi e aree economiche. Questa globalizzazione dei mercati, che le potenze occidentali hanno tenacemente perseguito fino a spazzare via ogni ostacolo, si è rivelato un boomerang. L’ampia superficie piana per far girare la trottola si è trasformata in un terreno minato.


Il fallimento


La globalizzazione ha infatti prodotto alcuni effetti macroscopici.
Essa ha fatto emergere nuove potenze economiche, Cina in primis, che sfidano oramai apertamente quella supremazia che l'occidente - nel disperato tentativo di evitare un inesorabile declino - cerca di difendere in ogni modo, anche a rischio di nuove gravissime tensioni geopolitiche.
Al contempo la globalizzazione ha sprofondato nella recessione una serie di paesi poveri privi di materie prime, portando centinaia di milioni di persone alla fame, di qui grandi rivolte sociali, come quelle che hanno portato alla caduta di regimi totalitari nei paesi arabi.
Ma una delle conseguenze è che anche l’Occidente si è impoverito. I capitali occidentali, privi di freni, sono fuggiti via per fare razzie nei nuovi territori di caccia. In virtù dei bassi salari, dei regimi neoschiavistici di sfruttamento e repressione, dei sistemi fiscali di vantaggio dei paesi presi di mira, le imprese occidentali hanno accumulato enormi guadagni.
Questi tornavano sì in Occidente ma per finire nella grande bisca del capitalismo casinò, per essere gettati nel gioco d’azzardo di una speculazione finanziaria fondata sul debito. Somme colossali venivano offerte in prestito ai cittadini per sorreggere domanda interna e consumi in calo a causa della caduta del potere d’acquisto dei salari, e agli stati per puntellare i loro bilanci falcidiati da scellerate politiche privatizzatrici. In questo tritacarne sono quindi finiti gli Stati e le banche centrali. I primi accettando di gettare i debiti sovrani nei mercati finanziari internazionali, le seconde o stampando a tutto spiano carta moneta per sorreggere banche fallite o in procinto di fallire. Questo sollazzo non poteva durare all’infinito: moneta, obbligazioni e titoli per quanto simboli astratti sono pur sempre espressione di valori reali, sempre tenendo conto che il lavoro e la natura sono le due sole fonti da cui sgorga la ricchezza di una società.


Mutamenti epocali


La finanziarizzazione liberista dell’economia ha agito come una droga. Per sopravvivere il capitale aveva bisogno di dosi sempre più massicce di liquidità, acquistando dalle banche centrali denaro a basso costo per poi lucrare rivendendolo a tassi usurai. Ma nella bisca, il gioco è sempre a somma zero: a fronte di chi vince, c’è sempre qualcun altro che perde. Chi ci ha rimesso le penne è stato anzitutto il lavoro salariato, che in tre decenni si è visto scippato di buona parte delle sue conquiste ed ha subito una drastica riduzione della quota di reddito sociale a sua disposizione; scippo compensato dall’elargizione di crediti che hanno trasformato buona parte dei lavoratori in debitori permanentemente sotto ricatto.
La globalizzazione ha quindi indotto profonde trasformazioni nel corpo stesso delle società occidentali, sia in alto che in basso.
In alto: la rendita, ovvero il capitale finanziario speculativo (denaro che si accresce senza passare per il ciclo produttivo di merci) ha preso il sopravvento su quello industriale; e in esso il vero dominus è diventato il settore bancario predatorio (banche d’affari); in seno alla classe capitalista sono diventati prevalenti i ceti parassitari che vivono di rendita; gli stati nazionali sono stati privati della loro sovranità politica; parlamenti e governi, espropriati delle loro prerogative, sono diventati passacarte; i partiti si sono trasformati in meri comitati d’affari, selettori dei funzionari al servizio dell’oligarchia.
In basso i mutamenti non sono stati meno profondi. Il dato fondamentale è che al crollo del lavoro produttivo è corrisposta la crescita di quello improduttivo o direttamente parassitario. Il processo di deindustrializzazione e di smantellamento dei settori statali ha causato un vero e proprio sfaldamento del tessuto sociale. Scomparsi o quasi i grandi poli industriali, gran parte del lavoro è stato appaltato a piccole e medie aziende, dove i salari sono più bassi ed è molto più difficile per i lavoratori tutelare i propri interessi. Allo smembramento della vecchia classe operaia industriale è corrisposta la crescita dei settori impiegatizi, di mestieri del tutto nuovi, di lavori socialmente necessari ma spesso improduttivi. Il posto fisso ormai è stato in gran parte rimpiazzato dal lavoro precario e flessibile. Le conseguenze sono state devastanti: un disgregazione sociale senza precedenti causa prima dell’implosione dei tradizionali vincoli comunitari e dei tessuti aggregativi, e il sopravvento di un’ideologia individualistica pervasiva, refrattaria ad ogni istanza solidale e collettiva.


La crisi italiana


Nella crisi globale dell’Occidente imperialistico c’è la specifica crisi dell’Unione europea e dentro quest’ultima la crisi italiana. Essa si presenta come un processo che vede coinvolti simultaneamente l’economia, le istituzioni repubblicane, la società civile. All’evidente incapacità della classe dominante di governare il paese (il cui sfascio è emblematico), fa da contraltare la totale inadeguatezza delle classi subalterne a conformare un’alternativa. L’ingresso nell’Unione europea e l’adozione dell’euro, che le classi dominanti avevano pervicacemente perorato come la maniera per porre fine alle strutturali distorsioni italiane, si sono rivelati invece un fiasco totale. La sostanziale cessione di sovranità, monetaria, politica e istituzionale —accettata fideisticamente dalla classe dirigente italiana ma non da quelle tedesche e francesi, né tanto meno dai paesi che come il Regno Unito hanno rifiutato di accettare l’euro— ha finito per aggravare tutti gli squilibri, all’esterno come all'interno.
In questo contesto, l’inevitabile crollo dell’Unione e dell’euro rischiano di essere un evento catastrofico, le cui conseguenze più pesanti verranno fatte pagare al popolo lavoratore, privato oramai di ogni autodifesa.
L’alternativa secca è tra il subire questa catastrofe sociale —che non è un singolo evento fatidico, ma un processo già in atto— o sollevarsi per un vero e proprio cambio di sistema. Se questo rivolgimento non ci sarà presto, il paese sarà ridotto in macerie, col rischio che la miseria generale possa causare un devastante conflitto tra poveri ed infine lasciare spazio ad avventure populiste e reazionarie, animate da una borghesia che tiene sempre in serbo primigenie pulsioni reazionarie, senza nemmeno escludere l’eventualità di uno sgretolamento dello Stato-nazione. Conflitti aspri saranno inevitabili, così come una polarizzazione di forze contrapposte.
Di sicuro la crisi sprigionerà grandi energie sociali, energie che questo sistema politico marcio sarà incapace di ammansire e rappresentare. Queste forze sono la sola leva su cui si possa fare affidamento per cambiare radicalmente questo paese. Vanno quindi alimentate, aiutate ad emergere. Bisogna dare loro una consistenza politica, uno sbocco, una prospettiva. Per farlo non è sufficiente affermare dei no, occorre anche indicare quale possa essere l’alternativa, il nuovo modello sociale.
Questo è esattamente il compito che ci proponiamo come Movimento Popolare di Liberazione (MPL). Esso non consiste anzitutto nell’accendere fuochi di conflitto sociale, poiché essi già esistono come risultato di una resistenza diffusa che scaturisce da condizioni oggettive. Il compito nostro è quello di risvegliare le coscienze sopite, di chiamare a raccolta le migliori intelligenze, di raggruppare e dunque di far scendere in campo centinaia e migliaia di cittadini che di fronte alla miseria sociale e politica generale, sono decisi a prendersi ognuno la propria responsabilità, fino a quella di battersi per rovesciare lo stato di cose esistenti.

Fronte ampio e governo popolare


Parallelamente alla fondazione di una nuova forza politica, il MPL, noi ci battiamo per unire tutte le forze che avvertono la minaccia incombente e che non solo si limitano ad opporre dei no, ma che vogliono sfidare le classi dominanti avanzando soluzioni efficaci e realistiche per portare il paese fuori dal marasma. Si tratta quindi di attivare un Fronte ampio che sappia candidarsi alla guida del paese per dar vita a un governo popolare di emergenza. Tanti sono i problemi, numerose le trasformazioni sociali necessarie, ma esse fanno capo a poche misure sostanziali.


- Abbandonare l’euro per riprenderci la sovranità monetaria.
L’euro ci fu presentato come una panacea per curare i mali strutturali dell’economia italiana (tra cui l’alto debito pubblico e una competitività fondata solo sui bassi salari) e risolvere gli squilibri tra gli Stati comunitari. A dieci anni di distanza non solo il debito pubblico è aumentato, ma l’economia è in stagnazione e la competitività è diminuita. Le politiche antipopolari di austerità perseguite da tutti i governi, presentate come necessarie per restare nell’Unione e difendere l’euro si sono dimostrate del tutto inutili, se non nel fare dell’Italia un paese più povero. L’euro e i principi di Maastricht hanno accresciuto gli squilibri in seno all’Unione europea, determinando uno spostamento di risorse dall’Italia verso i paesi più “virtuosi”, la Germania anzitutto, che non hai mai messo i suoi propri interessi nazionali dietro a quelli comunitari.
La ricchezza di un paese non dipende certo dalla moneta, ma dal lavoro che la crea, e poi da come essa viene distribuita. La moneta è tuttavia una leva per agire sul ciclo economico, un mezzo per decidere come viene distribuita la ricchezza sociale. Un paese che non disponga della sovranità monetaria, tanto più se alle prese con la speculazione finanziaria globalizzata, è come una città assediata priva di mura di cinta. Occorre ritornare alla lira, ponendo la Banca d’Italia sotto stretto controllo pubblico, affinché l’emissione di moneta sia funzionale all’economia e al benessere collettivo e non alle speculazioni dei biscazzieri dell’alta finanza.


-Nazionalizzare il sistema bancario e i gruppi industriali strategici.
Agli inizi degli anni ’80 venne permesso alle banche italiane, in ossequio ai dettami neoliberisti, di diventare banche d’affari, di utilizzare i risparmi dei cittadini per investirli e scommetterli nella bisca del capitalismo-casinò. Prese avvio una politica di privatizzazione delle banche e di concentrazione, che ha coinvolto anche gli enti assicurativi, gettatisi voraci sul malloppo dei fondi pensione. Banche e assicurazioni sono oggi le casseforti che custodiscono gran parte della ricchezza nazionale. Esse debbono essere nazionalizzate, affinché questa ricchezza, invece di partecipare al gioco d’azzardo finanziario, sia utilizzata per il bene del paese. Debbono poi ritornare in mano pubblica le aziende di rilevanza strategica, sottraendole agli artigli dei mercati finanziari e borsistici come dalla logica perversa del profitto d’impresa.
Contestualmente andrà rafforzata la gestione pubblica dei beni comuni come l’ambiente, l’acqua, l’energia, l’istruzione, la salute.


- Per una moratoria sul debito pubblico e la cancellazione di quello estero
Il debito pubblico accumulato dallo Stato è usato da un decennio come la Spada di Damocle per tagliare le spese sociali, giustificare le misure d’austerità ed una tra le più alte imposizioni fiscali del mondo. Esso è diventato fattore distruttivo da quando, agli inizi degli anni ’90, i governi hanno immesso i titoli di debito nella giostra delle borse e dei mercati finanziari internazionali. Da allora i creditori divennero i fondi speculativi, le grandi banche d’affari estere e italiane. Il debito pubblico, gravato di interessi crescenti, non è niente altro che un drenaggio di risorse dall’Italia verso la finanza speculativa, banche italiane comprese.
Per questo riteniamo ingiusto, antipopolare e suicida per il futuro del paese fare del pagamento del debito un dogma. La rinascita dell’Italia richiede la protezione dell’economia nazionale dal saccheggio dei predoni della finanza imperialista. Ciò implica impedire ogni fuga di capitali verso l’estero, incluso il pagamento del debito estero perché esso non è altro che una forma di espatrio legalizzato, di rapina autoinflitta. Non rimborsare gli strozzini della finanza globale non è una opzione, ma una necessità.
Non solo è ingiusto, ma in base al rapporto costi/benefici è economicamente irrazionale tentare di rispettare la clausola del Trattato di Maastricht che impone un rapporto debito/Pil non superiore al 60%. Ciò implica ripetere per ben 25 anni, e non è detto che sia sufficiente a causa della depressione economica, manovre d’austerità da 30 miliardi all’anno.
Sbaglia dunque chi si fa spaventare dagli strozzini che evocano lo spauracchio del “default”. Il male minore per l’Italia è un default programmato e pianificato, una moratoria e dunque una rinegoziazione del debito, che i creditori dovranno accettare, pena il ripudio vero e proprio. Per quanto riguarda il debito con le banche e le assicurazioni italiane, dal momento che saranno nazionalizzate, esso sarà de facto cancellato. Il solo debito pubblico che lo Stato rimborserà, a tassi e scadenze compatibili con le esigenze della rinascita economica e sociale del paese, sarà quello posseduto dalle famiglie italiane.


- Debellare la disoccupazione con un piano nazionale per il lavoro
La natura e il lavoro sono le sole fonti da cui sgorgano il benessere e la ricchezza sociale. Proteggere l’ambiente e assicurare a tutti i cittadini un lavoro sono le due priorità di un governo popolare. Ciò implica che esso, liberatosi dal feticcio della cosiddetta “crescita economica” misurata in Pil, dovrà sottomettere l’economia, pubblica e privata, alla politica, ovvero ad una visione coerente della società, in cui al centro ci siano l’uomo e la sua qualità della vita. Non si vive per lavorare ma si deve lavorare per vivere. Si produrrà il giusto per consumare il necessario. Solo così si potrà uscire dalla trappola produzione-consumo per affermare un nuovo paradigma produzione-benessere.


- Uscire dalla NATO e dall’Unione europea, scegliere la neutralità.
Attraverso la NATO l’Italia è incatenata ad un patto strategico che oltre a farla vassalla dell’Impero americano, la obbliga a seguire una politica estera aggressiva, neocolonialista e guerrafondaia. Uscire dalla NATO e chiudere le basi e i centri strategici militari americani in Italia è necessario per riacquisire la piena sovranità nazionale, scegliere una posizione di neutralità attiva e una politica di pace. L’uscita dall’Unione europea, inevitabile se si ripudiano, come occorre fare, i Trattati di Maastricht e di Lisbona, non vuol dire chiudere l’Italia in un guscio autarchico, al contrario, vuol dire puntare a diversi orizzonti geopolitici, aprendosi alla cooperazione più stretta con l’area Mediterranea, stringendo rapporti di collaborazione con l’America latina, l’Africa e l’Asia.


- Rafforzare la Costituzione repubblicana per un’effettiva sovranità popolare
La cosiddetta “Seconda repubblica” si è fatta avanti calpestando i dettami della carta costituzionale. L’abolizione delle legge elettorale proporzionale, il bipolarismo coatto, i poteri crescenti dell’Esecutivo, la trasformazione del Parlamento in un parlatoio per replicanti spesso corrotti, erano misure necessarie per assecondare i torbidi affari di banchieri e pescecani del grande capitale, nonché per sottomettere il paese e la politica ai diktat e agli interessi della finanza globale. La Costituzione va difesa contro i suoi rottamatori, se necessario dando vita ad una Assemblea costituente incaricata di rafforzarne i dispositivi democratici a tutela della piena ed effettiva sovranità popolare.

Sovranità nazionale e socialismo


Non vediamo oggi, in seno alle classi dominanti italiane componenti disposte a battersi sul serio per uscire dall’Unione europea, sganciare l’Italia dalla morsa della globalizzazione liberista per ricollocarla dentro nuovi scenari geopolitici. Ove domani si manifestassero il popolo lavoratore non dovrebbe esitare a costituire un’alleanza comune.
Compito pressante dell’oggi è costruire un fronte ampio del popolo lavoratore, un'alleanza solida tra il proletariato e parti consistenti delle classi medie. Dentro questa alleanza il proletariato non dovrà stare a rimorchio ma agire da forza motrice. E per questo serve un soggetto politico rivoluzionario, che aiuti la classe degli sfruttati a diventare classe dirigente nazionale. Solo un fronte popolare con al centro i lavoratori può avere la forza e la determinazione per un cambio di sistema capace di portare l’Italia fuori dal marasma. E' da questo contesto che discendono i compiti, le funzioni e il profilo del Movimento Popolare di Liberazione.
Ma essi dipendono anche dalla nostre finalità, dai nostri scopi ultimi.
Vi è ancora chi considera l’uscita dall’Unione europea e l’abbandono dell’euro come idee velleitarie ed estremistiche. E’ vero esattamente il contrario. Il disfacimento dell’Unione europea e la fine dell’euro sono processi oggettivi, oramai irreversibili. Velleitari sono coloro che si illudono di fermare queste tendenze facendo gli esorcismi, mettendo toppe che sono peggiori del buco. Estremisti psicotici sono gli oligarchi di Francoforte e Bruxelles, disposti a dissanguare intere nazioni pur di tenere in vita una moneta moribonda e ingrassare la rendita parassitaria. Il problema non è se abbandonare l’euro o meno, il problema è chi guiderà questo processo. Se al potere resteranno i servi politici del capitalismo finanziario ne faranno pagare le salate conseguenze alle masse lavoratrici. Se sarà un governo popolare a pilotare l’uscita, i sacrifici, certo inevitabili, saranno anzitutto addossati ai parassiti, e i frutti di questi sacrifici saranno utilizzati per il bene comune della maggioranza e la rinascita del paese.
E’ in questo quadro che il MPL considera la riconquista della sovranità nazionale una stella polare. Senza sovranità nazionale non c’è quella popolare, non c’è democrazia. Solo riconquistando questa sovranità politica, economica e monetaria il paese può risorgere su nuove basi, sgangiandosi dalla soffocante morsa dei mercati finanziari internazionali per proiettarsi verso altri orizzonti regionali e mondiali. Se Un’Europa dei popoli vedrà un giorno luce essa nascerà sulle macerie di quella di Maastricht.
Siccome è sotto gli occhi di tutti che non siamo alle prese con una recessione ciclica ma con una crisi storico-sistemica di un modello di produzione e di vita, dovere di chi guarda al futuro è immaginare un’alternativa di società e agire per realizzarla. Sarebbe assurdo fare grandi sacrifici per poi ritrovarci alle prese con una società esposta a crisi cicliche devastanti, incapace di assicurare un reale benessere collettivo, generatrice di diseguaglianze e squilibri, lacerata dai conflitti sociali.


Il MPL scende in campo per contrastare questa crisi e soprattutto per uscire dal sistema neoliberista globalizzato che ha fatto del capitalismo un dogma. Per liberare il paese dalla corruzione, dalle ingiustizie, dalla dittatura delle banche e della finanza internazionale. Per liberarci dalla dittatura del mercato. Scende in campo per non accettare supinamente la distruzione sistematica della natura, della nostra vita e del futuro delle nuove generazioni; per affermare che l'alternativa è una società socialista che metta l'economia al servizio della collettività e della difesa di tutti i beni comuni.
Sappiamo che questo approdo è ancora lontano, che occorrono tempi lunghi affinché lavoratori e cittadini possano riuscire a prendere in mano i loro destini. Solo allora la società sarà matura per fare a meno del mercato, per togliere ai mezzi di produzione e di scambio la loro forma capitalistica e ai beni la loro forma di merce.
Fino ad allora coesisteranno forme diverse di proprietà, quelle capitalistiche e quelle statali, quelle pubbliche e quelle autogestite. Fermo restando che il governo popolare dovrà aiutare il nuovo a crescere e il vecchio a perire.
L’alternativa di oggi è lottare o soccombere. Quella di domani sarà la liberazione o il ritorno a forme più brutali di oppressione

lunedì 12 dicembre 2011

Russia, non deluderci!



di Costanzo Preve



Tutti si sono accorti che da qualche mese è in corso una campagna di stampa, orchestrata al più alto livello del Dipartimento di Stato della strega Clinton contro la ripresentazione di Putin come presidente della Russia post-sovietica. Putin non è certo (purtroppo) un successore di Lenin, ma almeno ha parzialmente arrestato il potere assoluto degli oligarchi permesso dall'ubriacone Eltsin ed avallato mediaticamente dal beota Gorbaciov, il pubblicitario delle borse Vuitton e della pizza Hut.


La fine dell'Urss è stata la maggiore catastrofe geopolitica del Novecento, perché ha dato il monopolio all'impero messianico americano, esportatore nel mondo di una forma di capitalismo assoluto, di cui noi italiani possiamo gustare l'antipasto con la giunta Monti del dicembre 2011. Il modello socialista inaugurato da Stalin, e mai veramente modificato dopo, si è mostrato bloccato, ed è diventato impotente di fronte alla riuscita controrivoluzione neoliberale dei ceti medi sovietici. Questo però riguarda esclusivamente il popolo russo. A casa sua, ognuno ha diritto governarsi come vuole. Se non sono stati capaci di riformare radicalmente il loro sistema, ma lo hanno distrutto gettando via il bambino del socialismo con l'acqua sporca del dispotismo, affari loro.


La Russia ha saputo dare molto alla civiltà mondiale. Cito soltanto tre dati a tutti noti: la grande spiritualità ortodossa, immensamente superiore alle stupidaggini positiviste del materialismo dialettico; la grande letteratura russa dell'Ottocento, punto alto della cultura mondiale; ed infine, la rivoluzione russa del 1917, risposta legittima al bagno di sangue ed al macello imperialistico della prima guerra mondiale.


I russi si governino pure come vogliono. Ma dal momento che, per fortuna, dispongono ancora di autonomia strategica e di armi di dissuasione di massa, essi hanno un compito storico, che è quello di appoggiare quanto possibile chi resiste all'impero americano.


La rabbia diplomatica e mediatica del circo occidentale contro Putin ci informa indirettamente che Putin è buono. Se non fosse buono, infatti, è evidente che non lo attaccherebbero con tanta ferocia, e soprattutto non moltiplicherebbero le basi militari in Romania, Ungheria, eccetera, fino a sperare di poter incorporare nella Nato persino l'Ucraina. È già stata una vergogna, che nessuno zar avrebbe mai permesso, la secessione di Ucraina e Biolerussia della Russia, laddove è invece un atto postumo di giustizia storica che i baltici abbiano potuto secedere, dal momento che li avevano mangiati contro la loro volontà nel 1945. Tuttavia, è stato una follia non riuscire a pretendere da loro una "finlandizzazione", lasciandoli incorporare dagli assassini della Nato.


Nel 2011 la Russia ci ha deluso. Molti di noi hanno sperato che sarebbe riuscita ad impedire l'aggressione alla Libia, e poi il bombardamento di Sirte, nuova Guernica. Ora noi speriamo che non abbandoni la Siria e l’Iran, che sono nel mirino della strega Clinton e della strategia aggressiva degli Usa, della Nato ed dell’Europa asservita.


Le ultime elezioni russe, per fortuna, hanno visto un'affermazione di Putin. Considero positiva l'affermazione dei comunisti e degli stessi nazionalisti. Tutto, meno i fantocci neoliberali, i bloggers, i Kasparov, gli eredi della Politkovskaia. Costoro potrebbero anche essere in buona fede (ma onestamente non riesco a crederlo), ma di fatto sono soltanto i portavoce della strategia Usa di dominio imperiale su tutto il pianeta. Spero che comunisti e nazionalisti lo capiscano, e non facciano mai, in nessun caso, fronte comune con i liberali.


Abbiamo bisogno di una Russia geopoliticamente e militarmente forte ed indipendente. Ne abbiamo bisogno per noi, soprattutto per noi, perché il delirio dell'allargamento del capitalismo illimitato fuori controllo ha bisogno di un freno, di un katechon (termine greco e paolino che significa appunto questo). Putin non può pretendere di ottenere questo risultato con raduni di motociclisti, incontri di boxe e precettazioni di adolescenti osannanti. Putin deve venire incontro alle richieste di maggiore eguaglianza sociale di cui i comunisti sono pur sempre portatori. I comunisti russi sono stati distrutti dalla putrefazione antropologica dei loro stessi dirigenti (ricordo ancora Eltsin e Gorbaciov). L'hanno pagata molto cara, e potremmo dire hegelianamente che se lo sono meritato. Ma ormai i venti anni di purgatorio mi sembrano sufficienti. Abbiamo bisogno della Russia e della sua presenza in Europa, Africa ed Asia. Sono rimasti assenti troppo a lungo. La strega Clinton non può continuare a minacciare ed a intervenire nel mondo intero.

giovedì 1 dicembre 2011

NO AI SACRIFICI DI MONTI
 


Note sulla crisi dell’anti-berlusconismo



di Costanzo Preve



Ho messo recentemente in rete due brevi saggi.
Berlusconeide, http://www.comunismoecomunita.org/?p=2908, e Il tempo della vaselina, http://comunismocomunitario.blogspot.com/2011/11/il-tempo-della-vaselina-fine-della.html. 

L’oggetto era lo stesso, e cioè la riflessione sulla nuova situazione politica italiana caratterizzata dalla fine , o forse soltanto del declino, del berlusconismo. A proposito del secondo saggio, mi è stato fatto notare che davo troppo credito al nuovo gruppo tecnocratico di Monti, ritenuto capace non di lacrime e sangue e di macelleria sociale, ma solo di “vaselina”. E’ un equivoco. Il mio giudizio su questo gruppo tecnocratico è terribile, ma per arrivarci bisogna prima chiarire alcuni punti preliminari.






1. La ragione del No ai sacrifici di Monti deve essere ben chiarita, e non basta dire che i sacrifici li faranno sempre e soltanto i “soliti noti”: è possibile, ma non sicuro. L’ICI, la possibile patrimoniale, il peggioramento del welfare, eccetera, non la pagheranno soltanto i “soliti noti”. La pagheranno strati ben più ampi. Per questo considero insufficiente la solita retorica pauperistica e miserabilistica. Bisogna andare molto più a fondo nella questione.


La gente è sempre disposta a fare sacrifici, se pensa che ne valga la pena e possa servire a qualcosa, soprattutto per i propri figli e nipoti. Quindi, non ha senso alzare la solita retorica sui “sacrifici”. Il punto non sta qui. Il punto sta nel fatto che questi sacrifici servono esclusivamente a garantire la riproduzione allargata così com’è di questo schifoso capitalismo finanziario globalizzato, e sono quindi in prospettiva sacrifici contro di noi e contro i nostri figli. Se questi sacrifici fossero inseriti non dico in una prospettiva socialista, comunista o comunitaria, ma anche solo in una prospettiva di correzione qualitativa di questo capitalismo, allora diciamoci la verità: varrebbe la pena farli!


Ma non è così. Questi sacrifici sono inseriti in una prospettiva di radicalizzazione e di allargamento del nuovo modello liberale-anglosassone di capitalismo assoluto, totale e totalitario. Ed è questa, e solo questa, la ragione per cui il No a Monti e alla sua giunta neoliberale deve essere assoluto.






2. Purtroppo siamo lontani da questa comprensione, che pure sarebbe limpida e facilmente spiegabile. Ne siamo lontani non certamente per le “eredità del berlusconismo”, come dice unanime il concerto operaista-azionista degli intellettuali di sinistra con accesso ai foglietti politicamente corretti (Manifesto, Liberazione, eccetera), ma proprio per la ragione opposta, e cioè l’eredità mefitica dell’anti-berlusconismo.


L’anti-berlusconismo ha funzionato nell’ultimo ventennio come un fattore di oscuramento della comprensione dei rapporti sociali, in direzione di una loro moralizzazione, nel caso migliore, o di una loro estetizzazione, nel caso peggiore. Il sociologo cattolico Giuseppe De Rita ha parlato di “soggettivismo etico”, collegando intelligentemente Berlusconi al nefasto e mefitico “spirito del Sessantotto”. Più recentemente Mario Perniola (cfr. Berlusconi o il Sessantotto realizzato, Mimesis 2011) è andato più in profondità , collegando il libertarismo sessuale del vecchio satiro con la fine della moralità borghese facilitata dall’orrendo Sessantotto. De Rita e Perniola si avvicinano al punto cruciale della questione, ma lo sfiorano senza riuscire a coglierlo, perché partono in modo geocentrico dalla identificazione fra borghesia e capitalismo, tipica della cultura di “sinistra” in tutte le sue varianti. Non capiscono che si tratta di fenomeni distinti, essendo la borghesia un soggetto sociale dialettico e contradditorio, e invece il capitalismo un processo anonimo e impersonale rivolto soltanto al proprio autoaccrescimento illimitato. Su questo rivendico pienamente di aver capito da tempo il cuore della questione, ed è solo questione di tempo perché essa arrivi a quel torpido corpaccione lento di riflessi e in preda alla sindrome del “politicamente corretto” chiamato “intellettuali”.






3. I foglietti sinistroidi anti-berlusconiani (Manifesto, Liberazione, eccetera) non hanno potuto neppure avvicinarsi lontanamente a questa comprensione, perché hanno delegato la comprensione al gruppo intellettuale più retrivo ed incapace della cultura italiana, quello degli operaisti-azionisti torinesi (Revelli, De Luna, D’Orsi, eccetera). Vediamo il più goffo e banale dei tre, lo storico di regime De Luna (cfr. Liberazione del 13 novembre 2011): “Come fu per il fascismo, il berlusconismo non è stato una parentesi, ma una rivelazione che ha messo in luce i guasti profondi della nostra società … la dimensione valoriale degli italiani è stata completamente risucchiata dentro gli angusti spazi degli interessi privati”. Revelli e D’Orsi si sono subito sintonizzati su questa lunghezza d’onda: esultiamo, perché il Puzzone Numero Due (il puzzone numero uno era Mussolini) è caduto!!


Chi ha avuto l ventura di vivere a Torino conosce bene questo modello culturale, di lontana origine gobettiana mediata dalla tradizione di Bobbio, pessimista antropologico (Hobbes) e moralista individuale (Kant), ostile sopra ogni altra cosa al concetto hegelo-marxiano di comunità. Gli italiani sono un popolo di scimmie, risultato di un risorgimento senza eroi. E’ un modellino pronto all’uso tuttofare: coniato per Mussolini, è stato in seguito applicato prima alla DC, poi a Craxi, infine a Berlusconi.


Faccio questi rilievi perché ogni corrente politica ha sempre e solo gli intellettuali “organici” che si merita, chi conosce Sorel e Gramsci potrà capire meglio. Le due baracchette parassitarie di Diliberto e Ferrero, in circa vent’anni dal 1991, non hanno saputo, voluto e potuto dotarsi di gruppi intellettuali capaci di interpretare le nuove contraddizioni sociali apertesi dopo la fine della funzione geopolitica del sistema di stati del socialismo reale (la cui funzione, in Italia, è stata colta solo dalla rivista “Eurasia”, che paradossalmente l’ha colta proprio perché era sempre stata estranea alle prospettive socialiste e comuniste). Il monopolio interpretativo riservato alla patetica baracchetta azionista-operaista (Revelli-De Luna-D’Orsi) ne è stata una conseguenza.






4. Voltare le spalle alla baracchetta operaista-azionista è quindi un atto preliminare di igiene mentale. Questo implica, in linguaggio scientifico, il “tornare ai fondamentali”. E i fondamentali, secondo il vecchio metodo inaugurato da Marx e poi abbandonato dagli straccioni positivisti che ne hanno usurpato il nome per un secolo, è sempre e solo la riproduzione allargata potenzialmente illimitata del rapporto di capitale. Se uno parte da questi “fondamentali” si accorgerà che i sacrifici della giunta Monti sono rivolti a questa riproduzione, laddove i conflitti d’interesse, le squinzie di Arcore, i soggettivismi etici, il popolo delle scimmie, la corte dei miracoli del cavaliere, eccetera, sono sempre e solo stati particolari pittoreschi da commedia dell’arte.


Le mie sono, ovviamente, prediche inutili. La corruzione degli intellettuali italiani di “sinistra” è infatti profonda e incurabile. Speriamo in una generazione nuova, meno rincoglionita dall’abbietta eredità sessantottina.






Torino, 25 novembre 2011